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Il valore salvifico della frattura
Alice Fossati 1
Le crisi improvvise possono a posteriori svelarsi come epifaniche, come manifestazioni di senso.
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È interessante notare la derivazione etimologica del termine “crisi” dal verbo greco κρίνω, il cui significato primario è “separare”, ma che si declina poi, con sfumature differenti, in “discernere”, “giudicare”, “scegliere”. Si stabilisce quindi un nesso diretto tra rottura, separazione, scisma, e riflessione, introspezione, decisione.
Tutto ciò che distrugge le certezze spinge a porre in discussione i principi fondativi. Il più grande pericolo, al contrario, è rappresentato dalla stasi, dal volo a mezz’aria, dalla consuetudine. Vivere nel tempo ordinario, in un perenne equilibrio può portare a un lento e inesorabile stillicidio. I momenti di rottura scarnificano e impongono la riflessione. Gli eventi inattesi che sconvolgono e turbano l’ordine, sia a livello teorico che pratico-esistenziale, creano conflitto, lotta e confronto e, di conseguenza, arricchimento.
Il discrimine sta nella consapevolezza, nella capacità di utilizzare la crisi come occasione di meditazione con presenza di sé. Il flusso continuo, il brusio si interrompe, e nel silenzio assordante è possibile porre attenzione al proprio mondo interiore e a quello esteriore, per verificare se vi sia tra questi accordo. È una sorta di tempo cairologico che indirizza all’esame della propria visione del mondo e dei principi che regolano la propria azione. In questo senso, la frattura può rivelarsi salvifica, può essere sfruttata come momento di rivoluzione ed evoluzione. Può portare a una maggiore auto-consapevolezza, a ravvisare una eventuale mancata coerenza tra il proprio sentire e il proprio agire. Si ha l’opportunità di vestire i panni dell’uomo in rivolta di Camus, dell’uomo che si
oppone, “che rifiuta ma non rinuncia, tuttavia” . È un processo che richiede energia 2 e coraggio interiore. Il rifiuto della realtà per come si mostra nel tempo attuale non conduce in questo caso nichilismo passivo, non alla resa ma sprona alla lotta. Fa sorgere il desiderio di trasfigurare il proprio modo di vedere, di sentire e di condurre la propria vita. Ognuno ha un proprio demone interiore, il dovere incessante è quello di scavare al proprio interno non per rifiutarlo ma per manifestarlo e dominarlo. L’uomo è per sua natura proiettato, vive nel presente, condizionato dal passato e in attesa del futuro. È inserito in una corsa perenne, in continua ricerca della propria identità nell’impossibilità di de-finirla in maniera stabile: rimarrà sempre qualcosa di non detto, di sconosciuto, di oscuro, che è esattamente ciò che ci tiene in vita.
In questo momento storico siamo coercitivamente sottoposti al confronto con il limite, con la nostra finitezza e precarietà. Inevitabilmente si prova paura, una Paura che sembra quasi personificarsi, che attanaglia, cattura e avvolge in modo codardo, nei momenti di maggiore debolezza. Sofferenza e timore non sono da rifiutare. Non bisogna rinnegarli ma stare al loro interno o, più propriamente, lasciare che ci avvolgano e entrino dentro di noi. C'è un passaggio di Infinite Jest di David Foster Wallace in cui si afferma che “il miglior modo per migliorare e stare meglio passa attraverso il dolore, non intorno il dolore o nonostante il dolore” . Si 3 può intendere il dolore in un senso duplice: il dolore come causa scatenante della rivoluzione e il dolore come effetto della stessa, quello insito nel e provocato dal cambiamento. Il dolore non può e non deve essere escluso dal percorso esistenziale ma integrato e sfruttato come catalizzatore per ricreare una nuova stabilità autentica, rispondente alla propria essenza. A contatto con la morte si ha l’occasione di riprogettare e riprogettarsi, per affermare coraggiosamente di essere.
La morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può essere l’ultimo; non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d’un sogno. Tutto, tra i mortali, ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gl’Immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l’eco d’altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo
A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2018, pag. 17. 2
ripeteranno fino alla vertigine. […] Nulla può accadere una volta, nulla è preziosamente precario . 4
In questo estratto de l’Immortale, racconto di Jorge Luis Borges, la morte viene considerata come ciò che valorizza la vita: in rapporto ad esso, ogni attimo diviene il soggetto umano “preziosamente precario”. La consapevolezza della limitatezza dell’esistenza umana, che si dispiega in un mondo finito e in un tempo limitato, è stimolo per conquistare sé stessi. Parafrasando il primo Heidegger, vivere per la morte, l’anticipazione della morte come possibilità certa e insormontabile, spinge l’uomo a rifiutare la dimensione impersonale del Si e ad abbracciare una vita autentica.
In questo tempo sospeso, l’instabilità esistenziale può servire da stimolo per riconsiderare le proprie priorità, per spingersi a un’analisi del proprio io in rapporto con sé e il mondo.
Nell’isolamento, inoltre, si riscopre, quasi paradossalmente, una dimensione comunitaria. Si ha una maggiore predisposizione a empatizzare con l’Altro in quanto immersi nella medesima situazione. Si ha la sensazione di essere monadi, rinchiuse nel proprio nucleo domestico, che condividono uno spazio emotivo in una sorta di reciproco rispecchiamento. Nel silenzio e nella lontananza si alimenta il nostro sentire emotivo.
Il 15 settembre 1946, Cesare Pavese annotò una riflessione che fu poi pubblicata ne Il mestiere di vivere: “Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare che è terribile” . C'è un modo proficuo e produttivo di vivere il tempo dell’attesa, ovvero 5 quello che consiste nel pre-figurare, nell’anticipare servendosi della facoltà dell’immaginazione. Immaginare, pre-cedere, per poi concretizzare i propri progetti quando si entrerà nel tempo dell’azione.
J. L. Borges, L’Aleph, Feltrinelli Editore, Milano 2016, pag. 21. 4