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La possibilità della Filosofia nell’emergenza

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Parole silenziose

Parole silenziose

Veronica Andorno 1

Il tentativo in questa sede è quello di rilevare il possibile ruolo della filosofia nell’emergenza attuale, se essa trovi spazio nell’affrontare alcune questioni che sono diventate pressanti, se essa sia indispensabile, auspicabile o se sia il caso di investire le energie nella scienza medica almeno fino alla fine dell’emergenza.

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Il punto di partenza è gentilmente offerto dal Boccaccio, in quella monumentale raccolta di casi umani che è il Decameron. La raccolta delle cento novelle è contestualizzata in un’amena località campestre in cui alcuni giovani si ritrovano per far fronte comune alla peste del 1348 che stava devastando Firenze. Il racconto dell’epidemia che dilania la città è tratteggiato con crudezza, addirittura l’autore si scusa con il pubblico per le parole che introdurranno la I giornata. In tempi non sospetti potevamo pensare a un artificio retorico, ora viviamo sulla nostra pelle il dolore che comporta quell’evento grandioso (di portata) che conosciamo come pandemia. Boccaccio insiste dapprima sulla crudezza dei sintomi della peste, che trasfigurano i corpi e i volti delle povere vittime. Già nelle prime battute troviamo un inciso particolare: «mendicanti [inteso come medici, ndr] (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini, senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conosceva da che si movesse» , ironico. Cambia la malattia, cambia l’anno, la situazione sembra 2 simile. Anche oggi l’impressione è quella di trovarsi di fronte a una moltitudine di esperti, reali o presunti, che sciorinano dati controversi, che predicono apocalittici finali o complotti di vario genere. Ma nonostante le schiere di illuminati, ancora non abbiamo soluzioni, ancora non sappiamo per quanto dovremo convivere con una situazione del genere, se settimane o anni. Appena qualche riga sotto

Laureata in Filosofia, Counselor Filosofico in formazione ( II anno) presso la Scuola Superiore di 1 Counseling Filosofico & Istituto Superiore di Filosofia Psicologia Psichiatria

Boccaccio ci racconta del contagio che trapassa dall’uomo all’animale, di come gli allevatori abbiano contaminato il bestiame e di come il fatto diventi vera e propria ossessione. Si apre dunque uno spaccato di società ai tempi della peste incredibile. Così come la malattia ha trasfigurato la pelle dei malati, così ha trasfigurato tutta una serie di norme civili di comportamento. Firenze è rovesciata, descritta come una novella Babilonia di dissoluzioni e dissacralità. È da sottolineare l’incisività di una malattia sulla quotidianità della società, come una pestilenza possa portare a ripensare e a ridescrivere quella che è una fisiologica (termine non scelto a caso) modalità di vivere. Perché stiamo vivendo un rovesciamento simile: certo, non assistiamo a episodi di ubriachezza e lussuria senza freni in dimore ormai vuote per via delle morti incipienti, ma osserviamo le vie pressoché vuote, ascoltiamo il silenzio delle strade, respiriamo un’aria diversa (più pulita). Ma non è una condizione pacificante, serena; è una tranquillità piuttosto tetra. Se dovessi scegliere un’immagine sceglierei quella dell’epidemia (guarda caso) descritta da Saramago nel suo romanzo Cecità: una visione bianca, lattea, che non conforta, ma spaventa più dell’oscurità. Un ultimo, terribile, parallelismo è rintracciabile nel trattamento della morte: immagini di tombe comuni, di morti isolati, ai quali non è più concesso neanche l’ultimo viaggio in compagnia dei propri cari. Per noi, che ci rapportiamo alla morte con la consapevolezza della sua presenza incombente come limite, come orizzonte comune, una simile dissacralità colpisce in modo peculiare, interrompe una serie di rituali che ci contraddistinguono come specie consapevole del ciclo vitale che va incontro alla sua naturale fine.

Come possiamo reagire, dunque, di fronte alla situazione attuale? Ammesso e non concesso che sia legittimo reagire in qualche maniera e non lasciarsi scivolare gli eventi. I ragazzi di Boccaccio si sono rifugiati nella tenuta in campagna con il corteo di servi; non male come quarantena. Ironia a parte, hanno cercato di riprodurre tutta quella serie di valori di cortesia e ingegno tanto cari al Boccaccio. Si raccontano storie, le commentano, ballano e cantano: vivono. Non credo che sia giustificabile una mera sopravvivenza che lasci fuori quelli che sono gli aspetti più godibili della vita. Non credo che sia possibile rinunciare alla filosofia per affidarsi solo alla medicina. Certo, ora come ora la scienza nella sua accezione più forte risulta avere la preminenza sul campo delle cosiddette “scienze umanistiche”. Ma innanzitutto non dobbiamo tralasciare l’importanza di uno spirito critico che ci permetta di sbrogliare la matassa di informazioni, tecniche, specifiche, o addirittura tendenziose, che circolano in ogni dove. È poi auspicabile una reazione “umana”, pena l’annichilimento della nostra vita psichica, mentale. Perché la salute del corpo non può essere portata avanti senza quella dell’anima, in quanto siamo un sinolo di entrambe. Ma andiamo al cuore della questione. Che posto ha la 86

filosofia in tutto questo? Anzi, prima: ha un posto? «Se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si deve filosofare». Il buon vecchio Aristotele ci ha già risposto; di più, ci ha semplicemente fatto notare che nel momento stesso in cui ci poniamo la domanda in qualche maniera stiamo già problematizzando e quindi filosofando. Sembra un artificio retorico, ma non lo è. Innanzitutto dobbiamo passare indenni il periodo di distanziamento sociale, che con il passare dei giorni si fa sempre più gravoso. È vero che gli strumenti tecnologici odierni permettono di superare l’impasse della solitudine, ma alla lunga non possono sostituire la presenza, il calore della voce, la profondità dello sguardo, soprattutto il tocco (da mano carezzevole a mano untrice). Risuona allora il monito di Montaigne, quello di imparare a convivere con se stessi: «Bisogna avere moglie, figli, sostanze, e soprattutto la salute, se si può; ma non attaccarvisi in maniera che ne dipenda la nostra felicità. Bisogna riservarsi una retrobottega tutta nostra, del tutto indipendente, nella quale stabilire la nostra vera libertà» Fino a qualche 3 settimana fa sarebbe suonata come una banalità, mentre ora siamo forzosamente messi davanti al fatto che nel corri-corri della contemporaneità non abbiamo approfondito abbastanza la pratica della convivenza col sé ventiquattr’ore su ventiquattro. Il “non ho tempo” che si trasforma in “ho troppo tempo”.

Ma perché la Filosofia?

Perché essa, nella sua valenza più pratica, ha sempre cercato di indirizzare l’uomo verso uno stile di vita che fosse imperturbabile e saggio e felice e indipendente. Non è casuale che del primo filosofo dell’Occidente, Talete, sia pervenuto un aneddoto per cui sarebbe caduto in un pozzo, intento nella speculazione: ci suggerisce il fatto che la filosofia non è un sapere che lascia indifferenti, bensì apporta qualcosa alla vita di chi li pratica. In questo senso credo che sia essenziale non dimenticarla, anzi coltivarla, nel tempo odierno. «Non si è né troppo giovani né troppo vecchi per la salute dell’anima […]. Meditare bisogna su ciò che procura la felicità» La ricerca della felicità è strutturalmente connessa 4 all’uomo, che non può dimenticarsi della sua componente emozionale. Una felicità equilibrata, non dimentica di ciò che accade intorno. Una condizione da cui osservare ciò che ci circonda, lo scenario distopico che ci para davanti; una sorta di faro interiore che permetta di illuminare l’oceano sconfinato e quindi di

M. de Montaigne, Saggi, I, XXXIX, trad. it. di F. Garavini, Mondadori, Milano 1970, p. 315. 3

osservarlo meglio, per evidenziarne limiti e criticità, per comprendere perché sottostiamo a determinate restrizioni ma per immaginare anche scenari nuovi.

Ci è stato ripetuto da “esperti” che è probabile che una situazione del genere si ripeterà, visti i cambiamenti climatici e le devastazioni ambientali che rendono più facili gli sconfinamenti dei virus da animali a uomini. La filosofia ci permetta allora di ridescrivere quella visione del rapporto uomo-mondo che guida la nostra quotidianità, di modo da renderci più consapevoli del nostro ruolo e dei nostri errori; intervenga nel cambiamento che sarebbe auspicabile all’uscita dalla pandemia.

Vorrei concludere riprendendo quella celebrazione dell’utopia di Ernst Bloch, che ha visto in essa non una mera illusione, bensì una forza propulsiva: «L’importante è imparare a sperare […] La coscienza utopica vuole spingere lo sguardo molto più in là, ma in ultima analisi solo al fine di penetrare la vicinissima oscurità dell’attimo appena vissuto, in cui tutto ciò che è è tanto operante quanto nascosto a se stesso. In altre parole: si ha bisogno del cannocchiale più potente, quello della coscienza utopica levigata, per penetrare proprio la prossimità più vicina. […] Dunque l’indagine sulla coscienza anticipante deve servire fondamentalmente a far divenire psichicamente e materialmente comprensibili le immagini vere e proprie che ora seguiranno, anzi le riproduzioni di una vita migliore desiderata e anticipata. Dunque occorre che prendiamo atto di ciò che anticipa e che lo prendiamo sulla base di una ontologia del non-ancora». 5

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