L'Osteria senza oste (Alberto Raffaelli)

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ALBERTO RAFFAELLI L’OSTERIA SENZA OSTE

L’inchiesta di Zanca a Valdobbiadene

L’Osteria senza oste

L’inchiesta di Zanca a Valdobbiadene

ROMANZO

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Alberto Raffaelli

L'Osteria senza oste www.itacaedizioni.it/osteria-senza-oste

Prima edizione: maggio 2023

© 2023 Itaca srl, Castel Bolognese Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-526-0729-5

In copertina Veduta dell’Osteria senza oste tra le viti delle colline di Valdobbiadene © Stefano Cellai/Shutterstock.com

Stampato in Italia da Mediagraf, Noventa Padovana (PD)

Col nostro lavoro cerchiamo di rispettare l’ambiente in tutte le fasi di realizzazione, dalla produzione alla distribuzione. Questo libro è stato stampato su carta certificata FSC‰ per una gestione responsabile delle foreste. Stampiamo esclusivamente in Italia con fornitori di fiducia, riducendo così le distanze di trasporto.

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Accade coi libri come con le persone. Vanno presi sul serio. Ma appunto per ciò dobbiamo guardarci dal farcene idoli, cioè strumenti della nostra pigrizia. In questo l’uomo che fra i libri non vive, e per aprirli deve fare uno sforzo, ha un capitale di umiltà, d’inconsapevole forza – la sola che valga – che gli permette di accostarsi alle parole col rispetto e con l’ansia con cui si accosta a una persona prediletta. E questo vale molto più che la “cultura”, è anzi la vera cultura. Bisogno di comprendere gli altri, carità verso gli altri, ch’è poi l’unico modo di comprendere e amare sé stessi: la cultura comincia di qui. I libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini, è un fatuo o un dannato.

Cesare Pavese, Leggere «L’Unità» di Torino, 20 giugno 1945

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Le colline di Valdobbiadene

Se in una giornata senza nebbia si imbocca la statale del Santo che da Padova sale verso nord, quasi subito si apre dinanzi un orizzonte segnato dalla prima corona delle Alpi. Lo sguardo si sofferma dapprima sui picchi rocciosi delle Vette Feltrine e poi, oltre queste, sugli spuntoni più alti delle Dolomiti che per diversa parte dell’anno luccicano innevate. A mano a mano che si procede, a fare da grande cornice alla pianura appaiono le figure verdi, scure e tondeggianti del Monte Grappa e del Monte Cesen, uno di fianco all’altro.

Il Monte Grappa è il più conosciuto dei due, avendo avuto in sorte l’esser stato uno dei fronti più sanguinosi della prima guerra mondiale. La sua fama è accresciuta dall’aver dato il nome al più glorioso dei liquori, la grappa appunto: una garanzia per il generale ossequio e l’imperitura memoria da parte di generazioni e generazioni di alpini.

Alla destra del Grappa, con la testa erbosa e rasata di alberi, si staglia il Monte Cesen che la prima guerra mondiale l’ha vista dall’alto, assistendo da spettatore alle tremende battaglie sul fronte del Piave. Se vi si sale dopo un temporale, ci si accorge che si tratta di un balcone naturale che si affaccia sulla pianura e di là lo sguardo può correre fino alla laguna di Venezia di cui si scorge il luccichio. Lassù, in secoli antichi, sono stati eretti templi pagani di cui si è persa la memoria, e corre voce che qualcuno ne abbia ritrovato i tesori nascosti.

Via via che ci si avvicina alla corona dei monti si riescono a scorgere le creste delle colline di Asolo e più in là, verso est, la lunga striscia del Montello che all’alba funge da quinta al levare del sole; poi verso nord si comincia a intravedere un brulichio di colli di cui non si intuisce subito l’ordine, finché non capita di vederli dall’alto, o su una mappa, e allora appare la loro forma ordinata, come di un’enorme coda di coccodrillo adagiata ai piedi delle montagne. Si tratta della cordigliera

delle colline del prosecco ed è là nel mezzo, proprio nel grembo tra la pianura e la montagna, che si staglia il campanile di Valdobbiadene, secondo per altezza nel Veneto solo a quello di San Marco a Venezia.

Procedendo ancora si cominciano a distinguere i toni scuri dei boschi da quelli più chiari e frastagliati dei vigneti che si adagiano sulle pendici delle colline, ricamate verso ovest dai filari delle viti, che degradano e vanno a finire nel letto del Piave, e segnate verso est da una strada lungo la quale si annodano piccoli gruppi di case che salgono fino al valico di Combai e poi, nascoste alla vista, debordano nella valle di Follina. Chi proseguisse per quella strada giungerebbe a Cison di Valmarino, uno dei borghi più belli d’Italia, annidato sotto l’imponente mole di Castel Brando, e più avanti passerebbe per i laghi di Revine arrivando fino a Vittorio Veneto.

Attraversato il ponte di Vidor, giunti sulla riva sinistra del Piave, ci si trova immersi all’improvviso in un paesaggio inatteso. I campi lavorati da generazioni di contadini formano un mosaico dal disordine armonico, uno spettacolo che di solito solo la natura sa offrire, come nelle cime delle montagne o nelle onde del mare. Senza che nessuno l’abbia cercato o voluto, secoli di fatiche e di obbedienza alla terra hanno realizzato questo raro miracolo, dove il lavoro non è sfregio alla natura, ma vi si incarna e la compie.

Da questa terra nasce il prosecco di Valdobbiadene divenuto da qualche decennio un principe sulle tavole di tutto il mondo.

«Per capire il vino,» mi ha detto una volta un amico contadino di queste parti «bisogna assaggiare ogni tanto un pugno di terra su cui cresce la vite e così si riesce a gustare il sapore del sale e dell’argilla che vi sono mischiati.»

Chissà quanta terra hanno assaggiato i padri di chi abita queste colline, se qui nascono e crescono storie che hanno lo stesso disordine armonico dei campi!

Ed è proprio in questo groviglio di vite e di destini che una mattina di fine gennaio si trovò invischiato Giovanni Zanca, viceispettore di polizia in servizio presso il Commissariato di Valdobbiadene.

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Risvegli

Quel giorno si era alzato presto, prima dell’alba. Mentre preparava il caffè, aveva dato un’occhiata fuori dalla finestra e si era fermato a osservare i crinali smussati delle colline che si intravedevano da casa sua e si sovrapponevano fra loro, fino all’orizzonte, ricoperti di boschi e di filari di vigne. Come accade spesso in quella stagione, l’alba stava tingendo il cielo di un rosso intenso e i primi raggi del sole indoravano le rive delle colline.

Dopo un po’ sua moglie si era alzata e l’aveva raggiunto in cucina. Si erano scambiati il buongiorno e qualche isolata battuta. Prima di uscire, già con il giaccone della divisa addosso, Giovanni le aveva comunicato la sua decisione: «Oggi consegno la richiesta di pensionamento».

In quei giorni scadevano i termini per fare quella richiesta che, in un certo senso, era un atto dovuto, eppure quel gesto gli costava molta fatica. L’aveva soppesato a lungo nei suoi pensieri, senza dire niente a nessuno, e ora che si apprestava a farlo ne provava timore perché si rendeva conto che rappresentava un passo di non ritorno.

Elena, sua moglie, al sentire quella notizia era rimasta interdetta. Era l’unica al mondo che in mezzo a tutte le vicende della loro vita non si era mai arresa né rassegnata, non aveva mai rinunciato a credere in lui. Giovanni le era grato di quella sua fiducia, ma ormai la riteneva anche lui un po’ esagerata e dinanzi alle sue attenzioni provava un misto di consolazione e di vergogna.

«Di già?» aveva reagito Elena. «Manca ancora parecchio.»

«Bisogna consegnarla un anno prima della scadenza» aveva ribattuto lui.

Elena aveva lasciato la tazza del caffè sulla tavola e lo aveva seguito mentre lui si avviava verso la porta d’uscita.

«Fermati, sistemati il colletto della giacca.» Voleva avere il

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tempo di dirgli qualcos’altro. «Mettiti bene, sennò sembri più vecchio.»

«Sono vecchio…»

Giovanni si era tolto per un istante il berretto della divisa e aveva dato un’occhiata allo specchio cercandovi qualcosa che lo contraddicesse, ma gli sembrò di trovare solo conferme.

«Beh, un anno è tanto, ne succedono di cose…» insistette lei.

«Ci vediamo stasera. Ciao.»

«Non mi dai un bacio?»

Giovanni le aveva sfiorato appena la guancia con le labbra e si era avviato. Sulla soglia si era girato e aveva dato un ultimo sguardo al vecchio cane disteso sul tappeto della sala da pranzo che lo aveva ricambiato socchiudendo un occhio.

Elena era tornata alla finestra e lo aveva seguito con lo sguardo fin quando era salito in auto.

In quegli ultimi mesi, per il viceispettore avviarsi al lavoro era come rivestirsi con dei vestiti fradici, con gli stessi calzini di lana inzuppati, gli stessi pantaloni e la stessa camicia gelida e bagnata, in una giornata di pioggia e di vento. Ogni volta provava una violenta sensazione di freddo che lo faceva rabbrividire.

Eppure, nella cruda, ostinata fatica di ripetere ogni mattina quel gesto, senza mai tirarsi indietro, né trovare una scusa o un motivo per darsi assente, vi era dell’altro. In un angolo dell’anima conservava l’eco di un presentimento, flebile ma irrevocabile, una sorta di strano presagio che custodiva come un segreto. L’insensata speranza che forse, prima o dopo, ripetendo ogni mattina quel gesto, all’improvviso, sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe riportato luce e chiarezza nella sua vita e nel mondo attorno a lui.

Quindi, come faceva ormai da anni ogni mattina, aveva imboccato la strada tortuosa che conduceva da casa sua al centro del paese.

Giunto alla sede della polizia di Valdobbiadene, salì al primo piano. Varcata la porta del suo ufficio, lo sguardo gli cadde verso l’angolo della parete dove erano incorniciati gli attestati di benemerenza, che aveva ricevuto nei primi anni di servizio,

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accanto ai quali erano appese anche delle vecchie foto che lo ritraevano insieme a importanti autorità politiche di quegli anni.

Staccò lo sguardo e sulla scrivania notò una lettera già aperta, senza intestazione e senza firma. Si trattava di una denuncia anonima, cose che capitavano in quella terra di contadini in cui, assieme a nobili tradizioni, sacrifici e fatiche, crescevano qua e là invidie e rancori.

Inforcò gli occhiali e lesse alcune righe. Era un esposto contro una certa «Osteria senza oste» accusata di evadere il fisco, di non rispettare alcuna norma igienico-sanitaria e di costituire una forma di concorrenza camuffata e sleale nei confronti degli altri esercizi della zona; pertanto si chiedeva il sequestro immediato e un procedimento nei confronti del titolare. La lettera finiva con una minaccia: se non si fosse dato corso alla denuncia, l’anonimo o gli anonimi estensori sarebbero passati a livelli più alti della giustizia coinvolgendo per omissione di atti d’ufficio anche i responsabili della locale stazione di polizia.

Era una lettera rognosa, carica di rancore. Doveva essere stata scritta da qualcuno che ce l’aveva a morte con il gestore di quel fantomatico locale.

Giovanni Zanca ci pensò un attimo.

«Osteria senza oste?» sussurrò piano tra sé. Il nome non gli diceva niente.

Prese la lettera anonima insieme alla domanda di pensionamento e uscì dalla stanza.

«Il comandante è in sede?» chiese all’appuntato di servizio alla portineria.

Quello, alzando gli occhi dal giornale, lo ricambiò con uno sguardo annoiato, non privo di un certo fastidio.

Giovanni Zanca passò oltre e andò verso l’ufficio del comandante. Vedendo la porta socchiusa, fece un passo oltre la soglia.

Il comandante, intento a scrutare lo schermo del computer, fece in tempo a chiudere la pagina per nascondere ciò che stava guardando.

«Mi scusi comandante, volevo consegnarle questa…» Giovanni Zanca allungò la lettera con la richiesta di pensionamento.

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«Ah!» Il comandante l’aprì e, dopo averci dato un’occhiata, la lasciò cadere sulla scrivania, come qualcosa di scontato, che attendeva da tempo.

Quindi il comandante alzò gli occhi sul viceispettore.

«C’è altro?»

«No.» Giovanni Zanca che era rimasto immobile, come sopra pensiero, fece per girarsi e andarsene.

Giunto sulla porta dell’ufficio si accorse di avere tra le mani qualcos’altro.

«Ah, sì… mi scusi. È arrivato un esposto nei confronti di una certa Osteria senza oste.»

Il comandante prese in mano la lettera anonima con la denuncia.

«Cos’è questa roba?»

Scorse velocemente il foglio ostentando un’aria sorpresa, quindi tornò a fissare il viceispettore.

«Antonio!» urlò.

L’attendente si affacciò alla porta.

«Antonio, vieni qui!»

Il giovane poliziotto fece qualche passo e si fermò di fronte alla scrivania del superiore.

«Tu che conosci tutte le bettole della zona, che cos’è questa Osteria senza oste?»

«Signor comandante, è un vecchio casolare riadattato a osteria dove non c’è nessuno che ci fa servizio e nessuno che controlla.»

«E dove si trova questo posto assurdo?»

«Io non ci sono mai stato, ma mi pare stia sopra la collina del Cartizze, tra San Pietro in Barbozza e Santo Stefano.»

Il comandante tornò a guardare il viceispettore che era rimasto in attesa sulla porta dell’ufficio.

«Va beh, andate a dare un’occhiata e vedete cosa dobbiamo fare di questa denuncia.»

Mentre Giovanni Zanca se ne stava andando, il comandante non si trattenne dal lanciargli una battuta.

«Ehi, Maigret, vedi di non farti prendere la mano e trovare troppi assassini.»

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Poi, mentre anche l’attendente stava lasciando l’ufficio, a voce alta in modo da farsi sentire fin oltre la porta:

«Antonio, devi farti un po’ le ossa, prima che il vecchio ci lasci…»

L’attendente affrettò il passo e raggiunse il viceispettore a metà corridoio:

«Cosa c’entra Maigret?» gli chiese sottovoce.

«È una lunga storia. Sei nuovo dell’ambiente, sei uno dei pochi a non conoscerla. Prima o poi te la racconto. Intanto andiamo a vedere cos’è questa osteria. Prepara la macchina. Arrivo subito.»

Giovanni andò nello spogliatoio e si vestì con degli abiti borghesi che teneva per quel tipo di sopralluoghi.

Piegò la lettera della denuncia e se la mise nella tasca della giacca, uscì dall’ufficio e raggiunse Antonio che lo attendeva con il motore acceso.

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Avvertenza

L’Osteria senza oste esiste davvero nelle colline di Valdobbiadene e queste pagine vogliono essere un atto di gratitudine per questa terra e la sua gente, per l’Oste che non c'è e per il suo custode.

Alcune delle vicende narrate si riferiscono a fatti realmente accaduti, ma il contesto in cui sono inserite e la loro sequenza sono propri del romanzo. Ogni riferimento a vicende personali accadute o in essere è del tutto casuale, ma forse è inevitabile, quando si mettono le mani in pasta, lasciare in giro un po’ di farina.

Con tutto ciò, questa storia vuol essere anche un invito ad andare a visitare questo posto unico al mondo, a bervi un prosecco, ad assaggiare un po’ di pane e soppressa e ammirare lo spettacolo di quelle colline.

Padova, 4 maggio 2023

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Indice 269 Indice Le colline di Valdobbiadene 7 Risvegli 9 Ognuno al suo lavoro 47 I giorni della merla 61 Scontri e incontri 85 Miserie 111 Il tramonto si tinge di rosso 121 Amicizie 145 La pecora perduta 173 La bisca 189 L’incidente 209 I giorni di carnevale 223 L’anello 253 L’oste che non c’è 259 Avvertenza 267
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Senza quell’unico piccolo germogliare della speranza, che evidentemente chiunque può spezzare, senza quella tenera gemma cotonosa, che il primo venuto può far saltare con l’unghia, tutta la mia creazione non sarebbe che del legno morto.

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Dopo tanti anni di lavoro, il viceispettore Giovanni Zanca si sentiva stanco e aveva deciso di andare in pensione, eppure in fondo al cuore conservava la «speranza che forse, prima o dopo, all’improvviso, sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe riportato luce e chiarezza nella sua vita e nel mondo attorno a lui».

Proprio la mattina in cui consegna la richiesta di pensionamento trova sulla scrivania una lettera anonima che denuncia l’esistenza di un vecchio casolare, situato in cima a Col Vetoraz, sopra la valle del Cartizze, dove si svolgono attività poco chiare.

L’inchiesta lo porta non solo a scoprire uno dei luoghi più belli della terra di Valdobbiadene, ma anche a indagare su un furto di arredi sacri e a imbattersi in un mosaico variegato di storie, seguendo le quali emerge via via la strana logica dell’Osteria senza oste, grande metafora del mondo.

Il romanzo è un atto d’amore verso queste terre e i suoi abitanti e vuol essere anche un invito ad andare in questo posto, unico al mondo, a bervi un prosecco e a mangiare un po’ di soppressa.

€ 18,00

itacaedizioni.it

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