T Paper Mazzotti Febbraio 2013

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Istituto Tecnico per il Turismo “G. Mazzotti�

T-Paper Anno 6 - Numero 10 Febbraio 2013

Everything that you think Something that we need


Indice INDICE EDITORIALE ATTUALITÀ

pag. 2 - 3 pag. 4

Four More Years pag. 5 Obama’s Victory Speech pag. 8 Attento, cucciolo: quello non è un “essere umano” Facciamoci sentire

pag. 13 pag. 16

Il mondo in mano ad Einstein, non ai Maya

pag. 18

Non troverete lavoro, non avete futuro

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Cibo e corpo: troviamo un modo per farli riappacificare

pag. 21

NEWS DALL’ISTITUTO

“Comenius”: esperienza di vita Stage in hotel La mia esperienza a nord del Circolo Polare Artico

RIFLESSIONI

2 Luglio 2012

16 Novembre 2012 24 Novembre 2012

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pag. 23 pag. 25 pag. 28

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Z. - Y. - X. Ipocrisia compresa nel prezzo Nostalgia del mondo Silenzio Diversità come valore aggiunto STEVE JOBS <Stay hungry. Stay foolish.>

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CREATIVITÀ Amazing Florence Sei un uragano Momento diabete

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ARTE E CULTURA Penelope alla guerra Ragazzo Da Parete

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SPORT Paraolimpiadi

pag. 44

In molti si chiederanno: Perché T. Paper? T.Paper significa tutto e niente, è la sigla della tipsy, train, true, toffee, theocratic, terrible, tourism, toilet, teens, tedious, team, tea, taste, target, tank, talent,take-off, table, taboo, tac- au-tac, tacit, thirsty, thrill, tired, toasted, tod, toff, tollol, tomato, tool, tonic, tone, toneless, topic, toxic, ecc ... ..ecc……………

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EDI TO RI A L E Abbiamo scoperto che il nostro giornalino non è letto soltanto dai “mazzottiani”, bensì anche dagli studenti di altre scuole di Treviso e ciò (è inutile nasconderlo) ci inorgoglisce, quindi ci vogliamo impegnare per scrivere un editoriale più accattivante, consapevoli che il nostro giornalino sia già il più trendy del momento. Parte così la nostra nuova esperienza all’interno della redazione del T-Paper che, di anno in anno, diventa più completa grazie anche alle “new entry” del gruppo. Attualità, News dall’Istituto e Creatività, e la nuova sezione dedicata allo Sport, sono solo alcune delle rubriche del nostro giornalino, sempre in continuo cambiamento. Non dilungandoci troppo, volevamo rendervi partecipi di quest’esperienza che, grazie ai continui confronti, permette di ampliare sempre di più “i propri orizzonti”. E’ così che il TPaper diventa non solo il nostro, ma anche il vostro giornalino. Ringraziamo già da adesso chi vorrà dare il proprio contributo anche come “collaboratore esterno” o “inviato speciale”. Se volete sentirvi ancora più partecipi, vi invitiamo alle riunioni del giornalino che hanno come referenti la Prof.ssa Sandra Antonietti e la Prof.ssa Paola Brunetta. Sperando di alleviare le dure giornate di studio, di contribuire alla vostra distrazione durante le lunghe ore di lezione e, per soddisfare un po’ i professori, di farvi riflettere, auguriamo una piacevole lettura. La Redazione

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AT TUA L I TA’ Four More Years

C’è stata molta polemica riguardo all’interessamento/disinteressamento italiano per le elezioni americane. Chi diventa presidente degli USA dovrebbe sensibilizzare la coscienza di tutti poiché l’eletto è in sostanza il leader mondiale in ogni campo ed influenza ogni nazione su tutte le decisioni. L’America, che ci piaccia o meno, “domina” il mondo: se è in bancarotta, lo siamo tutti, quindi le scelte del suo presidente influenzano il globo intero. Ma quali erano le scelte contrapposte quest’anno? Quali i piani? Quali le proposte? I canditati che si sono dati battaglia fino all’ultimo voto per guadagnarsi la carica di presidente erano Mitt Romney, repubblicano, ed il nostro “vecchio” Barak Obama, candidatosi nuovamente per poter portare a termine i provvedimenti iniziati durante il suo precedente mandato. Su cosa vertevano i loro programmi? Mitt Romney aveva un piano definito “di cinque punti”. Essi possono essere riassunti in questo modo: aumentare l’energia ad uso domestico, sistemare la scuola pubblica, tagliare e ridurre il debito pubblico, invogliare il popolo a celebrare il successo della nazione (poiché una nazione più felice sarebbe stata in grado di produrre di più) e infine bloccare la riforma “Obamacare” sulla sanità che, a suo dire, avrebbe portato lo stato a spendere soldi che già non possedeva.

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Con cosa si contrapponeva il presidente in uscita, Barak Obama? Con un piano di ben 27 punti tra i quali: ridurre le tasse, combattere le ingiustizie pratiche di commercio cinese, incentivare la scuola pubblica e non solo i costosissimi college privati, finanziare l’energia alternativa, fare investire il Congresso nelle batterie ad alta tecnologia, continuare la riforma della sanità tanto da renderla pubblica, rallentare l’aumento delle tasse universitarie, rendere il pagamento delle tasse equo per tutti, vietare alle case farmaceutiche di dare prescrizioni mediche in base a discriminazioni sessuali e, ad esempio, permettere il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il “testa a testa” tra i due è durato fino all’ultimo minuto, quando alla fine Mitt Romney ha ammesso la vittoria del rivale augurandogli di riuscire a mantenere le promesse fatte e specificando che, al momento, la nazione necessita di unione anche se le idee sono diverse, quindi si è fatto da parte senza pretendere nulla di più. La vittoria, dunque, è stata del presidente Barak Obama, che ha tenuto un meraviglioso discorso all’alba del suo secondo mandato, e che tradurrò in seguito perché di sicuro merita una menzione speciale per la speranza che è riuscito a infondere. Ma cosa rende davvero diversi questi due candidati? L’opportunità di seguire i loro dibattiti in diretta, mi ha permesso di avere un occhio critico personale a riguardo. La prima differenza è il modo in cui si pongono nei confronti del pubblico e del tempo a loro disposizione. Durante la campagna elettorale, infatti, avevano un paio di minuti per rispondere alla domanda posta da una persona del pubblico che rappresenta una certa fascia di età o di reddito. Mitt Romney tendeva a parlare quando non interpellato, quindi era richiamato più spesso del suo rivale, mentre Barak Obama si trovava spesso a doversi difendere da attacchi che venivano fatti al suo programma degli anni passati. Il repubblicano continuava a citare dati, a parere dell’avversario, non veritieri: egli era più occupato a smontare l’immagine dell’avversario che a rispondere alle domande. Ad esempio, alla domanda: Che ne pensa delle donne? MR: Vorrei avere più donne nel mio team, credo che le donne siano una risorsa importante. Sì, però parliamo dei lavori. Le donne hanno perso il 56% dei lavori quest’anno. Eh, perché per me si parla di lavori, di economia, di posti che non ci sono. E con Obama abbiamo perso tre trilioni di dollari. BO: Ricordo mia nonna, una donna nera, discriminata sia per il colore della pelle che per il sesso, che portava a casa i soldi per mantenere un’intera famiglia e lavorava come se

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non ci fosse un domani. Ricordo anche che faceva da tutor a uomini e donne destinati a diventare i suoi capi mentre lei non poteva avanzare. Ricordo il giorno in cui trovai la sua vergognosa busta paga: guadagnava una miseria. È per questo che credo nell’uguaglianza e sono pronto a perseguirla, che siate uomini, donne, etero o gay, bianchi o neri o di qualsiasi nazionalità. Romney continuava a ribadire di conoscere il modo per far funzionare l’economia, eppure non riusciva a spiegarlo, lo proclamava senza poi darne forma. Qualsiasi argomento riportava allo stesso sperpero di trilioni fatto da Obama nel suo mandato, oppure alla percentuale di disoccupazione nel Paese. Per il repubblicano non vi era altro che l’economia. Per non parlare di quante volte abbia menzionato che bisogna investire, senza specificare che il suo piano volto al taglio delle tasse non sarebbe riuscito a sostenere l’investimento previsto di dieci trilioni di dollari nel reparto militare e nell’energia non pulita, ma voleva comunque abbassare le tasse, assolutamente, anche se il suo stipendio sarebbe rimasto invariato, non intendendo pagarne di più. Dove sarebbe andato quindi a prendere i trilioni che voleva investire nel suo bellissimo programma? Ah, bè, ma Obama aveva perso tre trilioni di dollari nel suo mandato... Temo di non poter essere imparziale su questo scritto, purtroppo avendolo seguito molto mi sono formata un’opinione che ho deciso di scrivere. Di conseguenza credo che nessuno dei due candidati avesse la più pallida idea di cosa fare con una crisi economica da bancarotta mondiale tra le mani. Nessuno. Né Obama, né Romney, nonostante che rivendicasse il suo ruolo di economista e dichiarasse di avere piani concreti a riguardo. Cosa mi ha fatto scegliere per quale persona avrei preferito votare se fossi stata americana? Il fatto che ci troviamo nel mezzo non solo di una crisi economica, ma di una crisi della società. Una società malata di progresso, priva di denaro, senza valori, spaventata, competitiva, apocalittica, litigiosa. Una società che ha bisogno di maturare ed essere aiutata in questo periodo di sofferenza, non di essere lasciata a

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se stessa. Obama porta avanti da quattro anni la sua politica di non discriminazione e di incentivazione dell’energia rinnovabile; ritengo che siano due punti fondamentali per l’armonia e la prosperità di un Paese, nonostante le difficoltà. Questi sono ancora cambiamenti che possono avvenire a discapito della disoccupazione e del deficit pubblico che affliggono le famiglie di tutto il mondo. Perché puoi essere ricco, ma se sei picchiato a scuola o se non hai la benzina per portare tuo figlio dal medico quando sta male, o i soldi per poterti permettere una sanità privata, allora è tutto inutile. Per questo sono fiera di dire che il 7 novembre 2012 ho tirato un sospiro di sollievo dopo aver letto i risultati delle elezioni: Barak Obama è nuovamente presidente degli Stati Uniti d’America. Elisa Spigariol

Obama’s Victory Speech Il suo discorso di memoria merita decisamente una menzione e traduzione adeguata, ecco perché lo ho tradotto e riportato come segue. “Grazie. Grazie. Grazie mille. Questa sera più di 200 anni dopo che una colonia ha guadagnato il diritto di scegliere il proprio destino, l’obiettivo di perfezionare la nostra unione viene portato avanti. Viene portato avanti grazie a voi. Viene portato avanti perché avete riaffermato lo spirito che ha

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trionfato sulla guerra e sulla depressione, lo spirito che ha sollevato questo Paese dalla profondità della sua disperazione verso le alture della speranza, la credenza che mentre ognuno di noi insegue i propri sogni rimaniamo un’unica famiglia americana e ci innalziamo e cadiamo assieme come una nazione ed una persona sola Questa sera, in queste elezioni, voi, gente americana, ci ricordate che anche se la nostra strada è stata tortuosa, anche se il nostro viaggio è stato lungo, ci siamo tirati su ed abbiamo combattuto e sappiamo, nei nostri cuori, che per gli Stati Uniti d’America il meglio deve ancora venire. Voglio quindi ringraziare ogni singolo americano che ha partecipato a queste elezioni, sia che abbia votato per la prima volta o che sia stata l’ultima di una lunga serie di votazioni. In ogni caso dobbiamo sistemare questa cosa, sia che abbiate pestato i piedi sul pavimento, o alzato la cornetta del telefono, sia che abbiate innalzato un simbolo di Obama sia di Romney, avete comunque fatto sentire la vostra voce e fatto la differenza. Ho appena parlato col Governatore Romney e mi sono congratulato con lui e con Paul Ryan per la dura campagna combattuta. Può essere che ci siamo battuti con forza, ma è solo perché amiamo profondamente questo Paese e perché ci importa davvero del suo futuro. Da George a Leonore a suo figlio Mitt, la famiglia Romney ha scelto di restituire l’America pubblicamente ed è questa l’unione che onoriamo e applaudiamo questa sera. Nelle prossime settimane non aspetto altro che di sedermi con il Governatore Romney per parlare di come possiamo lavorare insieme per far avanzare questo Paese. Voglio ringraziare il mio amico e partner degli ultimi quattro anni, il guerriero felice dell’America, il miglior vice presidente che avrei mai potuto sperare di avere: Joe Biden. E non sarei l’uomo che sono oggi senza la donna che accettò di sposarmi vent’anni fa. Lasciatemelo dire pubblicamente: Michelle, non ti ho mai amato così tanto. Non sono mai stato così orgoglioso di guardare il resto dell’America innamorarsi anch’esso di te come nostra First Lady della nazione. Sasha e Malia, che davanti ai nostri occhi state crescendo per diventare due forti, intelligenti e bellissime giovani donne, proprio come vostra madre. E sono davvero molto molto fiero di voi, ragazze, ma direi che per ora un cane probabilmente basta ed avanza. Alla migliore squadra per la campagna elettorale e volontari della storia della politica. La migliore. La migliore di sempre. Alcuni di voi erano nuovi questa volta, e alcuni di voi invece mi sono stati accanto fin dal principio. Ma tutti voi ora siete la mia famiglia, non importa cosa fate, o dove andrete da qui, porterete sempre con voi i ricordi della storia che abbiamo fatto insieme e avrete l’eterna e gratitudine di un presidente. Grazie per aver creduto in me tutto il tempo, sia in mezzo alle impervie montagne che nella vasta pianura. Mi avete sollevato per tutta la strada e vi sarò sempre grato per tutto ciò che avete fatto e tutto il duro lavoro attuato in questa campagna. […] Sentirete la determinazione nella voce di un giovane organizzatore che cerca di riuscire a finire il college e vuole essere sicuro che ogni bambino abbia la sua opportunità. Sentirete l’orgoglio nlla voce di un volontario che andrà porta a porta perché suo fratello alla fine è stato assunto quando l’officina del paese ha aggiunto un nuovo turno. Sentirete il profondo patriottismo nella voce della sposa di un militare che lavora come centralinista la notte fonda per assicurarsi che nessuno che combatte per questo paese debba mai lottare per avere un lavoro o un tetto sopra la testa quando torna a casa. Questo è il motivo per il quale facciamo tutto questo. Questo è ciò che la politica può diventare.

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Questo è il motivo per il quale le elezioni sono importanti. Non è una cosa piccola, è grande. La democrazia in una nazione di 300 milioni di persone può essere rumorosa e confusionaria e complicata. Abbiamo le nostro opinioni. Ognuno di noi ha ben radicate credenze. E quando attraversiamo periodi bui, quando prendiamo importanti decisioni come paese, necessariamente smuove passioni e controversie. Questo non cambierà questa notte, e nemmeno dovrebbe. Queste discussioni sono il marchio della nostra libertà. Non possiamo dimenticare che mentre noi parliamo, persone in nazioni lontane stanno rischiando la loro vita in questo momento per avere l’opportunità di discutere per gli argomenti che contano, per l’opportunità di scegliere chi eleggere come facciamo noi oggi. Ma nonostante le nostre differenze, la maggior parte di noi condivide delle speranza per il futuro dell’America. Vogliamo che i nostri figli crescano in un paese dove possano avere accesso alle migliori scuole e ai migliori insegnanti. Un paese che vive nella sua unità come leader mondiale nella tecnologia e nella scoperta e nell’innovazione, con tutti gli ottimi lavori e i nuovi affari che ne conseguono. Vogliamo che i nostri bambini vivano in un’America che non sia seppellita dai debiti, indebolita dalla diseguaglianza o minacciata dal potere distruttivo del riscaldamento globale. Vogliamo poter vivere in un paese che sia sicuro e rispettato e ammirato in tutto il mondo, una nazione che sia definita dalla forza militare più forte della terra e le migliori truppe che questo mondo abbia mai conosciuto. Ma anche un paese che si muove con confidenza in questo tempo di Guerra, per creare la pace che è costruita sulla promessa di libertà e dignità per ogni essere vivente. Crediamo in un’America generosa e compassionevole, in un’America tollerante, aperta ai sogni delle figlie degli immigranti che studiano nelle nostre scuole e che brindano alla nostra bandiera. Al ragazzo nella zona sud di Chicago che vede una vita appena oltre l’angolo della strada. Al figlio del mobiliere che vive in North Carolina e vuole diventare un dottore o uno scienziato, un ingegnere o un imprenditore, un diplomato o addirittura presidente: questo è il futuro nel quale speriamo. Questa è la visione che condividiamo. Qui è dove dobbiamo andare: avanti. Qui è dove dobbiamo andare. Magari adesso non concordiamo, a volte con forza, riguardo a come arrivarci ma, com’è successo per più di due secoli, il progresso arriverà e sistemerà le cose. Non è sempre una linea dritta, non è sempre una strada facile e priva di buche. Ma proprio il riconoscimento che abbiamo speranze e sogni comuni non farà finire le sofferenze, o risolverà i nostri problemi, o sostituirà il faticoso lavoro del creare consensi e accettare i difficili compromessi di cui abbiamo bisogno per far crescere il nostro paese. Ma questo legame comune è il punto di partenza. La nostra economia sta risalendo. Un decennio di guerra sta terminando. Una lunga campagna è ora terminata. E sia che io abbia guadagnato il vostro voto oppure no, vi ho ascoltati, ho imparato da voi e mi avete reso un presidente migliore. E con le vostre storie e le vostre difficoltà, io ritorno alla Casa Bianca più determinato ed ispirato che mai sul lavoro da fare ed il futuro che vogliamo davanti. Questa sera avete votato per agire, non per politica e basta come al solito. Ci avete eletti per focalizzarci sui vostri lavori, non sui nostri. E nelle prossime settimane e mesi, non vedo l’ora di incontrare e lavorare con leader di entrambi i partiti per affrontare le sfide che possiamo vincere solo assieme. Riducendo il nostro deficit, riformando il codice delle tasse, sistemando il nostro sistema di immigrazione, liberandoci del bisogno di petrolio estero. Abbiamo del

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lavoro da fare. Ma questo non significa che il vostro lavoro sia finito. Il ruolo dei cittadini nella nostra democrazia non finisce col vostro voto. L’America non è mai stata riguardo a ciò che può fare per noi, ma riguardo a ciò che può essere fatto da noi insieme grazie al duro e frustrante, ma necessario, lavoro del governo che noi tutti siamo. Questo è il principio sul quale siamo fondati. Questo paese ha più ricchezza di qualsiasi altra nazione, ma non è questo che ci rende ricchi. Abbiamo la più potente flotta militare della storia, ma non è questo che ci rende forti. La nostra università e la nostra cultura sono l’invidia del mondo intero, ma non è questo che fa sì che l’intera popolazione mondiale raggiunga le nostre sponde. Quello che rende l’America eccezionale sono i legami che tengono assieme le più diverse nazioni sulla terra. La credenza che il nostro destino sia condiviso, che questo paese funziona solo se accettiamo certe obbligazioni tra di noi e tra le prossime generazioni. La libertà per la quale così tanti americani hanno combattuto e per la quale sono morti viene di pari passo con responsabilità allo stesso modo dei diritti. E in tutto questo c’è amore e carità e senso del dovere e patriottismo. Questo è ciò che rende l’America grande. Sono speranzoso questa sera perchè ho visto lo spirito al lavoro in America. Lo ho visto nelle imprese di famiglia dove il proprietario preferirebbe tagliare il suo salario piuttosto che licenziare il suo vicino, e nei lavoratori che preferirebbero rinunciare alle proprie case piuttosto che vedere un amico perdere il lavoro. Lo ho visto nei soldati che tornerebbero a combattere dopo aver perso un arto e in quelli che facevano le scale al buio perché sapevano di avere un amico che gli copriva le spalle. Lo ho visto nelle sponde del New Jersey e di New York, dove i leader da ogni parte e livello di governo hanno messo da parte le loro differenze per aiutare la comunità a ricostruire dalle macerie di un terribile tornado.

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E l’ho visto giusto l’altro giorno, a Mentor, in Ohio, dove un padre mi ha raccontato la storia della sua bambina di 8 anni alla quale la sua battaglia contro la leucemia è quasi costata alla famiglia se non fosse stato per via della riforma sanitaria passata giusto qualche mese prima che la compagnia assicurativa smettesse di pagare per le sue cure. Ho avuto non solo l’opportunità di parlare col padre, ma di incontrare la sua incredibile figlia, e quando lui ha parlato alla folla che ascoltava questa storia, ogni genitore nella stanza aveva le lacrime agli occhi, perché sapevano che quella bambina avrebbe potuto essere la loro. E so che ogni americano vuole che il suo futuro sia altrettanto bello. Questo è ciò che siamo. Questo è il paese che sono così orgoglioso di guidare come vostro presidente. E questa sera, nonostante tutte le difficoltà che abbiamo attraversato, nonostante tutte le frustrazioni di Washington, non sono mai stato così ottimista sul nostro futuro. Non sono mai stato così ottimista sull’America, e vi chiedo di sostenere questo ottimismo. Non sto parlando in un ottimismo cieco, del tipo di speranza che ignora e basta l’enormità di obbiettivi e ostacoli davanti a lei o le rocce che si trovano nel nostro cammino, non sto parlando di un idealismo pieno di desideri che ci permetta di sedere ai lati o evitare una battaglia. Ho sempre creduto che la speranza fosse quell’ostinata cosa dentro di noi che insiste, nonostante la forza contraria dell’evidenza, che qualcosa di meglio ci attende finchè abbiamo il coraggio di continuare a cercare di raggiungere, a lavorare, a combattere. America, io credo che possiamo costruire sul progresso ottenuto finora e continuare a combattere per avere nuovi lavori e nuove opportunità e nuova sicurezza per la classe media. Credo che se manteniamo le promesse dei nostri padri fondatori, l’idea che se davvero lavori sodo non imnon importa chi sei o da dove vieni o come sei fatto o chi ami, non importa se sei nero o bianco o ispanico o asiatico o nativo americano, o giovane o vecchio, ricco o povero, abile o disabile, gay o etero: puoi farcela qui in America, se sei disposto a provare. Io credo che possiamo catturare questo future assieme, perché non siamo poi così divisi come i politici dicono. Non siamo cinici come gli esperti credono. Siamo più grandi della somma delle ambizioni di ogni individuo e rimaniamo più di una collezione di stati rossi e blu. Noi siamo e saremo per sempre gli Stati Uniti d’America, e insieme con il vostro aiuto e la grazie di Dio continueremo il nostro viaggio in avanti e ricorderemo al mondo perché viviamo nella nazione più grande del mondo. Grazie, America, Dio ti benedica. Dio benedica gli Stati Uniti d’America.” Elisa Spigariol

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Attento, cucciolo: quello non è un “essere umano”

Che cos’è la pedofilia? Ne abbiamo sentito parlare tutti, almeno una volta nella vita. Definiamo “pedofilia” quel comportamento assurdo che assume un essere umano nei confronti dei bambini, quel desiderio sessuale che qualche “essere umano”, chiamiamolo così, prova, vedendo un bambino. Pedofilia è perseguitare un bambino, è violentare un bambino, è ucciderlo per puro desiderio sessuale. Sì, sono queste le informazioni che tutti conoscono: sono talmente scontate che quasi nessuno ne parla. I mezzi di comunicazione ci parlano di adulti che ingannano i bimbi. Sono notizie che ci scandalizzano, al momento, ma che poi scivolano via, tra l’indifferenza generale. Parliamo molto di più di droga, bullismo, aborto, violenza sulle donne. E la violenza sessuale sui bambini? Quel fenomeno è un tabù. Eppure esistono 70.000 siti pedopornografici. Qualcuno lo sapeva? E qualcuno sapeva che nel Trentino i pedofili sono più di 200? Numeri spaventosi, ma, allo stesso tempo, reali. Mentre un bambino naviga in internet, attorniato da quelle quattro mura domestiche considerate sicure dai genitori, apre una finestra su un mondo tutt’altro che sicuro e divertente. Se guardiamo il retro di un computer, troviamo materiale sintetico, plastica, ma se proviamo ad entrarci dentro, oltrepassare quel portale chiamato “internet”, troviamo una realtà virtuale, viva, in continua mutazione e della quale non ci possiamo fidare. Troviamo un mondo fatto di persone reali, di persone false e di fantasmi.

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Il bambino naviga tra queste realtà. Naviga su social networks, su blogs, su siti vari credendo di essere al sicuro nella sua stanzetta. Poi arriva lui (o lei). Ha un profilo rassicurante e, grazie a belle foto, ai bei colori, si mostra amorevole, con un viso dolce. Spesso hanno amici in comune e sono quasi coetanei. Inizia una fitta corrispondenza, uno scambio di informazioni e lamentele, si crea una certa intimità: lui (o lei) ci sa fare. Col tempo introduce al bambino, protetto tra le mura domestiche, l’argomento “sesso”. Gliene parla, perché è una realtà che un bambino può cominciare a conoscere, quindi non è così grave. Gli invia foto pornografiche. Gli promette tante belle cose e una comprensione che i genitori, troppo severi e protettivi, non possono dare. Lo invita ad uscire visto che abita vicino a casa sua. Quel bimbo esce e di quel bimbo non si sa più nulla. Allora ci si dovrebbe chiedere: quelle foto ritraevano una persona buona e bella? No, erano pubblicate “ad arte”: dietro quelle foto c’era un maniaco, un mostro, un pedofilo. Una settimana fa seguivo un programma che forse tutti conoscete: “Le Iene”. L’argomento trattato era proprio la pedofilia. Gli attori si erano messi in contatto con uno di questi “esseri umani” e, fingendo una situazione reale gli hanno posto delle domande. Una di queste era: “come fai? insomma…a...”. L’essere umano, con molta calma, diede una risposta allucinante: “Io…cerco di coinvolgere le bambine. Voglio che anche per loro sia una cosa piacevole. Le stimolo.” La domanda successiva fu: “Ma…ci arrivi mai al sodo…?”. La sua risposta: “Con quelle più piccole no, mi limito a toccarle. Con le più grandi, di otto o nove anni, arrivo alla penetrazione anche con oggetti”. Stop. Un momento. Penetrazione? Eh sì, l’essere umano ha detto proprio così. “Penetrazione”. Una bimba di otto anni. Un essere innocente e puro. Un cucciolo. L’argomento mi si è riproposto, guarda caso, una settimana dopo. Nell’aula magna della nostra scuola. Ho avuto la possibilità di assistere, grazie al corso di web marketing, ad una conferenza sulla sicurezza nel web. Il presidente dell’associazione “Bimbi in Rete”, un signore molto simpatico, ha introdotto l’argomento e mi ha fatto ghiacciare il sangue. E, proprio in quel momento, mi sono resa conto che non ne sapevo quasi nulla se non quello che ho scritto nel paragrafo introduttivo di questo articolo. E ricordatevi che otto genitori su dieci credono che i propri figli (anche di 8-9 anni) siano sicuri mentre navigano in internet. Non nego che internet sia una delle più grandi invenzioni dell’uomo, ma è anche una delle più devastanti. Un’invenzione che, se non si sa usare, finisce per uccidere. Finisce per farci perdere la dignità. Bambino, dietro quel bel profilo può nascondersi un mostro! Scrivo questo articolo perché, come tanti di voi, ho una sorellina: ha cinque anni, è bellissima, il mio angelo. Non riesco semplicemente a capire: come fa un essere umano ad abusare di un cucciolo? Come fa a rovinargli la vita? A fargli vivere un incubo, quando lui, piccolo così, dovrebbe sognare solo campi pieni di fiori e coniglietti saltellanti? Mostri. Schifo. Comunque ricordiamoci che il 96% sono maschi. E il resto? Il 4% che rimane? Donne. Ve lo aspettavate? Io no. La donna che dovrebbe dare la vita e poi proteggerla... La maggior parte di loro hanno tra i 21 e i 30 anni. Sono diplomati. Hanno figli.

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Ma esistono esseri del genere che hanno anche 16 anni. Bastano 5 anni in più della vittima per essere chiamati pedofili. Il mio messaggio è questo: sono bambini, sono creaturine pure, proteggiamole. Loro, piccoli esserini con gli occhietti dolci, che ignorano completamente il mondo che li aspetta, là fuori. Il mondo bello, ovvio, ma anche infernale e innaturale che esiste fuori dalle quattro mura domestiche. Stiamo attenti a quello che fanno i nostri fratellini, i vostri figli. Controlliamo, e informiamo i nostri angioletti del pericolo che possono correre. Loro hanno bisogno di noi e mi rendo conto che noi abbiamo bisogno di più informazione, perché se questi atti succedono, la maggior parte della colpa è di noi, oso chiamarci, adulti. Macrina

“Credete che ci sia solo la guerra che spaventa i bambini. Esiste una cosa altrettanto spaventosa e inquietante LA PEDOFILIA”

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FACCIAMOCI SENTIRE

Gli studenti sono in rivolta, stanchi dei continui disegni di legge che vengono presentati, rimaneggiati e di cui proprio i giovani sono vittime, oggetti e non soggetti. La “Legge Aprea”, che prende il nome da chi l’ha realizzata, l’ex deputato Valentina Aprea, è stata ampliamente modificata “in itinere” durante il corso degli anni da deputati di orientamenti politici diversi. In essa è chiaro l’intento di portare la scuola italiana alla privatizzazione. La legge, infatti, prevede che lo Stato dia “maggiore autonomia’’ alle istituzioni scolastiche grazie a statuti di riferimento accettati dagli stessi. Inoltre prevede un’ampia discussione sull’organizzazione dei “nuovi organi collegiali” dove i genitori risultano essere in ugual numero rispetto ai professori nelle riunioni interne degli istituti. La “legge Aprea” prevede, altresì, un innovatissimo “nucleo di valutazione”, la possibilità da parte delle scuole di promuovere “reti, fondazioni e consorzi”, il “Consiglio delle Autonomie Scolastiche”, che dovrebbe tenere informato lo Stato sull’andamento della scuola e, infine, la “Conferenza Regionale” per la decisione del sistema educativo da attuare. Tale situazione ha portato l’Italia allo sbando e ha visto gli studenti dell’intero stivale scendere in piazza, stanchi dei continui rimaneggiamenti e correzioni ad una “Riforma” che non è mai stata tale e che sembra voglia solo peggiorare l’andamento delle istituzioni scolastiche già con il respiro affannoso. Solo l’Idv (Italia dei Valori) ha espresso il reale problema di questa legge e cioè che “la legge Aprea porterà alla privatizzazione della scuola”, così facendo si è scatenato un dibattito con Manuela Ghizzoni, deputato del Pd, e facente parte della commissione Cultura della Camera, che ha ribattuto: “la cosiddetta legge Aprea, ampiamente rivista in questi mesi, non prevede alcuna privatizza zione o aziendalizzazione della scuola pubblica, ma pone al centro l’autonomia delle istituzioni sco-

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lastiche connessa alla loro cresponsabilità”. Davanti a tutto ciò mi chiedo: coloro che dovrebbere legiferare pensano davvero che noi semplici studenti non riusciamo a capire che dietro a paroloni quali “maggiore responsabilità e fiducia alle istituzioni scolastiche” si voglia intendere “privatizzazione”? Come risposta gli studenti di tutta Italia hanno deciso di farsi sentire: con le loro dimostranze sono riusciti a fermare il disegno di legge “Aprea” che colpisce la poca democrazia rimasta alle scuole italiane. Questo risultato dimostra che le nostre mobilitazioni pacifiche non possono rimanere inascoltate e che la forza delle nostre idee non potrà essere fermata tanto facilmente. Daniele Lanni, portavoce della “Rete degli Studenti Medi”, dichiara: “Gli studenti italiani hanno avuto ancora una volta la meglio...”; “...la nostra battaglia per la scuola pubblica continuerà perché vogliamo che si investa nell’Istruzione, a partire da subito, vogliamo che si investa nell’Edilizia Scolastica, in una legge nazionale sul diritto allo studio, per cambiare la didattica e rendere la scuola una possibilità per tutti e non un privilegio per pochi”; infine dichiara: “abbiamo ottenuto un risultato e siamo contenti, ma gli studenti italiani sono in piazza perché sentono la necessità di un cambiamento reale, che parta sia dalla scuola sia dalle università, ma che sia esteso a tutto il Paese, e a tutto il nostro mondo. Per questo siamo scesi in piazza convinti che siamo il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, e proprio perché ancora crediamo in questo cambiamento, continueremo la nostra mobilitazione”. Concludo esortandovi a partecipare alle manifestazioni e ai cortei organizzati nella nostra città, perché siamo ancora studenti e possiamo fare qualcosa per il nostro futuro, ne abbiamo tutto il diritto. Valeria Cicatiello

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Il mondo in mano ad Einstein, non ai Maya Ci stiamo avvicinando sempre di più al 21 dicembre 2012, data definita dal calendario Maya come la fine del mondo, ma in questi giorni è uscita la notizia che la catastrofe accadrà il 15 febbraio 2013. Un asteroide passerà a circa 35 mila chilometri dalla Terra e per alcuni astronomi questo porterà alla distruzione più totale. Secondo l’astrofisica Margherita Hack, la situazione non è preoccupante poiché la probabilità che questo asteroide colpisca il nostro pianeta è pari allo 0,031%. Inoltre la scienziata italiana aggiunge che le dimensioni e la massa di questo asteroide sono troppo piccole per colpire in maniera disastrosa un pianeta come la Terra. In ogni caso, a dicembre passerà, alla distanza di 7 milioni di chilometri, un gigantesco asteroide identificato come il presunto pianeta Nibiru, definito come una roccia di forma allungata e irregolare scoperta dai Sumeri attorno al 1500 a. C. e lo associarono a un portatore di catastrofi. Ma sarà vero? Non è la prima volta che la data “inevitabile“ della fine del mondo viene spostata. La storia ci racconta che nel Medioevo si credeva che con l’avvento del anno Mille, ovvero 1000 anni dopo la nascita di Cristo, il mondo sarebbe finito, ma non fu così. Un’altra data è stata il 1843 basatasi sul libro del profeta Daniele in cui si legge “Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi il santuario sarà rivendicato” si poté quindi calcolare 2300 anni. Il predicatore William Miller nonché pensatore dell’idea, iniziò i suoi calcoli dal 457 a. C. anno in cui il re Artaserse I di Persia attuò l’inizio della ricostruzione di Gerusalemme. Anche questa data fu superata senza alcun danno. Più di mille anni dopo si ritornò sull’argomento pensando che nel 1980, secondo un’antica previsione astrologica araba, la fine del mondo sarebbe avvenuta a causa dell’impatto con una cometa di dimensioni enormi. Anche questa teoria fu fallimentare. Così si passò al 2000: l’ anno del Millenium Bug. I computer possono tenere la data formata esclusivamente da tre gruppi di due cifre e quando arrivò il 1 Gennaio del 2000 la data diventò “01/01/00”: credendo che il computer la traducesse in 1 Gennaio 1900, si alimentò un senso di paura e preoccupazione pensando ad un danno generale di tutti i computer che sarebbero arretrati di un secolo. Invece non successe quasi niente e molti teorizzarono che i computer sapevano di non poter tornare indietro con il tempo. Ora è la volta del 2012. La data è stata spostata più di una volta, e se accadesse di nuovo? O se addirittura non succedesse niente? Il mondo non finirà a causa di catastrofi naturali, ma per mano dell’uomo perché, come disse Albert Einstein, “l’uomo ha costruito la bomba atomica ma nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi”. Veronica Porcellato

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Non troverete lavoro, non avete futuro Ci parlano di futuro fin da quando eravamo dei ragazzini per i quali la massima estensione di futuro era la scelta della scuola media in cui avremmo trascorso tre anni della nostra giovane vita dopo averne passati cinque anni alle scuole elementari. Ci parlavano di futuro come una grandiosa conquista, pieni di speranza ed aspettative che hanno trasferito anche in noi, gonfiandoci come enormi palloncini diretti verso l’alto da una corrente di determinazione. Ce ne parlavano come se avessimo potuto costruircelo davvero col sudore della fronte, come avevano fatto loro. Con raccomandazioni continue e tante ramanzine. Chi ci aveva preparato alla realtà di oggi? Un mondo dove padri di famiglia non hanno lavoro, tantomeno ce l’hanno quegli studenti privi di qualsiasi genere di esperienza, dove studiare all’università è un lusso e, oltretutto, privo di veri e propri sbocchi. È come nuotare tutta la vita in una piccola boccia di vetro mentre ti preparavano ad affrontare un oceano che non è mai arrivato perché nessuno si è ricordato di buttartici. Forse perché quello che avrebbe dovuto farlo è stato licenziato anche lui. Ci rendiamo conto del mondo in cui stiamo cercando di costruirci un futuro? Un futuro necessario e al quale abbiamo diritto in quanto essere umani. Si tratta di un luogo in cui si sprecano le parole in promesse riguardo la fine di una crisi che nessuno sa affrontare, in cui uomini e donne, con intere famiglie a carico, sono privati del lavoro fatto per tutta la vita ed ora senza stipendio per sfamare le loro bocche e quelle dei loro figli. Di aziende – il sogno di una vita – che falliscono miseramente, vittime di questa maledetta crisi finanziaria che ha messo non solo in ginocchio, ma a terra il mondo intero. E cosa dovremmo fare noi?

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Continuate a parlare della ricerca di una soluzione che non si riesce mai a vedere, le previsioni sono una più disparata dell’altra, le famiglie muoiono di fame e non c’è prospettiva per nessun giovane. Coloro che stavano bene prima stanno bene anche adesso, mentre quella percentuale esorbitante di famiglie che stringeva la cinghia già in precedenza, contando su quel tanto famigerato futuro, si è trovata tradita dalle sue stesse speranze illusorie. Non possiamo fare tutto da soli se l’intero governo e tutti i grandi lavoratori se ne lavano le mani. Non siamo abbastanza capaci, né abbastanza uomini e donne di mondo da poter pensare di risolvere la situazione da soli. Abbiamo bisogno di aiuto, un aiuto che ci viene negato da troppo tempo e che viene espresso in tasse e tagli che, guarda caso, continuano ad affliggere solamente coloro che già si ritrovano in grande difficoltà. Il Paese va risollevato, ma non lo si può fare a parole. Servono fatti, interventi immediati, serve che qualcuno dica con sincerità a noi giovani che non siamo uno spreco in questa maledetta Italia che sembra non volerci visto che anche i più meritevoli sono costretti ad andarsene per poter fare ciò che è sancito dalla nostra Costituzione: lavorare, essere utili alla società per ciò che si sa fare. Ci siamo nati, abbiamo il diritto di poterci restare, vivere, avere la possibilità di scegliere se andare all’università o lavorare. Non possiamo pensare di dover finire in fretta la scuola per supportare un’intera famiglia che va a rotoli mentre cerchiamo disperatamente lavoro, perché di disperazione si tratta. Siamo un popolo, un popolo che ha diritto a non vedere il suo futuro infrangersi sugli scogli di una crisi infinita che ci ha già distrutto. Abbiamo il diritto ed il dovere di risorgere dalle nostre ceneri. E non possiamo sentirci dire a diciotto anni che non troveremo lavoro e che non abbiamo futuro, ma allora… perché sto pagando tutto questo? Elisa Spigariol

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Cibo e corpo: troviamo un modo per farli riappacificare Di corsa in un mondo che non chiede altro che sacrificio, ma fermarsi e dedicare un attimo a noi stessi può, sicuramente, allungarci la vita. È assolutamente raccapricciante sapere che, nel nostro secolo, così avanzato e tecnologico, nel ventunesimo secolo così all’avanguardia, ormai quasi tutti nel mondo si siano dimenticati cosa voglia dire mangiare bene, con calma e serenità. I pranzi in famiglia quasi non esistono e, se si fanno, durano meno di venticinque minuti, perché il lavoro chiama, la vita chiama, la società chiama. Si diffondono i fast food, i panini presi di corsa in un bar o addirittura c’è chi salta il pasto. Al cibo nessuno pensa, sembra che l’unico scopo nella vita di ognuno sia il lavorare, quindi guadagnare. Ma c’è un altro fatto che salta subito all’occhio: il desiderio di dimagrire di buona parte del mondo industrializzato. Ebbene sì, in tanti vogliono dimagrire, ma non tutti sanno che saltando pasti o mangiando di corsa, il dimagrimento diventa impossibile. Il corpo di chiunque è regolato dal metabolismo, un processo grazie al quale le sostanze a struttura chimica complessa (grassi, proteine, carboidrati) vengono scisse in molecole via via più semplici e viceversa. Quando questo si va ad alterare attraverso un’alimentazione sbagliata, il corpo subisce uno squilibrio, avverte una carestia e si mette in allarme, accumulando grassi, quindi tessuto adiposo per mantenerci in vita. Seguendo un’alimentazione corretta, questi problemi non si creerebbero. Nel 2010, l’UNESCO ha dichiarato la Dieta Mediterranea patrimonio dell’Umanità. Essa “… rappresenta un insieme di competenze, conoscenze, pratiche e tradizioni che vanno dal paesaggio alla tavola, includendo le colture, la raccolta, la pesca, la conservazione, la trasformazione, la preparazione e, in particolare, il consumo di cibo.” [CNI-UNESCO, “La Dieta Mediterranea è patrimonio immateriale dell’Umanità”] La cucina italiana, come tutti sanno, è la migliore del mondo grazie alla sua varietà, ma seguirla diventa difficile. Come dice Carlo Petrini in un articolo apparso su “La Repubblica” il 9 giugno 2010: “… per quanto riguarda il cibo abbiamo ormai perso la percezione della differenza tra valore e prezzo: facciamo tutti molta attenzione a quanto costa, ma non più al suo profondo significato.” È proprio così, purtroppo: le famiglie faticano ad arrivare a fine mese con gli stipendi che si trovano

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e, quando giunge il momento di pensare alla spesa settimanale, non si dà tanta importanza al cibo quanto al suo prezzo, correndo il rischio di acquistare prodotti scadenti e, a volte, pericolosi per la salute. Ma il denaro non è l’unico ostacolo alla buona alimentazione. Un altro è rappresentato dallo stile di vita: si diventa sempre più pigri, la vita sedentaria sembra piacere di più. Programmi tv, computer, internet, social networks e blogs, rubano tempo prezioso che potrebbe essere impiegato in altri modi come, per esempio, una camminata all’aria aperta, una corsetta, un giro in bici, una nuotata ecc. Tutto questo, aggiunto alla nutrizione malsana compromette la salute di chiunque. “..la vita sedentaria è un rischio per il cuore. Se a questo si aggiunge che spesso si mangia male, il quadro generale peggiora.” [Adele Sarno, “Otto ore seduti? Il cuore rischia il doppio. Arriva l’autotest per la prevenzione” - “La Repubblica” – 1 aprile 2011]. Quindi è meglio anche evitare di mangiare mentre si fanno altre cose (navigare in internet o guardare la tv) perché facendo così, il cervello non riesce a capire quando esattamente lo stomaco è pieno e l’appetito è soddisfatto. Mangiare essendo consapevoli di ciò che si ha intorno e di ciò che si assimila aiuta, prima di tutto, a stare sereni. Ed è semplice. Tv spenta, tre pasti importanti al giorno (colazione, pranzo e cena) e due spuntini, uno tra la colazione e il pranzo e l’altro tra il pranzo e la cena. Cibo sano, verdura, due o tre volte alla settimana carne, gli altri giorni pesce, pasta, qualche uovo e il gioco è fatto. Abituarsi a questa routine rende la vita migliore. Il pasto deve essere un momento speciale per ognuno, un momento in cui qualsiasi problema si butta fuori dalla cucina, un momento per godersi la famiglia, la tranquillità, la vita. Un momento per ascoltare il corpo, che deve venire prima di tutto e tutti. È il corpo una delle cose più importanti che abbiamo, cerchiamo di mantenerlo in salute come meglio possiamo. Perché, con tutte le conoscenze che abbiamo oggi, davvero si può. Macrina

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NEWS DALL’ISTITUTO “Comenius”: esperienza di vita

Cosmopolitismo. Con questa parola si potrebbe riassumere l’incontro del progetto “Comenius” che si è svolto a Varsavia da martedì 23 a sabato 27 ottobre. “Comenius” è un progetto europeo, avente lo scopo di rafforzare i rapporti tra i cittadini dei vari paesi membri dell’Unione Europea, specialmente tra i giovani. Il primo incontro si era svolto a Colonia, in Germania, nel novembre 2011, mentre i prossimi appuntamenti in programma sono previsti a Eger, in Ungheria, e, in primavera, qui a Treviso. A questo incontro, a cui ho avuto la fortuna di partecipare, erano presenti studenti provenienti da Italia, Polonia, Spagna, Germania, Finlandia e Ungheria. Sono stati cinque giorni all’insegna del divertimento e della voglia di conoscere il mondo. Eravamo circa una quarantina di ragazzi pieni di energia e di allegria. Alloggiavamo tutti nello stesso hotel, a parte i ragazzi spagnoli e alcuni tedeschi che vivevano in famiglia, e ogni mattina ci spostavamo insieme in autobus al Bielańskie Centrum Edukacji Kulturalnej, il centro culturale dove avevano sede i workshop. Lavoravamo dalle 9:30 alle 14:00 ed eravamo divisi in quattro grandi gruppi: scrittura, podcast, video e fotografia. L’obiettivo finale era realizzare dei progetti riguardanti la città di Varsavia, in lingua inglese. Pranzavamo, poi, tutti insieme trascorrevamo il pomeriggio visitando la città, divisi in gruppetti, ognuno capitanato da un ragazzo polacco che fungesse da guida. Varsavia è una bellissima capitale e, infatti, la città stessa ha contribuito a rendere incredibile l’esperienza. Il centro storico, la cosiddetta “Città Vecchia”, è protetto dall’UNESCO, quindi è patrimonio dell’umanità. La Piazza del Mercato, la Piazza del Castello, il Castello Reale, il Barbacane… tutto è avvolto in un velo di magia. È il vero e proprio cuore della città. Tuttavia, quella di Varsavia è considerata “la città vecchia più nuova del mondo”, poiché è stata ricostruita nel secondo dopo guerra, a causa della totale distruzione della città attuata dai corpi delle SS nel 1944, come punizione per la tentata rivolta della popolazione all’occupazione nazista. Le nostre guide ci hanno spiegato che per i polacchi è stato importante ricostruire la piazza tentando di utilizzare per la maggior parte i materiali originari e i progetti architettonici preesistenti. La città vecchia è, pertanto, il simbolo di una nazione che non si è mai data per vinta, che ha sempre avuto la forza di rialzarsi e ricominciare. Come tutti i paesi del nord, la Polonia era molto fredda. Il tempo ci è stato avverso, ma ci ha permesso di visitare la città in diverse situazioni: sole, pioggia e neve. Le abbiamo viste proprio tutte! Sabato mattina ci siamo svegliati con una piacevole sorpresa: fiocchi bianchi che scendevano dal cielo. Neve di fine ottobre! Tuttavia, quella di Varsavia è stata ben diversa dalle nevicate che siamo abituati a vedere a Treviso. È stata una vera e propria bufera di neve! Fiocchi accompagnati da un vento tagliente che impediva quasi di tenere gli occhi aperti. I polacchi erano abituati a quel clima, mentre noi ci senti vamo alla prima fase del processo di congelamento.

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Quel giorno nella mia mente la Polonia sembrava più la Siberia o l’Alaska. Freddo a parte, sono stati cinque giorni meravigliosi. Ho imparato tanto sulla cultura polacca, mi sono divertita, ho migliorato il mio inglese e ho arricchito le mie conoscenze. Ho stretto amicizia con molti miei coetanei di altre nazionalità che spero di poter rivedere ad uno dei prossimi incontri, ho visitato una città meravigliosa e mi sono sentita appieno cittadina del mondo. È troppo difficile riassumere in poche righe quello che ha significato per me questo viaggio, ma spero di aver suscitato curiosità e stimolato la voglia di provare questa meravigliosa esperienza. Mi riferisco principalmente ai ragazzi di seconda e terza superiore: l’anno prossimo arriverà il vostro turno! Avrete l’opportunità di partecipare a questo progetto e di vivere un’avventura simile alla mia. È un’occasione che dovete assolutamente cogliere, poiché ricordate: alcuni treni passano una volta sola. Carpe diem. Cosa state aspettando?

Carlotta Ferro

Piazza del Castello (città vecchia)

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Stage in hotel Quando si arriva al quinto anno, nel nostro istituto è previsto uno stage di tre settimane presso strutture ricettive, agenzie di viaggio, aeroporti e altre realtà lavorative inerenti al nostro corso di studi. Io ho trascorso questo periodo, dall’11 novembre al 2 dicembre 2012, nell’hotel NH Grand Hotel Palazzo di Livorno, un cinque stelle, assieme ad una compagna di classe. Evitate i commenti “oh che bello, non vedo l’ora”, visto che di bello ho trovato poco o niente. Certo, indubbiamente è un’esperienza che può piacere e che è piaciuta, che quindi sicuramente piacerà ad altri. Oltre alla dubbia utilità di quest’attività, ci tengo a specificare altri punti. Qualcuno potrebbe offendersi leggendo “dubbia utilità”, potrebbe arrivare a credere che la pensi così perché io non mi sono applicata o non ho colto al meglio l’opportunità, il che è vero, ma non è estremamente rilevante. Infatti a novembre non c’è un particolare flusso turistico, almeno non dove sono stata. La maggior parte delle ore di lavoro le ho trascorse seduta su uno sgabello, appoggiata al bancone, a scrivere. Ma non generalizziamo: un pomeriggio ho fatto il check-in a circa cinquanta clienti, dalle tre alle dieci. Anche qui c’è da specificare che quel pomeriggio ero con un collega che insisteva per insegnare a noi stagiste il più possibile, con lo stesso receptionist che i primi giorni mi ha insegnato i check-in, a controllare la cassa, ad usare i bancomat, a rispondere ai clienti in modo soddisfacente. Gli altri receptionist con cui ho lavorato si sono limitati a lasciarci appese al telefono, alcuni neanche quello. Si occupavano dei check-in e dei check-out, di stampare fatture e di archiviarle, perfino di inserire dei fogli nei faldoni. È stato inevitabile chiedermi: perché accolgono stagisti se poi ci fanno fare le belle statuine? Ho fatto questa domanda alla collega con cui mi sono trovata meglio, e mi ha risposto che non sa perché l’hotel assuma tirocinanti e nemmeno se sia conveniente o meno – ma non credo. Essendo costretta a non fare assolutamente niente, mi sono trovata in difficoltà. Mi sono resa conto che dover portare a termine compiti fastidiosi o noiosi è preferibile dell’impossibilità di agire. L’ozio attuato per scelta è meraviglioso, ma può diventare irritante se imposto. Ho notato lo stato d’animo con cui il personale trattava i clienti o presenziava sul posto di lavoro: apatia, fastidio se arrivava qualcuno nel momento meno appropriato, cornette riattaccate in faccia ai clienti, incapacità di accontentare le loro richieste minime.

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Ho chiesto ad alcuni dipendenti se fossero soddisfatti della loro professione. C’è stato chi mi ha risposto che aveva il sogno di fare l’archeologa, ma, avendo frequentato l’istituto turistico e avendo bisogno di soldi per comprarsi una casa, si è dovuta accontentare di lavorare alla reception. Un altro mi ha raccontato che continua a lavorare in hotel dopo che un negozio di consulenza informatica che aveva appena aperto ha fallito. Ho sentito un terzo affermare che non vedeva l’ora di andarsene all’estero, mentre l’ultimo si trova al front-office perché ha buttato all’aria una promettente carriera calcistica per capricci personali. Sentire queste opinioni ha fatto sì che una depressione cosmica mi scivolasse addosso e che mi ci restasse per tutte le tre settimane. Nemmeno la gente che lavora qui è contenta, perché dovremmo esserlo noi? Né io né Sara siamo attratte da una simile professione, ma ’ambiente non ha favorito di certo la nostra predisposizione al mestiere. Il clima era pesante, quando non c’era un dipendente si parlava male di lui, i comportamenti non erano corretti anche se non mi sembra il caso di definire i dettagli, il personale era scadente: una stella in meno ci starebbe bene. Molti clienti, da quello che mi hanno raccontato, si lamentano della pulizia, dei servizi in generale e delle informazioni date alla reception. Il direttore tralascia ciò che più conta, per non parlare dell’indifferenza che ha dimostrato nei nostri confronti: non si è nemmeno presentato. Secondo la mia modesta opinione, la “bella impressione” deve partire dal basso, dalle cose banali. Sul piano materiale, inoltre, ci hanno dato una stanza sporca, con la doccia e la vasca malfunzionanti, sprovvista del necessario, che poi hanno aggiunto interrompendo il nostro tempo libero. Non voglio sembrare esigente, è semplicemente l’esempio più concreto che posso porre per supportare la mia teoria: gli ospiti erano insoddisfatti delle stanze; chiamavano, dunque, alla reception per avere più asciugamani, il phon (che dovrebbe essere in ogni stanza), per abbassare o alzare il riscaldamento. I pasti erano miseri. Sebbene Sara avesse telefonato prima del nostro arrivo per avvertire che entrambe siamo vegetariane, ciò è stato disatteso. Per alcuni giorni ci siamo limitate a togliere l’affettato dai panini, in altri ci siamo saziate con un pugnetto di insalata oppure abbiamo dovuto

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togliere cubetti di prosciutto dalla pasta o dal riso. Non ho mai avuto la pretesa che ci trattassero come turiste, ma sono sicura che un piatto di pasta in bianco avrebbero potuto fornirlo tranquillamente. Per di più, quando abbiamo ribadito che siamo vegetariane, ci hanno sgridate, cercando di farci cambiare idea: l’ignoranza è emersa dalle labbra di cuochi che dovrebbero saperne di più di alimentazione. In ogni caso, hanno ignorato la nostra informazione, continuando a propinarci pietanze a base di carne o di pesce. Un altro aspetto negativo è l’incoerenza dello staff: nelle camere erano posti dei fogli che raccomandavano ai clienti di non sprecare l’acqua in quanto la catena NH si definisce eco-sostenibile. Nonostante ciò, una quantità rilevante di cibo veniva buttata e centinaia di fogli al giorno cestinati anziché riciclati. Insomma, ho descritto delle piccolezze perché il punto saliente è che il lavoro non mi piace e che è pressoché inutile svolgere uno stage in questo periodo dell’anno e in questo hotel, visto che è normale che a novembre non ci sia molto da fare. Ovviamente non può andare bene a tutti e bisogna accontentarsi, ma credo che una scelta più accurata delle strutture adatte ad accogliere stagisti potrebbe migliorare le cose. Ringrazio umilmente per quest’opportunità di cui avrei fatto volentieri a meno e spero di non essere condannata per aver espresso il mio punto di vista, per quanto scomodo e poco condivisibile possa essere. Anzi credo di parlare a nome di tutti se dico che chiunque voglia condividere la propria esperienza è il benvenuto. Alessia Biral

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La mia esperienza a nord del Circolo Polare Artico

FINNSNES - NORVEGIA 69° PARALLELO Una nuova casa, un nuovo paese, una nuova famiglia, una nuova lingua, nuove amicizie e… in poche parole, una nuova vita! Intercultura mi ha dato la possibilità di costruirmi un pezzetto di vita totalmente mio. Sono partita per la Norvegia quasi due anni fa e, tuttora, un pezzettino della mia giornata lo dedico a pensare alla mia esperienza. Certo, prima di partire per un anno intero in un paese totalmente nuovo, un po’ di ansia c’era, ma… come diceva sempre mia madre, bisogna partire con “due sacchi”. Il primo pieno di tutta quella che era la mia vita qui, la scuola, i parenti, gli amici e quant’altro. E il secondo, completamente vuoto, pronto a ricevere ogni di tipo di emozione diversa, persone, luoghi ed esperienze! Credetemi, alla fine dell’anno, il secondo sacco non si poteva chiudere, tant’era pieno! Appena arrivata, mi sono messa da parte, ho cercato di annullarmi per capire una cultura diversa dalla mia. La Norvegia è un paese così vicino, eppure estremamente lontano nella mentalità e nei modi di essere della gente. A volte faticavo a capire il perché di certe cose, ma poi ho smesso di fare domande e mi sono immersa, senza troppi pregiudizi, nel paese che oggi è diventato la mia seconda patria! Abitavo al 69° parallelo nord! Più su del Circolo Polare Artico, a Finnsnes, una cittadina di poco più di 4000 abitanti. In inverno ho vissuto due mesi di buio, dove a illuminare erano la neve, l’aurora boreale e le candele, sempre accese in ogni casa. È stato l’inverno più intenso e caloroso della mia vita! Potrebbe sembrare un controsenso definirlo caloroso, quando c’erano solo -25°C a farmi compagnia, ma in ogni salotto, le famiglie si riunivano intorno al caminetto a fare giochi in tavola, a ridere, parlare e scherzare! E il Natale arriva come una ventata di vero e proprio calore, che spazza via ogni tipo di nostalgia, e rinforza ancora di più gli affetti. Poi, in estate, ci sono due mesi di luce! In piena notte, andavo a fare il bagno in mare, a scalare montagne e a godermi il sole di mezzanotte in cima a qualche vetta, con gli amici! La Norvegia è questo, è un insieme di mille paesaggi mozzafiato, è il luogo in cui la natura vuole, a tutti i costi, farti vedere quant’è bella, potente, ed estremamente coinvolgente! Farsi amici norvegesi non è stata forse la parte più facile, ma non bisogna assolutamente abbattersi e, alla fine, si creano legami così stretti che è difficile andarsene. Per non parlare poi di tutti quegli amici da ogni parte del mondo! Le mie due migliori amiche, Veronika dalla Germania e Anastasia dalla Russia. Legami che durano ancora oggi, ci sentiamo almeno una volta alla settimana. Così

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come il rapporto meraviglioso che si crea con la famiglia! La mia seconda mamma, la mia sorellina norvegese, i miei fratelli e il mio papà! Anche con loro il legame continua ed è indistruttibile! Ce ne sarebbero di esperienze da raccontare, ma non mi basterebbe una vita per dirle tutte! Intercultura è qualcosa di grande, che offre delle sensazioni incredibili che non si può capire se non le si prova sulla propria pelle! A volte, bisogna mettere le paure da parte e buttarsi ad occhi chiusi in nuove avventure! Dal Poz Marina (ex 5^Ls e volontaria di Intercultura)

Il centro locale di Intercultura Treviso vi invita alla riunione cittadina di presentazione dei programmi 2013-2014 che si terrà venerdì 26 ottobre alle ore 17:30 in Aula Cupola presso l’ITST Mazzotti. Per informazioni, www.intercultura.it, o contattare Roberto Facchin, Responsabile Programmi all’Estero: 329 3720296.

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RIFLESSIONI 2 Luglio 2012

Il punto non sta proprio nel vivere in mezzo, in mezzo ci stanno i litigi, gli arrivederci, le imprecazioni, i ritardi, le sigarette finite. Bisogna scegliere di stare o da una parte o dall’altra, o in alto o in basso, o a destra o a sinistra. E fare le scelte è probabilmente qualcosa che va oltre Dio, oltre l’amore, oltre tutto. Scegliere ci mette di fronte a noi stessi, alle nostre paure, ai nostri orgogli da difendere con le unghie. Scegliere ci rende amari e dolci, consapevoli e incoscienti, forti e deboli. E il punto sta proprio in quelli che sono i nostri punti deboli, nel riconoscerli e nell’accettarli. I veri punti deboli siamo noi stessi e quando risiedono in qualcun altro allora si trasforma tutto in una questione di principi, si trasforma tutto in amore. Amore incontrollato, irrazionale. Il nostro unico punto debole è il nostro amore, l’amore che lasciamo custodire non alla persona più giusta, ma a quella che riteniamo migliore. Tra gli altri punti. La scelta sta nel decidere di essere punti deboli, di avere punti deboli, o nell’essere una retta confusa tra altre infinite rette uguali. Valeria

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16 Novembre 2012

Cerchiamo di andare contro qualunque cosa, quando non abbiamo nemmeno la forza di affrontare noi stessi. Giovani dal coraggio spezzato e con la paura del futuro; incolpiamo gli altri di colpe che sono solo le nostre. Facciamo strada su raccomandazione, senza capire che è la strada che ci fa la formazione. Tutti bravi in discoteca, quando l’unica cosa da fare è alzarsi e ricostruire anziché limitarsi ad aggiustare. Crisi di valori. Valeria

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24 Novembre 2012

Sono finiti i tempi delle dolci speranze, dei sogni illimitati. Questo è il tempo di essere incazzati, è il tempo per lottare. Lottare per il nostro futuro, lottare per un lavoro, lottare per la nostra istruzione. È il tempo di noi giovani. È il tempo per farsi sentire, per urlare fino a perdere la voce. È tempo di scendere in piazza per il futuro che ci viene tolto, per il futuro che ci è stato rubato senza chiederci il permesso. È tempo di scendere in piazza per un lavoro troppo precario, per stipendi sempre più bassi a fronte di tasse sempre più alte. È tempo di scendere in piazza per dire che non ci sta bene, che voi adulti con la credenza di avere il mondo in tasca non ci state bene. È il tempo giusto per sentirsi parte di qualcosa, è il tempo che farà la differenza. È il tempo in cui noi dobbiamo fare la differenza. Valeria

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Z. Esserci sempre e troppo, pensare continuamente, riflettere, biasimare se stessi per gli errori altrui e incolpare gli altri per sbagli propri. Agire esageratamente o non a sufficienza. Insistere quando si dovrebbe mollare e mollare quando è troppo presto. Sbagliare.

Y. Per le cose a metà, io non ci sto. Non mi piace il 50 quando mi impegno per il 100. Non accetto l’indifferenza, se do qualcosa, piuttosto ricompensatemi col disprezzo. Io sono per le risate, le prese in giro, le battute. Io voglio le cattiverie seguite da uno “scherzavo”. Voglio gli abbracci, le epidermidi che entrano in contatto, i gesti segreti che nessuno intende. Voglio sentire i sogni sussurrati all’orecchio, aspetto le liti crudeli e le relative paci agognate. Voglio la dignità e l’orgoglio, niente zerbini: non ho bisogno di persone che non abbiano la P grande all’inizio, voglio che interrompano la routine con un “ci sono ancora”. E chiedo più di 100, è vero. E non so dire se ne valga la pena.

X. Aspetta il momento giusto, consigliano, e poi senti che l’unico modo perché le cose accadono è farle accadere, agire. Rifletti, pensa dieci cento mille volte prima di darti da fare, predicano, e poi arriva qualcuno che ti spiega l’importanza del seguire l’istinto. Sii sincera, una dura verità è migliore di una dolce bugia, ti insegnano fin da piccola, e poi ti fanno conoscere le bugie a fin di bene, che io definirei “bugie a fin di evitare che qualcuno si arrabbi con te”, visto che a fin di bene non si mente. Fai finta che non ti importi, non dare a vedere che soffri sennò si sente soddisfatto, suggeriscono gli amici. Sii te stessa, banalizza chiunque. E quindi che devo fare? Lo so che è impossibile abbinare ogni situazione che ci si trova ad affrontare ad un comportamento tra quelli soprascritti o tra i più usuali che si sentono in giro: ogni episodio è diverso, è personale. Ed è difficile. La verità è che spesso si aspetta quando si dovrebbe agire, ci si dà da fare quando non è ancora arrivato il momento che forse non si presenterà mai. Ci si arrovella il cervello per decidere quale potrebbe essere l’azione migliore mentre si dovrebbe soltanto lasciarsi andare, ci si abbandona all’irrazionalità quando la cosa migliore sarebbe riflettere. Si finge quando si ha l’occasione rara di mostrarsi per come si è realmente e si regalano verità che potrebbero tranquillamente essere taciute. Si sbaglia la maggior parte delle volte: adesso ho sbagliato a scrivere “sbaglia”, ma mi sembra il verbo che renda di più ciò che voglio esprimere. Insomma, dopo aver deciso di comportarsi in una

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determinata maniera, si pensa “avrei dovuto fare il contrario”. E le poche volte che si azzecca, non ci si fa caso, perché non si rimugina su ciò che è proceduto per il meglio, bensì ci si sofferma sull’eccellenza mancata. In quanto esseri umani pensanti, concludo, è impossibile avere delle risposte prima di esserci dati da soli quelle sbagliate, ed è inevitabile sentirsi inadeguati in determinate circostanze. Alessia Biral

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Ipocrisia compresa nel prezzo. Qui si annulla la spontaneità, la realtà è su misura. Ti vendono comfort, servizi, cibo e bevande, ma nessuno sa, nessuno capisce che la gentilezza dello staff non è inclusa nel prezzo. Le centinaia di euro per una notte qui non comprano la cortesia. E i receptionist non sono schiavi, si possono solo biasimare per aver scelto un lavoro discutibilmente appagante. Loro stanno qui, magari non fanno niente, ma ci sono momenti in cui sono costretti a farsi in quattro per accontentare il cliente. Sempre sorridendo, mai un cenno di stanchezza. E in pochi ringraziano. Mi sembra che il personale debba ingraziarsi i clienti per invogliarli a tornare qui, che ipocrisia. Sarà abilità nel vendersi, ma a me sembra solo finzione. Non sono fatta per queste cose. Sarà vizio, egoismo o che so io.

Nostalgia del mondo.

Dal portone d’ingresso vedo un tramonto, dura ormai da ore, sempre diverso, mutevole. C’è il cielo di fuoco e le nuvole bruciate, quelle più e quelle meno. L’arcobaleno dell’aria riflette altrettanti colori sullo specchio dell’acqua. La schiuma bianca delle onde mi viene incontro, mi chiama poi mi respinge. Vorrei stare lì, a fluttuare nel sublime. Ma sto rinchiusa in una prigione di lusso, confinata lontano dal cielo e dal mare, dalla natura, dalla vita. Dentro l’hotel, dietro il bancone, sotto un velo di finzione. -Sorridi, stai in piedi. Non sanno che io sono nata pigra, che sono nata sincera. Che non so ringraziare chi è sgarbato, che, se non ho nulla da fare, siedo, che gli altri non li ho mai saputi accontentare. Non rido per dar soddisfazione a loro, rido perché sono allegra. Non sto ore vestita bene per la “bella impressione”, voglio indossare la tuta e sentirmi libera. Voglio essere essenza, e non apparenza. Voglio sentirmi io, e vera, come le nuvole nel fuoco acceso, rovente, che nessuno è più se stesso di loro.

Alessia Biral

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Silenzio Il silenzio è d’oro. Il silenzio è molto spesso la cosa giusta. Il silenzio è anche la cosa sbagliata. È tutto e niente, il silenzio. Il silenzio, se inizia può diventare eterno come il credo. Un credo che come il silenzio può essere giusto o sbagliato. Ma se si tace per sempre, il credo diventa dogma, anche se di dogmatico non ha nulla. È facile chiudere la bocca, far finta di perdere la voce, dimenticare le parole e rendere incomprensibile la tua stessa lingua. È altrettanto facile, poi, parlare troppo. Dire cose insensate nei momenti più inopportuni, momenti quando il silenzio sarebbe la cosa perfetta da incastrare in una dimensione ben precisa, fatto apposta per dipingerne i contorni. Quanto possono diventare sfumati i contorni… realizzati per allontanare chiunque dalla realtà. Contorni contorti, bizzarri, ambigui, asfissianti. All’improvviso ti ritrovi senza respiro e non riesci a trovare un perché. Quello è il nulla. È l’esatto momento in cui le parole si disperdono e aprendo la bocca esce il nulla. Perché la bocca non sa parlare da sola. La bocca parla con la voce dell’anima…. finché l’anima non si spegne, impregnata di menzogne, di invidia o semplicemente di apatia. L’ideale sarebbe ascoltare ad occhi chiusi l’anima. Quello che essa dice è quasi sempre la cosa migliore da ricondurre nella realtà. Se l’anima tace, è perché non ha nulla da dire. Quando, invece, l’anima urla in modo straziante e nulla la asseconda, il silenzio piange, diventa capace di chiudere tutte le porte, passando liquido nei buchi delle serrature. L’anima allora cosa fa? L’anima resta a marcire piano. A putrefarsi diventando polvere. In fin dei conti, il silenzio è fatto per odiare, per perdonare, per amare, per giudicare, per cantare gioia o per piangere tristezza. Il silenzio è tutto e niente, eternamente vincolato da luoghi e tempi, sbagliati o meno. Macrina

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Diversità come valore aggiunto La diversità: mi chiedo se al giorno d’oggi sia ancora un qualcosa da tollerare o piuttosto da tutelare. Da sempre suscita in noi emozioni contrastanti, perché se da una parte vi è il timore, dall’altra c’è curiosità. Due reazioni normali e lecite poiché da sempre l’uomo reagisce così all’ignoto. C’è chi ritiene la diversità una necessità inevitabile, una ricchezza per la crescita e il progresso, chi invece, intimorito, se ne sta alla larga, in modo da rendere il fenomeno più marginale possibile nella propria esistenza. Comprensione, tolleranza, solidarietà dovrebbero essere alla base di ogni rapporto, soprattutto quando si ha a che fare con lo sconosciuto. Chi è il diverso nella nostra società? Chiunque non segua la massa. L’omosessuale, il portatore di handicap, o ancora, lo straniero. La diversità è alla base del progresso e sono fermamente convinta che vada tutelata, poiché da essa noi traiamo la nostra identità, andando quindi contro ad una società di omologati. Non tutti la pensano così, quindi la diversità ci si fa prendere dalla paura, dai pregiudizi, dall’ignoranza, e da convenzioni sociali mai messe in discussione. Ad esempio, lo straniero è l’espressione di tutte le paure sopracitate. Colui che ha una lingua, una cultura e una religione diversa. Perché solo ciò che è simile a noi è rassicurante. Ma questo è un atteggiamento pericoloso. Il passato trabocca di intolleranze nei confronti dei diversi, che fossero infedeli, neri, donne, immigrati. La storia, insegna che l’intolleranza finisce sempre per degenerare, diventa violenza, e la violenza, in qualsiasi forma essa si presenti non deve essere tollerata. Ognuno di noi dovrebbe lavorare sull’atteggiamento che assume nei confronti di ciò che non conosciamo, che non ci somiglia, perché non sempre è cattivo, sbagliato. Riconosciamo la diversità come un valore aggiunto che può solo arricchire, ma ricordiamo che non è nemmeno un atteggiamento di tolleranza quello che, per lo meno in nome del progresso, ci piace tanto. Xhilda Barreti

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STEVE JOBS <Stay hungry. Stay foolish.> Oggi alla parola “giovani” sempre più vengono affiancati appellativi quali scansafatiche, inconcludenti, incapaci. E allora: “Siate affamati. Siate folli”! Un richiamo che oggi dovrebbe essere ancora più sentito di quanto non lo fosse allora, quando Steve Jobs concludeva così il suo celebre discorso davanti ai laureandi di Standford nel 2005. Invitava a fare come lui, a non arrendersi mai, perché per quanto un percorso sia pieno di ostacoli, per i quali si cade, l’importante sta nel rialzarsi, sempre. A volte, non vi è cosa più bella che accettare una nuova sfida anche se questo implica il dover ricominciare da zero. E ancora, da quella frase, ricaverei un altro invito. Un invito per chi la pensa diversamente, per chi ha una nuova visione delle cose, per chi ha qualcosa da dare al mondo, al progresso. E perché no, un invito a non smettere mai di sognare. Personalmente credo che quest’uomo sia un esempio da seguire: ha saputo guardare oltre, ha inseguito i propri sogni, perseguito i suoi obiettivi, e ce l’ha fatta. La prova concreta è che viviamo nella società (tecnologica) del futuro che Jobs aveva immaginato qualche decennio fa. Xhilda Barreti

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C R EAT I V I TA’ Amazing Florence Firenze è l’italiano che urla che è felice di esistere, è l’arte che emerge dai libri e dalle fotografie, è la storia che si sogna di vivere. Firenze è l’incrocio di strade famose, è il muro della Galleria degli Uffizi, è la scultura di bronzo nella piazza, è il marmo toscano, bianco e verde, nelle chiese, è il Ponte Vecchio che unisce ogni cosa, è la cupola del Brunelleschi che domina tutto. Firenze è l’aria che respiri e ti fa sentire vivo, è a luce del sole che riscalda la pelle, è l’alberello che offre ombra al cimitero. Firenze è morte e rinascita, è immortalità, è mutevole. Firenze è meraviglia negli occhi di chi guarda, melodia nei timpani di chi ascolta, è gioia nelle anime felici. Firenze è in un angolo del cuore di tutti, è in un segreto da scoprire, è in una verità da annunciare. Firenze è un frammento di mondo che racchiude il mondo, è una possibilità e una vittoria, è un’offerta da cogliere, è un universo da donare a se stessi. Firenze è poesia e musica e quadro, è la bellezza nascosta nella semplicità, è straordinarietà in ciò che di banale c’è. È il fantastico che si manifesta, la sorpresa della grandezza che emerge, l’impressionante apparizione dell’uomo che dà il meglio di sé. Firenze è. Alessia Biral

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Sei un uragano Non posso dire di no, me l’avevano detto che eri un uragano. Mi era parso un appellativo insolito, ma m’erano venute in mente solo immagini belle… Sì, insomma, dovevi essere una forza della natura se così t’avevano immaginato e impresso nel mio cuore. Poi ti ho conosciuto, vissuto, amato e perduto. E t’ho capito, sai. Sei un uragano: dove passi non rimane più niente se non macerie. Per l’appunto. Xhilda Barreti

Momento diabete Che senso ha votare sì per dire no al nucleare, quando tu mi sei già scoppiato nel cuore e m’hai inquinato l’anima? Xhilda Barreti

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A RT E E CULT URA Penelope alla guerra. Il punto alla fine del titolo non è una scelta casuale, no. Questo perché Oriana Fallaci non lasciava le cose a metà, le finiva, le completava. E questa storia non è diversa: non lascia al lettore la libertà di figurarsi “come sarebbe potuto andare”, bensì lo definisce lei stessa. Penelope alla guerra è uno dei primi romanzi scritti da Oriana Fallaci, scrittrice che si è distinta tra le tante del ventesimo secolo e degli inizi del ventunesimo, ma prima di questo una donna coraggiosa e impegnata nella politica e nella socialità. Pubblicato per la prima volta, nel 1962, da Rizzoli, in molti credono che sia in parte un’autobiografia dell’autrice. In realtà, come ha dichiarato in un’intervista dello stesso anno, la protagonista le assomiglia e allo stesso tempo si distanzia da lei; afferma, infatti, che appartiene un po’ ad ogni personaggio, nonostante siano molto diversi tra loro. La protagonista, Giovanna, decide di farsi chiamare Giò, sperando che il nome sia confuso con quello di un uomo, consapevole che la vita sia più facile per il sesso maschile. La ventiseienne scrittrice romana viene mandata dal commendatore a New York per trovare un nuovo soggetto da sfruttare come protagonista di una sceneggiatura. Nella Grande Mela la attende qualcuno che non avrebbe mai pensato di incontrare, qualcuno che credeva le avesse cambiato la vita. Evidentemen-

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te, però, non abbastanza. Giò, innamorata, cercherà, dunque, di intrecciare una relazione con quest’uomo, senza sapere dell’esistenza di un segreto non poco rilevante che complica terribilmente la situazione e che, una volta confessato, cambierà ogni cosa. Ad opporsi a questo rapporto, che va oltre all’amicizia, ci sono Martine, amica e coinquilina di Giò, e Bill, un signore dal carattere altezzoso che la protagonista disprezza, essendone attratta allo stesso tempo. Ma l’intreccio va oltre all’impossibilità di instaurare una vera relazione, infatti, insieme all’uomo che ama, Giò scoprirà poeticamente i lati migliori di New York e ascolterà i racconti sugli aspetti terrificanti che si annidano in città. Non solo: proverà ad interpretare la sua stessa psicologia complicata, intento in cui riusciranno meglio le persone che la circondano, e cercherà di darsi risposte a domande che non ha il coraggio di porre. Accompagnata dalle sue sofferenze onnipresenti e combattuta, Giò dovrà prendere una decisione, che porterà a risvolti inaspettati. In questo romanzo, si vede la protagonista impegnata a rapportarsi con l’amore verso se stessa e per gli altri, con l’orgoglio personale e la dignità che rischia di rimanere schiacciata da una pazienza che sembra troppa pur rivelandosi insufficiente. Oriana Fallaci arricchisce la storia con perle di saggezza inaudite che spingono il lettore ad interrompere continuamente la narrazione con consigli indirizzati a Giò e riflessioni proprie che lo spingono a chiedersi “Cosa farei io?”. Probabilmente, l’unico modo per darsi una risposta è leggere il libro, senza aspettarsi troppo, perché saprà penetrare dentro di voi con schiettezza e con la voglia di rimanere. Con questa recensione vorrei invogliarvi a leggere il romanzo, cari lettori di T-Paper, ma forse non sono abbastanza brava a trasmettervi le emozioni che esso stesso ha trasmesso a me, come ogni libro della Fallaci. In ogni caso, spero che lo leggiate ugualmente, con uno stato d’animo propenso a farvi conquistare. Un ulteriore consiglio: se vi incuriosisce almeno un po’, cercate il suo nome su Google. Alessia Biral

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Ragazzo Da Parete. “Ragazzo Da Parete” è un romanzo che tutti dovrebbe leggere almeno una volta nella vita. Semplice, profondo e decisamente inusuale, cattura il lettore nella rete di pensieri spezzati del giovane Charlie, il protagonista. Ha sedici anni ed è caratterizzato da un’innocenza e una remissività tali da rendergli difficili i rapporti con i suoi coetanei. Nonostante dia l’idea di un ragazzo molto ingenuo, è dotato di un’intelligenza ed una sensibilità molto particolari, e proprio questo gli permetterà di instaurare un rapporto di amicizia con Sam e Patrick, una ragazza ed un ragazzo – fratellastri – di un paio d’anni più grandi di lui. I due lo introducono nel mondo, cercando di svegliarlo dal torpore nel quale è immerso, facendogli apprezzare la vita ed ascoltando musica, fumando ed approcciandosi alle altre persone. Ma Charlie mantiene quella goffaggine nei rapporti, quella sorta di stranezza che lo caratterizza. È così inadatto che si fa dire da Sam come avrebbe dovuto trattare una ragazza e segue le sue istruzioni alla lettera, incapace di una volontà personale. Finirà per innamorarsi dell’amica, che lo rifiuterà gentilmente essendo più grande, spiegandogli che non dovrebbe pensare a lei in quel modo. Dopo il diploma di tutti i suoi amici, Charlie si ritrova di nuovo nella solitudine con il suo difficile rapporto con una famiglia numerosa dove tutti sono dotati di forti personalità e lui si ritrova chiuso ad ascoltare nel suo silenzio. Gli viene più volte ripetuto di essere uno strambo e lui risponde sempre che lo sa, e sta cercando di non esserlo. Solo alla fine, dopo un incontro con Sam, quando i due stavano quasi per fare l’amore, si scopre cosa davvero affliggesse Charlie. Il ragazzo andava spesso da uno psicologo anche perché soffriva di un senso di colpa nei confronti della zia, morta in un incidente automobilistico, mentre andava a prendergli il regalo di compleanno. Si sa anche che Charlie era molto legato alla donna, poiché era l’unica persona che gli avesse mai detto di essere speciale. Ma si scoprirà ben altro: la parente lo aveva molestato sessualmente e Charlie, da bambino, aveva semplicemente rimosso l’orrendo ricordo, che è stato poi compensato con attacchi di panico ed atteggiamenti quasi da infante mantenuti nel tempo. La profondità e la malinconica dolcezza di questo romanzo lo rendono una meraviglia letteraria di assoluta particolarità. Accompagnata da brillanti citazioni e con “Asleep” dei The Smiths di sottofondo, l’atmosfera del racconto si mantiene su una dolce tristezza che trascina nel mondo degli adolescenti, dei loro problemi e della complessità dei rapporti sociali e dell’essere diversi. Alla scoperta di se stessi e dei propri segreti, questo libro diventa quindi non solo il diario di Charlie, ma anche il nostro, un migliore amico che estrae da noi verità che tenevamo nascoste. È amabile

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scorrere le pagine tra pezzi del Rocky Horror Picture Show e relazioni di ogni tipo, filtrate dal cervello acutissimo del protagonista che in realtà di opinioni personali, senza accorgersene, ne ha, eccome! È impossibile non amare la lettura di una storia così delicata e che porta il lettore ad un’intensa riflessione. Scritto nel 1994 da Stephen Cboskij, è una storia da leggere in qualsiasi momento in cui abbiamo bisogno di un amico che ci faccia compagnia, anche se questo “amico” lo teniamo in mano ed è di carta. Ho amato la lettura di questo romanzo come poche volte in vita mia e, se avessi tempo, lo rileggere altre mille volte. Elisa Spigariol

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SPORT Paraolimpiadi Secondo la definizione, eroe è colui che compie uno straordinario e generoso atto di coraggio, che comporti o possa comportare il consapevole sacrificio di sé stesso, allo scopo di proteggere il bene altrui o comune. Eroe, non è solo questo… è sfidare le leggi della natura pur di arrivare a un obiettivo, è mettersi in gioco indipendentemente dalle proprie possibilità, è rialzarsi da una dura sconfitta, è trovare, nonostante tutto, un senso alla propria vita. Così potremmo definire gli atleti delle Paraolimpiadi, coloro nati con disabilità o coinvolti in qualche incidente che li ha cambiati per sempre, ma che con la forza e la determinazione hanno saputo trovare un senso alla loro vita così ingiusta. Lo hanno saputo fare Alex Zanardi, Cecilia Camellini e Oscar Pistorius, solo per citarne alcuni; storie diverse avvolte da un’unica passione: lo sport. Alex Zanardi è stato un pilota di Formula 1. Un grave incidente l’ha portato all’amputazione di entrambe le gambe sopra il ginocchio. Nel 2012 a Londra vince l’oro nella competizione di handbike. Incredibile è la sua ripresa dopo l’incidente, non ha mai perso il sorriso e la voglia di ridere, riuscendo a scherzare perfino su ciò che gli era successo. In un’intervista ha detto: “La vita è un percorso lungo, dal quale s’impara sempre qualche cosa, eppure siamo consapevoli che moriremo ignoranti perché non si può imparare tutto. Quanto mi è accaduto mi ha arricchito di esperienze che altrimenti avrei completamente ignorato. Certo ci sono state molte difficoltà, ma anche tante soddisfazioni e alla fine non ho alcun rimpianto per quello che mi è accaduto”. “L’importante è che tu sia consapevole che il giorno seguente hai la possibilità di fare qualche cosa in più, di migliorarti. Sempre.” Ciò che più colpisce è il fatto che dieci anni dopo l’incidente, Alex dica: quel giorno fu la mia fortuna! Cecilia Camellini nuotatrice cieca dalla nascita, che, ad appena 20 anni, ha portato a casa da Londra due ori, due record mondiali e un bronzo. Il nuoto la rilassa e dentro l’acqua si sente protetta. Ma forse il più conosciuto tra gli atleti di Londra 2012 è Oscar Pistorius, vincitore dei 400 m, che ha mostrato il proprio rifiuto riguardo la differenza tra un atleta “normale” e uno sportivo che ha subito menomazioni o altro, dimostrazione che nessuno è diverso da nessuno. Polemiche furono scatenate proprio dal fatto che egli riuscì a partecipare alle ultime Olimpiadi di Londra gareggiando contro atleti normodotati perché utilizzava protesi che, secondo alcuni, avrebbero determinato

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prestazioni migliori rispetto alle gambe umane. Queste sono solo alcune delle storie di tutti gli atleti che cercano di riscattarsi, utilizzando lo sport come strumento che offre la possibilità di dimostrare quanto valgano. Forse alcune persone potrebbero interpretare le Paraolimpiadi come un evento volto a portare tristezza ed esaltare una finta pietà, proprio come le ha descritte Paolo Villaggio, scrittore attore e conduttore televisivo. Bisognerebbe capire che il messaggio delle Paraolimpiadi è proprio quello di non scoraggiarsi mai, qualunque cosa capiti; gli atleti paraolimpionici vogliono trasformare la loro lotta in un’occasione per vincere la sfida più grande, quella con se stessi, e il modo migliore per farlo è quello di mettersi in gioco. “I veri eroi sono quelli che ogni giorno si alzano dal letto e affrontano la vita anche se gli hanno rubato i sogni e il futuro”. (Fabio Volo) Elisa Savietto

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LA REDAZIONE Macrina BareaCerap Xhilda Barreti Alessia Biral Valeria Cicatiello Veronica Porcellato Elisa Savietto Elisa Spigariol Elda Vasili

Collaboratori esterni:

Carlotta Ferro - Classe 4^ Cs Dal Poz Marina (ex 5^Ls e volontaria di Intercultura)

FOTOGRAFIE

Macrina Barea Cerap Alessia Biral Valeria Cicatiello Prof.ssa Sandra Antonietti

GRAFICA

Prof.ssa Sandra Antonietti Valeria Cicatiello

CAPOREDATTORI

Prof.ssa Sandra Antonietti Prof.ssa Paola Brunetta

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