Istituto Tecnico per il Turismo “G. Mazzotti�
T-PAPER Anno 2017
Everything that you think Something that we need
Indice INDICE
pag. 2 – 3
EDITORIALE pag. 4 ATTUALITÀ Presidenziali U.S.A. 2016 pag.
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Biografia di H. Clinton pag.
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Biografia di D. Trump pag.
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I programmi elettorali dei candidati
pag.
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Differenza tra i due candidati pag.
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Prime reazioni internazionali all’elezione di Trump
pag.
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Basta un “NO” pag.
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RIFLESSIONI Lettera al Presidente Donald Junior Trump
pag.
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Come ho vissuto la scuola da studente
pag.
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NEWS DALL’ISTITUTO Pi greco: viaggio San Francisco - Siracusa
pag. 15
1095 giorni pag. 16
ANGOLO SCRITTURA Alessia Rossetto: un “Talento per il futuro”!
pag. 18
Zaccaria pag. 20 Ammirazione allo stato puro pag. 34 Viaggio “senza ritorno” pag. 37
In molti si chiederanno: Perché T. Paper? T.Paper significa tutto e niente, è la sigla della tipsy, train, true, toffee, theocratic, terrible, tourism, toilet, teens, tedious, team, tea, taste, target, tank, talent, take-off, table, taboo, tac- au-tac, tacit, thirsty, thrill, tired, toasted, tod, toff, tollol, tomato, tool, tonic, tone, toneless, topic, toxic, ecc ... ..ecc……………
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EDITORIALE PER COMINCIARE… CERCANDO DI NON ESSERE BANALI
Caro Giornalino d’Istituto, come scrivere il tuo editoriale senza sfociare nella banalità? Difficile. Tutto quello che ci sarebbe da dire, è già stato scritto. Le solite frasi circostanziali, come “scrivere è bello” e “leggere apre la mente”, sono già state utilizzate troppe volte. Ma quali sono le alternative? Nessuno ci ha mai pensato, la parte più complessa è sempre questa: scrivere un’introduzione in grado di riassumere adeguatamente il tuo contenuto. In precedenza, sono state date delle opinioni su ciò che veniva scritto, sono state spiegate le funzioni della Redazione, eccetera eccetera… Che NOIA!! Perché non lasciare, invece, che siano i lettori a farsi un’idea, senza anteporre dei filtri o del-le chiavi di lettura? Passiamo il turno, divertitevi! La Redazione
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AT TUA L I TA’ PRESIDENZIALI U.S.A. 2016 Si sono concluse le elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’ America, il candidato del Partito Democratico era Hillary Clinton, mentre di quello Repubblicano era Donald Trump. I protagonisti si sono contraddistinti per le radicali differenze sia nel programma politico che nello stile. Hillary Clinton, con una lunga carriera politica alle spalle, si è proposta come una moderata d’esperienza, mentre Donald Trump è un imprenditore senza una diretta esperienza diplomatica e politica. “Siamo qui per portare avanti la causa delle donne e per portare avanti la causa della democrazia e rendere assolutamente chiaro che le due sono inseparabili” (Hillary Clinton) “Cerco di imparare dal passato, ma pianifico sempre il futuro, concentrandomi esclusivamente sul presente. Ecco dove sta il divertimento.” (Donald Trump)
BREVE BIOGRAFIA DI H. CLINTON Hillary Diane Rodham è nata a Chicago ed è primogenita di tre figli. Il padre, figlio d’immigrati inglesi, era un dirigente in Pennsylvania, mentre la madre era una casalinga. Nel 1965 entrò al Wellesley College e partecipò attivamente alla politica; fu qui che conobbe Martin Luther King. Il suo orientamento politico divenne molto più liberale, entrando a far parte del Partito Democratico, ma preferisce definirsi progressista. Nel 1969 si laureò in Scienze politiche e lavorò con i bambini emarginati. Nel 1971 cominciò a frequentare Bill Clinton, anch’egli studente della Yale Law School e nel 1975 Hillary e Bill si sposarono. Fu first lady nei due mandati presidenziali del marito e si candidò nel 2000 alle elezioni del Senato degli Stati Uniti come rappresentante dello Stato di New York: prima first lady a candidarsi per una carica elettiva. Nel 2008 si candidò alle Primarie, ma fu sconfitta da Barack Obama che le offrì il ruolo di Segretario di Stato, carica che conservò sino alla fine del primo mandato di Obama. Nonostante le inimicizie che si è creata durante la sua vita politica, nel 2016 ottenne la candidatura alle elezioni del 2016 da cui è uscita sconfitta.
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BREVE BIOGRAFIA DI D. TRUMP Donald Trump è ultimogenito di cinque figli del facoltoso investitore immobiliare di New York di origine tedesca Fred Trump e di madre scozzese. Seguendo le orme del padre, ha intrapreso una carriera nel medesimo settore. Nato il 14 giugno 1946, nel Queens, ha frequentato l’università e nello stesso tempo lavorava nell’azienda paterna, la “Elizabeth Trump & Son”, di cui divenne socio nel 1968 dopo essersi laureato e tre anni dopo ne prese le redini. Famoso per le sue strategie economiche aggressive, per il suo stile di vita e i suoi modi diretti, ha raggiunto la massima celebrità grazie alla produzione e conduzione di programmi televisivi. Nel 2000 ha concorso alle Primarie presidenziali senza successo, quindi aderisce dapprima al Partito Democratico e poi al Partito Repubblicano. Nel 2016 è diventato il candidato dei Repubblicani per le presidenziali dopo aver vinto le Primarie. La sua campagna elettorale è stata svolta su posizioni estreme e conservatrici. Tra le sue dichiarazioni si ricordano le seguenti: «Chi possiede armi potrebbe fermare Hil-lary Clinton» (agosto 2016); “Muro al confine con il Messico e via 2 o 3 milioni di clandestini” (novembre 2016). L’8 novembre 2016 è stato eletto Presidente degli U.S.A nonostante le previsioni dessero favorita Hillary Clinton. Il XLV Presidente degli U.S.A. si è insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017.
I PROGRAMMI ELETTOTALI DEI CANDIDATI H. Clinton: • • • •
uguaglianza sociale; parità dei diritti delle donne di colore; investimenti in infrastrutture, energia pulita, ricerca scientifica; agevolazioni per i piccoli imprenditori attraverso la semplificazione della burocrazia e delle modalità di accesso ai capitali; • una riforma fiscale che stimoli gli investimenti in America. • libertà delle nozze gay nel rispetto dei diritti umani. • sviluppo delle energie rinnovabili .
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costruire un muro ai confini con il Messico deportare 2 milioni di immigrati illegali punire con 5 anni di carcere chi entra illegalmente negli Stati Uniti rompere diversi accordi commerciali e trattati di scambio internazionale dichiarare guerra commerciale alla Cina, accusata di concorrenza sleale nei confronti delle aziende americane abolire l’Obamacare, la riforma sanitaria istituita da Obama approvare un decreto fiscale per tagliare le tasse della classe media del 35% eliminare il diritto di cittadinanza per nascita collocare gli statunitensi ai posti di comando crescita del PIL, aumento posti di lavoro e salari per i lavoratori smantellamento dell’ EPA (Environmental Protection Agency) che si occupa della tutela dell’ambiente e dello sviluppo delle energie rinnovabili. ricorrere alle fonti fossili quali il petrolio per lo sviluppo dell’ industria e dell’ economia del paese allentare le tensioni con la Russia, trovando interessi comuni nonostante le divergenze far pagare di più gli alleati Nato per la difesa scongiurare ogni possibilità che l’Iran avrà mai il nucleare mandare truppe all’estero solo se “assolutamente necessario” sconfiggere l’Isis una volta per tutte idee protezionistiche.
DIFFERENZA TRA I DUE CANDIDATI In economia, Donald Trump ha criticato la fuga verso l’estero delle attività imprenditoriali e la conseguente perdita dei posti di lavoro. Trump ha ragione, sfida che tutti i paesi occidentali devono raccogliere. Come farlo? Secondo il nuovo Presidente americano bisogna ulteriormente liberalizzare le imprese per dare loro più margine di manovra e ridurre la loro tassazione per evitare che vadano a produrre altro ve. Trump vorrebbe accentuare la liberalizzazione economica cominciata negli anni Ottanta. Per l’ avversario politico democratico le priorità economiche sono altre. La Clinton avrebbe volu to aumentare le tasse per i più ricchi (imprese e privati) per far calare quelle dei più poveri e delle
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piccole e medie imprese, restituendo slancio all’iniziativa individuale e all’investimento collettivo, fonti di nuova ricchezza. Per quanto riguarda le alleanze, Trump ha resuscitato l’isolazionismo, corrente rispolverata del conservatorismo americano. Per il Presidente bisogna modificare l’alleanza NATO: tutti gli Stati dovrebbero contribuire e pagare una giusta quota. Trump ragiona come un imprenditore che rifiuta l’idea che qualcuno possa godere dei benefici senza aver parteci-pato agli investimenti. Hillary Clinton, dal canto suo, ha insistito sui vantaggi che gli Stati Uniti traggono dalle loro alleanze, che hanno permesso di imporre sanzioni economiche all’Iran ed evitare che avesse accesso all’arma atomica senza dover sparare nemmeno un colpo.
PRIME REAZIONI INTERNAZIONALI ALL’ELEZIONE DI TRUMP Il Messico si è posto contrariato al pagamento del muro che intende costruire il nuovo Presidente d’ America, tanto che il principale esponente del Partito d’ Azione messicano lo definisce “un uomo d’affari mediocre che non capisce la differenza fra condurre un’impresa e governare un Paese come gli Stati Uniti”. Il presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, ribadisce le “origini comuni” dovute agli immigrati europei in Usa e l’aiuto Usa per costruire l’Ue ed afferma che con Donald Trump presidente “sicuramente la relazione transatlantica diventerà più difficile”. FRANCIA. “Dopo Brexit, dopo l’elezione di Trump, l’Europa non si deve piegare, deve essere più solidale, più attiva e più offensiva. Non si deve abbassare la testa, non ci si deve chiudere su noi stessi. “In questo mondo di incertezze la Francia e l’Europa hanno oggi il compito di rassicurare”: lo ha detto il ministro degli Esteri francese. GERMANIA. “Germania e gli Usa sono legati da “valori” comuni e la Germania offre a Trump una “stretta collaborazione”: lo ha detto a Berlino la cancelliera Angela Merkel congratulandosi per la sua elezione. ISRAELE. Donald Trump “è un amico sincero dello stato di Israele. Agiremo insieme per portare avanti la sicurezza, la stabilità e la pace nella nostra regione”. GRAN BRETAGNA. Gran Bretagna e Stati Uniti rimarranno “partner stretti e vicini”. Elena Martinelli
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BASTA UN “NO” Il 4 dicembre 2016 gli Italiani hanno espresso la propria opinione al Referendum confermativo che ha sancito, si spera una volta per tutte, uno dei pilastri sui quali si fonda la nostra Repubblica: il popolo è sovrano. Così si è concluso l’ennesimo tentativo di Matteo Renzi di incentrare il potere nelle proprie mani e di privare gli Italiani del loro più importante diritto: la libertà. Tentativo fallito. La Costituzione ci garantisce dei diritti e, sebbene l’Italia sia un Paese in apparenza costituito da cialtroni ignoranti e approfittatori, nessuno mai acconsentirebbe a farseli portare via. Contando sul fatto di poterci manipolare, l’ormai ex capo del governo Matteo Renzi ha tirato fuori tutte le sue doti da venditore di pentole, per convincerci a dire “sì” ad un quesito definito più volte fuorviante e ingannevole, che aveva l’aria di volerci condurre ad una nuova dittatura. Per fare un esempio, con la frase “volevo cancellare le troppe poltrone della politica italiana” (riferendosi a quelle del Senato, del Cnel e delle Province) nel suo discorso d’addio, sembrava che volesse camuffare un “volevo governare da solo” molto più angosciante! Infatti, in molti abbiamo subito pensato al lato oscuro della faccenda. Meno parlamentari, può significare meno tasse, ma significa anche meno voce in capitolo e il rallentamento dell’iter legislativo. Coloro i quali lavoravano al Cnel dove andranno a finire? E abolire le Province non significa cancellare una delle autonomie locali più vicine ai cittadini? Nonostante da bravo incantatore di serpenti ci volesse far credere che avremmo risparmiato tempo e denaro, la ragione ha predominato e la stragrande maggioranza dei cittadini si è accorta di come la vittoria del sì (o meglio di Renzi) ci avrebbe tagliato fuori e si è recata alle urne, per rivendicare i propri diritti e salvare quella Carta tanto agognata. Diceva, inoltre, durante la campagna elettorale, e lo ha felicemente ribadito nel suo discorso di commiato, che all’Italia serviva un cambiamento e che quello era il momento giusto. Non ha potuto fare a meno di sottolineare, dicendo “Auf Wiedersehen”, che siamo stati noi a fare retromarcia.
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Ci si può arrischiare a cambiare la Costituzione (non una fonte qualsiasi), senza la certezza di cambiare in meglio? Stava per andare in fumo il lavoro di persone molto più consapevoli di chiunque altro riguardo a cosa significasse essere schiacciati da un regime autocratico e vedere le proprie libertà sparire. Ma questo era solo un esempio… ci sono ben altri punti del quesito, non molto chiari, che hanno avuto una più che meritata confutazione ai tempi della campagna elettorale. Di come è andata, si può essere soddisfatti. Sebbene non si possa essere sicuri di ciò che accadrà, ieri l’Italia ed i suoi cittadini hanno ottenuto una vittoria pari a quella del ’46: abbiamo dimostrato che non servono rivoluzioni o scioperi per farsi ascoltare; abbiamo ribadito chi è il vero sovrano; abbiamo fatto vincere la democrazia. Andrea Elisa Gaion
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R I FL E S S I O N I Lettera al Presidente Donald Junior Trump
Spettabilissimo Presidente D. Trump, rivolgo a Lei le mie sincere congratulazioni per la sua elezione alla Casa Bianca, una ca-rica di non poco conto, a mio parere, che ricoprirà ufficialmente a partire dal 20 gennaio 2017. Si tratta di una responsabilità estremamente rilevante che richiede di rappresentare lo stato americano nella sua integrità. I mass-media hanno permesso a tutto il mondo di seguire gli sviluppi delle vicende legate alle elezioni, ma soprattutto i social network ormai così usati, hanno permesso di diffondere le primissime impressioni, sentimenti ed opinioni non solo ad artisti, musicisti, vip, ma anche a cittadini comuni. Con la propaganda politico-mediatica, però, si sono diffuse a macchia d’olio delle idee piuttosto contrastanti sulla Sua persona. Alcuni La vedono come colui che salverà l’America, altri come un dittatore. Erano anni che un neo-presidente americano, democraticamente eletto, non avesse suscitato nella pubblica opinione reazioni così opposte ed esplicite quali, ad esempio, rifiutare l’invito di presenziare al Suo primo giorno da Presidente. Sono evidenti le preoccupazioni nel mondo per ciò che sarà il domani degli Stati Uniti D’America, simbolo di libertà individuale per antonomasia, dove il culto del “self made man” la rende appetibile meta di immigrazione dalla fine del XIX secolo, il luogo in cui tutti ricercano uno stile di vita all’insegna dei propri sogni. Ed ecco, desidererei anche io, sebbene cittadina italiana che aspira al sogno americano, avere voce in capitolo ed esprimermi su alcune questioni che ritengo più rilevanti, allo scopo di ottenere eventuali delucidazioni. Premetto che in quanto cittadina e DONNA sono rimasta veramente delusa e amareggiata dal linguaggio con cui ha avuto l’accortezza di offendere deliberatamente il genere femminile, considerandolo “inferiore”. Non avrebbe dovuto pronunciarsi e, successivamente, lavarsene le mani in maniera spudorata, scusandosi e banalizzando quanto da Lei detto. Non credo sia un comportamento
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che si addica ad una persona rispettabile. Sorvolando lo spiacevole “incidente” vorrei proseguire, nel rispetto della mia libertà di espressione. Lo slogan che ha diffuso durante la sua campagna elettorale è stato “Make America Great Again”. Mi chiedo in quale modo possa l’America tornare alla sua gran-dezza originaria, quando si trova in una condizione di sfacelo. In questi ultimi anni si è diffuso un fenomeno crescente legato al Secondo Emendamento, che Lei sostiene e vuole mantenere. La detenzione di armi da parte di chiunque, costituisce una grande minaccia per la popolazione statunitense. Non sono poche le vittime che sono rimaste uccise dal 2013. Una cifra che è pari a un terzo dei soldati americani morti durante l’intero conflitto in Vietnam, circa 300.000 persone. Non è vergognoso? E’ questo che Lei intende per “difesa personale”? Gli episodi che vedono persone di colore uccise sono in aumento e hanno fatto sorgere movimenti che promuovono la campagna per i diritti “Black lives matter” (le vite delle persone di colore contano), come se ci fossero persone che non meritino di vivere. Se c’ è qualcosa di cui posso essere totalmente sicura è che né io, né Lei, presidente Trump, pos-siamo disporre della vita di nessuno, in nessun caso. Nel suo programma politico ho, peraltro, trovato ingiusta il progetto di costruire un muro al confine col Messico con la clausola che sia quest’ultimo a pagarne le spese. L’ironia della sorte ha permesso che la Sua elezione avvenisse precisamente, il 9 novembre 2016, ventisette anni dopo la caduta del Muro di Berlino. Vogliamo tornare indietro nel tempo? Per quale scherzo della natura si dovrebbe erigere un muro? L’emigrazione clandestina si può liberamente ridurre attraverso la creazione di posti di lavoro negli stati di provenienza; la deportazione oggigiorno costituisce qualcosa di estremo e mi rievoca tempi che non ho vissuto, ma che i testimoni ci hanno insegnato a ricordare: l’epoca della shoah, quando si parlava della razza perfetta. Gran parte della gente che si sposta, non lo fa per rubare il lavoro agli americani, oppure per effettuare attacchi terroristici. Ciò che li spinge negli Stati Uniti è la speranza di una vita migliore per sé e per i propri figli. Ultimamente si tende a “fare di tutta l’erba un fascio”, come si dice in Italia, ma purtroppo non è attraverso atteggiamenti razzisti che si risolvono i problemi. La diplomazia prima di tutto ed il rispetto dell’essere umano, al di là della razza, cultura, religione, ceto sociale di appartenenza. Ora che è ufficialmente eletto Presidente degli Stati Uniti D’America, dopo aver superato vari ostacoli e critiche, ed aver raggiunto questa posizione prestigiosa a livello mondiale, Le faccio i miei migliori auguri, aspettando con impazienza di vedere gli U.S.A. risorgere più uniti di prima e tornare alla loro grandezza originaria. Le porgo i miei più cordiali saluti Ester Converso
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COME HO VISSUTO LA SCUOLA DA STUDENTE
I giovani vanno a scuola per abitudine, spesso per inerzia, senza rendersi conto delle scelte importanti che stanno compiendo per il loro futuro. Pertanto si possono vedere spesso studenti svogliati, annoiati e costretti a stare sui banchi di scuola senza la consapevolezza del tempo che stanno perdendo. Infatti ci si accorge troppo tardi dell’ importanza che ha la scuola per la propria vita. Anch’io ho capito quanto fosse fondamentale la mia formazione culturale solo negli ultimi due anni: la scuola e lo studio aprono la mente e possono aiutare soprattutto le nuove generazioni non solo ad esercitare la professione per cui si è studiato, ma anche per diventare cittadini consapevoli. Durante gli anni di studio, come detto sopra, la maggior parte degli alunni vede la scuola un obbligo che consegnerà loro un diploma necessario al proseguimento degli studi universitari oppure all’entrata nel mondo del lavoro. Lo studio, quindi, non è visto come un’opportunità, ma come un dovere, che viene svolto senza possedere una valida motivazione. Questo è il percorso che ho fatto anch’io: per molto tempo ho lavorato in modo mnemonico e superficiale, senza avere soddisfazioni; perciò studiavo per una sufficienza senza rendermi conto che le basi delle mie conoscenze erano fragili e non sono riuscita a vedere gli aspetti positivi di quello che studiavo e di ciò che lo studio mi avrebbe offerto in futuro. Tutto questo, però, non è esclusivamente causa dei ragazzi: infatti se fossero più motivati (già all’ inizio delle scuole primarie) e lavorassero maggiormente in classe, acquisirebbero maggiori capacità ed abilità e probabilmente si annoierebbero di meno. Ci sono, infatti, cause che vanno ricercate al di fuori del mondo degli studenti: spesso la motivazione deve essere suggerita dagli insegnanti che li aiutano a comprendere quanto sia importante
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la cultura per diventare più critici e consapevoli della società in cui vivono. Solo così l’istruzione diventa utile: saper studiare e collegare causa-effetto, senza l’acquisizione di sterili informazio ni che col tempo andranno perse. Quindi, a mio parere, la “causa” è da ricercare sia negli alunni che spesso non si impegnano o lavorano senza cogliere le opportunità, sia nel nostro sistema scolastico che richiede un semplice arricchimento di contenuti spesso acquisiti mnemonicamente. Elena Martinelli
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NEWS DALL’ISTITUTO Pi greco: viaggio San Francisco - Siracusa Nel 1988 Larry Shaw, un fisico americano, nell’Exploratorium di San Francisco, inaugurò la tradizione del “Pi greco day” che si è estesa in tutto il mondo. Il suo aspetto è particolare: lunga barba disordinata, lunghi capelli scomposti con abiti molto più grandi della sua taglia. Questo signore un po’ stravagante, inventò il “Pi greco day”, un giorno speciale dedicato a un numero speciale, il 3.14, che permise a tutti gli scienziati di fare calcoli inimmaginabili. Il Pi greco: un numero speciale, complesso, con tante cifre e che Archimede aveva reso più semplice affinché tutti lo potessero ricordare. Archimede visse nella sua Siracusa dal 287 a.C. al 212 a.C. ed fu scienziato a “tutto tondo”: si interessò e portò contributi che spaziano dalla matematica alla geometria fino alla fisica, ma soprattutto fu il primo a calcolare la superficie e il volume della sfera. Era un uomo affascinante, si vestiva bene, aveva una barba curata e piena di riccioli. Tutti, in quella città della Magna Grecia ricca di cultura e d’arte, lo ammiravano per il suo talento, fece conoscere al mondo il 3,14 numero che permette di calcolare le dimensioni di un oggetto circolare… Tale fu la sua fama che la vita di Archimede è ricordata attraverso numerosi aneddoti, talvolta di origine incerta, che hanno contribuito a costruire la figura dello scienziato nella mente collettiva. Ad esempio, è rimasta celebre nei secoli l’esclamazione hèureka! (“ho trovato!”) Firdawss Gartite
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1095 giorni “1095 giorni. Al suono della sveglia mi umilia sputandomi sui capelli e colpendomi aggressivamente con le scarpe antinfortunistica, si accanisce come se la causa al suo sonno fossi io. Ritrovo la pace solo quando lui non è a casa, ritrovo la fame quando lui non è a casa, mi vieta di mangiare perché mi considera una vacca, proprio così, una mucca. Mi alzo, mi lavo i capelli che sono l’unico fattore femminile rimasto; non ho più trucchi, non ho più tacchi, non ho più specchi: me li ha rotti affermando che io sia troppo “schifosa” per potermi guardare. E non ho più un viso. Passo le giornate fingendo che vada tutto bene, passo le giornate guardando le vecchie foto con le mie compagnie di classe, con la nonna e il chiwawa Lolly. Da ragazzina immaginavo il mio matrimonio in spaggia con delle rose rosse che mi avrebbero accompagnato all’altare, immaginavo un futuro con l’uomo più dolce, coccoloso e simpatico che potesse esistere in questo mondo; era tutto un sogno. Non trovo la forza per scappare, sono sola, anzi no, anzi sì, scusate non riesco neanche a scrivere! Sono così arrabbiata con me stessa, come ho potuto credere in lui? Come ho potu-to amare una merda del genere? Ditemi come?!
Piango leggendo i libri romantici, li prendo ogni venerdì e grazie ad essi ho la possibilità di sognare una vita migliore, grazie ad essi vengo immersa in un’atmosfera a me sconosciuta, grazie
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ad essi io sono viva; mi danno la forza di credere in me stessa, di pensare che la merda con cui abito possa un giorno cambiare, ho solo paura che quel giorno non arrivi mai, sono terrorizzata. È tornato. Devo smettere di scrivere, se mi scoprisse potrei perdere il diario, prima di bru-ciarlo mi riempirebbe di frustate:” Laura, ascoltami! Pensi che un uomo come me si sporchi le mani con una zoccola del tuo calibro?! Ti meriti la frusta, anzi, la cinghia è molto più figa di te”, le seguenti parole mi vengono ripetute ogni sera prima di dormire. Vorrei solamente tornare a sorridere anche se ho dimenticato il significato della parola “felicità”... Fine”. Ho immaginato di vivere la giornata di una donna costantemente oppressa dalle violenze del marito. Spero di avervi trasmesso l’emozioni che ho provato scrivendo tutto ciò. Grazie per la vostra attenzione
Yahya
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AN GOLO SCRIT TURA
ALESSIA ROSSETTO: UN “TALENTO PER IL FUTURO”! Grande successo anche quest’anno per il concorso “Talenti per il futuro” indetto dal Liceo Classico “Canova” di Treviso, con decine di elaborati scritti da ragazzi frequentanti i licei e per la prima volta, anche studenti degli istituti tecnici “Mazzotti” di Treviso e “Verdi” di Valdobbiadene. Questo concorso, ormai giunto alla sua V edizione, e i cui destinatari sono gli studenti del Triennio, si articola nei tre generi Narrativa, Poesia e Teatro. La Commissione, composta da due insegnanti appartenenti a ciascuna scuola più un mem-bro esterno nominato da ogni istituto, ha potuto quindi analizzare brani con caratteristiche molto diverse tra loro. I primi tre classificati per ogni sezione hanno vinto un premio in de-naro e tutti i partecipanti hanno ricevuto un attestato di partecipazione. Il primo premio è stato vinto da Elena Marzari, del liceo “Canova”, la seconda classificata è stata Alessia Rossetto, ex studentessa della 5^ A del “Mazzotti” che, con “Zaccaria”, di seguito riportata, ha “stregato” la Commissione. Il brano tratta la storia di un giovane ragazzo, Zaccaria, figlio di Andrea, un padre che, do-po essersi separato dalla madre, è andato a convivere con Simone, il nuovo compagno. Scritto in una sola settimana, il brano presenta un forte connotato polemico. Alessia spiega che questa storia è figlia della mancata approvazione della “stepchild adoption”, provvedimento che prevede l’adozione del figlio del partner nelle coppie omosessuali. Alessia, inoltre, sottolinea come la “stepchild adoption” serva solo per regolamentare una situazione che in Italia già esiste, ma, gestita come ora, porta spesso a drammatici errori. La giovane autrice, per la stesura del testo, ha preso spunto da sue esperienze vissute. Simone, uomo forte e determinato, nasce dall’esperienza di un’amica che, rimasta orfana di padre, non è
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abbattuta, al contrario, ha trovato nel volontariato la forza di andare avanti. Zaccaria, invece, ha lo stesso comportamento della nonna di Alessia che, rimasta vedova, ha attraversato un lungo periodo difficile. “Forse è il comportamento che avrei anche io”, dice la studentessa. Inoltre, per enfatizzare il contesto, l’ambientazione è ripetuta ben tre volte: la città scelta è la stessa in cui la ragazza aveva appena effettuato uno stage lavorativo. Il racconto fa emergere tutto il talento della Rossetto ed è frutto di un lungo periodo in cui la giovane si è dedicata alla scrittura. Dopo un difficile periodo di depressione durato circa due anni, Alessia ha trovato in carta e penna il modo per uscire da quel periodo buio e, partendo da alcune “fan-fictions”, ha partecipato a numerosi concorsi on-line, ottenendo buoni risultati. “Talenti per il futuro” è il primo concorso ufficiale che ha affrontato ed i risultati ottenuti sono stati decisamente lusinghieri. Il professor Christian Spagnol, coordinatore del dipartimento di italiano del “Mazzotti”, membro della Commissione, ne è rimasto davvero affascinato. In particolare il professore sottolinea non solo l’uso corretto della lingua, ma anche il modo in cui viene trattata la delicata tematica, soprattutto nei suoi passaggi fondamentali. Visibilmente emozionato dal testo, il prof. Spagnol, si congratula con l’autrice per la qualità del testo. La giovane scrittrice sta proseguendo gli studi presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Padova e il suo sogno è proprio quello di diventare scrittrice. Questo è il vero scopo del concorso: avvicinare i giovani della generazione digitale al mondo della scrittura e riportarli a sfogliare dizionari e manuali della lingua italiana per dare il meglio di sé non solo nell’uso della lingua, ma per indurli a riflettere usando la nostra bellissima lingua. Il grande risultato di Alessia, e il suo proseguimento degli studi, sono quindi una grande vittoria non solo per lei, ma anche per il concorso, un punto di partenza per futuri grandi autori. Cornace Erika, Merotto Ana Maria, Quaggio Leonardo, Tommasi Gaia
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Zaccaria La Spezia, zona periferica. Quartiere per bene, colorate casette a schiera. Giardino curato, roseto potato di fresco. Imposte da poco riverniciate, finestre perfettamente limpide. Tende semitrasparenti, scostate, si può vedere l’interno. Muri color panna, quadri etnici appesi alle pareti, poltrone e sofà bordeaux, in tinta con i tappeti. Cuscini che riprendono il delicato panna. Io, seduto su una sedia in scuro legno d’ebano, un ricordo di un viaggio in Africa in-sieme ad Andrea, quando Zaccaria era ancora piccolo ed ogni cosa lo incuriosiva, quando ci chiedeva il perché di tutto ciò che gli si presentava davanti agli occhi. Quando ancora era mio figlio.
Stringo convulsamente l’oggettino che tengo tra le mani, così delicato che sembra doversi spezzare da un momento all’altro se non trattato con la dovuta attenzione, la fragile anima di Zaccaria; così duro che nemmeno volendo lo si potrebbe scalfire, la forza di volontà di Zaccaria. Un oggettino che mi porto appresso dal giorno in cui il suo legittimo proprietario fu separato da me, il giorno in cui lo vidi piangere e urlare dopo così tante lacrime ricacciate in gola, il giorno in cui la mia vita sembrò andare in pezzi quando mi resi conto che non avevo più motivo per andare avanti se non l’attesa del momento in cui Zaccaria sarebbe finalmente rientrato a casa. Nella sua casa. Quel giorno così doloroso arrivò inatteso, nonostante tutti lo aspettassimo; fu forse repentino perché, in fondo, non volevamo credere che sarebbe venuto: vivevamo nell’illusione che no, non
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poteva capitare, era una cosa troppo crudele da fare ad una persona, la legge non avrebbe permesso una tale ingiustizia. E invece arrivò, silenzioso, come tutti gli altri giorni: il sole sorse, io mi svegliai nel mio letto, ormai vuoto da tempo, mi alzai e andai a svegliare Zaccaria, convinto che l’avrei fatto per settimane e settimane ancora. Non volevo nemmeno concepire l’idea che quella sarebbe stata l’ultima mattina in cui l’avrei visto dormire nella sua camera, destinata a rimanere vuota, spoglia e grigia. Rivangando negli eventi mi rendo conto che, a dire il vero, ogni singolo fatto è stato repen-tino e inaspettato, a partire dalla causa scatenante del tutto. Quello sì che fu improvviso. Fu fulmineo. Fu distruttivo. Fu devastante. Fu l’inizio della fine. La Spezia, zona periferica. Quartiere per bene, colorate casette a schiera. Giardino curato, roseto potato di fresco. Imposte da poco riverniciate, finestre perfettamente limpide. Tende semitrasparenti, scostate, si può vedere l’interno. Muri color panna, quadri etnici appesi alle pareti, poltrone e sofà bordeaux, in tinta con i tappeti. Cuscini che riprendono il delicato panna. Io e Zaccaria, se-duti a tavola a mangiare la pasta scotta che avevo sbagliato a cuocere. “Non imparerai mai”, mi prendeva in giro lui, ridendo delle mie scarse abilità culinarie. Aveva ragione: ancora oggi mangio tutti i giorni pasta scotta. “Andrea torna tra poco da lavoro, ti diamo il regalo e poi potrai provare la mia pluristellata torta” lo zittii scherzosamente, intimandogli di mangiare quel piatto di pasta. Era il quattor-dicesimo compleanno di Zaccaria, lui era così felice; io e Andrea gli avevamo permesso di stare a casa da scuola quel giorno, in fondo era così bravo, non gli avrebbe certo creato pro-blemi. E poi, era un giorno speciale. Mangiammo la pasta scotta. Aggiungemmo al primo un secondo composto di patate al forno bruciacchiate, sempre opera mia. Passarono minuti, che si trasformarono in ore. Telefonammo ad Andrea. Andrea non rispose. Guardammo la televisione, annoiati. Telefonammo nuovamente ad Andrea. Andrea non rispose. Mangiammo una fetta di torta, che incredibilmente era uscita dal forno senza gravi traumi e risultava addirittura buona. Telefonammo ad Andrea. Andrea non ri-spose. Telefonammo all’ufficio di Andrea, chiedendo se avesse avuto del lavoro extra, se qualcuno lo avesse trattenuto, se fosse stato male. Ottenemmo solo risposte negative: Andrea aveva timbrato regolarmente ed era uscito dall’ufficio al finire del suo turno. Telefonammo ancora ad Andrea. Andrea non rispose. Ormai potevo leggere l’ansia salire negli occhi verdi di Zaccaria, sentivo la
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sua preoccupazione sprigionarsi ed invadere la stanza. Sentivo che stava per piangere. “Non preoccuparti, probabilmente è andato a comprare qualcosa per festeggiare” lo rassicurai, nonostante avessi il cuore in gola e la bocca secca. Mangiammo un’altra fetta di torta: sembrava l’unica cosa che potessimo fare in quel momento. Andai in cucina a prendere qualcosa da bere. Dal salotto, sentii il mio telefono squillare e il fruscio di Zaccaria che si precipitava a rispondere. Buttai l’occhio oltre l’uscio della stanza, in attesa di avere almeno un indizio su chi mi stesse chiamando, ma vedevo solo l’esile figura di Zaccaria ferma, con le mani che reggevano il cellulare tremare leggermente. Mi avvicinai, deglutii. “E’ l’ospedale” sussurrò lui, già con la voce rotta. Risposi riluttante. La donna che mi parlò fu breve e concisa. “Si sono rotte le acque a quella del trigemino. Vieni subito” Non ebbi nemmeno il tempo di dire che sì, sarei arrivato in un lampo, che già la linea era caduta. Zaccaria mi osservava tremante. “Devo andare a lavoro” sospirai, rimproverando mentalmente Andrea, che non era ancora tornato e non poteva badare a Zaccaria, costringendomi a portarlo in ospedale con me: per quanto sicuro fosse il nostro quartiere, non avrei mai lasciato Zaccaria in casa da solo per chissà quanto tempo. “Vieni con me, ti fai un giro nella nursery e ti distrai un po’ ” sorrisi forzatamente. A dirla tutta, però, pure a me avrebbe fatto bene un rilassante giro in mezzo a bambini placidamente addormentati. Zaccaria acconsentì alla scampagnata in ospedale senza fare storie, anzi con una certa allegria: fin da quando era piccolo era diventato un ospite fisso della nursery, grazie alla gentilezza delle colleghe che gli stavano dietro mentre io correvo da una sala all’altra del reparto, e quella zona dell’ospedale non gli era mai dispiaciuta. Il veder nascere dei bambini, il veder nuove vite entrare nel mondo mi rilassò. Amavo il mio lavoro. Sentire la gioia delle persone, scorgere i visi felici dei parenti alla vista del nuovo nipotino, sorridere con le madri e i padri che attendevano solo un bambino da amare. Spesso mi ritrovavo con un vago sorriso stampato in faccia mentre riflettevo su Zaccaria, su Andrea, sul mio essere padre di un bambino che non è frutto di me, ma che nonostante tutto amo con ogni fibra del mio essere. Sono sempre stato convinto che definire genitore quello biologico sia solo una superficiale visione delle cose. Uscii dalla sala parto rilassato, disteso e, tutto sommato, felice, e mi diressi verso Zaccaria, che
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osservava i bambini che dormivano, ancora senza le preoccupazioni che la vita aveva destinato loro. “Simone” mi chiamò sottovoce un’infermiera. Giovane, bionda, carina, gentile. Un uccello del malaugurio travestito da angelo. “Devo dirti una cosa” Dissi a Zaccaria di restare dov’era, che sarei tornato in un paio di minuti, e mi allontanai con l’infermiera, innocentemente convinto che dovesse riferirmi un paio di informazioni di prassi sulla paziente del trigemino. “E’ appena arrivata l’ambulanza” iniziò lei, spostando il peso da un piede all’altro, torturandosi le mani, le dita sottili che si intrecciavano. Inarcai le sopracciglia, spronandola a continuare. “Si tratta di Andrea” mormorò con un filo di voce. Sentii improvvisamente le ginocchia incapaci di reggere il mio peso. Incespicai, posai una mano sul muro bianco, mano che scivolò, traditrice, togliendomi l’appoggio del quale sentivo il disperato bisogno. La ragazza, risoluta, mi fermò posandomi le mani sulle spalle e guardandomi dritto negli occhi. Recuperai un po’ di stabilità, sia fisicamente che mentalmente. “Una coppia l’ha visto steso sul lungomare e ha chiamato un’ambulanza” disse lei, ad una velocità tale che le parole facevano appena in tempo ad entrare nella mia testa per bombardarmi e distruggermi prima che se ne sommassero altre, un nuovo plotone armato fino ai denti che dichiarava guerra alla mia sanità mentale. “Hanno provato a rianimarlo” blaterava ancora l’infermiera giovane, bionda, carina e gentile, ma ormai quasi non la sentivo più. Ero da un’altra parte. Ero perso nei ricordi, sperando di raccattarne il più possibile per custodirli e non dimenticarli. Raccolsi la risata di Andrea, i suoi occhi, che si specchiavano esattamente in quelli di Zaccaria, scelsi di tenere con me i più profondi segreti che io ed il mio amante avevamo condiviso, le sue mani grandi che mi toccavano, i suoi sussurri e le sue parole proibite, agguantai lui che mi infilava al dito quell’anello, in un matrimonio che nessuno ci avrebbe mai permesso di celebrare, afferrai la prima volta che mi fece stringere suo figlio tra le braccia, mormorandomi che noi, quel figlio con gli occhi uguali ai suoi, l’avremmo cresciuto assieme. “Mi dispiace” mormorò infine la ragazza, abbassando lo
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sguardo, senza nemmeno più la forza per guardarmi in faccia. E accanto alla gente devastata senza uscirne essi stessi distrutti? “Simone?” sentii la voce di Zaccaria chiamarmi. Mi voltai, i dorsi delle mani ad asciugare frettolosamente le lacrime che scorrevano ormai copiose lungo il mio viso. Non mi ero accorto di aver iniziato a piangere. Non mi ero accorto che, nel frattempo, l’infermiera era andata via e mi aveva lasciato da solo, con il gravoso compito di dire ad un ragazzino che suo padre se n’era appena andato il giorno del suo quattordicesimo compleanno. “Devo fare una cosa” dissi meccanicamente, rendendomi conto solo in quel momento di avere la gola completamente serrata. “Tu resta qui”. Provando a non lasciar trapelare alcuna emozione, mi mossi verso le porte scorrevoli che davano sulle scale. Mi morsi un labbro convulsamente nel tentativo di trattenere le lacrime, per poi esplodere non appena le porte si chiusero alle mie spalle e fui sicuro che Zaccaria non mi avrebbe visto. Avevo appena perso tutto. Sentivo il mondo che mi ero creato, la bella vita che stavo percorrendo, sfuggirmi tra le mani e volare come cenere al vento. Sentivo il pavimento sgretolarsi sotto ai miei piedi e i muri attorno a me crollare, lasciandomi solo ad affrontare la vita vera. Io non ero pronto alla vita. Io non ce l’avrei fatta senza Andrea accanto a me. L’uccello del malaugurio si ripresentò. “Vuoi vederlo?” “Posso?” sussurrai. “Solo tu, il ragazzo dovrà aspettare l’autopsia. E’ la prassi” si scusò, sentendosi colpevole di regole che non aveva posto lei. Annuii e mi lasciai guidare per i corridoi dell’ospedale. Abbandonai il reparto di ostetricia, il mio angolo idilliaco dove avevo deciso di passare giorni e notti interi, e mi avvicinai abbracci disperati. Andavamo verso le emergenze, ci addentravamo nel dolore delle persone, nella gente che correva, ancora con il cellulare in mano e gli occhi lucidi, il respiro mozzato. L’infermiera si fermò davanti ad una porta chiusa. “Mi dispiace” si scusò di nuovo, quasi fosse colpa sua. Non risposi e irruppi nella stanza, come se avessi potuto fermare il momento, come se avessi potuto ritrovare Andrea e baciarlo di nuovo. Vidi Andrea. Vidi il corpo di Andrea. Vidi il corpo morto di Andrea, steso compostamente su un lettino che dava l’impressione di essere duro e scomodo. Aveva gli occhi chiusi. Crollai. Non avrei più rivisto quel verde intenso guardarmi e scrutare den-
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tro di me, riuscendo a cogliere al volo ogni minimo pensiero mi passasse per la mente. Aveva le labbra socchiuse. Le lacrime scesero nuovamente lungo le mie guance, i singhiozzi mi scossero da capo a piedi. Non avrei più sfiorato quelle labbra, non le avrei più viste aprirsi in un sorriso. Aveva le braccia posate lungo il busto. Urlai come per espiare un dolore troppo grande da contenere per il mio corpo. Tentavo di esorcizzare quel sentimento che mi divorava dall’interno mentre dentro di me si espandeva la consapevolezza che quelle forti braccia non sarebbero più state strette attorno a me. La porta si aprì. Mi voltai, impaurito. Chiunque fosse stato, non avrebbe portato via Andrea di lì. Era mio. Ero io a decidere. E io volevo solo guardarlo ed imprimermi nella memoria ogni singolo dettaglio di lui, perché tanti già iniziavano a scomparire, già la sua risata mi suonava distorta e la sua voce roca lontana. Vidi, dall’uscio, gli occhi di Andrea fissarmi. Zaccaria stava appoggiato allo stipite della porta, apatico. Mi aveva seguito, sgattaiolando dietro di me per tutta la strada fino a quell’orribile stanza. Non dava segno di volersi muovere. Nulla in lui si muoveva, persino il suo respiro sembrava essersi fermato. Mi avvicinai, piangendo senza pudore, e lo abbracciai. Lo tenni stretto, con l’intento di dargli forza, anche se in verità ero io a cercare sostegno da lui. Da un ragazzino che aveva appena perso il padre il giorno del suo quattordicesimo compleanno. Lui era impassibile. Era in trance. Fissava il vuoto, incapace di focalizzare la sua attenzione su qualcosa in particolare. La sua mente si rifiutava di elaborare l’accaduto: era una mole di dolore troppo grande da accettare in un colpo solo. Si era estraniato da ogni cosa. Sfinito da tutta quell’angoscia, trascinai Zaccaria fuori dalla stanza e sbattei la porta dietro di me. Posai il telefono sul tavolo e mi presi la testa tra le mani. Ero stanco. Ero infinitamente stanco, dopo due giorni passati a guardare Zaccaria soffrire, due giorni passati ad ascoltare inconsistenti condoglianze e false dimostrazioni d’affetto provenienti da persone con le quali Andrea non aveva mai avuto alcun tipo di rapporto. Amicizia e amore sparsi da gente che lo aveva eliminato dalla sua vita nel momento stesso in cui aveva deciso di andare avanti, nel momento stesso in cui aveva deciso di lasciare la strada comoda e diritta che gli si parava davanti per addentrarsi in bui sentieri, irti di buche e osta-coli, per poter stare assieme a me. Scorsi per l’ultima volta la rubrica del cellulare, notando che mancava una sola persona alla quale telefonare. Fu un sollievo: finalmente sarebbe finita quella tortura, quel chiamare persone
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su persone per dir loro: “Ehi, Andrea è morto”, per poi sentirmi sputate contro domande, commenti, aneddoti che non facevano altro che farmi a pezzi sempre di più. Allo stesso tempo, vedere che mancava una sola persona non era una buona notizia. Avevo tenuto per ultimo qualcuno di ben preciso; non era stata l’ultima persona a venirmi in mente, o l’ultima in ordine alfabetico: era stata la prima a cui avevo pensato, e il ritardare quella telefonata era solo una mera scusa per sentire, in un certo senso, che non era tutto finito. Quella persona era quella destinata a portarmi via anche l’ultima cosa che mi era rimasta. Quella persona era destinata a portarmi via Zaccaria. Quella persona era sua madre. Sospirai e composi lentamente il numero, ascoltando i fastidiosi e striduli suoni che il tele-fono emetteva ogni volta che toccavo un tasto. Ricontrollai il numero una, due, tre volte, prima di premere il pulsante di chiamata e portarmi il telefono all’orecchio. Tremavo. L’ap-parecchio emise uno squillo. Un altro squillo. Un altro ancora. “Pronto?” rimbombò una voce femminile, lenta ma sicura, melliflua ma tagliente. Appoggiai il telefono sul tavolo, interrompendo la chiamata. Ansimavo. Sudavo. Sentivo la vista farsi appannata man mano che le lacrime salivano. Deglutii, sperando di ricacciare dentro di me tutta l’angoscia e la paura che mi stava corrodendo dentro dal momento in cui avevo saputo di Andrea. Perché in quell’esatto istante in cui mi si era sgretolato il pavimento sotto ai piedi, in quell’esatto istante in cui la vita mi aveva attaccato da tutti i fronti, uno dei pensieri che si era subito fatto strada in me, uno dei più forti e devastanti, era stato il futuro di Zaccaria. Cosa sarebbe successo a Zaccaria? Mi ridestai dai pensieri e mi accorsi di essere arrivato nella sua cameretta, quasi inconscia-mente, mosso da emozioni che non ero in grado di controllare razionalmente. Zaccaria stava seduto sul letto, la schiena appoggiata alla parete, immerso in un vecchio libro. I suoi occhi si muovevano lentamente sulle parole, la sua bocca era socchiusa, a mostrarmi la concentrazione che stava dedicando alla lettura. Erano due giorni che leggeva, isolandosi dalla vita. Respingendo tutto ciò che succedeva attorno a lui, rifiutandosi di elaborare qualsiasi cosa. Ogni volta che avevo tentato di parlargli, riportandolo nel mondo reale, avevo ottenuto in cambio rispostacce e brusche chiusure. Ero stato sbattuto fuori dalla sua cameretta, ero stato allontanato quando avevo tentato di abbracciarlo, e nonostante tutto continuavo a rientrare nella stanza e a riavvicinarmi a lui. Io quel bambino lo amavo, e vederlo in quello stato era un’insopportabile prosecuzione del dolore che mi aveva investito poco tempo prima. Il telefono squillò. Ripresi a respirare affannosamente: era il momento. Accarezzai dolcemente il viso di Zaccaria e tornai in cucina, il cellulare che suonava, un suono penetrante e martellante che lacerava la mia mente che già elaborava scene di una vita triste, di una casa vuota, di un’esistenza inutile. Risposi alla chiamata, e non appena sentii quella voce, quella lenta ma sicura, quella melliflua ma tagliente, mi misi a vagare per la cucina, ad aprire ante e a richiuderle, a tirare cassetti e spingerli di nuovo. Dovevo fare qualcosa, distrarmi e non concentrarmi completamente sulla dolorosa conversazione che, pronta all’altro capo del telefono, stava per darmi il colpo di grazia. “Sono Simone” iniziai, scoprendo la mia voce eccessivamente tremante. “Simone?” chiese la donna, non ricordandosi dell’uomo che aveva tentato di rovinare anni prima.
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“Andrea è morto” mormorai, senza perdermi in vani giri di parole. Non mi interessava alleggerire la notizia per quella che era stata sua moglie, per quella che se n’era andata senza degnare nemmeno suo figlio di un ultimo abbraccio. Ma nonostante ciò che quella donna era, ancora speravo che l’odio che provava nei miei confronti fosse passato. Non l’avevamo sentita per anni, aveva deciso di uscire dalle nostre vite e non aveva dato segno di volerci tornare. Ma mentre covavo ancora la speranza che a lei non importasse più di me, che non avesse più l’intenzione di mandarmi a fondo, che avesse seppellito l’ascia di guerra, la frase che arrivò al mio orecchio pose fine ad ogni qualsiasi illusione. “Vengo a prendere Zaccaria”. Tentai di protestare, tentai di blaterare qualcosa, tentai addirittura di urlare contro quella donna, ma nulla uscì dalla mia gola serrata e dal mio corpo orma completamen-te svuotato. Mi feci prendere dal panico. Tutto iniziò ad annebbiarsi, i polmoni si chiusero, le gambe ce-dettero, le tempie pulsavano, il cuore premeva contro il petto. La vista mi si oscurava, i pen-sieri non scorrevano più uno dopo l’altro, c’era una gran confusione nella mia testa, suoni e immagini e odori e scene e emozioni che si sovrapponevano disordinatamente, comparendo e andandosene senza un ordine logico. Piombai nella cameretta di Zaccaria, che nel sentirmi sconvolto alzò gli occhi da quel maledetto libro. Volevo dire qualcosa. Dovevo dire qualcosa. Ma in ogni punto dove cercassi, c’era bianco. Bianco. Bianco ovunque. Mentre una parte di me era una confusione di emozioni e continui sconvolgimenti, l’altra era bianca e calma. Era una bolla di rassegnazione, che stava inglobando lentamente ogni pensiero che avrebbe potuto portare ad una reazione. La rassegnazione, il senso di sconfitta stavano avendo la meglio, e io stavo semplicemente soccombendo, senza contrastare l’avanzata dell’armata destinata a schiacciarmi. “Zaccaria” iniziai timidamente, cercando parole facili con le quali esprimere concetti estremamente complessi. “Tu sai come funziona quando succedono queste cose”. Chiusi gli occhi e sospirai: quello che avevo appena detto non voleva dire niente. Mi sfrecciò nella
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mente l’immagine delle valigie di Zaccaria. Piene. Chiuse. “Lo sai che Andrea non c’è più” Vidi chiaramente il corpo di Andrea. Immobile. Freddo. “E che tu non puoi stare con me”. che avevo al mondo. Mi sentii impotente davanti alla scena di un’auto che partiva, portandosi via la cosa più preziosa che avevo al mondo. Vidi chiaramente lo sguardo di Zaccaria farsi vacuo, i suoi occhi verdi che prima erano fissi nei miei perdersi ora nell’aria pesante che aleggiava tra noi. E ancora una volta, non pianse. Zaccaria non piangeva, subiva senza scomporsi ogni situazione che la vita gli gettava addosso. Non dormii. Non dormii quella notte né quella successiva, e quando infine arrivò il giorno del funerale ero ridotto ad uno straccio. Avevo trascinato una poltrona nella stanza di Zaccaria, avevo parlato con lui di qualsiasi cosa, dal colore delle pareti alla trama del libro che stava leggendo, dall’ultimo capitolo di storia che aveva affrontato a scuola a che film avrebbe voluto guardare il giorno dopo. Ci estraniammo da ogni evento esterno, entrai nella bolla che si era formata attorno a lui e che l’aveva protetto per quei due giorni, ritrovandomi in un luogo calmo e apparentemente indissolubile. Tuttavia, sapevo che sarei stato proprio io a far scoppiare quella bolla e a far piombare addosso a Zaccaria ogni cattiveria che il mondo gli stava preparando appena oltre le sottili pareti di quell’innaturale Eden. Gli spiegai tutto mentre ci preparavamo per uscire per vedere Andrea un’ultima volta. Sapevo che al funerale ci sarebbe stata la madre di Zaccaria. Dall’istante in cui aveva riagganciato il telefono, un paio di giorni prima, avevo capito che me l’avrebbe portato via nel momento in cui avrei avuto più bisogno di lui, e nel momento in cui lui avrebbe avuto più bisogno di me. Nel momento
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in cui avremmo realizzato appieno che Andrea se n’era andato e che non l’avremmo più rivisto. Nel momento in cui ci saremmo dovuti rassegnare definitivamente all’idea che quel sorriso l’avremmo rivissuto solo nei nostri ricordi. Raccontai nuovamente a Zaccaria la storia che si era sentito ripetere milioni di volte, quella storia sulla quale io e Andrea insistevamo parecchio: volevamo che la capisse, la facesse sua, non ne fraintendesse una sola parola. Non tentammo mai di fargli prendere una parte, di schierarlo dalla nostra; ogni volta gli spiegavamo tutto ciò che era successo, senza dire chi avesse torto e chi ragione: molti erano stati i colpi bassi e i sotterfugi, da una parte e dall’altra. Nessuno era santo e nessuno era dannato, in quella storia. Nessuno era buono e nessuno era cattivo. L’unico personaggio, l’unica pedina che non aveva avuto voce in capitolo nello svolgersi della vicenda era stato proprio Zaccaria, troppo piccolo per capire la tempesta che si scatenava attorno a lui. Gli raccontammo quella storia così tante volte da fargli venire la nausea per un motivo ben preciso, e la piega inattesa degli eventi mi fece notare quanto saggia fosse stata quella scelta. Gli raccontammo quella storia così tante volte da fargli venire la nausea perché non volevamo che lui fosse di nuovo escluso dalle scelte che avrebbero cambiato la sua vita. Sapevamo che prima o poi sarebbe successo qualcosa, sarebbe scattata una scintilla che avrebbe rovesciato il precario equilibrio che ci eravamo creati, e volevamo che in quel momento Zaccaria potesse decidere di testa propria cosa fare della sua vita. La storia che gli raccontavamo ruotava attorno ad un bambino, figlio di una coppia sposata da un paio d’anni, un bambino voluto e amato. Una famiglia apparentemente felice, apparentemente inattaccabile da tutti i fronti. Una serenità che non sarebbe mai stata scalfita da alcun agente esterno. Peccato che le crepe si stessero espandendo direttamente dal cuore di quell’illusoria armonia. Il racconto proseguiva con un marito che tradiva la moglie, che passava serate affermando di essere impegnato in ufficio, ufficio che guarda caso coincideva con il piccolo appartamento di un medico, che in quel periodo stava facendo il tirocinante presso il reparto di ostetricia dell’ospedale locale. La trama poi si articolava, le bugie e le omissioni si infittivano, il protagonista della storia cresceva, finché non ebbe quattro anni, finché la moglie non scoprì dell’amante del marito. Da lì in poi, le
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vicende iniziavano a diventare confuse, ad accatastarsi le une sulle altre, tra urla, lacrime, accuse e difese, spade e scudi che si alzavano e cozzavano tra loro. In quel momento della storia entravano in scena altri personaggi, aiutanti dell’una e dell’altra parte, avvocati della moglie e avvocati del marito, notai che firmavano atti, mediatori che tentavano di riportare quell’armonia che in realtà non era mai esistita. Tutte comparse che aiutavano lo svolgersi dei fatti, ma che mancava-no di una fondamentale caratteristica: nessuno tendeva una mano verso il protagonista. Ogni figura si schierava da una parte o dall’altra, lanciando dardi avvelenati contro le mura che si trovava alzate contro, erette da quello che veniva considerato il nemico da sconfiggere. In mezzo a quel campo di battaglia, un piccolo esserino si rannicchiava sulla terra fredda e nuda, esposto ai continui attacchi delle controparti; si copriva gli occhi per non vedere, posava le mani sulle orecchie per non sentire, ricacciava in gola urla che avrebbe voluto lasciar uscire con una forza tale da bruciare i polmoni. Quell’esserino, quel cucciolo, sembrava la bandiera da conquistare, da strappare al nemico per aggiudicarsi la vittoria definitiva. Quell’esserino venne strattonato a destra e a manca, fino al momento in cui la madre decretò che lei, il figlio di quel traditore, di quell’ipocrita, di quell’omosessuale non lo voleva più vedere. Io ero presente, il giorno in cui quelle parole vennero sputate da Monica, la madre di Zaccaria, gelide e taglienti. “Non voglio un figlio che probabilmente diventerà come il padre”. Si erano poi sommate altre frasi, sentenze, giudizi, tutte ai danni di Andrea, che veniva demolito un po’ di più ad ogni cosa uscisse dalla bocca di Monica. Commenti sulla sua omosessualità, sull’uomo con cui aveva deciso di trascorrere la vita, sulla persona per la quale aveva osato fare a pezzi una famiglia. La bandiera tanto contesa fu perciò vinta da Andrea, che non riuscì mai a ringraziare abbastanza quella forza che gli aveva permesso di lottare fino all’avverarsi del suo desiderio più grande: una famiglia con le persone che davvero amava. Andrea non riuscì però nemmeno a goderselo, quel desiderio tanto agognato, dato che un tiro mancino del destino l’aveva strappato alla vita, lasciando gli altri due personaggi soli e impauriti. E permettendo il ritorno in scena di quell’antagonista che sembrava essersene andato per sempre. Il funerale fu relativamente veloce. Non ci furono false cerimonie in chiesa o inconsistenti piagnistei da parte di persone che non vedevano Andrea da secoli: c’eravamo io, Zaccaria, un paio di amici. Monica. Si era presentata al funerale, come se sapere che non avrei più rivisto l’uomo che amavo non fosse abbastanza. No, lei doveva pure sottolineare che non avrei più abbracciato nemmeno Zaccaria. “Vuoi vedere Andrea?” mi sentii chiedere da un uomo.
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Se lo volevo vedere? Io non lo volevo vedere. Io volevo abbracciarlo, stringerlo, parlargli, osservarlo, sorridergli. Io volevo che tornasse a casa. Io volevo solo svegliarmi da quell’incubo, voltarmi e trovare Andrea a letto accanto a me. “No” sussurrai, voltandomi e posando le mani sulle spalle di Zaccaria, che sembrava non percepire appieno tutto ciò che stava accadendo. “Sai chi è la donna vicino al cancello?” gli domandai, con un groppo in gola che quasi mi faceva male. Zaccaria annuì. “ E’ Monica”. Aveva la voce rotta. Dopo giorni di ostentata apatia, i sentimenti iniziavano lentamente a scavare fessure attraverso le quali trapelare, oltrepassando quel protettivo muro che Zaccaria aveva frapposto tra sé e il mondo esterno. Forse non era esattamente il momento migliore per far crollare quel muro, dato che un nuovo, devastante evento stava per travolgere Zaccaria. Un nuovo, devastante evento in tacchi alti e tailleur color tortora. Arrivò alla fine della cerimonia, quando ormai Andrea se n’era definitivamente andato e io iniziavo a delirare, preda di immagini di un futuro di arida solitudine. “Allora noi andiamo” trillò, spingendo Zaccaria vicino a lei. Vidi gli occhi verdi di Andrea pieni di paura, terrorizzati, li vidi riempirsi di lacrime e diventare limpidi specchi nei quali potevo scorgere l’angoscia che lo stava prendendo e attraendo a sé. “Simone” balbettò lui, riuscendo ad articolare solo quelle poche sillabe, spaventato e confuso com’era, sbattuto senza ritegno da una situazione all’altra. Corse verso di me, mi abbracciò, lo sentii piangere, lo sentii tentare di soffocare le lacrime, lo strinsi a me, serrando gli occhi e mordendomi un labbro fino a farmi male. Dovevo resistere a tutto quello. Non potevo piangere davanti a Zaccaria. “Troverò un modo per farti tornare a casa” sussurrai concitato, per poi guardarlo negli occhi. “Te lo prometto”. Guardai Zaccaria e Monica allontanarsi, stringendo i pugni: ogni tre passi Zaccaria si voltava a guardarmi, ma non avrei mai pianto davanti a lui. Io ero la figura forte su cui aveva sempre contato. Non poteva vedermi crollare. Tuttavia, appena non scorsi più né lui né quella donna, piansi fino a non avere più forze. I mesi seguenti furono una replica della messinscena avvenuta dieci anni prima, un susseguirsi di frecciate e atti e firme e polemiche sempre più difficili da sostenere. Monica, fredda e altera, con
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un nuovo marito e una certa cattiveria dalla sua, sembrava non finire mai l’energia per controbattere ai miei tentativi di far tornare Zaccaria da me. La cosa che continuava a risultarmi assurda era l’importanza che dava ad un figlio che aveva lasciato nelle mani del marito anni prima. Un figlio rifiutato, abbandonato, mai contattato, nemmeno per gli auguri di Natale. Un figlio che per lei aveva ricominciato ad esistere nel momento in cui era morto Andrea. Un figlio che non conosceva, con il quale non aveva condiviso niente. Un figlio al quale aveva rinunciato, e al quale ora si attaccava morbosamente. Tra giudici, avvocati, lunghe spiegazioni delle quali non capivo una parola, vecchie sentenze di corti d’appello o cassazione, io morivo ogni giorno un po’ di più, soffocato dalle pressioni, dai lampi che mi facevano scorgere un futuro senza Zaccaria, dagli attacchi di panico che mi prendevano a tradimento, dai turni di lavoro che sembravano infiniti, dalle lacrime di cui ormai era zuppa l’aria stagnante di casa. Ero solo. “Nessuno ha mai pensato di ascoltare il ragazzo?” urlai, esasperato, al mio avvocato, che ri-mase con la bocca socchiusa, mentre ancora pensava alle parole da usare per finire la spie-gazione dell’ennesimo provvedimento di un qualche giudice che nessuno aveva mai sentito nominare. “La sua opinione varrebbe se lei fosse un suo parente” chiarì l’uomo, posando gli occhiali sul tavolo di legno scuro e sfregandosi stancamente gli occhi. “Simone, lei non è suo padre”. Detto ciò, riprese lo sproloquio appena interrotto; ma se già la mia soglia d’attenzione era bassa prima, dopo quella gelida sentenza divenne nulla: io non ero suo padre. Io ero quello che gli aveva letto le storie prima di addormentarsi, quello che si era seduto al tavolo della cucina con lui per ripassare le tabelline, quello insieme al quale aveva scelto il gatto da tenere a casa e quello che gli aveva asciugato le lacrime quando il cucciolo aveva deciso di andarsene. Io ero quello che lo aveva messo in guardia dalle brutte compagnie, quello che era andato a prenderlo in piena notte quando si era perso chissà dove, quello che aveva guardato storto la prima ragazza e quello che aveva giurato di separarli, stando poi semplicemente a guardare come ogni genitore fa, limitandosi a raccogliere pezzi di cuori infranti quando tutto era finito. Io ero quello che l’aveva visto crescere e diventare man mano un uomo, il mio uomo. Ma io non ero suo padre. “E in base a cosa si decide chi è padre e chi no?” sbottai nuovamente. L’avvocato posò gli occhiali per la seconda volta e per la seconda volta mi zittì con un’acida risposta. “In base alla legge” sentenziò. “E lei, per la legge, è solo quello che gli firmava le giustificazioni a scuola”. “E non vuol dire niente?” Un’occhiata scocciata da parte dell’uomo mi fece capire che no, non valeva niente. Non valeva niente ����������������������������������������������������������������������������������� aver dato l’anima per crescere un ragazzo, ciò che contava era un certificato di nascita firmato con una calligrafia svolazzante. Poco importava se poi quel bambino non l’avevi più rivisto: il tuo nome era su quel pezzo di carta e ti dava ogni diritto su quella vita.E sul certificato di nascita di Zaccaria era indelebilmente stampato il nome di Monica. La Spezia, zona periferica. Quartiere per bene, colorate casette a schiera. Giardino curato, roseto potato di fresco. Imposte da poco riverniciate, finestre perfettamente limpide. Tende semitrasparenti, scostate, si può vedere l’interno. Muri color panna, quadri etnici appesi alle pareti, poltrone
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e sofà bordeaux, in tinta con i tappeti. Cuscini che riprendono il delicato panna. Io, che torturo l’oggettino che sarebbe dovuto essere il regalo per il quattordicesimo compleanno di Zaccaria, ma che ormai resta solo un doloroso ricordo di eventi spiacevoli e angosciosi. Fisso il telefono, in attesa della chiamata che arriva sempre puntuale alle tre e mezza del pomeriggio, quando sia Monica che suo marito sono a lavoro e Zaccaria è a casa da solo. Passano i minuti, scivolano sulla mia pelle diventata opaca nei lunghi mesi di lontananza dalle persone più importanti della mia vita; scivolano sugli occhi stralunati dalle notti passate a piangere e a prendere a pugni il cuscino, in un misero tentativo di ribellione alle ingiustizie del mondo; scivolano sulle pareti spoglie, sui mobili vuoti, sui letti rifatti e polverosi, sui cassetti di Zaccaria, con ancora all’interno i suoi vestiti. Il giorno in cui provai a riportarglieli, Monica si infuriò e mi cacciò, temendo che venissi a riprendermi suo figlio. Suo figlio. Getto un’occhiata inquieta all’orologio, le lancette sono ferme sulle quattro; solo la più sottile, quella che segna i secondi, si muove, producendo un sommesso ticchettio che mi fa esplodere i timpani. Quando squillerà quel telefono? Quando si deciderà a farmi sentire la voce di Zaccaria? Nuovi interrogativi si accumulano nella mia testa, uno sopra l’altro, si accatastano alla rinfusa, cadono, si sommano nuovamente, cercando spazio dove di spazio non ce n’è. E se Monica avesse scoperto le nostre telefonate? E se avesse punito Zaccaria? E se lo stesse trattando malamente? E se lui non fosse felice? La stridula suoneria del telefono mi fa sobbalzare. “Scusami, ho pochissimo tempo” sussurra Zaccaria. “Stai bene?” è la prima cosa che gli chiedo, come ogni giorno, insieme a: “Sei felice?” Domande poste sottovoce, in telefonate clandestine che lasciano presupporre scabrosi argo-menti e proibite conversazioni, ma che in realtà rappresentano l’unico modo di sentire Zaccaria vicino a me. Di sentirlo vivo. “Papà” Mi si ferma il cuore nel sentirmi chiamare con quell’appellativo; e mi rendo conto che, contro tutte le assurde regole di Dio e della legge, io sono suo padre. “Mi manchi” mormora Zaccaria prima di interrompere la telefonata. Alessia Rossetto
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AMMIRAZIONE ALLO STATO PURO
Scorrevo le notizie del giorno, come sempre, in cerca di qualcosa di particolare che attirasse la mia attenzione. Slittavo lo sguardo tra una novità e l’altra, niente di particolare sempre le solite vicende drammatiche che oramai son divenute abitudini. Ad un certo punto però mi fermai su una foto. Attonita. Rimasi a fissarla per molto tempo. Non so descrivere con precisione cosa sentii in quel momento: mi venne un nodo alla gola, fui travasata da una sensazione di calore, le mani tremolanti ed avevo la sensazione che la mia gabbia toracica si stesse ristringendo pian piano. Una madre stava lavando il proprio figlio appena nato con l’acqua di una bottiglietta. Le condizioni igieniche erano pessime. La tendopoli era circondata di fango. Nello sfondo vi era la tenda di accampamento profughi, l’articolo lo definiva “ l’inferno di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia”. La donna aveva il viso chino a terra, con un braccio reggeva il bimbo con l’altro gli puliva la testa mentre il padre dallo sguardo angosciato versava l’acqua. Altre due bambine sorridenti dietro di lei, felici della nuova arrivata, ignare probabilmente del dolore della madre. Quell’immagine mi fece pensare molto sulla figura della mamma. Un tornado di domande, emozioni e ricordi mi inondò la mente. MAMMA. La parola che probabilmente ho sempre usato in tutti i miei giorni di vita. Riflettei molto. Ma chi è questa persona il cui solo pensiero mi genera una marea di forti emozioni. Chi è questa persona che tutti, nel loro piccolo, amano. Pensandoci le lacrime mi iniziarono a rigare il volto. E’ colei che per nove lunghi mesi ti ha nutrito, ti ha parlato, ti ha accarezzato, ti ha amato senza neanche conoscerti. E’ colei che ti protegge. E’ colei che nonostante un brutto periodo ti sorride. E’ colei che fa di tutto per non farti mancare nulla. E’ colei che anche se magari non te lo dice, sono certa, ti ama più di se stessa. E’ colei i cui occhi brillano se le parli e all’interno riservano sempre uno spazio bianco, bianco come la purezza del bene che ti vuole. Fin dalla nascita ti è sempre stata accanto, quand’eri dentro di lei era l’unica tua certezza. Ha sofferto molto per farti nascere, ma
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il piacere di averti superava il dolore di ogni tortura. Ti guardava crescere desiderando, pregando con tutta se stessa un futuro prospero per te. Quando tu soffrivi, lei soffriva il doppio. Quando tu eri felice, lei era felice il doppio. Quando litigavate e tu le urlavi incon-sciamente contro “ti odio”, il dolore che le trafiggevi era pari a mille spade conficcate nel cuore. Quando tu sorridevi, lei si sentiva in paradiso. E’ quella persona che tu vedi perennemente stupenda. Un punto di riferimento chiaro e lineare, senza ma senza però. Più pensavo alla mamma e più guardavo quella donna. Quell’immagine mi portò ad immaginare. Tutte le madri ambiscono una vita piena di gioie, sicurezze, soddisfazioni ed amore per i propri figli. In situazioni come queste non è per niente facile. Mille insicurezze. Mille pensieri negativi. Mille ostacoli quasi insuperabili. Mille imposizioni e milioni di parole mai dette, mai pronunciate per paura di deludere chi ama. Ammiro moltissimo queste Donne, madri che pur di non peggiorare la situazione tacciono e obbedi-scono agli ordini. Una miriade di sentimenti contrastanti, la felicità, l’eccitazione, l’amore per un nuovo arrivato e una moltitudine di rancore, tristezza, angoscia e odio per la situa-zione in cui sono. Mi chiedo come siano possibili nel 2016 situazioni del genere, madri che nella loro vita hanno conosciuto solo il concetto di resistenza alla guerra, al dolore di vivere una vita in cui ogni secondo, minuto è incerto. Figli costretti a crescere prontamente, cacciati da uno stato all’altro, senza godersi in pieno la spensieratezza dell’infanzia, un’educazione scolastica, un’ambiente igienico sicuro, spazi aperti liberi dove poter correre assaporando l’aria fresca e la pura allegria. Costretti a vivere sul filo del rasoio, su una linea di confine, ignorati dal mondo, ignorati dalle istituzioni, ignorati da tutti come se essere innocenti fosse il peggior peccato. Eppure è inconcepibile tale condizione. Politici, scienziati, ricercatori, sono troppo attenti a procreare nuove vite su ordinazione, mentre la società è impegnata a domandandosi se tali siano un diritto reale o un capriccio quando nessuno è in grado di as-sicurare sorrisi, gioie, tranquillità a genitori e bambini rappresentati da questa foto. Mi addolora ancora di più il volto chino della madre. Come se esausta da quella straziante situazione abbia perso ogni speranza, il dolore di una donna di veder crescere i propri figli in quelle condizioni non ha parole. Fin da giovani tutte le bambine fantasticano su come chiameranno il loro bambino, su come lo vestiranno, su come lo educheranno, sul rapporto che avranno. Mi meraviglia e contemplo allo stesso tempo questa donna la quale, nel suo animo, sorride ai propri figli come se tutto andasse per il meglio. Come se non le mancasse nulla. Mi addolora pensare a tutte quelle madri che a stento arrivano a fine mese, ma fanno di tutto per far sentire i propri figli a loro agio con gli altri bambini. Mi addolora vedere tutte quelle madri che passano notti insogni, a piangere perché desiderano una situazione migliore, ma si svegliano comunque con il sorriso stampato in faccia. Ed è questo uno dei punti forti delle madri, pur di non farti pesare nulla si tengono tutto dentro, perché la loro vita è centralizzata su di te, figlio. Perché hanno sempre avuto un legame con te, fin dalla tua esistenza. Guardare quest’immagine mi ha fatto meditare su quanto ogni giorno diamo per scontato la sua presenza, diamo per scontato ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo consiglio, ogni suo respiro, e poi quando è troppo tardi ci ricordiamo di non averla ringraziata, di non averle detto che le vogliamo bene, che ogni sua attenzione per noi è fondamentale, che ogni suo abbraccio, carezza, bacio, sono le gocce che formano il litro per la nostra pura felicità, che ogni suo pensiero per noi ha un valore infinito. Vorrei che chiunque legges-
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se queste parole, pensasse per un attimo alla propria madre, e nonostante tutto riflettesse sul bene immenso che le vuole. Gridatele il vostro amore perché ha bisogno di sentirlo. E lo sentirà ovunque lei sia. Perché si sa la mamma è la mamma, probabilmente vi sono infinite parole che descrivono ogni sua parola, gesto o comportamento, ma nessuno in grado di esprimere al meglio ciò che provo per lei, perciò cara mamma mia anche se sei lontana, voglio che tu sappia, che io ti voglio bene. Un bene dall’anima. Grazie. Firdawss Gartite
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Viaggio “senza ritorno” Roma, 22.07.2016 - 16.08.2016 “Destinazione Paradiso, Gianluca Grignani” “Strada facendo, Claudio Baglioni” Salgo sul treno, mi siedo al posto a me assegnato, mi volto dietro di me, si allontana il mio paese sempre di più mentre davanti scorrono alberi, case, città e paesaggi, pianure e regioni. Chiudo gli occhi e assaporo la sensazione… sto arrivando: manca poco, finalmente! Le stazioni si susseguono ed il mio cuore accelera il suo battito. Sto arrivando, manca poco, finalmente. Vi sono esperienze nella vita, che cambiano la persona, esperienze che fanno riflettere. Io ricordo un viaggio che mi ha segnata profondamente: mi ha fatto apprezzare ogni momento e mi ha dato forza interiore. Roma, 22 luglio-16 agosto 2016 Le persone… il clima… l’atmosfera di quella meravigliosa città mi hanno dato una forza vitale inte-riore che non avevo mai provato prima. Ho capito cosa significhi impegnarsi davvero, cosa significhi avere un vero obiettivo, e ho imparato ad apprezzare tutto. Quei paesaggi con viste mozzafiato che fanno sognare una ragazza piena di aspettative e speranze. Le grandi vie percorse da gente così allegra da rendere la giornata migliore ad ogni incontro. Quell’ aria carica di allegria … Nella nostra capitale tutto sembra avvolto da un alone magico e fa desiderare, a chiunque la visiti, di ritornarci.
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Quando si lascia quella città, si sente già la sua mancanza, non la si vorrebbe lasciare perché è già diventata una parte di te. La canzone di Grignani dice “…c’è che prendo un treno che va Paradiso città”: ho visto Roma e per me è stato come essere in paradiso. Baglioni canta: “strada facendo vedrai, che non sei più da solo” ;“e sentirai la strada, far battere il tuo cuore”. Anch’io ho sentito che la strada mi faceva battere il cuore perché il calore umano cono-sciuto durante quel viaggio non mi ha mai fatto sentire sola. L’arrivo in stazione rappresenta il massimo delle aspettative che riservavo nel cuore e la partenza, sempre da quella stazione, rappresenta la soddisfazione di quelle aspettative. La vita è come un viaggio in treno: le fermate sono le esperienze, in alcune di esse saliranno alcuni passeggeri che diventeranno importanti per te, altri che rimarranno a te indifferenti, così come alcune destinazioni saranno più importanti di altre. Tutte le fermate rappresentano esperienze: alcune meno significative di altre, ma, insieme, sono in-dispensabili per crescere, aprirsi, migliorarsi. Il viaggio della vita è crescita e apertura: non ci si deve arrendere mai e stare sul treno fino al rag-giungimento della destinazione. Treviso, 17/10/2016 Elena Martinelli
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Collaboratori esterni: Alessia Rossetto
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GRAFICA
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