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La malattia come condizione antropologica dell'esistenza ai tempi del Coronavirus

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Parole silenziose

Parole silenziose

La malattia come condizione antropologica dell'esistenza nello spazio letterario de La Coscienza di Zeno: annotazioni ai tempi del Coronavirus

Stefania Marengo 1

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Tutti noi siamo sempre costantemente impegnati a contrastare trasmissioni virali e batteriche delle quali neppure ci rendiamo conto, perché è il nostro sistema immunitario che riesce a tener testa a questi microorganismi nemici; i luoghi stessi della cura, gli ospedali, da sempre possono trasformarsi in luoghi di contagio, anche a causa dell'antibiotico-resistenza; noi stessi conviviamo quotidianamente con una città invisibile di batteri, miceti e virus, che colonizzano tutte le nostre superfici di contatto verso l'esterno ed anche il nostro stesso intestino. Questa città invisibile, il microbiota, modula e controlla il nostro sistema immunitario e lo tiene attivo; di solito viviamo beatamente inconsapevoli di queste aggressioni e di questi meccanismi: solamente i più acuti o fragili di noi, sembrano rendersi conto di vivere all'interno di un sistema complesso, in cui tutti gli organismi (e noi stessi) - dai meno innocui, a quelli neutri od opportunisti - fanno parte al contempo di un macrocosmo e di un microcosmo.

La mia prima reazione, all’inizio della pandemia, è stata quella di esercitare l'autoironia, affermando che in fondo anche la razza umana può essere considerata nulla più che un virus molesto per l'intero pianeta. Mi era tornato alla mente uno degli explicit più apocalittici della nostra letteratura, quello de La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Ci sono, in questo finale, diversi spunti

particolarmente interessanti, innanzitutto la considerazione della vita come malattia mortale, come condizione antropologica dell'esistenza: “la vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e per lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale”. La vita stessa, come ebbe a dire Thomas Mann ne La montagna incantata, non è altro che “una febbre della materia”, l'esistenza umana una sorta di malattia infettiva del nostro pianeta. L’unica cura possibile, secondo Italo Svevo, parrebbe essere quella esplosiva della visione conclusiva, in cui un gigantesco ordigno causerà una “catastrofe inaudita” che azzererà tutto il pianeta, facendolo tornare alla forma di nebulosa: la terra errerà nella solitudine degli spazi siderali, finalmente “priva di parassiti e di malattie”. Il racconto di Zeno si conclude così nel più nichilistico dei modi, frantumando ogni residuale traccia di speranza ma io credo che, come ogni scrittura estrema, come ogni scrittura del disastro (che non si appelli più ad alcuna buona stella come indica l'etimologia del termine), rechi sottotraccia anche una via di uscita. Questa dialettica tra malattia e salute, si può sempre articolare in un investimento creativo nella vita, pur sapendo che essa ha un limite definitivo, una catastrofe finale, non solo la morte del pianeta ma la nostra stessa morte, che - come afferma Zeno Cosini - si va accostando a noi di settimana in settimana. La perfetta salute della moglie di Zeno, Augusta, rivela infatti, nel corso del romanzo, tutta la sua inconsistenza; essa è solo una mancanza di consapevolezza intellettuale e spirituale: “la salute non analizza se stessa e neppur si guarda allo specchio”. Le regole di comportamento di Augusta sono certamente semplici e lineari, prima tra tutte vivere contenti di ciò che si ha, senza tormentarsi sul significato dell’esistenza: ”compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi”. Le difficoltà della vita, nelle mani della moglie Augusta, cambiano natura; se anche la terra gira, tutte le altre cose rimangono per lei al loro posto: “le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano quelle ore e si trovavano sempre al loro posto”. Sul finale della sua autobiografia Zeno, quasi allievo di Nietzsche, opererà una trasvalutazione dei valori ed arriverà ad affermare di soffrire di certi dolori ma che essi “mancano d'importanza” all'interno di una più “grande salute”. Non è dunque la perfetta salute a cui dobbiamo aspirare ma quella grande, delineata da Nietzsche ne La gaia scienza, nell'Aforisma 382: “una salute che non soltanto si possiede, ma che di continuo si conquista e si deve conquistare, poiché sempre di nuovo si sacrifica e si deve sacrificare”. La presunta malattia di Zeno va considerata una forma paradossale di “grande salute”, ovvero un modo di vivere limpido e generoso, orientato verso l'equanimità, verso un relativismo irriverente ed autoironico, senza alcuna concessione a forme di superomismo di impronta

ideologico-politica. Da un lato Zeno salva la propria libertà interiore sotto la scorza del bravo borghese dedito ai commerci, che irride gli stessi valori della società conformista in cui agisce, dall'altro la forza conoscitiva della creazione letteraria che Zeno compie, nel tentativo di comprendere la sua vita, diventa una sonda gettata ad indagare il mistero di che cosa significhi appartenere all'umanità e condurre la propria esistenza come essere umani.

Ho cercato quindi di annullare il confine netto fra malattia e salute e di accomodarmi con agio anche in questa quarantena, attenta agli effetti deleteri di queste costrizioni sul mio mondo interiore e su quello delle persone più fragili intorno a me, cercando di essere un testimone empatico. Questo blocco improvviso dell'azione, il mio camminare quotidiano improvvisamente ristretto e circoscritto, mi ha posta inevitabilmente all'erta: come Hans Castorp, il protagonista de La montagna incantata, a causa di una tosse persistente, ho iniziato a rilevare quotidianamente la mia temperatura corporea, a più riprese, mattina e sera, non per il timore di essere contagiata ma per quello di contagiare. Abituata a camminare di buon passo ho invece imparato a procedere con cautela, percependo però una sorta di alterazione della temporalità, per la quale queste giornate han preso a scivolare via veloci nonostante la loro apparente ripetitività. Ho evitato la negazione e al contempo i vissuti più angoscianti, senza tralasciare di abitare tutti i livelli dell'esistenza e non quello della sola sopravvivenza (consapevole anche del privilegio di poterlo ancora fare). Abituata a camminare in piano, lungo i sentieri circolari del parco cittadino, sono salita più in alto, percorrendo quelli della creazione artistica, che spesso riempie e svuota come un parto. Mi sono dedicata alla lettura ad alta voce, ho disegnato e colorato; mi sono affidata alla scrittura, realizzando una sorta di bilocazione cognitiva, sdoppiando me stessa per darmi modo di rielaborare il vissuto. “Solo un irresponsabile può avere l’animo sereno in un momento così. In queste condizioni, la casa è un inferno” afferma in una recente intervista il filosofo Massimo Cacciari , 2 aggiungendo di non aver nessuna voglia di fare filosofia in questa circostanza. Secondo Cacciari la storia non ha un fine e come dice Umberto Galimberti “il futuro non è il tempo della salvezza, non è attesa, non è speranza. Il futuro è un tempo come tutti gli altri” Ma perché mortificarci ulteriormente, più di quanto già 3 la situazione non faccia? Perché non trovare comunque un respiro ed uno spazio più ampi? Sono stata anche serena, confesso qui la mia irresponsabilità.

https://www.huffingtonpost.it/entry/massimo-cacciari-la-casa-e-un-inferno_it 2

L'infodemia in cui siamo stati gettati in questo periodo, i pareri scientifici contraddittori, ci richiedono maggiore attenzione e maggior discernimento filosofico. In ogni caso in mezzo al cinismo dilagante di una società che considera i vecchi come se appartenessero ad una razza distinta da quella umana, avere un postura filosofica serve a ricordarci che già lo siamo vecchi, almeno in potenza (come ci insegna Aristotele nel IX libro della Metafisica), se non addirittura in atto, o in procinto diventare tali; nasciamo inoltre, come aveva sottolineato Susan Sontag in Malattia come metafora, con “una doppia cittadinanza”, abitiamo da sempre sia il regno dei sani che quello dei malati. Avere uno sguardo filosofico consente di leggere le Raccomandazioni della Siaarti (Società italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e terapia Intensiva) per l'ammissione ai trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, secondo una terza prospettiva, come se fossimo noi stessi pazienti anziani o affetti da comorbilità: da un lato esse infatti intendono offrire un supporto professionale agli anestesisti e rianimatori impegnati a gestire l'emergenza Covid, dall'altro hanno di fatto portato alcuni medici ad appellarsi al Codice deontologico, per il quale tutti i pazienti sono uguali e vanno curati senza discriminazioni. Risulta evidente che queste linee guida, se pur necessarie, non potranno sottrarre i medici stessi alla sofferenza della decisione, che va comunque affrontata e vissuta ogni volta - e per ogni singolo paziente - in un'ottica di fraternità umana e non di mero computo perché, come dice il verso di Holderlin, spesso citato da Heidegger, “dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”.

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