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L’austeritas e l’inautenticità dell’esserci comunicativo

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Parole silenziose

Parole silenziose

L’austeritas e l’inautenticità dell’esserci comunicativo

Alberto Peretti 1

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L’emergenza sanitaria è stata ed è ancora soprattutto un’emergenza comunicativa. Non è il caso di ripercorrere il continuo e ossessivo delirio mediatico che ha improntato le diverse fasi dell’epidemia. Delirio che ha coinvolto praticamente tutti i canali comunicativi e le diverse emittenti. In una babele di notizie – vere, false, presunte tali – che ha prima incagliato, poi incanaglito, in ultimo reso praticamente impossibile un’interpretazione equilibrata e ragionevole di quanto è successo e ancora sta accadendo.

Per portare un contributo alla comprensione di ciò che chiamo una drammatica “emergenza comunicativa”, mi servo di due apparati concettuali: l’analisi che San Tommaso fa del termine “austeritas”, e quanto in “Essere e Tempo”, nel cap. V, Heidegger ha elaborato circa ciò che mi piace definire “l’inautenticità dell’esserci comunicativo”.

Il temine “austerità” evoca severità e rigore di vita, ma è stato utilizzato in una particolare accezione da Tommaso d’Aquino, in quell’opera capitale per il mondo medievale e per la cultura occidentale che è la Summa Thelogiae.

È filosofo del lavoro. Dal 1990 si occupa di formazione e di consulenza organizzativa, con 1 particolare attenzione ai temi della comunicazione, dell’etica del lavoro e della valorizzazione della persona in ambito professionale. Ha collaborato con centinaia di organizzazioni, private e pubbliche. Nel 2003 apre uno studio di Counseling Filosofico, specializzandosi in problematiche relative alla dimensione lavorativa. Dal 2001 è docente di Filosofia del Lavoro e delle Organizzazioni presso la Scuola Superiore di Counseling Filosofico di Torino. Nel 2015 fonda e coordina Genius Faber, società di consulenza strategica specializzata nella valorizzazione dell’italianità lavorativa e del lavoro made in Italy. 14

L’austeritas - scrive Tommaso - è quella virtù che non escludit omnes delectationes, cioè non esclude assolutamente tutti i piaceri, sed superfluas et inordinatas: in altre parole ci distoglie dai piaceri inutili e disordinati.

Quali sarebbero i piaceri superflui e privi di ordine? Tommaso lo chiarisce subito. L’austerità, videtur pertinere ad affabilitatem, ha cioè a che fare con l’affabilità, vale a dire con la gentilezza e con la cortesia che si usa nel parlare e nel trattare con gli altri. Ha a che fare con l’eutrapeliam e la jocunditatem, cioè con la capacità di argutamente sostenere un dialogo e una relazione, con buonumore e in spirito di convivialità.

Il superfluo e il disordinato sono quindi strettamente imparentati con la volgarità e la scortesia. Hanno a che fare con il fanatismo e il dogmatismo, con gli atteggiamenti inquisitori e la violenza ideologica.

In Heidegger la triarticolazione “chiacchiera”, “curiosità”, “equivoco” offre una potente chiave di lettura del comunicare inautentico.

Con la chiacchiera ci si allontana dalla comprensione del discorso e ci si preoccupa semplicemente di ascoltare e di partecipare al discorrere in quanto tale, senza preoccupazioni di autentica comprensione. Ciò che conta è “la diffusione e la ripetizione del discorso. Ciò-che-è-stato detto si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché cosi si dice”. Con la chiacchiera si determina la possibilità di “comprendere tutto” senza effettiva comprensione di nulla. La chiacchiera vive di vita propria, indifferente alla necessità di risalire ai fondamenti di ciò che viene detto e ridetto. Si diffonde all’interno di una mostruosa bolla di autogiustificazione, che inibisce e allontana da sé come disturbi l’autentico confronto e il dialogo. Assenti naturalmente il dubbio circa la propria inconsistenza e qualsivoglia preoccupazione circa le conseguenze del proprio diffondersi.

La chiacchiera per mantenersi ha necessità di continuo combustibile e lo trova nella curiosità. Che si caratterizza per “l’incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta”, per la costante “irrequietezza e eccitazione che la spingono verso la novità e il cambiamento”. La spasmodica necessità di offrire materiale da gettare nella fornace della chiacchiera genera quel clima di costante “irrequietezza” che caratterizza perfettamente la comunicazione inautentica. “La curiosità è ovunque e in nessun luogo”: perfetta descrizione dei parlanti che la curiosità rende dei comunicatori senza fissa dimora, necessariamente stranieri al proprio pensiero e alle proprie parole.

Chiacchiera e curiosità generano il loro figlio deforme: l’equivoco, e con esso l’avvento del regno delle fake news. Se ciò che conta è discorrere, rendendo a tutti possibile farlo senza condizioni di accesso e senza criteri di verificabilità di quanto detto, vige una collettiva presunzione di comprensione. “Non soltanto ognuno sa e discute di qualsiasi cosa gli sia capitata o gli venga incontro, ma ognuno sa già parlare con competenza di ciò che deve ancora accadere, di ciò che manca ancora”. E se le cose vanno diversamente da come le si è raccontate, nessun problema, anzi l’equivoco è funzionale al mantenimento del perverso meccanismo: l’interesse si sarà già spostato su qualche altra questione che permetterà alla chiacchiera e alla curiosità di trovare nuovi terreni in cui crescere rigogliose.

E’ ancora possibile, a partire da quanto abbiamo sotto gli occhi in queste stranianti giornate, trovare un possibile antidoto al diffondersi della vera pandemia, quella della chiacchiera- curiosità-equivoco? E in che cosa potrebbe consistere? Potrebbe l’austeritas di Tommaso metterci sulla giusta strada per trovarla?

L’unica ricetta che riesco a immaginare è antica, e si chiama “cultura”. Ricordo che il termine deriva dal verbo latino colere, che accanto al significato di coltivare la terra, contiene una straordinaria e per noi salvifica profondità semantica.

Aver cura, prendersi cura, di qualcuno o qualcosa. Implica dedizione, tenerci, profondere energie in qualcosa che si stima e a cui si tiene.

Abitare, frequentare un luogo. Evitare le superficialità, scendere nelle profondità delle cose. Assiduità e costanza nelle proprie frequentazioni, senza nomadismi o sventatezze.

Praticare ed esercitarsi. Impegnarsi a fondo in qualcosa, con tenacia, senza pressapochismi o trascuratezza.

Onorare, venerare, stimare, trattare riguardosamente. Usare riguardo e rispetto (gli accorgimenti e il dovuto riconoscimento) in ogni espressione del vivere.

Contro la pandemia mediatica, che sta producendo un pericolosissimo clima di sfiducia e smarrimento i cui effetti sono difficili da misurare e prevedere, la “cultura” mi pare l’unico possibile vaccino. Una cultura capace di distoglierci e difenderci dall’inutile vociare e dal disordine babelico. Purché essa vada interpretata come si deve, senza mollezze o narcisismi. La cultura non riguarda, perlomeno non solo, l’esercizio della mente. Procedere nel solco della cultura è una

scelta di vita, un modo d’essere, un modo di stare al mondo. Diventare esseri ”culturali” mi pare l’insegnamento che dobbiamo ricavare dal tempo che stiamo vivendo. Ci viene chiesto di recuperare contro l’atonia, la meschinità, la disperazione il senso del grande compito che ci attende: vivere coltivando noi stessi e la realtà, all’insegna della coscienza e della responsabilità. La morte, penso, in queste epocali giornate non ci sta mettendo di fronte soltanto alla nostra miseria e alla nostra finitudine, ma alla nostra necessaria grandezza.

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