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Dicotomie e paradigmi di una pandemia
Luca Francesio 1
Un atteggiamento filosofico come pratica di vita è un habitus che non può essere mai smesso, e che impone di porre domande e perseverare nella ricerca delle risposte.
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Come ci ha indicato Maurice Merlau-Ponty, la filosofia si colloca nel proprio tempo storico, ma senza accontentarsi di subire l’ambiente della circostanzialità storica : l’analisi filosofica permane in una sua intrinseca autonomia che la storia non può sostituire. La sua analisi si rivolge a quel potere di espressione che le altre forme simboliche si limitano ad esercitare, cercando di cogliere con rigore il momento nel quale il senso prende possesso di sé.
Per questo essa si compie rinunciando a coincidere con ciò che è espresso anzi, da esso deve allontanarsi per scorgerne il senso.
Ciò che è espresso è ciò a cui in modo ingenuo si concede l’assenso, in modo obbediente e meccanico. Assenso però che sovente crea le condizioni per la nascita di forme di disagio che possono anche evolvere in un generalizzato disagio esistenziale.
L’illusione della parola mistificante non ci mette al riparo dalla necessità tutta umana della ricerca di senso. Per questo il disagio è essenziale alla filosofia, e il tempo che stiamo vivendo, questo tempo di pandemia, è tempo di profondo disagio.
La pratica filosofica è chiamata a sostenere la sua parte, attraverso le sue proposte di analisi demistificatrice, e deve rispondere all’urgenza del momento.
Non si tratta di tentare un’interpretazione immediata di questo fenomeno perché solo la giusta presa di distanza nel tempo ci concederà di farlo pienamente, né una spiegazione, perché non rientra tra i compiti della filosofia, ma di aiutare le persone a chiarire le nozioni che vengono riversate come un fiume in piena nella
loro coscienza dai media, e tentare di dissolvere quelle parole intrinsecamente vuote, come le definisce Simone Weil.
Che impatto sta avendo la narrazione della pandemia sulle coscienze individuali, e sulla coscienza collettiva di un mondo ormai iperconnesso? Quali strumenti concettuali e simbolici vengono impiegati nell’ordine del discorso, come direbbe Foucault? Quali effetti sortiscono? Essi sono i mattoni di quel linguaggio che non solo parliamo, ma che viviamo definendoci e definendo gli altri e il mondo.
Nonostante si riconosca la complessità del mondo, come ci ha magistralmente insegnato Edgar Morin, si sta facendo ricorso al più banale dei riduzionismi, evocando lo scenario dicotomico del conflitto tra noi e il nemico.
Lo scenario dello scontro evita la fatica di indagare l’estrema complessità dei rapporti umani e naturali, indicando un nemico su cui concentrare la lotta, un antagonista umanizzato a cui non si vuole riconoscere lo status di agente naturale, indifferente ai destini umani.
E il conflitto impone lo stato di eccezione sempre, come ci ricorda Giorgio Agamben in un articolo pubblicato il 26 febbraio, e lo stato di eccezione è fondato su drastiche limitazioni alla libertà personale.
Ma il vero elemento di inquietudine è la diffusione di uno stato di paura destinato a sedimentarsi nelle coscienze, che già ha avuto un precedente in questi anni di terrorismo religioso, stato di paura che si dispiega in stati di panico collettivi. Viene innestato nelle coscienze un circolo vizioso : le limitazioni della libertà vengono accettate in cambio del soddisfacimento del desiderio di sicurezza, indotto da coloro che intervengono poi per soddisfarlo.
Assistiamo alla nascita di un nuovo sillogismo, sul quale fondare un nuovo paradigma di potere basato sulla protezione della vita in senso strettamente biologico, sull’uso strumentale della scienza in campo medico e biologico da una lato e della tecnologia dell’intelligenza artificiale e dell’iperconnessione dall’altro.
Veniamo proiettati in un mondo nuovo!
Fino a ieri il potere aveva il volto di un capitalismo finanziario iper pervasivo, in grado di plasmare l’economia reale, come ampiamente documentato da intellettuali come Baumann e Gallino. Oggi avviene un salto di specie: è la scienza nelle sue manifestazioni in campo medico e biomedicale a diventare lo strumento del potere.
Il paradigma finanziario che obbligava alla circolazione continua di uomini e mezzi si è inceppato difronte alla necessità della salvaguardia della sola vita, del bíos umano, di cui i governi si sono proclamati garanti assoluti, schermandosi dietro una nuova casta di tecnici, non più finanziari, ma biomedici. 112
L’esperienza stessa dell’uomo è invalidata dalle misure di distanziamento sociale che sacrificano la ‘vita piena’, che è ben di più della mera attività lavorativa.
Eppure il dibattito sembra limitarsi a un riduzionismo semplificatorio, che pone l’alternativa tra la morte per malattia e quella per fame. Il criterio discriminante appare esclusivamente essere la sola sopravvivenza dell’uomo, a costo di condurre un’esistenza di deprivazione.
Ma emerge un ulteriore aspetto, forse più problematico del precedente.
E’ tutto tecnologico e rivoluziona il controllo sociale, che passa dal convincimento e dalla manipolazione dell’immaginario collettivo praticato attraverso la diffusione di messaggi a mezzo stampa, pubblicità e reti virali, alla misurazione dei comportamenti di massa realizzata con la nuova tecnologia 5G da un lato e l’intelligenza artificiale dall’altro.
La misurazione istantanea dei comportamenti umani, interpolata con i dati epidemiologici e sanitari costituirà la struttura invisibile che legittimerà le future decisioni del potere politico.
Se negli anni passati erano gli economisti a dettare l’agenda al potere politico, ora lo sarà una nuova tecnocrazia medica.
Questa fase di transizione, complessa e assolutamente opaca, condizionerà le coscienze di tutti noi, perché la vita nella sua pienezza esistenziale viene sacrificata per garantire sé stessa nella sua mera accezione biologica.
Anziché condurre l’esistenza basandosi sull’autonomia dei comportamenti e delle relazioni umane, l’umanità ridotta a una condizione di minorità infantile sarà sottoposta al monitoraggio quantitativo continuo dei propri comportamenti, per disporre poi le opportune correzioni.
Mai come ora è indispensabile tornare a meditare sulle parole che Kant scrisse più di due secoli fa, rispondendo alla domanda su che cosa fosse l’Illuminismo.
‘L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude!
Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’Illuminismo.’