MEDIEVAL ART. THE WAYS OF THE LITURGICAL SPACE

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M. Angheben, J. Baschet, S. de Blaauw, B. Boerner, W. Jacobsen, P. Piva

ARTE MEDIEVALE LE VIE DELLO SPAZIO LITURGICO A CURA DI

Paolo Piva

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© Internazionale, 2010 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati

Prima edizione italiana settembre 2010 Prima ristampa settembre 2019

Traduzioni dal francese: Elisa Emaldi (M. Angheben), Fabio Scirea (J. Baschet); dall’olandese: Cecilia Tavanti (S. de Blaauw); dal tedesco: Livia Giordano (B. Boerner, W. Jacobsen)

Revisione del curatore e, per il testo di W. Jacobsen, Serenella Castri

Questo volume si avvale della campagna fotografica effettuata da bams-photo Rodella sulla base delle indicazioni degli Autori

Stampa e legatura Spektar, Sofia settembre 2019

ISBN 978-88-16-60418-6

Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su

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Indice

Introduzione LE VIE DELLO SPAZIO LITURGICO Paolo Piva pag. 7 IN VISTA DELLA LUCE UN PRINCIPIO DIMENTICATO NELL’ORIENTAMENTO DELL’EDIFICIO DI CULTO PALEOCRISTIANO Sible de Blaauw pag. 15 EDILIZIA CULTUALE DELL’ALTO MEDIOEVO CONTESTI STORICI E PERCORSI LITURGICI

Werner Jacobsen pag. 47 L’AMBULACRO E I «TRAGITTI» DI PELLEGRINAGGIO NELLE CHIESE D’OCCIDENTE SECOLI X-XII Paolo Piva pag. 81 SCULTURA ROMANICA E LITURGIA Marcello Angheben pag. 131 IL DECORO DIPINTO DEGLI EDIFICI ROMANICI PERCORSI NARRATIVI E DINAMICA ASSIALE DELLA CHIESA

Jérôme Baschet pag. 181 CATTEDRALI GOTICHE E PORTALI SCOLPITI LE CONNESSIONI CONTESTUALI DEL CULTO DELLE RELIQUIE

Bruno Boerner pag. 221 Note pag. 262 Bibliografia pag. 273 Indice dei nomi e dei luoghi pag. 286


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Introduzione

LE VIE DELLO SPAZIO LITURGICO Paolo Piva

1. Cristo in Maestà, affresco absidale della basilica di Sant’Angelo in Formis (XI secolo).

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L’idea di questo libro nasce dalla volontà di proporre in modo il più possibile innovativo e organico i temi dell’orientamento, della fruizione «dinamica» e della connotazione figurativa dello spazio liturgico, inteso come architettura e come «rappresentazione». Si può specificare che le «vie» coinvolte sono dunque sia percorsi reali che percorsi ideali o visuali, come quelli che si materializzano rispettivamente nei portali e nelle navate/transetti/ambulacri da un lato, negli orientamenti e nelle sequenze figurative e narrative dall’altro. Ho creduto più utile focalizzare l’attenzione sullo spazio liturgico concepito non in senso astratto, ma come luogo percorso da «vettori» che si configurano o riflettono nell’architettura, nei rituali, nei complementi figurativi, nell’arredo, e che non necessariamente coincidono con l’orientamento principale della chiesa. Nell’essenza, il problema sarebbe quello della destinazione e della funzione degli spazi liturgici, della loro reciproca connessione (mediante le «vie»), del modo in cui i sistemi pittorici e plastici assecondano e documentano tali connessioni «dinamiche». Cinque tra i maggiori studiosi internazionali hanno risposto positivamente all’invito di collaborazione a un volume che desse anche un quadro significativo e metodologicamente aggiornato degli attuali orien-

tamenti della ricerca in proposito. Ne sono scaturite ricerche a loro volta originali, qui pubblicate secondo l’ordine temporale dei relativi argomenti. L’orientamento della chiesa cristiana fu percepito come un problema (dagli aspetti molteplici), ma non necessariamente la basilica paleocristiana sottende solo l’idea di un percorso in direzione dell’altare, almeno a giudicare dalle sequenze istoriate. Se la cattedrale di Roma al Laterano era dotata di una «via all’altare» pontificale che conferma la direzionalità dalla facciata all’abside, in Santa Maria Maggiore a Roma, nel V secolo, i pannelli musivi delle storie bibliche procedono in sequenza temporale addirittura in direzione opposta all’altare, sui due lati (la Lavin usa la definizione di Double Parallel Apse-to-Entrance pattern1): in primo luogo per far «cadere» due prefigurazioni eucaristiche (Abramo, Melchisedech) ai lati dell’altare, un procedimento che ritroveremo amplificato in età romanica, per esempio a Sant’Angelo in Formis (Campania) e a Saint-Savin nel Poitou, dove produce «sequenze spezzate». La direzionalità parallela dall’abside alla facciata si ripete nelle historiae cristologiche di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna: qui però solo per i pannelli evangelici superiori, ma non per i Martiri e le Vergini del registro inferiore. Tutto ciò ha un significato? Pro-

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babilmente, i miracoli e la passione di Cristo emanano da Dio e vanno «verso i fedeli», mentre i martiri e le vergini («proiezioni» dei fedeli) procedono verso il Cristo e la Vergine della zona orientale, e verso l’altare (in quanto «imitarono» Cristo nel sacrificio). Diversamente potrebbe essere connotata la narrazione orientata di Roma, dove le chiese più antiche avevano l’abside a ovest e la facciata a est: gli eventi e i patriarchi dell’Antica Legge di Santa Maria Maggiore si dirigerebbero verso l’oriente – come lo sguardo del celebrante –, e verso l’immagine musiva un tempo collocata in controfacciata (la Vergine con i martiri, verso cui procederebbero gli «antenati»). Poiché tuttavia la principale immagine della Vergine in trono col Figlio si trovava nell’abside e l’Incarnazione/Infanzia di Cristo sull’arco absidale, risulterebbe plausibile soprattutto il concetto che l’Antica Legge emana dal Dio successivamente incarnato. Anche nelle altre grandi chiese romane delle origini era adottato il vettore narrativo dall’abside alla facciata. Nell’antica San Pietro le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento (cristologiche) si confrontavano sulle due pareti della navata centrale – senza alcun intento «tipologico» – e procedevano verso oriente. Qualcosa di simile esisteva forse anche nella cattedrale Lateranense (dove la solea pontificale – seppure più antica degli affreschi – procedeva all’incontrario verso l’altare!), e in San Paolo fuori le mura, dove era il racconto della vita di Paolo a fronteggiare le storie bibliche: qui era il messaggio salvifico dell’apostolo ad essere direzionato «verso i fedeli», e in questo caso le historiae procedevano verso ovest. Dunque: Paolo, «ricevuto il mandato» da oriente, si «proietta nel mondo» verso occidente. La Lavin ha cautamente supposto che le ragioni del Double Parallel Apse-to-Entrance pattern siano da cercare nella volontà di sottolineare l’immagine divina absidale come «fuoco generatore», oppure scaturiscano dal desiderio di assecondare i movimenti della liturgia. Il secondo movente non può però che essere la conseguenza del primo: il «punto di vista» dei ministri del culto – che nelle chiese più antiche di Roma (tranne San Paolo) non era solo la direzione della celebrazione liturgica ma anche la proiezione verso Oriente, verso il simbolico sole nascente – configurava l’emanazione da Dio del mondo e della storia sacra, ma anche la «discesa» del Verbo/parola tra i fedeli. Dio, con la Creazione e attraverso Cristo, è venuto «verso gli uomini»; i suoi ministri ne proseguono l’opera evangelizzatrice; i fedeli, d’altra parte, rivolti e «in

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cammino» verso l’altare di Cristo (come fa il clero durante l’introito della messa), intraprendono il loro ritorno alla fonte divina. Nelle pitture carolinge di San Giovanni a Müstair, i cicli sovrapposti di David (in alto) e di Cristo (tre registri sottostanti), pur sulle pareti perimetrali di una chiesa ad aula unica, iniziano presso la zona absidale a sud, procedono verso la facciata, e a nord «ritornano» verso la zona absidale2. Questa dinamica sequenziale si ripete quattro volte in senso orario, dall’alto verso il basso, più o meno come avverrà più tardi a Sant’Angelo in Formis. I cicli pittorici di età romanica si fondano soprattutto sui precedenti altomedievali, mentre è rara la sequenza «verso la facciata» su ambedue i lati (se non in contesto di «imitazione» dei prototipi paleocristiani). La formula più frequente è quella dell’«andata» su una sola parete con «ritorno» sulla parete opposta, anche quando ciò si ripete su più registri. La coesistenza, e anzi addirittura «sovrapposizione», dei due orientamenti est-ovest e ovest-est è particolarmente evidente nelle pitture di San Pietro al Monte di Civate3. Ma certo in età romanica la casistica è assai più composita delle poche e-semplificazioni citate. In San Vincenzo a Galliano, sulla parete nord, in alto, il racconto del libro della Genesi va dall’abside alla facciata (concludendosi con Cacciata e Lavoro dei Progenitori), ma le storie di Giuditta e Margherita dei due registri sottostanti vanno verso l’altare. Si tratta di un percorso duplice di caduta e risalita analogo a quello delle porte bronzee di Hildesheim (1015): il peccato procede verso occidente (cioè verso il portale della chiesa, coinvolto dalla Cacciata=uscita dall’Eden), gli exempla dei giusti e dei santi procedono verso l’altare (come accadeva secoli prima in Sant’Apollinare Nuovo)4. A San Pietro in Valle a Ferentillo (fine XII secolo), se anche il referente del ciclo pittorico è quello dell’antica chiesa vaticana, con Antico e Nuovo Testamento «confrontati» sulle due pareti della navata centrale e su più registri5, le sequenze non sono più «parallele»: l’Antico Testamento «cammina» in direzione dell’altare (perché non può che «compiersi» in Cristo), il Nuovo in direzione della facciata (perché va «verso i fedeli»). In sintesi, si può riconoscere che alla logica della «proiezione» aperta dell’immagine/parola «verso i fedeli», che connotò i primi secoli cristiani (Double Parallel Apse-to-Entrance pattern), il Medioevo si sia piuttosto prodotto a concepire una logica «circolare» chiusa, quasi autoreferenziale: tutto emana da Dio (e dalla Chiesa) e vi ritorna.


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2. L’offerta di Melchisedech, mosaico della navata centrale della basilica di Santa Maria Maggiore, Roma (V secolo). 3. L’ospitalità di Abramo, mosaico della navata centrale della basilica di Santa Maria Maggiore, Roma (V secolo).

Riguardo all’architettura, nelle chiese/santuario martiriali o memoriali paleocristiane – longitudinali o centralizzate – poteva già essere previsto un percorso alla tomba o alla memoria venerata, che è di caso in caso da individuare, come acutamente Beat Brenk ha proposto ad esempio per la rotonda dell’Anastasis di Gerusalemme o per il San Demetrio di Salonicco. L’alto Medioevo – soprattutto con la definizione delle cripte semianulari e poi di quelle a corridoi angolari – accentuerà la prospettiva di un percorso programmato e delimitato per la visita alle reliquie, finché l’età romanica conclamerà interi edifici concepiti come santuari monumentali, pur essendo contemporaneamente chiese monastiche o cattedrali. Ma già nella pianta di San Gallo (830), e nella chiesa della stessa abbazia costruita poco dopo (modificando il progetto), si constata un grande santuario, ideato sia per i percorsi processionali dei monaci agli altari (previsti già nel Saint-Riquier a Centula) che per la visita dei pellegrini al corpo santo (tramite le navate laterali, «proiettate» verso la cripta)6. Dall’età paleocristiana (chiese ad absidi opposte) e carolingia (Colonia, Fulda, e la stessa pianta di San Gallo) fino all’età ottoniana e al romanico era stata presa in considerazione anche l’eventualità di chiese a doppia direzionalità, o meglio a poli cultuali opposti, con connotazioni liturgico-funzionali distinte. La pittura e il mosaico realizzarono le «integrazioni» figurative dell’edificio di culto fin dalla prima età cristiana, mentre per la scultura lapidea si do-

vrà attendere l’esplosione romanica, preceduta dall’utilizzo altomedievale dello stucco. I complementi figurali conferivano significato allo spazio liturgico, con cui interagivano dialetticamente. I soggetti della pittura murale romanica hanno una precisa pertinenza agli spazi funzionali della chiesa; i capitelli lapidei dell’interno (figurati e/o istoriati) adeguano i temi simbolici agli spazi liturgici7; l’iconografia delle facciate scolpite configura programmi monumentali, «manifesti» ecclesiologici e «messaggi» rivolti ai laici, ma intrattiene anche rapporti leggibili – al capo opposto di un filo rosso – con l’iconografia eucaristica del santuario (cfr. Angheben), se non con i percorsi processionali8 e gli Spielen semiliturgici. Nelle grandi cattedrali gotiche (secoli XII e XIII) non viene meno la prospettiva della facciata come pagina-manifesto né la sua relazione con le pratiche cultuali legate al santuario (Eucaristia, reliquie: cfr. Boerner), ma viene introdotta una nuova dialettica semantica mediante la vetrata. Invece, nelle chiese gotiche italiane è la pittura murale a «riformulare» le pareti con sequenze narrative che implicano una ricezione in movimento da parte dei laici, come dimostra innanzitutto il caso delle storie di san Francesco sia nella chiesa inferiore che in quella superiore di Assisi. Mentre la narrazione biografica della chiesa inferiore, su ambedue i lati, si dirige verso la tomba del santo (con intento allusivo evidente al cammino verso la morte), quella della chiesa alta è di tipo «circolare» e obbliga i

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pellegrini alla consultazione delle due pareti in successione. Qui sembra davvero recuperato l’antico programma didattico/esortativo insito nelle parole di Gregorio Magno (arte come «bibbia degli illetterati»), che nel Medioevo era stato per lo più disatteso e che ora assumeva l’enfasi «propagandistica» di un’eccelsa oratoria agiografica. Il volume si apre con i due saggi, correlati cronologicamente ma anche per contenuti, di Sible de Blaauw e Werner Jacobsen. Ambedue di lungo periodo, gravitano attorno al tema dell’orientamento della chiesa, di cui de Blaauw evidenzia magistralmente almeno un triplice aspetto (orientamento dell’asse esterno, orientamento interno in rapporto all’altare, orientamento del celebrante). Lo studioso olandese, uno dei massimi specialisti internazionali dell’interazione architettura-liturgia e autore del testo referenziale Cultus et decor sulle chiese pontificali di Roma, riprende un suo saggio edito solo in olandese, aggiornandolo, e dimostra come l’orientamento a est sia sempre stato privilegiato, a scapito delle eccezioni e varianti consentite, dovute a ragioni di natura molteplice. Werner Jacobsen, autorità indiscussa negli studi sull’architettura altomedievale europea9, si cimenta qui soprattutto sul caso italiano, anzi, più propriamente sulle relazioni dialettiche fra edilizia cultuale romano/italica e architettura europea (da quella merovingica a quella longobarda), fino al recupero – non unilaterale! – neoromano/cristiano dei periodi tardolongobardo, tardomerovingico, carolingio e ottoniano. Non emerge soltanto in questo contesto il ruolo di trait-d’union dell’Italia settentrionale, ma soprattutto emergono le differenti concezioni – in relazione ai contesti storici – dei «percorsi» liturgici, intendendo con questo termine i percorsi interni alla chiesa che riflettono differenti cursus liturgici. Emblematico, ad esempio, il caso della solea, che se a Roma, fin dalla cattedrale Lateranense, è una «via all’altare», in Europa si trova come percorso opposto, chiuso a occidente con un ambone. Ancora una volta, se la tradizione paleocristiana accentuava una relazione aperta fra navata liturgica e presbiterio/altare, le innovazioni europee – ben più influenti in rapporto al Medioevo – condussero a tutta una serie di frazionamenti (recinzioni ben evidenti nella pianta di San Gallo dell’830)10. Non sono assenti dal saggio di Jacobsen il tema dell’orientamento, in modo sostanzialmente parallelo alle posizioni di de Blaauw, e quello della doppia polarità cultuale (chiese a «cori» opposti), messa in rapporto a una distinzione di

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«occasioni» liturgiche festive: da celebrare «alla romana», con abside a ovest che obbligava i fedeli a guardare a ovest; oppure «alla maniera franca», con abside a est che obbligava il celebrante a girare le spalle ai fedeli. Il contributo dello scrivente chiude la prima parte del volume – dedicata all’architettura – cercando di isolare una casistica possibile per i percorsi o «tragitti» di pellegrinaggio nelle chiese romaniche europee. È bene sottolineare che si tratta di un primo tentativo di classificazione provvisoria in una materia complessa e ancora in gran parte da indagare. Ma intanto sembrano emergere alcune linee di tendenza comuni, che non implicano affatto l’esistenza di un piano preordinato del pellegrinaggio europeo. Anzi, nessuna chiesa ha avuto origine solo come «chiesa di pellegrinaggio», ma è stato assai frequente che una chiesa fosse tentata di programmare almeno un «tragitto» di pellegrinaggio. Rari sono gli esempi in cui la pittura murale si è conservata quasi interamente all’interno della chiesa romanica. Due fra i più significativi sono le chiese monastiche di Sant’Angelo in Formis (Campania) e di Saint-Savin-sur-Gartempe (Poitou), qui trattata con la consueta profondità e finezza da Jérôme Baschet. Il saggio dello studioso evidenzia magistralmente le dinamiche interattive fra cicli pittorici e spazio liturgico11, più che quelle fra cicli e utenti potenziali (chierici, laici), che infatti non sempre e non necessariamente erano in gioco, cioè «parte in causa prevista»12. Il suo accenno a Sant’Angelo in Formis mi induce ad aggiungere alcune riflessioni e segnalazioni su questo ciclo, che forse non ha ancora avuto una monografia esaustiva, pur considerando i notevolissimi saggi di Helène Toubert13. Chi visita la chiesa monastica di Sant’Angelo in Formis (1072-1087 circa), con le ampie superfici continue dipinte, ha la sensazione di trovarsi in una versione ridotta dell’antica basilica vaticana di San Pietro (ma senza transetto!), e in effetti la dipendenza da Montecassino spiega perfettamente questa relazione. La stessa chiesa cassinese aveva assunto come modello le basiliche romane a transetto continuo: il committente ne era stato il famoso abate Desiderio, che è raffigurato come tale anche nell’abside di Sant’Angelo. Sotto il vestibolo esterno, san Michele è affrescato nel timpano del portale (una lunetta dipinta con il titolare della chiesa e non scolpita con un Cristo/Porta!). Nell’estradosso del portale, Maria, regina orante in clipeo, è sorretta da due angeli mentre, a lato del


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4. Porta bronzea del duomo di Hildesheim (1015).

portale, quattro lunette raccontano vicende dei santi eremiti egiziani Paolo e Antonio: un tema adeguato alla chiesa monastica. La decorazione dell’atrio è però posteriore di quasi un secolo a quella dell’interno. L’Antico Testamento figurava sulle pareti delle navate laterali (oggi sopravvive solo a nord), assieme a figure di santi. Nella navata centrale, un ampio ciclo evangelico costituisce il decoro di ogni parete su tre registri sovrapposti. Si inizia a destra dell’abside, dall’alto, per proseguire verso la facciata e poi si continua sulla parete sinistra, dalla facciata verso l’abside. Per ogni registro si ripete questo

percorso: dunque non si tratta di una sequenza lineare ma spezzata e iterata, tuttavia «incatenata» in «percorsi circolari» (Lavin, Baschet), come già era accaduto in San Giovanni a Müstair nel IX secolo. È purtroppo perduta la fascia alta a destra, cioè l’Infanzia di Cristo, a partire dall’Annunciazione. Il ciclo termina con l’Ascensione. La zona centrale della chiesa era dunque riservata al trionfo di Cristo, che appariva nella sua incarnazione terrena (pareti), come re eterno sul trono e «docente» fra i simboli tetramorfici della Parola divina (Evangelisti) nell’abside, e come Giudice finale (controfacciata). Una splendida Crocifissione è collocata fra il terzo e il quarto arco della parete sinistra. Viene alla mente il soggetto analogo, circa a metà della navata, dell’antica San Pietro in Vaticano, cui corrispondeva un sottostante altare della Croce. Si può immaginare qualcosa di simile a Sant’Angelo, ma già prima in San Giovanni a Müstair: forse l’altare della Santa Croce, che nelle navate monastiche era sempre quello destinato alle messe dei laici, era ubicato in prossimità dell’affresco. La colonna sotto la Crocifissione evidenzia un foro, e due fori sono nella colonna simmetrica: qui doveva essere innestata la recinzione ovest del coro monastico – assai più lungo della zona riservata ai laici (prime tre campate) –, all’esterno del quale era presumibilmente ubicato l’altare della Croce14. Questa osservazione ci offre una spiegazione plausibile dell’andamento «spezzato» del racconto evangelico: probabilmente si fece in modo che determinati soggetti venissero a «cadere» in determinate zone, in rapporto con gli spazi liturgici. Che è quanto accade a Saint-Savin, ma accadeva molti secoli prima già in Santa Maria Maggiore a Roma nei mosaici del V secolo. La Crocifissione, ad esempio, doveva corrispondere alla posizione dell’altare della Croce; l’Ascensione, invece, doveva porsi in vicinanza dell’abside, dove Cristo è seduto sul suo trono di gloria. L’Ultima Cena e Cristo che lava i piedi agli apostoli (giovedì santo) vennero posizionati vicino alla facciata, come assai più tardi a Bominaco negli Abruzzi (1263), perché il Mandatum connotava la disciplina penitenziale; anche l’Ingresso a Gerusalemme non per caso viene a trovarsi a lato del supposto ingresso al coro; più in generale, le scene della Passione (dal Getsemani fino alla Crocifissione) corrispondono alla zona dei laici, mentre quelle dalla Deposizione alle apparizioni del Risorto corrispondono al coro. I rilevati nessi con la «strategia narrativa» di SaintSavin inducono a pensare a una cultura e a una mentalità comune dell’Europa cristiana.

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L’Antico Testamento era dipinto nelle navate laterali, quasi in un’«anticamera» rispetto alla più ampia luce reale e significante della navata centrale (l’equazione era dunque: l’Antico Testamento sta al Nuovo come la conoscenza velata sta alla Luce rivelata). La soluzione «tipologica» era stata scartata, ma la Vecchia Legge compariva nei pennacchi degli archi verso la navata centrale (Mosè, Salomone, Davide, Isaia, Daniele, Ezechiele, Geremia, Sibilla ed altri). Questi personaggi sopra le colonne (precursori, antenati e profeti di Cristo) sono come i «pre-supposti» delle storie evangeliche. Nelle zone di controfacciata relative alle navate laterali esistono anche gli episodi di Adamo ed Eva, Caino e Abele, Noè (i temi ‘penitenziali’ che a Modena figurano in facciata ma comunque sulla corrispondente parete), oltre a due storie ‘prefiguranti’ del giudice Gedeone15. Nella navata sinistra il racconto prosegue dall’Arca di Noè fino alla torre di Babele, ad Abramo, Isacco e Melchisedech. Le absidiole laterali sono affrescate con i titolari degli altari: la Vergine e le sante martiri (a destra), gli apostoli Pietro e Paolo e i santi martiri (a sinistra). Sulle due pareti corte opposte il Cristo troneggiante della Parola fronteggia il Cristo Giudice, e numerose figure di angeli sottolineano la titolarità dell’arcangelo Michele. Nel registro inferiore dell’abside Michele è al centro fra Gabriele e Raffaele, con a lato le figure di san Benedetto e di Desiderio che offre la chiesa. In controfacciata, in alto, i quattro angeli tubicini di (Mt 24,31) risvegliano i morti dai sepolcri, mentre più sotto altre schiere angeliche affiancano il Giudice «dissimmetrico» (che premia con la destra e condanna con la sinistra). I due angeli più vicini a lui indossano il loros degli imperatori bizantini, lunga sciarpa adorna di pietre preziose e perle. Questo però non è un Giudizio ‘bizantino’, mancandone quasi tutti gli elementi connotanti: il torrente di fuoco (da Daniele), i cherubini (da Ezechiele), la Terra e il Mare che restituiscono i morti (Ap. 20,11-15), la Deesis. Anzi, la resurrezione dei morti innaturalmente posta sopra la testa di Cristo richiama piuttosto il precedente carolingio di Müstair16. Tre angeli sotto il Cristo reggono cartigli: i due laterali con le parole di punizione e premio (Mt 25). Non figura invece la cosiddetta «pesatura delle anime» (in realtà delle azioni umane), che pur sarebbe attribuzione di Michele. Beati e dannati sono nei due registri laterali inferiori. Nel più basso, al giardino paradisiaco degli eletti corrispondono Satana incatenato e le torture dei dannati. I beati seguono

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una sorta di gerarchia: sopra stanno monaci, monache e vescovi, sotto, chierici e laici. Quanto alla scultura, infine, Marcel Angheben ci offre una rigorosa e documentatissima rassegna sulle relazioni fra iconografia e spazio liturgico17, coinvolgendo la stessa pittura murale e le arti suntuarie. Le sue considerazioni sull’importanza del tema eucaristico, anche come nesso di collegamento tra facciate e «cori liturgici», si accordano molto bene con le osservazioni di Jérôme Baschet a proposito della pittura murale di Saint-Savin. Ci saremmo aspettati una finalità sostanzialmente diversa delle sculture della facciata (aperta a una dialettica con i laici) rispetto a quelle del santuario, ma Angheben evidenzia relazioni strutturali che non impediscono, di contesto in contesto, di leggere sottolineature e messaggi specifici (spesso tuttavia impropriamente o incautamente proposti, come lo studioso giustamente segnala). Ho parlato prima di «coro liturgico», poi di «santuario», e questo richiede una spiegazione precisa, dato che il lettore potrebbe essere disorientato dalla discrasia fra la terminologia degli spazi liturgici di Angheben e quella da me utilizzata nel contributo sui tragitti di pellegrinaggio. Credo che ambedue siano pienamente legittime, purché sia chiara la ‘tavola di comparazione’. Sia Baschet che Angheben optano per esprimere la duplicità strutturale di fondo dello spazio cultuale: quella che nel Medioevo vedeva da una parte la zona dei laici (solitamente a ovest: «navata liturgica»), divisi fra uomini e donne, e dall’altra la zona dei chierici. Questa duplicità emerge vigorosamente nei testi medievali (Baschet) ed era espressa materialmente, nelle chiese dell’Occidente, da un tramezzo murario o da una tribuna o jubé (a partire da fine XII secolo), che separava sempre le due zone18. Angheben definisce la zona dei chierici come «coro liturgico», oppure tout court come «spazio liturgico», cioè spazio specifico della liturgia19. Questo spazio era tuttavia diviso al suo interno in due luoghi «funzionalmente complementari» (Angheben), cioè il «santuario» (con l’altare maggiore, spesso sopraelevato di qualche gradino, ed eventuali altari secondari) e il «coro» vero e proprio. Il primo era riservato alla messa, il secondo, alle salmodie degli uffici quotidiani. Mentre il primo può coincidere con il «coro architettonico» (termine usato dagli storici dell’architettura – ma non molto appropriato – per indicare la zona absidale), il secondo è uno spazio «fluttuante»: può situarsi nella parte est della navata, nell’incrocio del transetto, o persino


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nell’abside se è molto profonda, ma anche coinvolgere due di questi spazi. Chi scrive ha dunque optato per riflettere nella terminologia questa distinzione ulteriore, intendendo per «santuario» la zona dell’altare, per «coro liturgico» la sola zona del coro vero e proprio, e per «spazio liturgico» l’intero contesto della chiesa: esisteva una liturgia anche nella «navata liturgica», che i monaci percorrevano con processioni e relative stazioni, e dove, all’altare della Croce, i chierici celebravano la messa a beneficio dei laici. La duplice terminologia potrà creare qualche disorientamento, ma la precisazione – d’altronde effettuata dallo stesso Angheben – dovrebbe soccorrere adeguatamente. Il saggio, infine, di Bruno Boerner chiude degnamente il volume con una panoramica su tre delle maggiori cattedrali gotiche francesi (Amiens, Chartres, Strasbourg), più precisamente sulla «relazione contestuale» fra culto delle reliquie, liturgia e iconografia dei portali20. La puntuale disamina delle fonti lo conduce in una direzione che ha punti di contatto sia con il contributo di Angheben (relazioni contestuali fra scultura dei portali romanici e liturgia) sia con quello di chi scrive (facciate scolpite come anticipazione «segnaletica» dei tragitti di pellegrinaggio nel coro architettonico21). Soprattutto nel caso di Amiens ritroviamo il deambulatorio di pellegrinaggio attorno al reliquiario, posto nell’abside interna e «pubblicizzato» dal portale occidentale di San Firmino. Il contributo tocca le intime corde psicologiche della «costruzione del messaggio» (e del consenso) da parte del clero medievale, e della ricezione o risposta emotiva dei fedeli. Dunque le «vie dello spazio liturgico» che emergono dal libro sono gli «orientamenti» di cui tratta de Blaauw, i «per-corsi» liturgici di Jacobsen, i «tragitti di pellegrinaggio» di chi scrive, la «dinamica assiale» della navata dipinta di Baschet, le connessioni iconografico-liturgiche tra portali di facciata e santuario che emergono dai saggi di Angheben e Boerner. Forse non tutte le «vie» concepite nel Medioevo (oppure «restituite» dalla ricerca contemporanea) emergono dal volume, né sarebbe stato facile farle venire a galla. Penso ai cir-

cuitus orationum di età carolingia e ai percorsi processionali del periodo romanico in rapporto all’iconografia22, cui fa pur cenno Angheben, oppure ad altre forme di «sequenze dinamiche» delle pitture medievali, incluse nella ricerca della Lavin23. La «fruizione attiva» dello spazio liturgico nel Medioevo è forse avvenuta più in relazione agli scorrimenti longitudinali, come già evidenzia la pianta di San Gallo (altari nelle navate laterali per i circuiti delle orazioni, percorso dei laici in direzione della cripta con deflusso nella navata opposta), che non in rapporto al santuario e al coro, ove celebrazioni e uffici non richiedevano spostamenti significativi. Questa osservazione è però temperata dal fatto che, nella stessa pianta di San Gallo, la navata centrale è frazionata in «cellule» liturgicofunzionali (ambone, altari, fonte battesimale, coro ovest) e non consente scorrimenti aperti, ma anche dal fatto che la presenza di due ali di coro nei bracci del transetto e di più altari nel santuario richiedeva pur sempre dei collegamenti «dinamici». Ancor più in età romanica, e in ambito monastico, come rivelano processioni e visite/celebrazioni agli altari (pertinenti al proprio dei Santi e alle festività per circulum anni), è esistita una forte propensione per un’azione liturgica di movimento che «aggredisse lo spazio» al di là delle azioni liturgiche pur sempre fondamentali e centrali del rito eucaristico (richiamato nelle stesse facciate scolpite) e degli uffici di coro. Non è da trascurare che, se i frazionamenti delle recinzioni di coro apparentemente impedivano la comunicazione fra «chiesa del clero» e «chiesa dei laici», non mancavano mai uno o due portali – ricavati nel tramezzo o nel jubé – che consentissero ai celebranti di recarsi a uno o più altari nella navata liturgica, così come, d’altra parte, i pellegrini potevano in più occasioni circum-ire il santuario per raggiungere da vicino le reliquie. Il presente volume, tenendo conto di un concetto allargato di «spazio liturgico» – in cui gli «attori» non sono soltanto i «professionisti del culto», ma anche i fedeli comuni e quelli più o meno occasionali come i pellegrini –, intende anche rilanciare un versante di indagine passibile di risultati ulteriori.

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IN VISTA DELLA LUCE UN PRINCIPIO DIMENTICATO NELL’ORIENTAMENTO DELL’EDIFICIO DI CULTO PALEOCRISTIANO Sible de Blaauw

La questione dell’orientamento1

1. Cristo-Helios, particolare del mosaico del mausoleo dei Giulii, Necropoli Vaticana.

È là dove sorge il sole che si trova il Paradiso, luogo in cui ha avuto inizio la storia dell’umanità e in cui ogni essere umano spera un giorno di tornare. Dove il sole si leva sopra l’orizzonte, lì è apparso Dio all’inizio dei tempi e lì apparirà di nuovo alla fine del mondo2. Questa credenza dei primi cristiani affondava le radici in una tradizione religiosa antichissima. Dove ogni giorno si dispiegava il miracolo dell’alba, là gli uomini hanno costantemente pensato di trovarsi vicino al loro dio immaginandovi una dimora felice, lontana dalla demoniaca oscurità della notte. Molti cristiani distinguevano probabilmente a fatica quella che era una metafora teologica della luce dall’identificazione «pagana» del sole con Dio stesso. Il simbolismo del sole era tuttavia tanto potente e familiare da farsi assimilare integralmente nella tradizione cristiana: ebbe la meglio sulle riserve nutrite da fedeli ortodossi riguardo a una concezione troppo concreta, quanto all’aspetto e al luogo di permanenza, della presenza di Dio e inoltre sul timore delle autorità ecclesiastiche di una ripresa strisciante del culto pagano del sole. Gli autori del Nuovo Testamento e i primi esegeti definivano il Redentore luce del mondo e sole della resurrezio-

ne. Esisteva dunque un complesso di significati simbolici che i seguaci di Cristo potevano associare all’oriente e che, raramente definiti in maniera esplicita, erano comunque tutti insieme abbastanza efficaci come filo conduttore in occasione della preghiera3. Per i cristiani era ovvio volgersi verso oriente per la preghiera. Dal momento che i cristiani erano soliti pregare rivolti a Oriente, non sorprenderà che presso di loro si affermasse anche l’uso di disporre gli edifici di culto in direzione delle plaghe celesti, dove si credeva fosse il Paradiso e da dove era atteso il ritorno del Signore. Rilevabile in ambito cristiano solo a partire dal IV secolo, questa pratica risaliva però, al pari della direzione adottata durante la preghiera, a tradizioni religiose molto antiche. Tradizioni assai multiformi: se raramente l’asse principale di un edificio sacro aveva un orientamento arbitrario, esistevano comunque nella modalità di realizzazione notevoli differenze tra Babilonia e l’Egitto, nel mondo ebraico, in quello greco e in quello romano4. Diversi erano i princìpi operanti nel determinare la direzione dell’asse: princìpi di carattere cosmologico, come la posizione del sole e delle stelle, o di carattere geografico, come l’ubicazione rispetto a Gerusalemme. Stabilita la direzione, esistevano poi diverse soluzioni

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architettoniche per darle attuazione: così, l’asse prescelto era individuato puntando l’ingresso principale ma anche la parete di fondo dello spazio interno. La varietà era insomma ben più grande di quanto solitamente si ritiene, e ciò sia nell’architettura del tempio che in quella della sinagoga. Persino nell’ambito della stessa area culturale si ebbero risposte architettoniche differenti per soddisfare l’esigenza di legare preghiera e culto ad una determinata direzione, così da collocare la relazione tra essere umano e divinità nello spazio di terra e cosmo. In netto contrasto con la pluralità di orientamenti degli edifici di culto dell’antichità si pone l’architettura cristiana del Medioevo, caratterizzata al riguardo da una prassi pressoché universale e uniforme. Ovunque, dal Sinai all’Irlanda, dalla Spagna alla Russia, gli edifici di culto presentano quasi senza eccezioni, seppure con gradazioni, il lato dove è ubicato l’altare rivolto verso oriente. Una omogeneità di scenario che sorprende se confrontata con la varietà dei contesti pagani e che è oltretutto estranea allo stesso cristianesimo delle origini. È evidente dunque che vi è stata l’azione di un

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principio molto efficace, in grado di far convergere le antiche tradizioni cultuali in quell’unica formula di orientamento che contraddistinse il Medioevo cristiano. Consultando la letteratura sull’argomento, si constata che tale principio sembra più difficile da individuare di quanto farebbero supporre i suoi ben noti componenti, cioè l’orientamento verso il sole e l’interpretazione cristologica della luce. In sostanza si tratta del rapporto tra architettura e culto. E questo rientra nel campo d’indagine degli studiosi di storia dell’architettura e della liturgia, che però negli ultimi decenni hanno preso le distanze dall’argomento. Con il risultato che della fase iniziale dell’orientamento nell’edilizia cultuale e del suo sviluppo tra antichità e Medioevo esiste un’immagine tutt’altro che nitida. Negli autorevoli studi degli ultimi decenni dedicati all’architettura cultuale cristiana, l’orientamento non figurava più tra i temi presi in considerazione, e solo a partire dal 2000 si notano nuovi tentativi di riavviare la discussione al riguardo5. Due gli assunti che sembrano aver scoraggiato la ricerca: anzitutto il dato universalmente noto che

2. Veduta dall’alto del centro di Molfetta con l’orientamento di alcune chiese.


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3. Veduta dall’alto della città di Bologna, con la cattedrale di San Pietro (centro sinistra) e la basilica di San Petronio (centro destra).

nel Medioevo l’orientamento verso est era una regola assoluta; in secondo luogo la convinzione che nel periodo paleocristiano, ma anche nell’Italia medievale, l’orientamento non avesse grande importanza nella pratica. La contraddizione tra le due osservazioni ha il suo fascino, ma quale potrebbe essere il legame tra le due è questione raramente sollevata. Per questo l’orientamento appariva in effetti tema non tanto interessante per la storia della liturgia e dell’architettura e poteva tranquillamente essere lasciato all’approccio più speculativo degli studiosi di cosmologia. Il disinteresse per il tema era ancora più pronunciato nell’ambito della scienza della liturgia, dove l’attenzione andava concentrandosi in misura crescente sulla questione della posizione del celebrante all’altare. L’esponente più noto di questo approccio è Otto Nussbaum, con la sua opera apparsa nel 1965, Der Standort des Liturgen am christlichen Altar vor dem Jahre 10006. Malgrado le smentite dell’autore, l’opera appare non solo informata ma anche metodologicamente determinata da un interrogativo anacronistico: a che epoca risale l’usanza secondo cui l’officiante

sta all’altare con il viso rivolto verso i fedeli? E quanto era diffusa? La risposta di Nussbaum era: la celebrazione versus populum, con la faccia verso il popolo, è antica quanto i primi edifici di culto cristiani ed era molto frequente prima dell’anno Mille pressoché in tutte le regioni del mondo cristiano. Queste conclusioni risultavano di grande attualità negli anni della generale riorganizzazione delle chiese dopo il Concilio Vaticano II ed erano soprattutto estremamente gradite. Da storico serio quale era, Nussbaum era ben consapevole che ideali come la visibilità del culto e il dialogo tra officiante e assemblea dei fedeli non erano in alcun modo collegati con le concezioni liturgiche del lontano passato mentre lo erano strettamente con i desiderata pastorali del suo tempo. Il suo libro infatti non è tanto una legittimazione storica della posizione versus populum, quanto una tacita negazione dell’orientamento ad est come principio guida. Il fatto che su 560 monumenti considerati quasi il 92% appaia orientato verso est è di poca importanza agli occhi dell’autore. Non sarà allora un caso se gran parte delle planimetrie, facenti parte del materiale di base della ri-

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cerca, risulta priva di frecce indicanti il nord. Non sono mancati colleghi di storia della liturgia che hanno contestato a Nussbaum l’aver estrapolato il problema della posizione del celebrante e dato un’interpretazione di parte delle evidenze archeologiche, tuttavia negli ambienti dell’archeologia cristiana e della storia dell’arte medievale i loro interventi hanno avuto un’eco più che modesta7. La sintesi di Nussbaum sarà stata molto influente, ma il suo approccio comunque non era nuovo e aveva dei precedenti sia nell’archeologia cristiana che negli studi di storia della liturgia. Le basi erano già state poste nell’importante volume di Joseph Braun sull’altare cristiano pubblicato nel 1924. Se Braun riconosce appieno il significato dell’orientamento ad est e ammette anche il legame che sarebbe esistito, almeno temporaneamente, fra orientamento e posizione dell’officiante all’altare, giunge però poi a considerare orientamento e collocazione dell’officiante come fattori tra loro indipendenti: l’occidentazione di una chiesa non era che una delle ragioni a determinare il posizionamento del celebrante dietro l’altare. Altre ve ne erano a suo avviso: la presenza della cattedra vescovile e di banchi per i presbiteri dietro l’altare, oppure la presenza di una confessio o una fenestella con reliquia sul lato navata, sotto o all’interno dell’altare8. Ad un certo momento – non unanimemente definito nella letteratura – nella storia si sarebbe avviato un processo di inversione della posizione, al termine del quale «il celebrante dà le spalle ai fedeli»9. La confusione che oggi regna sull’argomento verte su supposizioni di cui sfugge sempre più il carattere ipotetico. In primo luogo viene supposta una certa arbitrarietà riguardo alla direzione dell’asse dell’edificio di culto durante il cristianesimo delle origini, in determinate regioni. «Le basiliche romane erano state edificate senza alcun riguardo all’orientamento» affermò Michel Andrieu, tra i massimi storici della liturgia del XX secolo10. Poggia tra l’altro su questa stessa supposizione un’ipotesi in forma implicita presente in opere di Braun, di Nussbaum e di molti altri studiosi: non vi sarebbe rapporto tra direzione dell’asse dell’edificio di culto e direzione nella quale il sacerdote celebra la messa all’altare. Andrieu partì dal presupposto che a Roma l’officiante stesse sempre dietro l’altare, «in modo da avere l’assemblea dei fedeli sotto i propri occhi...»; solo in seguito, ad opera dei Franchi, il principio dell’orientamento ad est sarebbe stato introdotto nella liturgia romana11.

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L’archeologo Noël Duval, che ha indagato l’architettura cultuale paleocristiana nelle regioni sud e est del bacino del Mediterraneo, considerando lo spazio esistente intorno all’altare, conclude che la «celebrazione verso il popolo» appare in molti casi probabile, l’orientamento dell’edificio non vi aveva comunque alcun ruolo12. Tutte queste idee tuttavia tradiscono subito il loro essere prodotti di una storia critica relativamente giovane. L’impasse che si registra nel dibattito scientifico dipende da una visione distorta del rapporto tra l’orientamento architettonico e quello liturgico, vale a dire tra direzione dell’asse dell’edificio di culto e collocazione dell’officiante. È di fondamentale importanza distinguere questi due concetti. Il termine orientamento ha acquisito in molte lingue un senso figurato di determinazione di posizione e direzione. Del fatto che in origine il termine indicasse esclusivamente la direzione orientale sono in pochi ormai a rendersi conto ma prova, ad abundantiam, il significato archetipico dell’orientamento ad est. A scanso di equivoci, per indicare la specifica direzione dell’asse verso oriente verrà usata l’espressione orientamento ad est. Per orientamento architettonico dell’edificio di culto si intenderà qui la direzione dell’asse spazia-

4. Templi presenti nei Fori Imperiali, Roma: A) tempio di Traiano; B) tempio di Venere; C) tempio di Marte; D) tempio di Minerva; E) tempio della Pace. 5. Ricostruzione della pianta del tempio di Zeus, Olimpia.

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6. Pianta della sinagoga di Eshtemoa, IV-V secolo (da Milson).

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le e ottico desumibile dalla planimetria. L’asse principale di per sé coincide di solito con l’asse longitudinale immediatamente visibile, ma il puntamento dinamico di tale asse verso un determinato lato deve essere dedotto in una chiesa cristiana dall’articolazione dell’architettura, soprattutto quella interna. Entrando nella casa di Dio, anche da un ingresso laterale, lo sguardo è indirizzato verso un punto-limite dello spazio, l’abside in genere, e su questa traiettoria incontra al tempo stesso il fulcro del culto, solitamente l’altare. L’obiettivo spaziale e quello cultuale sono in collegamento ottico diretto tra loro. Quanto sia naturale tale direzione dell’asse emerge, spesso, solo lì dove sia stata spezzata la connessione concepita in origine, come avviene nella chiesa gotica urbana convertita in aula di culto calvinista, con pulpito addossato al colonnato della navata, o nella chiesa a cupola, bizantina, adattata a moschea, con mihrab in posizione asimmetrica in un angolo dell’abside. La mancata presenza del fulcro del culto sull’asse spaziale principale genera disorientamento. L’orientamento liturgico è categoria puramente funzionale, ricavabile soltanto dalla disposizione dell’arredo liturgico o da fonti scritte. Il punto è ricostruire se determinati atti o preghiere vengano eseguiti nel corso della funzione religiosa in una direzione prescritta. Le definizioni sopra riportate si riferiscono all’edificio cultuale cristiano. Già da un rapido confronto con il tempio greco o romano e con la sinagoga ebraica, emerge che in questi casi i termini da usare sono in parte diversi. L’orientamento architettonico del tempio classico è nella letteratura solitamente messo in relazione con il lato d’accesso: il Partenone è rivolto verso oriente, il che significa che il sole nascente attraverso la porta centrale poteva giungere fin nella cella e illuminare con i suoi raggi la statua della divinità13. A proposito dell’edificazione del tempio romano Vitruvio propende per la disposizione della facciata verso ovest, che consentiva al visitatore di accedervi procedendo verso oriente, per portare al tempo stesso le proprie offerte all’ara (che doveva essere orientata verso est) e vedere la statua di culto nella cella14. Nel caso della sinagoga la confusione terminologica esistente è direttamente legata alla varietà che caratterizza i primi monumenti: infatti a volte il lato d’ingresso guarda ad est, a volte invece in direzione di Gerusalemme, a volte poi è addirittura un’altra la parete – magari con nicchia contenente la Torah – che è stata rivolta verso Gerusa-

lemme15. E poi esistono sinagoghe in Giudea, per esempio in Eshtemoa, che mostrano un «doppio» orientamento: il lato d’ingresso rivolto ad est corrisponde all’orientamento cosmico del tempio di Gerusalemme mentre la disposizione interna guarda alla parete nord rivolta verso Gerusalemme. Negli antichi templi pagani l’orientamento liturgico non è necessariamente connesso all’allestimento interno, dal momento che l’ara era ubicata in genere all’esterno dell’edificio di culto. L’orientamento della preghiera nella sinagoga non appare – considerata la varietà delle relazioni tra struttura architettonica e direzione di Gerusalemme – correlato per principio con l’orientamento architettonico. Tutte queste differenze mettono in evidenza la specificità dell’orientamento nell’architettura cultuale cristiana, che è determinato da tre fattori indissolubilmente legati tra loro: l’asse principale dell’edificio (alignment), il limite dello spazio interno (Ausrichtung) e la direzione in cui viene celebrata la liturgia (sacred direction). Quando questo nesso diviene consuetudine anche nell’architettura sinagogale si ha l’impressione che ciò avvenga per influenza dell’edilizia cultuale cristiana16. Un’ultima osservazione riguardo alla «tecnica» dell’orientare. Non esistevano metodi di validità generale per individuare l’orientamento architettonico ad est in occasione dell’edificazione di una chiesa. Le ricerche condotte sui modelli medievali di orientamento impiegati nell’edilizia cultuale hanno evidenziato nell’ambito di una stessa area scarti dell’asse, in entrambi i sensi, ampi anche decine di gradi rispetto all’est astronomico. Un dato che non può spiegarsi ipotizzando princìpi vincolanti di orientamento ad est sulla levata del sole nel solstizio d’inverno o d’estate, in occasione della posa della prima pietra, della consacrazione della chiesa o della festa del santo patrono17. Il fattore «oriente» nell’edilizia cultuale cristiana pertanto non è che un’indicazione sommaria della direzione della bussola. Lungi dall’essere un metodo cosmologico, l’orientamento ad est è l’espressione di una vasta tradizione di simbolismo cultuale. Nel discorso che segue si intende anzitutto individuare il grado di sistematicità nell’applicazione dell’orientamento architettonico dell’edificio di culto paleocristiano. Successivamente si esamineranno fonti e monumenti alla ricerca di informazioni sulla collocazione del celebrante, verificando quindi in che misura questa è connessa con l’orientamento dell’edificio di culto. Dal collegamento che è possibile istituire tra queste due cate-

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7. Direzione assiale delle chiese di Roma dal 312 al 900: 1) San Lorenzo fuori le mura; 2) Santa Croce in Gerusalemme; 3) San Giovanni in Laterano; 4) San Sebastiano; 5) San Paolo fuori le mura; 6) San Pancrazio; 7) Santo Stefano Maggiore; 8) San Pietro in Vaticano; 9) Sant’Apollinare; 10) San Lorenzo in Lucina; 11) Sant’Agnese

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fuori le mura; 12) Santa Susanna; 13) Santa Maria Maggiore; 14) Santa Prassede; 15) San Martino ai Monti; 16) San Clemente; 17) Santi Quattro Coronati; 18) Santo Stefano Rotondo; 19) San Giovanni a Porta Latina; 20) San Sisto Vecchio; 21) Santi Nereo e Achilleo; 22) Santa Balbina; 23) Santa Sabina; 24) Santa Cecilia;

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25) San Crisogono; 26) San Lorenzo in Damaso; 27) Santa Maria ad Martyres; 28) San Marcello; 29) San Vitale; 30) Santa Pudenziana; 31) Santa Maria in Domnica; 32) Santi Giovanni e Paolo; 33) Santa Maria in Cosmedin; 34) Sant’Angelo in Pescheria; 35) San Marco; 36) Santi Apostoli; 37) Sant’Agata dei Goti; 38) San Pietro

in Vincoli; 39) Santa Anastasia; 40) San Giorgio in Velabro; 41) Sant’Adriano; 42) San Teodoro; 43) Santa Maria Antiqua; 44) Santi Cosma e Damiano; 45) Santa Maria Nuova; 46) Santa Maria in Trastevere.

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gorie di orientamento è ricavabile una dimensione simbolica, che formerà l’oggetto della terza fase del nostro discorso. Il paragrafo conclusivo illustra in breve come l’antico nesso esistente tra i tre fattori menzionati si dissolva verso la fine del Medioevo. L’orientamento architettonico Quando negli studi moderni di storia dell’architettura è suggerita l’idea che nell’edilizia della chiesa cristiana l’orientamento cultuale ad est non avesse inizialmente un ruolo fondamentale, l’argomento più rilevante a sostegno della tesi è spesso la gran diversità di orientamenti attestata nelle chiese tardoantiche di Roma. Se nella capitale del mondo paleocristiano era tanto marcata la mancanza di uniformità nell’orientamento delle chiese, è evidente che il principio nel suo complesso doveva essere di modesta importanza. Guardando la pianta della città di Roma se ne ricava in effetti l’impressione che le chiese puntino in tutte le direzioni della bussola18. Tuttavia sarebbe avventato dedurre da questo scenario l’assenza di qualunque regola. In primo luogo occorre tenere conto del margine di libertà a disposizione nel processo di progettazione. Alcune basiliche paleocristiane sono state concepite, in assoluta autonomia rispetto a costruzioni precedenti, su un terreno edificabile interamente sgombro. Altre invece sono state inserite in

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9. Direzione assiale delle chiese fuori le mura di Roma dal 312 al 550: 1) San Lorenzo fuori le mura; 4) San Sebastiano; 5) San Paolo fuori le mura; 8) San Pietro in Vaticano; 11) Sant’Agnese fuori le mura; 21) Santi Nereo e Achilleo; 47) Basilica di Tor de’ Schiavi; 48) Santi Marcellino e Pietro; 49) Santo Stefano in via Latina; 50) Basilica sulla via Ardeatina; 52) San Valentino.

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8. Direzione assiale delle chiese di Roma dal 312 al 400: 2) Santa Croce in Gerusalemme; 3) San Giovanni in Laterano; 8) San Pietro in Vaticano; 10) San Lorenzo in Lucina; 16) San Clemente; 17) Santi Quattro Coronati; 20) San Sisto Vecchio; 22) Santa Balbina; 25) San Crisogono; 26) San Lorenzo in Damaso; 30) Santa Pudenziana; 35) San Marco; 39) Santa Anastasia.

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edifici già esistenti senza determinare modifiche sostanziali della struttura. Questi due casi costituiscono gli estremi di una gamma che comprende tante gradazioni intermedie. Ordinando la direzione degli assi secondo questo criterio di gradualità, si delinea un quadro decisamente più coerente di quanto la pianta summenzionata lasciasse supporre. Una coerenza che risulta ancor più cospicua ove si adotti anche un criterio cronologico. La serie di piante di Roma qui allegata raffigura l’ordinamento su base cronologica19. Sulle 21 chiese precedenti il 400, fuori e dentro le mura, note in ambito archeologico, solo due presentano un forte scarto rispetto all’asse est-ovest (San Marco e San Lorenzo in Lucina). Esse sono state chiaramente costrette in questa posizione dal preesistente assetto della rete viaria. Su 19 chiese posizionate sull’asse est-ovest, la grande maggioranza, 15 chiese, si mostra occidentata, vale a dire con abside rivolta a occidente. Nella maggior parte dei casi si tratta di progetti architettonici relativamente privi di condizionamenti. La rappresentante più significativa del gruppo è la basilica del Laterano, la chiesa vescovile della città. Gli assi della basilica sono paralleli a quelli della preesistente caserma, divenuta piano di posa della costruzione, ma la disposizione della facciata verso oriente e dell’abside verso occidente sono il frutto di una scelta ben precisa. La collocazione dell’ingresso principale sul lato nord sarebbe stata forse

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da un punto di vista urbanistico di maggiore effetto. Anche nel caso della basilica sepolcrale di recente scoperta sulla via Ardeatina l’occidentazione appare l’esito di una decisione ben ponderata. Solamente in quattro chiese, tra cui la nuova costruzione di San Paolo fuori le mura, l’asse punta verso est: sono casi nei quali la situazione topografica sembrerebbe aver impedito un’abside ad ovest. Si rivela a tal proposito illuminante un confronto tra le due grandi basiliche martiriali di San Pietro e di San Paolo, l’una del secondo e terzo decennio del IV secolo e l’altra risalente al 386-395. In ambedue le situazioni, la tomba preesistente di un apostolo diviene fulcro cultuale di un’imponente basilica munita di transetto. Nel caso della basilica di San Pietro la direzione occidentale dell’asse era la soluzione più immediata ai fini dell’auspicata integrazione del monumento sepolcrale. E malgrado la pendenza del terreno richiedesse gigantesche opere di terrazzamento per posizionare la basilica in modo tale che il monumento sepolcrale venisse a trovarsi centralmente davanti all’abside, si trattò comunque sotto tutti gli aspetti di una soluzione felice. La facciata con gli ingressi principali si apriva

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verso la città e poteva in tal modo accogliere direttamente i grandi flussi di pellegrini. Allo stesso tempo era possibile mantenere la direzione occidentale dell’asse già attestata nel prototipo del Laterano. Allorquando, settanta anni dopo, si procede ad erigere sulla tomba di san Paolo una basilica di uguali forme e dimensioni, i costruttori si imbattono in una serie di limitazioni inesistenti nel caso della tomba di san Pietro. La distanza tra il monumento sepolcrale di san Paolo e l’importante via di comunicazione con Ostia non era sufficiente per sviluppare una basilica delle dimensioni desiderate sul modello di quella di San Pietro con l’abside verso ovest e l’ingresso sul lato della strada. Con il proposito di rispettare comunque l’asse est-ovest, l’abside fu costruita a ridosso della strada e la facciata venne a trovarsi sulle zone paludose del Tevere: la soluzione, la peggiore che fosse concepibile sotto il profilo urbanistico, non faceva che mettere in risalto la superiorità di altri criteri. Ecco quella che fu verosimilmente la sequenza delle decisioni: la tomba dell’apostolo doveva divenire in situ il fulcro del nuovo edificio di culto; forma e dimensioni sarebbero state esemplate sul modello

10. Planimetria urbanistica del Laterano, 312-320. In rosso: basilica e battistero di Costantino; in nero: strutture preesistenti. 11. Direzione assiale delle chiese di Roma dal 400 al 500: 1) San Lorenzo fuori le mura; 13) Santa Maria Maggiore; 18) Santo Stefano Rotondo; 19) San Giovanni a Porta Latina; 23) Santa Sabina; 29) San Vitale; 32) Santi Giovanni e Paolo; 37) Sant’Agata dei Goti; 38) San Pietro in Vincoli. 12. Direzione assiale delle chiese di Roma dal 500 al 790: 6) San Pancrazio; 9) Sant’Apollinare; 11) Sant’Agnese fuori le mura; 27) Santa Maria ad Martyres; 33) Santa Maria in Cosmedin; 34) Sant’Angelo in Pescheria; 36) Santi Apostoli; 41) Sant’Adriano; 42) San Teodoro; 43) Santa Maria Antiqua; 44) Santi Cosma e Damiano. 13. Direzione assiale delle chiese di Roma dal 790 al 900: 7) Santo Stefano Maggiore; 12) Santa Susanna; 14) Santa Prassede; 15) San Martino ai Monti; 17) Santi Quattro Coronati; 21) Santi Nereo e Achilleo; 24) Santa Cecilia; 31) Santa Maria In Domnica; 35) San Marco; 40) San Giorgio in Velabro.

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di San Pietro; volendo mantenere la direzione estovest dell’asse l’unica possibilità era porre l’abside sul lato est. Quanto all’infelice collocazione della facciata, come forse anche quella del monumento apostolico isolato nel transetto, non restava che accontentarsi20. Al V secolo risalgono le prime basiliche la cui abside viene liberamente posizionata non più all’estremità occidentale ma a quella orientale dell’asse. Santa Sabina (422-440) è il primo esempio di una deliberata inversione dell’orientamento architettonico. Se l’inclinazione dell’asse principale verso nord derivava dall’incorporamento parziale di

strutture murarie più antiche, quella di collocare la facciata sul lato approssimativamente ovest e l’abside sul lato est appare una decisione consapevole. Purtuttavia non mancano i casi in cui viene ancora impiegata la variante ovest. Forse non a caso la scelta cadde sull’orientamento ad est lì dove l’edificazione della chiesa avvenne in qualche modo sotto influenze orientali, come per esempio San Giovanni a Porta Latina e Sant’Agata in Suburra/dei Goti (seconda metà del V secolo). Queste chiese si riallacciano al sistematico orientamento ad est delle chiese di Costantinopoli e di Ravenna. Questo scenario eterogeneo contraddistingue anche i secoli successivi, nei quali però vedono la luce solo pochi progetti architettonici «privi di condizionamenti». All’epoca della rifioritura dell’attività edilizia intorno all’anno 800, si evidenzia nuovamente una marcata preferenza per la direzione ovest. Delle 11 chiese di nostra conoscenza che datano alla prima metà del IX secolo, ben 8 presentano l’abside rivolta verso ovest, seppure latamente inteso. Una chiesa è orientata verso est e le altre due, condizionate dalle costruzioni preesistenti, sono disposte lungo l’asse nord-sud. A differenza degli edifici religiosi dei secoli precedenti, nel caso di questi monumenti sorti durante la rinascita carolingia si tratta quasi sempre di riedificazioni di chiese preesistenti che possono aver lasciato traccia, sotto il profilo sia architettonico che

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cultuale, nel disegno di quelle nuove. Altrettanto avviene nelle basiliche altomedievali come San Clemente, San Crisogono e Santa Maria in Trastevere della prima metà del XII secolo che, come le loro antecedenti, furono orientate verso ovest. Queste constatazioni portano a formulare due conclusioni. La prima riguarda l’asse principale in sé e per sé: l’asse est-ovest è fin dall’inizio obiettivo perseguito per principio nell’architettura cristiana di Roma. Soltanto l’angolo relativamente ampio sotto il quale viene assunto l’est può spie-

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garsi con le particolari condizioni architettoniche o urbanistiche del luogo. La seconda concerne la direzione dell’asse: nel IV secolo viene preferita l’abside ad ovest, nei secoli successivi orientamento ad est e ad ovest convivono uno accanto all’altro come varianti equivalenti, finché nel IX secolo non riaffiora una spiccata propensione per l’asse puntato a occidente. La scelta dell’asse est-ovest seguiva una tradizione cristiana universale. Roma, infatti, non era diversa da altre città e regioni nell’osservare il principio,

14. Direzione assiale delle chiese di Milano prima del 500. 15. Pianta della chiesa di Santa Eufemia, Costantinopoli.


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se non per l’entità dello scarto dall’asse ritenuta accettabile. Chiaramente, gli usi regionali erano determinanti al riguardo. A Cartagine gli assi appaiono a una prima occhiata caratterizzati dalla medesima varietà attestata a Roma, mentre le grandi basiliche di Milano e Costantinopoli sono tutte coerentemente orientate ad est. Significativa è anche la diversità d’approccio per quanto riguarda la consacrazione a chiesa di edifici già esistenti, nel corso del VI e del VII secolo. A Roma il Pantheon conservò il vecchio asse principale anche se questo comportò il posizionamento a sud dell’altare maggiore. A Costantinopoli, al contrario, un triclinio palatino esagonale destinato a santuario della Santa Eufemia fu sottoposto ad un radicale adattamento, per il quale l’altare, invece che sull’asse principale, venne collocato nella eccentrica nicchia orientale21. La preferenza accordata a Roma all’asse rivolto ad ovest è davvero notevole, ma nemmeno sotto quest’aspetto Roma costituisce un’eccezione. La disposizione dell’abside a occidente caratterizza la prima fase, quella sperimentale, dell’architettura cultuale cristiana ed è attestata anche nella fondazione di chiese in Palestina, Siria e Nord Africa22.

In Oriente, lo sperimentare con la direzione dell’asse architettonico si concluse già prima del 400 a favore dell’orientamento ad est. Anche in tal caso le tradizioni locali sembrano aver avuto un ruolo decisivo. Nel V e nel VI secolo, in Cirenaica vengono edificate, una accanto all’altra, le chiese orientate ad est e quelle occidentate mentre, nelle regioni più occidentali del Nord Africa, si assiste a una netta evoluzione verso l’orientamento ad est. Roma mostra come una simile tradizione locale acquisisse ben presto i tratti di quella che è definita «iconografia dell’architettura»: l’occidentazione divenne un «topos in un sistema segnico». Le più illustri fondazioni dell’imperatore Costantino, la basilica del Laterano e la basilica sepolcrale di San Pietro, erano entrambe orientate verso ovest. Molto probabilmente la basilica del Laterano aveva da questo punto di vista già posto la norma per quella Vaticana. Queste due chiese insigni furono nei secoli seguenti modelli autorevoli nell’edilizia di culto, tanto che insieme alle loro caratteristiche architettoniche nelle nuove chiese venne spesso adottata anche l’occidentazione. Ciò si rese particolarmente vistoso in età carolingia, non solo nella stessa Roma ma anche nel regno franco a nord delle Alpi.

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18. Pianta del sito archeologico di Umm al-Rasas, Giordania: 1) castrum; 2) chiesa della Tabula Ansata e chiesa del Prete Wa’il; 3) chiesa dei Leoni; 4) cappella dei Pavoni; 5) complesso di Santo Stefano.

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16. Pianta del XVII secolo, Pantheon, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana. 17. Pavimento con mosaici della chiesa di Santo Stefano (VIII secolo). Davanti all’abside (est) tracce dell’altare e delle recinzioni del presbiterio, Umm al-Rasas, Giordania.

Allorché nel cuore dei territori carolingi la chiesa già orientata ad est vede aggiungersi un coro o un’abside sul lato ovest ciò sembra avvenire per il principio del more romano23. Il fenomeno di edificare «secondo il costume romano» fu di breve durata e interessò soltanto alcuni monumenti particolari, ma proprio per questo motivo diffuse uno specifico messaggio di associazione con la basilica di San Pietro: un esempio per tutti, il duomo di Colonia che venne dotato nel IX secolo di un coro occidentale dedicato a san Pietro. Quando il coro occidentale ricompare poi in epoca ottoniana, restando in auge per alcuni secoli in Germania, Francia e Italia, l’assetto con doppio coro appare

quasi sempre concepito già in sede di costruzione della chiesa24. Dal momento che esistevano modelli più antichi di assetto con coro doppio, l’influenza di Roma potrebbe essere stata in questa fase molto indiretta. Ciò nondimeno la deliberata occidentazione come motivo romano continua ad essere attestata pure in epoca ottoniana, come per esempio nella chiesa abbaziale di Petershausen, nei pressi di Costanza, edificata tra 983 e 1000 con coro unico rivolto verso ovest «in analogia con la forma della basilica del principe degli apostoli a Roma...», alla quale il convento deve anche il suo nome25. Nell’Occidente latino, oltre i confini dell’Italia, l’occidentazione

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fu peraltro nel Medioevo del tutto eccezionale. A Parigi l’unica chiesa occidentata, degli inizi del Medioevo, si chiamava Sanctus Benedictus male versus, «San Benedetto mal orientato»26. Fin dagli inizi dell’architettura cultuale paleocristiana è dunque universalmente perseguita la disposizione dell’edificio di culto sull’asse est-ovest. In talune regioni vi era maggiore tolleranza che altrove nell’accettare i condizionamenti topografici. Due erano le varianti ammesse per la direzione dell’asse: tra queste si affermò ben presto l’orientamento ad est. Il fatto che a Roma venissero impiegate entrambe le soluzioni una accanto all’altra conferma tuttavia che fondamentale era l’asse in sé mentre il suo essere indirizzato verso est o verso ovest era questione secondaria. L’orientamento liturgico Se è vero che nelle descrizioni del culto di epoca paleocristiana e medievale si incontrano scarsi riferimenti espliciti all’orientamento del celebrante, e ancora meno in merito a quello degli altri partecipanti, questo non può essere impugnato come argomento ex silentio contro l’importanza dell’orientamento cultuale ad est. Proprio dai casi sparsi nei quali si precisa invece che certi atti o preghiere devono eseguirsi guardando in direzione orientale, emerge quanto ovvio fosse per i contemporanei il principio dell’orientamento ad est. L’usanza di pregare verso est veniva fatta risalire agli apostoli e le sue conseguenze rispetto allo svolgimento del culto regolamentato nell’edificio della chiesa non richiesero evidentemente fin dagli inizi particolari spiegazioni27. D’altronde anche nel rito del battesimo, che esula dalla presente trattazione, l’orientamento riveste un ruolo di rilievo28. I libri liturgici concernenti il rito romano introdotto nel regno carolingio erano necessariamente più espliciti delle loro fonti redatte a Roma. Si trattava infatti di testi per l’istruzione di persone designate a celebrare i rituali romani negli edifici di culto franchi, e che in questa veste avrebbero potuto incontrare difficoltà impreviste29. Le prescrizioni della Chiesa di Roma relative alla liturgia papale erano formulate in funzione di chiese aventi l’abside ad ovest. I curatori franchi ebbero il compito di adattare la «scenografia» liturgica a chiese dove l’altare sorgeva ad est ed elaborarono regole specifiche sulla direzione dello sguardo del celebrante a integrazione del testo base romano. Tali regole appaiono rappresentate in maniera

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programmatica nei rilievi eburnei che ornano la copertina del sacramentarium del vescovo Drogone di Metz (835-855)30. L’oriente figura sempre a destra nelle varie scene. Durante l’Eucaristia il celebrante sta davanti all’altare, viso rivolto verso l’abside ad est e quindi spalle alla navata, come appare nella scena centrale del registro inferiore. Quando l’abside sorge ad est e la cattedra vescovile, alla maniera romana, è addossata alla parete dell’abside in posizione centrale, il vescovo siede sul suo seggio con lo sguardo verso occidente. Le regole franche prescrivono ora in modo esplicito che nei momenti importanti della liturgia, come all’intonazione del Gloria, il vescovo si volga comunque verso oriente. La scena centrale del sacra-

19. Vescovo davanti alla cattedra durante il Gloria. Sacramentarium del vescovo Drogone di Metz (835-855), avorio. Bibliothèque Nationale, Parigi.


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te, durante gran parte della messa, e la seconda sguardo verso il popolo in occasione di una serie di saluti (Dominus vobiscum) e della benedizione. Dipendeva dall’orientamento della chiesa se per la seconda variante, per guardare il popolo quindi, il sacerdote doveva voltarsi o invece, coincidendo le direzioni, rimaneva nella stessa posizione. Per il franco Amalario (ca. 830) la chiesa orientata ad est era la norma: il sacerdote stava davanti all’altare con il viso ad orientem e si voltava ad populum per i saluti31. In questo contesto l’espressione versus populum non allude alla visibilità della liturgia ma fa riferimento ad un atto rituale ben specifico. Allorché Durandus, ancora nel 1296, osserva che nelle chiese «con portale sul lato orientale» il celebrante officia sempre rivolto verso il popolo e non è costretto a voltarsi per i saluti, questa celebrazione versus populum è esclusivamente la conseguenza dell’occidentazione dell’edificio di culto32. I reperti archeologici confermano le indicazioni scritte riguardo alla collocazione dell’officiante. L’assetto di San Pietro intorno al 600, per esempio, non lascia dubbi circa la posizione del celebrante: questi non aveva modo di stare all’altare sul lato navata, in quanto in quel punto vi era la fronte diritta di un podio con finestrella sulla camera sepolcrale. Il papa officiava dunque dal podio absidale con lo sguardo rivolto a oriente. Si potrebbe argomentare che tale disposizione non

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21. Le piante illustrano le possibili varianti della posizione del celebrante.

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20. Vescovo davanti all’altare durante l’Offertorio. Sacramentarium del vescovo Drogone di Metz (835-855), avorio. Bibliothèque Nationale, Parigi.

mentarium di Drogone mostra proprio questo momento: voltatosi verso oriente dinanzi al suo seggio, il vescovo si trova con la faccia quasi a contatto con la parete dell’abside e le spalle all’altare. Una configurazione poco felice sotto il profilo del protocollo, accettata tuttavia in vista di un impiego conseguente del simbolismo dell’orientamento ad est. Tutto questo si spiega unicamente ammettendo che tale simbolismo era un dato acquisito in modo inequivocabile. I momenti liturgici che più spesso davano occasione di precisare la posizione del sacerdote officiante erano i saluti ai fedeli. Le regole contemplavano per il celebrante all’altare due varianti funzionali. La direzione primaria era viso rivolto verso orien21

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era che la conseguenza delle condizioni esistenti in situ, e precisamente della necessità di situare l’altare sopra l’esistente monumento dell’apostolo lasciando accessibile la fenestella sulla fronte del podio, proprio sotto l’altare. L’obiezione appare però priva di fondamento nel caso delle imitazioni dell’assetto di San Pietro realizzate entro contesti dove non vi era traccia di tombe originali33. Dal momento che la collocazione dell’altare sull’orlo della ripida parete di un podio consentiva al celebrante di stare solo dietro l’altare, con lo sguardo verso la navata, questo schema costituisce un eccellente criterio per verificare l’importanza del principio liturgico dell’orientamento ad est. Fino al XII secolo l’assetto liturgico di San Pietro fu ripetutamente copiato a Roma, con o senza cripta anulare, sempre però con l’altare sul bordo del podio e la finestra della camera delle reliquie sulla fronte del podio. Si noti che tali imitazioni di San Pietro si produssero solo nell’ambito di chiese orientate, con maggiore o minore approssimazione, verso occidente. Questo vale per tutte le chiese di Roma di età carolingia; un esempio per tutti, degli inizi del XII secolo, è la basilica superiore di San Clemente. La direzione dell’asse fu dunque chiaramente intesa come elemento integrante del modello. Qualora l’asse architettonico non avesse consentito l’orientamento liturgico ad est, la disposizione in questione non veniva imitata. È quanto si constata per esempio a Santa Sabina dove, malgrado un radicale rinnovamento dell’arredo liturgico in epoca carolingia e malgrado il ruolo di rilievo rivestito da questa chiesa nell’ambito della liturgia papale, la predetta sistemazione non venne adottata. Tale recepimento selettivo consente inoltre una precisazione riguardo ai modi d’applicazione dei princìpi dell’orientamento a Roma. Nelle chiese caratterizzate da asse deviante da ovest, la tipologia dispositiva di San Pietro è attestata solo là dove l’abside guardi a nord, mai quando questa si trovi a sud. Il nord era pertanto considerato come ovest e il sud come est. Visto dalla prospettiva del simbolismo solare questo non può in alcun modo meravigliare. L’analogia simbolica tra est e sud è esplicitata fin da Remigio di Auxerre († 908 ca.) pure nei commentari allegorici della liturgia, per esempio nella dichiarazione che Cristo giunse a Gerusalemme dal sud (veniva infatti da Betlemme)34. Viene insomma ribadito quello che già le constatazioni formulate sull’orientamento architettonico inducevano a supporre: la liturgia roma-

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na non poteva dirsi astronomicamente ortodossa; era però, entro un margine ideale d’azione relativamente ampio, assolutamente conseguente. Ovest poteva anche essere nord, ma ovest e nord, da un lato, non erano intercambiabili con est e sud, dall’altro. La riedificazione della antica chiesa titolare di San Marco sotto papa Gregorio IV (827-844) è a questo proposito illuminante. In tale occasione si procedette a un’inversione della direzione dell’asse della chiesa, da sud a nord35. E nella nuova chiesa venne attuata una disposizione tomba-altare che riproduceva esattamente quella di San Pietro. Quest’inversione di orientamento fu un effetto collaterale di mutate condizioni urbanistiche o fu invece dettata dalla volontà di dare alle reliquie una sistemazione sul genere di quella di San Pietro? Sia come sia, trovò attuazione un assetto che

22. Ricostruzione dell’assetto intorno al 600 dell’altare e del podio absidale di San Pietro, Roma (da Toynbee/Ward/ Perkins). 23. Interno, verso l’abside, della chiesa superiore della basilica di San Clemente, Roma.

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Base della pergola aggiunta

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non era parso possibile nella situazione precedente con abside a sud. Negli stessi anni, a Santa Maria in Trastevere viene realizzata una disposizione similare, con un chiaro ricorso all’ubicazione occidentale dell’abside36. Sebbene liberamente utilizzabili – est poteva dunque essere sud – simbolismo e iconografia architettonica conservavano in definitiva la loro forza espressiva solo nel rispetto di certi criteri essenziali. In altre parole, non era possibile obbligare il celebrante ad officiare con lo sguardo rivolto verso ovest o, in alternativa, verso nord. Un impiego tanto coerente dell’orientamento liturgico ad est deve essere stato un a priori valido pure nelle disposizioni in cui l’altare risultava accessibile da ogni lato. Anche nella basilica del Laterano orientata ad ovest il celebrante officiava da dietro l’altare maggiore guardando in direzione della navata37. Proprio perché l’occidentazione dell’abside contraddistingueva le principali chiese di Roma, la posizione del celebrante dietro l’altare è tacitamente assunta come norma nei libri liturgici altomedievali riguardanti la liturgia papale. Per questo motivo la liturgia romana, alla sua introduzione nel regno franco, richiese un adattamento al contesto degli edifici cultuali d’Oltralpe, in genere orientati verso est. D’altra parte, anche Roma possedeva basiliche orientate verso est e lì il celebrante stava dinanzi all’altare con il viso verso l’abside in direzione est. I cerimoniali papali tardomedievali menzionano in modo esplicito questa variante di posizionamento. Quando l’altare sia disposto «secondo il costume romano», e dunque ubicato sul lato ovest, il papa sta sempre «con il viso rivolto verso il popolo», «come nelle chiese patriarcali del Laterano, di San Pietro e di Santa Maria Maggiore». Quando invece l’altare sia collocato «alla maniera che è in uso ovunque (altrove)», e si trovi quindi all’estremità est dell’asse principale, «come nelle due chiese patriarcali di San Paolo e San Lorenzo», il papa deve voltarsi per i consueti saluti verso l’assemblea dei fedeli38. Nel cerimoniale del cardinale Stefaneschi (1300 ca.) è prescritto inoltre che in chiese come «San Paolo e simili», in occasione del Gloria e di determinate preghiere, il papa, in piedi dinanzi alla cattedra, si volti verso l’abside dando quindi le spalle all’altare39. Mentre altrove in Europa la cattedra in genere non era più nell’abside e veniva ormai sistemata di fianco all’altare, a Roma vigeva ancora l’osservanza della singolare soluzione che cinquecento anni prima era stata raffigurata sul sa-

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cramentario di Drogone vescovo di Metz. Questa differenza è senza dubbio la ragione principale per cui nella chiesa di San Paolo orientata ad est, perfetta gemella di San Pietro per molti altri aspetti formali, non fu possibile riprendere il fortunato schema dispositivo della basilica Vaticana. I monumenti di Roma concordano con il quadro generale dell’orientamento liturgico nel mondo paleocristiano. Due esempi differenti illustreranno quanto affermato. Nella basilica di Haïdra (Nord Africa), con doppio coro, il presbiterio occidentale è più antico di quello orientale; tuttavia, all’epoca in cui il secondo venne realizzato (VI secolo?), il coro occidentale rimase in funzione. La logistica intorno ai due altari indica che il celebrante stava sul lato ovest dell’altare sia nel coro occidentale che in quello orientale, con il viso dunque rivolto verso est40. Che in un caso officiasse versus populum e nell’altro spalle al popolo non era evidentemente rilevante. In diversi altri luoghi in Nord Africa (e altrove) la collocazione dell’altare sotto una struttura a baldacchino di pietra (ciborium) e la presenza di una particolare lastra pavimentale provano in modo decisivo la posizione del celebrante sul lato occidentale dell’altare41. Il secondo esempio riguarda la basilica di Sant’Apollinare in Classe presso Ravenna, dove venne realizzato, forse nel IX secolo, un podio absidale con cripta palesemente derivato dal modello di San

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24. Pianta schematica della chiesa di San Marco a Roma prima e dopo la ristrutturazione dell’827-844 che ne ha invertito l’orientamento.


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25. Sezione est-ovest del presbiterio della basilica di San Paolo fuori le mura, Roma (da Tolotti). 26. Pianta della basilica nordafricana di Haïdra con doppio coro (da Duval). 27. Pianta della basilica di Sant’Apollinare in Classe presso Ravenna con ricostruzione ipotetica del presbiterio del IX secolo.

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Pietro a Roma. La basilica di Classe però è orientata ad est e questo comportò un adattamento dello schema al quale a Roma non si era mai voluto procedere. Il podio absidale venne munito, sul lato navata dell’altare, di un pavimento sporgente sopra la finestra della reliquia, che rendeva l’altare accessibile anche da ovest42. Una variante, questa, spiegabile unicamente con il proposito di attenersi rigorosamente all’orientamento liturgico ad est entro una disposizione concepita da un contesto di occidentazione architettonica. Non vi è dunque alcun motivo per supporre, nelle chiese dove su entrambi i lati dell’altare esiste spazio sufficiente per trattenersi, che il sacerdote avrebbe effettuato la celebrazione in direzione ovest. Eppure Nussbaum e Duval l’hanno ipotizzato in una gran quantità di casi, in particolare quando vi era una cattedra e un banco per i presbiteri nella curva dell’abside. Evidentemente, appariva imbarazzante l’idea che, nello spostarsi tra cattedra e altare, il celebrante dovesse passare intorno all’altare. Che questa preoccupazione per il protocollo sia del tutto anacronistica emerge non solo dalle fonti scritte, riguardanti per esempio San Paolo fuori le mura a Roma, ma anche da tanti indizi archeologici circa la posizione del sacerdote sul lato navata dell’altare nelle chiese orientate ad est43. In una serie di cattedrali francesi la cattedra continua a essere collocata dietro l’altare maggiore, in asse con questo, ancora a lungo dopo

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la fine del Medioevo44. Anche in questi casi ciò non era d’impedimento alla celebrazione della liturgia verso oriente. In questa prospettiva è da interpretare anche la tanto citata lettera di Paolino di Nola del 401-402 relativa alla Basilica Nova da lui fatta costruire da poco. Per la topografia del complesso circostante la tomba di san Felice e i collegamenti voluti dal committente Paolino, alla Basilica Nova venne conferito un orientamento anomalo: «invece di essere orientata ad est, come è uso piuttosto diffuso, la facciata della basilica è rivolta verso la basilica del beato Felice, mio signore, e si apre sul suo monumento sepolcrale»45. Le strutture superstiti confermano che la facciata della nuova chiesa guardava alla tomba di san Felice e che l’abside era quindi disposta a nord. Il futuro vescovo allude alla direzione occidentale dell’asse ancora d’uso comune ai suoi tempi, dalla quale egli per ragioni particolari intese discostarsi. È evidente inoltre che egli fa riferimento alla situazione generale esistente nell’Occidente latino visto che la Basilica Vetus di Cimitile aveva l’abside a oriente. Paolino era disposto in questo caso a rinunciare non solo all’occidentazione dell’abside ma anche all’asse est-ovest nel suo complesso. Quando le circostanze lo esigevano era dunque ammessa un’applicazione elastica dell’orientamento architettonico, e questa ne è un’ulteriore dimostrazione; dalla sua lettera emerge altresì che questo aveva poi conseguenze dirette sull’orientamento liturgico: «Un’abside ad arco si sviluppa generando due nicchie, a destra e a sinistra, all’interno del grande spazio. Una nicchia è riservata al sacerdote come luogo per l’offerta, mentre l’altra accoglie la comunità orante dietro il sacerdote, in una generosa curvatura». La struttura absidale giunta ai giorni nostri è costituita in effetti da una profonda nicchia centrale che si apre su entrambi i lati in una nicchia laterale più piccola. Paolino lascia intendere dunque che il celebrante officiava in una nicchia laterale, mentre lo spazio alle sue spalle, incluso quello dell’altra nicchia laterale, era destinato ai fedeli. La soluzione esposta da Paolino parrebbe unica tanto sotto il profilo liturgico che sotto quello architettonico46. Essa può spiegarsi solo se si pone mente alle difficoltà certamente incontrate nel mantenere l’orientamento liturgico ad est nel contesto di una chiesa non disposta sull’asse est-ovest. L’altare venne collocato all’interno o dinanzi alla nicchia orientale, in modo tale che il celebrante poteva officiare con lo sguardo rivolto a oriente, men-

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tre i fedeli si trovavano alle sue spalle e, presumibilmente, alla sua destra nella navata della chiesa. La spiegazione che Paolino, nella lettera a un amico, fornisce in merito alla soluzione escogitata, evidentemente insolita anche nel suo ambiente, attesta pertanto il legame diretto tra l’orientamento architettonico e quello liturgico nell’edilizia cultuale. A Roma, tra parentesi, lo stesso problema sarebbe stato risolto probabilmente in modo diverso. Un aspetto che complica la questione dell’orientamento liturgico è la collocazione dei fedeli, alla quale Paolino accenna brevemente. Se anche i fedeli si fossero per principio rivolti verso oriente, nell’edificio occidentato questo avrebbe comportato mezzo giro su se stessi, una volta entrati, in modo da dirigere lo sguardo in direzione della facciata. Questo inconveniente si sarebbe presentato anche in quella schiera di sinagoghe con facciata orientata verso Gerusalemme47. Pur mancando ogni testimonianza diretta della prassi rituale in una simile disposizione tanto nella funzione sinagogale che nella liturgia cristiana, la struttura architettonica delle basiliche costantiniane non lascia dubbi al riguardo. Essa indirizza in modo ineludibile lo sguardo del visitatore verso lo spazio dell’altare. Il protocollo del rito non avrebbe mai consentito che nel momento culminante dell’Eucaristia i fedeli mostrassero le spalle all’altare. Sotto quest’aspetto la norma era rappresentata non dalla sinagoga ma dal tempio biblico di Gerusalemme. Il profeta Ezechiele lo aveva detto a chiare lettere: coloro che nel tempio orientato ad ovest avessero voltato le spalle all’altare per inginocchiarsi dinanzi al sole a oriente, avrebbero commesso il più terribile dei sacrilegi (Ez 8,16). La comunità ecclesiale postcostantiniana era un organismo clericale. Mentre abbondano le indicazioni contrarie, non esistono elementi a sostegno dell’ipotesi che i fedeli fossero tenuti ad osservare in maniera autonoma l’orientamento ad est48. Gli uomini e le donne trovavano posto nella navata con lo sguardo verso altare e cattedra; era sufficiente che il celebrante, anche a nome loro, rispettasse l’orientamento ad est. Dipendeva solo dalla direzione dell’asse dell’edificio di culto se anche i fedeli guardavano verso oriente o, al contrario, verso occidente. Il fatto che in quest’ultimo caso si trovassero con le spalle a oriente, comunque, non deve essere stato facile per tutti. Più d’uno, nel dubbio, prima di entrare nella basilica occidentata di San Pietro, si voltava ancora un attimo per porgere un saluto al sole nascente. Quando, intorno


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28. Varianti nell’orientamento della chiesa e della posizione del popolo (in rosso).

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alla metà del V secolo, papa Leone Magno, in occasione del Natale (un tempo la festa imperiale del Sol invictus), si lamenta di questo atavismo pagano, egli ha modo di citare alla lettera le parole di Ezechiele49. Il papa, dal canto suo, stava all’altare maggiore della basilica con il «sole negli occhi», e questo secondo la migliore tradizione cristiana. La liturgia era dunque organizzata su uno spazio coordinato dai punti cardinali. Il culto prescriveva che preghiere e atti di cruciale importanza fossero eseguiti in direzione dell’oriente. Al sacerdote non occorrevano bussole all’altare giacché la direzione dell’asse della chiesa era scelta in modo tale da non lasciare dubbi su dove, almeno idealiter, si trovasse l’est: verso l’abside o verso la facciata. Molte ipotesi sono state formulate sui motivi per i

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quali parte delle prime basiliche fu orientata ad ovest invece che ad est50. La coesistenza delle due soluzioni è propria della fase iniziale dell’edilizia cultuale pubblica, quando il genere architettonico «edificio-chiesa» non si era ancora delineato completamente rispetto all’eterogeneo insieme degli antecedenti, ovvero domus ecclesiae, tempio biblico, sinagoga ed edifici per il culto pagano. Allorché Tertulliano, nel 206 circa, paragona la domus ecclesiae ad una colombaia orientata ad lucem (verso il sole nascente), sembra stia parlando del vano della porta51. Eusebio di Cesarea, testimone della consacrazione di uno dei primi edifici chiesastici monumentali in assoluto, descrive la sua chiesa vescovile a Tiro ancora molto dalla prospettiva dell’architettura esterna: «il sole radioso del mattino illuminava la facciata con i tre portali, sì che la bellezza della facciata splendente era un assaggio della magnificenza dell’interno»52. La scelta di situare la facciata sul lato est era dunque sia tipologicamente che simbolicamente del tutto opportuna. Qui riecheggia palesemente la tradizione di un edificio di culto considerato anzitutto architettura esterna, come la maggior parte dei templi greci e romani. Da questo punto di vista, però, l’edilizia cultuale cristiana prende una direzione decisamente diversa. L’edificio di culto diviene architettura interna, il che significa che anche l’orientamento sarà vissuto più dall’interno che dall’esterno. Il fatto che sia prevalsa l’assialità dell’interno con l’altare come fulcro e si optasse per orientare l’abside – tipica architettura interna – verso oriente ci dice molto riguardo al concetto di edificio di culto cristiano. Analoga evoluzione si produsse anche nell’edilizia sinagogale; quella che viene definita sinagoga basilicale absidata del V e VI secolo ne è l’eloquente risultato53. L’orientamento liturgico trovava evidentemente la sua realizzazione più appropriata quando la direzione del culto coincideva con il fulcro architettonico dell’interno e il centro funzionale della liturgia. Il fatto che in tal caso sacerdote e fedeli potessero disporsi nella medesima direzione per la preghiera non fu probabilmente mai l’obiettivo primario, ma doveva certo apparire significativo sotto il profilo liturgico oltre che pratico ai fini del rito. Eppure anche in pieno Medioevo viene ancora adottata la direzione occidentale dell’asse54. In parte il fenomeno è riconducibile senz’altro alla persistenza di tradizioni locali paleocristiane. A volte si trattava della situazione già attestata nella chiesa preesistente, come nel caso delle basiliche

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di Roma del XII secolo, per l’appunto orientate ad ovest. Altrove la scelta deve essere stata effettuata in modo più consapevole come deliberata imitazione di prototipi paleocristiani, in maniera diretta o indiretta, per il tramite di modelli carolingi. L’orientamento ad ovest divenne così, con l’andare del tempo, un motivo di pura iconografia architettonica. Ancora in età ottoniana, comunque, sembrano esservi connesse delle conseguenze dirette per l’orientamento liturgico. La chiesa abbaziale di Petershausen già dotata di un’abside disposta ad ovest, sul modello della basilica Vaticana, venne poi munita di un altare maggiore dove era possibile officiare solo sul lato occidentale, il che significa con il viso rivolto a oriente. Pure in San Pietro al Monte a Civate (seconda metà dell’XI secolo), l’orientamento ad ovest viene recepito insieme all’implicazione liturgica della celebrazione verso la navata55. In entrambi i casi è il santo patrono a rendersi tramite di una associazione particolare con la basilica Vaticana.

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29. Interno verso l’abside (ovest) della chiesa di San Pietro al Monte, Civate. 30. Interno, verso est, della navata della chiesa di San Pietro al Monte, Civate.


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La fortuna dell’orientamento dell’abside ad est rimane tuttavia l’esito secondario di una questione primaria. Cruciale era la scelta intenzionale dell’asse architettonico est-ovest in funzione dell’orientamento liturgico ad est. E la collocazione del celebrante all’altare non fu che la conseguenza di questi fattori determinanti. L’orientamento architettonico aveva due direzioni a disposizione, quello liturgico invece soltanto una. Uno spazio di luce L’esperienza dello spazio dell’aula dei, la sala di Dio, era in gran misura determinata dalla marcata assialità sia dell’architettura inerte che del culto vivente. Il principio dell’orientamento ad est ne rivela la dimensione spiccatamente simbolica. Per quanto la basilica paleocristiana fosse come tipo architettonico il prodotto di antiche convenzioni dell’edilizia civile, la sua deliberata disposizione sull’asse est-ovest aggiungeva alla genericità della sala pubblica per riunioni un elemento proveniente dalle tradizioni dell’edilizia cultuale. In questo modo una forma costruttiva già sperimentata divenne portatrice di un nuovo significato. Tale precoce dimensione simbolica dell’edificio di culto va adeguatamente sottolineata perché non era concepita a posteriori ma era parte integrante del programma costruttivo originario. Dal momento che il simbolismo dell’orientamento ad est modellava in modo tanto evidente lo spazio sacro, è legittimo supporre che nella sua percezione fosse riconosciuto un ruolo anche all’illuminazione. La «esperienza» dell’oriente, in effetti, poggia non tanto sulla bussola quanto sulla concretezza della luce del giorno e della posizione del sole sull’orizzonte. Fin dagli inizi dell’edilizia della chiesa l’interno pervaso di luce, oltre ad essere una realtà architettonica ricorrente, è anche una metafora fertile per il significato dell’aula di culto56. Già in numerose occasioni la finestratura abbondante è stata segnalata come uno dei tratti distintivi dell’architettura tardoantica57. Difficile credere che i finestroni inondanti di luce la navata centrale nelle basilicae paleocristiane siano fenomeno rimasto privo di esiti metaforici. Soprattutto quando si constata che le aperture per la luce sul lato corto orientale e occidentale dell’aula avevano spesso un ruolo di primo piano nella regia della luce dello spazio nel suo complesso. Le absidi munite di ampie finestre a tutto sesto furono fin dal principio addirittura un elemento peculiare della basilica

cristiana. Altrettanto tipiche sono le facciate rese pressoché diafane da gruppi di finestre e talvolta da ingressi porticati. Queste due caratteristiche appaiono esemplificate dalla chiesa di Santa Sabina e dai Santi Giovanni e Paolo a Roma risalenti alla prima metà del V secolo. Una variante particolare è rappresentata dall’apertura nel catino absidale di Resafa58. La funzione del dare luce svolta dai portali riecheggia anche in diverse iscrizioni che hanno sì un intento simbolico ma utilizzano non a caso l’entrata della chiesa come elemento metaforico59. Facciata e abside costituiscono le due estremità luminose dell’asse longitudinale della basilica che, messo in risalto dalla lunga serie di finestre del claristorio, diviene un vero e proprio asse della luce. In effetti, l’antichissima interpretazione cristologica della luce e l’orientamento intenzionale dell’edificio di culto devono essere stati i componenti di un linguaggio figurato della luce evidente quanto semplice. Una metafisica elementare della luce nella quale avevano un ruolo anche la luce artificiale, i materiali, i colori delle pareti. Ne sono una testimonianza i versi di Prudenzio su San Paolo fuori le mura: «Lamina d’oro egli fissò ad assi e travi: perché all’interno vi fosse luce dorata come del sole al mattino»60. Ma il sole del mattino in sé deve essere stato l’essenza, come Paolo Silenziario descrive nel suo poema dedicato alla chiesa di Santa Sofia voluta da Giustiniano: «Dalle finestre di una valva fortemente bombata [la semicupola orientale] l’aurora dal piede rosato irrompe come un fulmine»61. Perfino in una costruzione a pianta centrale dalla marcata assialità verticale della cupola – anche come asse della luce – la linea simbolica est-ovest è ineludibile62. L’idea di un asse spaziale della luce, formato dai raggi del sole che al mattino entrano radenti, era ricondotta da certi autori cristiani al tempio di Gerusalemme. Intorno all’840 Valafrido Strabone realizza a questo proposito una sintesi di quello che già scrivevano i suoi predecessori e sottolinea che la luce del sole nascente, attraverso le tre porte in asse dei cortili consecutivi del tempio, aveva modo di entrare in linea retta nel Sancta Sanctorum63. Già prima della nascita dell’edilizia cultuale monumentale tra le comunità cristiane era diffusa la convinzione che occorresse indirizzare la preghiera, innalzata da un ambiente chiuso, di preferenza su un’apertura verso il cielo aperto, a oriente64. Origene considera questo tema nel trattato De oratione (230-235) in termini che avrebbero conser-

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vato per secoli la loro attualità nell’edilizia cultuale65. La direzione da preferire in assoluto per la preghiera, secondo lo scrittore, è quella orientale. Anche se la casa che la ospita è priva di finestre o porte esposte ad est, la preghiera andrà ugualmente rivolta verso oriente. Perfino il muro cieco orientato ad est può indicare la vera luce! Origene riconosce comunque che, laddove un’apertura in direzione est sia invece presente, questo supporta in modo significativo l’orientamento della preghiera. Sebbene non ne sia un presupposto, la regia della luce è comunque un mezzo efficace per rafforzare il simbolismo dell’orientamento ad est. Nella basilica occidentata dei Santi Giovanni e Paolo la luce del mattino, entrando per il portico e le finestre della facciata, investiva il celebrante all’altare. Nella vicina Santa Sabina i fedeli al mattino vedevano l’altare nella controluce delle finestre absidali. In entrambe le varianti, l’asse della luce tra facciata e abside intersecava il fulcro liturgico, in entrambe le varianti la luce del mattino entrava nella chiesa da oriente, in entrambe le varianti il 33

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31. Abside della chiesa di Santa Sabina, Roma. 32. Navata centrale della chiesa di Santa Sabina, Roma. 33. Facciata con ingresso porticato della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, Roma. 34. Interno della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli in cui la luce e l’orientamento giocano un ruolo rilevante.

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celebrante stava – come pars pro toto – con la sorgente della luce negli occhi. Se inizialmente porte d’accesso, o portici e finestre della facciata da una parte, e finestre absidali, dall’altra, erano equivalenti come estremità iniziale e terminale dell’asse della luce, alla fine anche sotto quest’aspetto l’abside si rivelò il mezzo architettonico più potente per esprimere il simbolismo dell’orientamento. L’edilizia della chiesa aveva fin da principio esplicitamente mutuato l’abside finestrata dalla tradizione architettonica profana, il cui esempio più significativo è l’aula palatina di Treviri66. Gradualmente, l’abside divenne strumento per eccellenza della regia della luce nell’edificio basilicale. Sotto questo profilo non aveva più nulla in comune con l’abside senza aperture della grande basilica di Massenzio al Foro Romano, dove era stata collocata la gigantesca statua dell’imperatore Costantino. Questa era una buia nicchia, uno sfondo decorativo per statue, mentre le prime absidi, che le sono coeve, delle chiese cristiane diffondevano al contrario luce generatrice di spazio. Concretamente esse chiudevano in effetti lo spazio, per poi riaprirlo però, solo su un altro livello. Valafrido Strabone dà alla parola una spiegazione etimologica che presuppone l’associazione absideluce come una proprietà intrinseca al termine: il corrispettivo latino del greco absida sarebbe lucida, perché questa «fa entrare attraverso un arco la luce ricevuta»67. All’epoca in cui egli scriveva queste parole, l’abside si era già da tempo dimostrata la formula architettonica più produttiva per dare forma al simbolismo della luce68. La sua standardizzazione, come punto di riferimento orientale nell’orientamento, ne consolidò il ruolo di protagonista nella regia della luce. Anche nelle chiese occidentate l’abside era elemento portante dell’asse della luce; solo in caso di orientamento architettonico ad est, però, essa diveniva la compiuta raffigurazione della sorgente di luce. Il declino dell’orientamento Nella sua opera Rationale divinorum officiorum del 1296, Durandus riporta una tradizione ancora viva ai suoi giorni: «il sacerdote sta all’altare sempre rivolto verso est e si gira in direzione dei fedeli solo in occasione di alcuni saluti, salvo nelle chiese con ingresso sul lato orientale perché in quel caso egli guarda tutto il tempo in direzione dell’assemblea»69. Tuttavia, questa rappresentazione delle cose costituiva già a fine XIII secolo una semplifica-

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zione. Da tempo ormai nell’Occidente latino il principio dell’orientamento stava perdendo terreno a causa della progressiva disgregazione della liturgia comunitaria. Fin dal primo Medioevo, per la nascita della messa privata, delle cappelle e degli altari laterali, che relegarono in secondo piano l’idea di compiere il sacrificio al solo altare esistente, risultò spesso impossibile già solo per ragioni pratiche osservare l’orientamento liturgico ad est. La Rotonda della chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme possedeva nel VII secolo altari orientati verso tre punti cardinali70. Valafrido Strabone menziona questo dato nel IX secolo aggiungendo che anche nel Pantheon e a San Pietro a Roma vi erano altari disposti in ogni direzione. Nella chiesa grande con numerosi altari o in quella a pianta centrale a volte era evidentemente inevitabile rinunciare al simbolismo collaudato. Secondo Valafrido questo non comprometteva in alcun modo la validità della liturgia all’altare interessato, giacché i Padri della Chiesa avevano affermato che Dio non si trova solo a oriente, Dio è dappertutto71. Il simbolismo è ancora una volta definito come un derivato e non un presupposto della liturgia. La stessa collocazione degli altari laterali, del resto, presenta grandi differenze regionali rispetto alla tradizione. In molte chiese gotiche urbane, gli altari laterali sono intenzionalmente addossati al lato più orientale nelle cappelle radiali poligonali (per esempio Colonia, Saint-Denis), o gli altari sono appoggiati ai pilastri per quanto possibile secondo un angolo retto rispetto all’est (per esempio Stralsund, Sankt Nikolai). In Italia la varietà di posizionamento, invece, sembra pressoché illimitata. Nel tardo Medioevo l’altare maggiore andò progressivamente assimilando le caratteristiche degli altari laterali più frequentati dal popolo. Anche l’altare maggiore divenne oggetto di servizio liturgico e di finanziamento di carattere privato e fu sempre più spesso provvisto di un retablo dipinto o scolpito72. Se si considera la somiglianza istituzionale e formale sempre più pronunciata tra altari delle cappelle e altare maggiore, sarà chiaro che praticamente più nulla impediva di abbandonare il principio dell’orientamento ad est anche nel fulcro liturgico della chiesa. Forse questo accadde la prima volta nelle chiese degli ordini mendicanti delle città italiane73. Il papa stesso diede un esempio eclatante di deroga al principio nella Cappella Sistina del palazzo Vaticano. Nella cappella edificata tra 1475 e 1483, l’altare venne a trovarsi fron-


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35. Direzione assiale delle chiese principali di Arezzo costruite prima del 1400. 1) cattedrale; 2) pieve Santa Maria; 3) badia Sante Fiora e Lucilla; 4) Santa Maria in Gradi; 5) San Michele; 6) San Domenico; 7) San Francesco.

talmente all’ingresso sulla parete corta di fondo. Tale disposizione riproduceva quella della grande cappella papale del palazzo di Avignone, quest’ultima era però orientata ad est mentre la parete d’altare della Cappella Sistina guardava ad ovest. Consumatasi la separazione tra orientamento architettonico e orientamento liturgico, emerse un aspetto fino a quel momento rimasto in secondo piano: la posizione del celebrante all’altare. La collocazione dell’officiante versus populum, come veniva tramandata nelle antiche chiese occidentate, destò l’attenzione degli studiosi di liturgia come curiosità, l’origine della quale era meno importan-

te delle sue conseguenze sul piano rituale74. La disposizione del sacerdote con le spalle ai fedeli, comune nel Medioevo, era frattanto divenuta la norma, tanto da essere adottata anche nelle disposizioni non orientate ad est, come nella Cappella Sistina. Questo accadde sicuramente anche per il fortunato abbinamento dell’altare con un retablo. Il risultato fu che nel XVI secolo non esisteva più regola liturgica cui fosse riconosciuta validità generale75. La combinazione fissa altare-con-retablo, inizialmente prodottasi dove consentito dall’orientamento liturgico, nel XVI secolo divenne un forte motivo per abbandonare l’orientamento liturgico ad est.

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Come rovescio della medesima medaglia, accadeva che la celebrazione versus populum venisse adottata in base a considerazioni che con l’orientamento ad est non avevano più alcun legame. Così, nelle cappelle di Santo Spirito a Firenze (1434), Filippo Brunelleschi progettò gli altari a sé stanti sotto gli archi d’ingresso, dimodoché il sacerdote dietro l’altare potesse officiare con lo sguardo rivolto verso la chiesa76. Questo progetto dell’architetto fu peraltro abbandonato durante l’esecuzione dei lavori in favore della consueta disposizione

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degli altari contro la parete di fondo. Nella collegiata di Castiglione Olona (consacrata nel 1425) il committente, il cardinal Branda Castiglioni, sembra aver voluto imitare una configurazione attestata a Roma, con altare a sé stante senza pala e celebrazione in direzione della navata, sebbene la chiesa fosse orientata ad est77. La variante della celebrazione versus populum poteva essere adottata anche per motivi rituali. Il cerimoniere pontificio Johannes Burckhardt fece per esempio costruire in San Paolo fuori le mura un altare provvisorio in

36. Celebrazione della messa su un altare con retablo, particolare dell’affresco della sala capitolare (XIV secolo), Pistoia, San Francesco.


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. 37. Deambulatorio del coro della chiesa abbaziale di Saint-Denis, su cui si aprono le cappelle radiali con altari secondari, laterali.

legno per poter celebrare la messa in presenza del papa «come nella basilica di San Pietro»78. In questo contesto l’espressione versus populum compare per la prima volta per indicare la celebrazione nel suo complesso. Frattanto in Messico i missionari spagnoli sperimentavano la messa versus populum come strumento pastorale tra gli Aztechi che avevano da poco convertito79. Allorché non fu più una necessità della liturgia, venne meno ogni motivo per attenersi all’asse estovest nell’edilizia cultuale. Serlio e Palladio affer-

mano apertamente che i cristiani sono liberi da preoccupazioni pagane per l’orientamento e possono tranquillamente costruire le loro chiese in modo tale che la disposizione della facciata sia la migliore dal punto di vista urbanistico80. Quanto queste affermazioni corrispondano alla pratica del tempo è possibile constatarlo in numerosi luoghi. A Pienza, per esempio, nel 1458 la nuova cattedrale fu posizionata con la facciata verso la piazza principale per cui l’abside venne a trovarsi a sud, e questo senza tenere conto dell’orientamento ad est della chiesa precedente. In tal modo l’orientamento ad est, già in declino per gli sviluppi della liturgia, venne definitivamente messo da parte dalla nuova estetica del Rinascimento e del Barocco italiani. All’esterno il cambiamento ebbe luogo per la supremazia dell’urbanistica e all’interno per l’imporsi dello schema altare-con-retablo addossato alla parete di fondo, indipendentemente dall’orientamento. L’epicentro di questo sviluppo fu l’Italia, ma ne risentì l’Occidente intero. Solamente l’Oriente cristiano ha continuato ad osservare con coerenza la tradizione dell’orientamento ad est81. La liturgia post-tridentina relativa alla consacrazione di una chiesa rispecchia questo processo. Nel rituale medioevale veniva fatto costante riferimento ai punti cardinali. Quando il vescovo tracciava per esempio una croce sul pavimento della nuova chiesa, egli doveva iniziare a sinistra, sul lato est82. Nel Pontificale Romano del 1595, invece, non vi è più alcuna menzione dei punti cardinali e le rubriche si limitano all’indicazione «a sinistra» e «a destra»83. Alla fine del XVI secolo, dunque, il concetto dell’edificio cultuale come spazio strutturato sui punti cardinali era stato abbandonato nella stessa liturgia romana ufficiale. Nella regia della luce di numerose chiese postmedievali l’asse longitudinale non svolge più alcun ruolo e l’emiciclo absidale appare privo di finestre. Non è possibile provare un nesso causale diretto tra il declino dell’orientamento ad est e il venir meno dell’asse della luce, ma la concomitanza dei due sviluppi è quanto meno sorprendente. Il fattore catalizzatore del processo è facilmente individuabile. Le finestre vengono murate perfino nelle chiese esistenti, perfettamente orientate secondo la tradizione sotto il profilo sia architettonico che liturgico, perché sulla parete dove queste si aprivano è prevista la collocazione di un retablo o la realizzazione di un ciclo pittorico. Un esempio documentato riguarda le finestre dell’abside romanica del duomo di Spoleto, murate nel 1446

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38. Messa pontificale in Santa Sabina alla presenza di papa Sisto V. Dettaglio dell’affresco del 1587 nel Salone Sistino, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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per alloggiarvi il ciclo di affreschi di Filippo Lippi84. Allorché la metafora della luce non era più rilevante, la luce che entrava dall’abside o dalla parete di fondo retrostante l’altare, divenne un ostacolo per un’immagine nuova, molto più concreta: il retablo oppure – come sua estensione – la parete absidale interamente dipinta. Che poi anche in quelle pitture la luce potesse avere nuovamente un ruolo, per esempio nel sembiante di un cielo dorato, questo è un altro discorso. La valutazione inadeguata del principio dell’orientamento ha spesso coinciso con il mancato riconoscimento dell’asse della luce. Secondo Émile Mâle le absidi delle basiliche paleocristiane di Roma, caratterizzate da tanta varietà di orientamento, erano prive di finestre ed egli ne conosceva anche il motivo: «l’oscurità rafforzava il senso di religioso mistero dell’altare»85. Lo stesso Onasch, che si è occupato tanto esplicitamente del simbolismo della luce, accetta senza esitare la tesi che l’abside dell’antica chiesa di San Pietro fosse sprovvista di finestre86. Le indagini hanno ormai efficacemente dimostrato che le absidi traforate da una gran copia di finestre non erano caratteristica esclusiva dell’edilizia cultuale cristiana in Oriente, ma che anche a Roma quasi tutte le absidi di epoca paleocristiana e medievale erano dotate di finestre. Il definitivo tramonto della tradizione dell’orientamento ad est si manifesta chiaramente in occasione della ristrutturazione di Santa Sabina a Roma nel 1586 durante il pontificato di Sisto V. Con l’intenzione di rendere la basilica paleocristiana adatta ad ospitare la liturgia papale, il pontefice fece collocare l’altare secondo la disposizione esistente nella vecchia San Pietro, per cui essendo la chiesa orientata ad est il celebrante si trovò ad officiare in direzione ovest. Allo stesso tempo le finestre dell’abside furono murate e quest’ultima

decorata con affreschi. Proprio nella deliberata storicità di quest’operazione si manifesta l’equivoco87. Esattamente la stessa cosa avvenne nel riassetto di San Paolo fuori le mura seguente all’incendio del 182388. Soltanto alcuni esperti di antichità cristiane erano ancora a conoscenza della tradizione e seppero talvolta persuadere i committenti a rispettare l’antica disposizione. Così Giovanni Severano riuscì a preservare l’altare maggiore medievale nella basilica occidentata di San Crisogono durante il restauro voluto dal cardinale Scipione Borghese (1628), per amore della disposizione «rivolta all’oriente»89. L’errore di Sisto V ha fatto scuola, a Roma e oltre i suoi confini. E contribuì a far ritenere la disposizione dell’altare versus populum un connotato storico distintivo delle basiliche pontificie di Roma. Se tale more romanorum si riferiva ancora nel Medioevo all’occidentazione architettonica delle basiliche, ora il termine non indicava che la posizione del celebrante con il viso rivolto verso i fedeli, senza alcun legame con l’orientamento90. Ormai mero attributo formale, il versus populum assurse al rango di privilegio, espressione del prestigio di una chiesa. Ancora oggi la scienza storica esita a riconoscere questa nuova realtà come il frutto della dissoluzione di un nesso antichissimo, e che quindi non può essere fatta risalire alla tarda antichità o al Medioevo91. L’autonomo delinearsi della questione della posizione del celebrante, l’imitazione arbitraria di specifici tipi di disposizione, come quella di San Pietro, in contesti caratterizzati da diverso orientamento, l’estetica delle absides obscures: sono tutti fenomeni che caratterizzano la cultura del XV e del XVI secolo e che marcano lo scioglimento dell’antico legame tra architettura, liturgia e simbolismo.

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1. Ingresso del battistero Lateranense, Roma. 2. Veduta panoramica dell’interno della chiesa di Santo Stefano Rotondo, Roma. 3. Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna.


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EDILIZIA CULTUALE DELL’ALTO MEDIOEVO CONTESTI STORICI E PERCORSI LITURGICI Werner Jacobsen

Secondo l’opinione comune, l’edilizia cultuale si trasformò in modo diversificato e sconcertante nel corso del Medioevo. Tali trasformazioni sono state sempre accolte con stupore, e creano ancora oggi difficoltà anche agli studiosi per ciò che riguarda l’ordinamento, coordinamento e confronto dei materiali a disposizione. È proprio l’alto Medioevo l’epoca che offre il quadro più confuso, nel quale è sempre stato difficile identificare specifiche forme costruttive che fossero presenti su tutto il territorio europeo. È difficile trovare in Italia un Westwerk carolingio, così come in Francia o in Germania a mala pena si trova una conformazione di presbiterio con sedili dietro l’altare come a Roma in epoca paleocristiana e medievale. I vecchi ricercatori, se si erano mossi in un’ottica internazionale, hanno descritto tali caratteristiche come «peculiarità nazionali»; la ricerca tedesca ha spiegato il fatto in modo più differenziato mediante il concetto di «paesaggi storico-artistici», e da qui ha cercato di elaborare una «storia dell’arte delle regioni»1. E, infatti, nei più grandi paesi attuali, o addirittura in nazioni più piccole, è un’impressione di molteplicità quella che risulta evidente per gli edifici cultuali coevi fino ad oggi conosciuti, mentre alcuni edifici

e gruppi di edifici restano tuttora isolati nelle loro forme singolari. Ciò confermerebbe, pertanto, lo stato frammentario della nostra attuale conoscenza. D’altra parte, oggi si delinea un orizzonte comparativo già piuttosto ampio riguardo alle chiese altomedievali, che – diversamente da cinquant’anni fa – permette una stima complessiva dell’edilizia cultuale del tempo. Oggi si conoscono, infatti, circa 1.000 chiese risalenti al primo millennio in Germania, in Svizzera e in Austria; circa 800 in Italia; circa 150 in Francia; circa 100 nella penisola iberica; forse 50 nelle isole britanniche. Tutte queste chiese hanno origine nella tarda antichità e nell’alto Medioevo e, dal punto di vista archeologico, possono essere considerate più o meno indagate (intendendosi con ciò i singoli edifici che, tuttavia, possono comprendere diverse fasi costruttive)2. In totale abbiamo oggi a disposizione circa 2.000 edifici noti, in parte conservati e in parte conosciuti per lo meno grazie alle loro fondamenta, ovvero alle loro planimetrie. Di questi, circa un quarto ha avuto origine nella tarda antichità, tre quarti nell’alto Medioevo. Ciò è da stimarsi sempre poco rispetto agli effettivi «volumi» di edificazione di quei periodi, benché offra, per lo meno per la

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Germania e l’Italia, una base piuttosto ampia per una valutazione. L’alto Medioevo coprì un periodo lungo mezzo millennio. Il suo inizio si fa coincidere solitamente con il 476, anno della deposizione dell’ultimo imperatore dell’Impero Romano d’Occidente, Romolo Augustolo; per motivi stilistici, il passaggio allo stile romanico è fissato all’inizio dell’XI secolo ed è collegato, in modo impreciso ma convenzionale, a date storiche importanti: in Francia, all’inizio della dinastia capetingia (987); in Germania e Italia, all’inizio del regno dei Salii (1024); in Inghilterra, alla dominazione normanna (1066). L’evoluzione dell’architettura dell’alto Medioevo comprende dunque più di cinquecento anni; questo lungo lasso di tempo rende opportuna una divisione in singole fasi di sviluppo. Un’analisi del genere può essere effettuata in modo convincente sempre e soltanto entro i confini storici territoriali di quel periodo, non entro quelli attuali. Per questo motivo desideriamo articolare il seguente contributo in sezioni spazio-temporali significative, dato che i confini nazionali odierni non hanno alcun significato in questo contesto3.

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stica che ci inducono a collocare l’architettura delle chiese di Roma all’inizio della nostra analisi. L’edilizia cultuale a Roma nell’alto Medioevo promana direttamente dal periodo tardoantico e si mantenne, nei secoli successivi, in forme sempre più conservative. Essa rimase fedele alle forme tardo antiche e finì per canonizzarle. Questa osservazione vale, innanzitutto, per le chiese della stessa città di Roma, che in altissimo numero sono conservate ancora oggi in elevazione muraria, e sono già studiate adeguatamente4. A un’osservazione più attenta, dobbiamo però ammettere che la nostra base di materiale per l’architettura delle chiese altomedievali di Roma, quindi successive al 476, non è poi così ricca come appare a prima vista. All’inizio dell’alto Medioevo le chiese importanti di Roma erano già costruite e tutte ancora in buone condizioni; non si aveva necessità di ulteriori edifici, tanto più che Roma, da molto tempo, era piombata ai margini dal punto di vista politico ed economico. L’Impe-

Roma (476-750) Da una prospettiva italiana l’alto Medioevo rappresentò una fase di terribile decadenza, un precipitare verso la perdita di ruolo. Questo dato di fatto è ignorato volentieri sia dal punto di vista romano – che, guardando in modo retrospettivo, considera il ruolo del papato decisivo nell’acquisizione della propria successiva importanza – sia dal punto di vista internazionale, se ci si occupa di Roma in modo unilaterale. In realtà, Roma aveva perso la sua importanza già durante il periodo tardoantico, innanzitutto con il trasferimento della residenza imperiale prima a Milano e poi nella piccola Ravenna e, in seguito, anche sotto il dominio ostrogoto e bizantino, fino al crollo dell’esarcato nel 751. Nel resto d’Italia, nel frattempo, erano arrivati i Longobardi (568), che avevano posto fine alla dominazione bizantina, presente ancora nei territori vicini a Ravenna, nella Pentapoli, a Roma, a Napoli e nell’Italia meridionale. Eppure Roma rivestì un’importanza particolare per quel che riguarda l’eredità classica nell’alto Medioevo: i giovani popoli del Nord hanno considerato le sue chiese – prima tra tutte la basilica costantiniana di San Pietro – come modelli determinanti e fonti di continuo rinnovamento per le proprie. Sono dunque motivi sia storici sia di ricezione storico-arti4

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4. Planimetria di San Pietro in Vaticano, Roma. Prima fase (da de Blaauw).


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5. Veduta da nord-est di San Giovanni a Porta Latina, Roma. 6. Interno di San Giovanni a Porta Latina, Roma. 7. Ricostruzione del presbiterio di San Pietro in Vaticano, Roma, intorno al 600, (da Toynbee/Ward/ Perkins).

ro non aveva più necessità di nuovi edifici, né c’erano le possibilità materiali per costruire altre grandi chiese. A partire dal 286 gli imperatori risiedettero a Milano, dal 402 a Ravenna, e qui rimase il centro amministrativo dell’Italia anche sotto gli Ostrogoti e la successiva dominazione bizantina. Roma e il territorio circostante rimasero un ducato bizantino fino alla metà dell’VIII secolo, anche se in verità potevano godere della protezione militare bizantina soltanto parzialmente e di fatto furono abbandonati sempre più a se stessi. Non sorprende, quindi, che la costruzione delle chiese di Roma subisse quasi un arresto nei secoli successivi, dopo l’innalzamento dell’ultima chiesa tardoantica di Santo Stefano Rotondo, ancor oggi enigmatica. I pochi edifici che furono ancora eretti erano piccoli e di impianto semplice. In realtà sono da citare soltanto le nuove costruzioni di Sant’Agata dei Goti e San Giovanni a Porta Latina, probabilmente entrambe officiate secondo la liturgia ariana; le altre chiese furono inserite in costruzioni più antiche sopravvissute (ad esempio Santa Maria Antiqua)5. Il provvedimento costruttivo più importante di questo periodo (dal punto di vista della storia della ricezione) fu la ristrutturazione del presbiterio di San Pietro in Vaticano, realizzato sotto papa Gregorio Magno (590-604). Fino allora, l’antico «trofeo» (tropaion) del sepolcro di Pietro era esistito come installazione elevata, posta davanti all’absi-

de, così da celare lo spazio centrale e retrostante di quest’ultima. L’altare era posto sulla soglia dell’abside, presso il trofeo, cosicché i pellegrini che volevano far visita al sepolcro di Pietro, se desideravano avvicinarsi alla tomba del santo, dovevano necessariamente accedere all’abside. Si decise così di inserire nell’abside stessa una cripta a corridoio semianulare in modo da permettere ai pellegrini di avvicinarsi al sepolcro di Pietro per suo tramite, senza

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più passare per la zona absidale. Al di sopra della cripta, nell’abside, fu sistemato il nuovo presbiterio, mentre sull’antico trofeo fu posto il nuovo altare maggiore della basilica di San Pietro6. Il flusso di pellegrini, che proprio in quegli anni iniziava ad aumentare e doveva essere dunque meglio organizzato, poteva in questo modo essere canalizzato; il presbiterio venne separato, affinché i pellegrini non dovessero più accedervi. A quanto pare, però, si trattò solo di un effetto positivo secondario dovuto alla ristrutturazione. Come motivazione specifica, il Liber Pontificalis romano menziona infatti un’altra esigenza: Gregorio avrebbe in tal modo fatto sì che le messe potessero essere celebrate sopra il sepolcro di Pietro (fecit ut super corpus beati Petri missae celebrarentur)7. Fino allora ciò non era stato possibile: il sepolcro di Pietro era collocato sotto il trofeo, l’altare stava probabilmente davanti ad esso (come scrive Gregorio di Tours), e il vescovo doveva quindi celebrare verso il trofeo con le spalle ai fedeli, contro la convenzione. Gregorio Magno ristrutturò dunque il presbiterio di San Pietro nella forma già consueta nella chiesa vescovile del Laterano e in tante altre chiese di Roma, con l’altare all’ingresso dell’abside (con celebrazione da dietro), e i sedili e la cattedra dietro, lungo la parete dell’abside8. In verità, i presbiterii a Roma, nell’epoca paleocristiana, non erano tra loro così simili come di solito si ritiene, e, quindi, anche la posizione del prete rispetto all’altare, all’inizio, non si basava su un modello unitario. Anche in San Paolo fuori le mura papa Gregorio aveva trovato una situazione differente e solo grazie a una ristrutturazione la chiesa si adeguò al modello della basilica Lateranense9. Anche gli altri importanti luoghi memoriali di Sant’Agnese sulla via Nomentana, di San Lorenzo sulla Tiburtina e dei Santi Pietro e Marcellino sulla Casilina erano organizzati diversamente: i sepolcri dei santi non si trovavano sotto l’altare, ma addirittura a parte, all’esterno della chiesa. Il quadro delle prime chiese romane non era, dunque, così unitario, come abitualmente si crede10. Anche qui si attuarono modifiche per creare uno spazio liturgico uniforme: sulla Tiburtina il predecessore di Gregorio, Pelagio II (579-590), fece smantellare con gran dispendio di forze e mezzi la collina della catacomba dov’era il cubiculum di san Lorenzo, così che il sepolcro del santo venisse a giacere libero su un terreno pianeggiante e potesse così essere incluso in una nuova chiesa, più piccola ma molto più bella. Sulla via Nomentana, Onorio I (625-638) fece portare alla luce la tomba di Agnese nella catacomba

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vicina e la fece contenere in una nuova chiesa, piccola ma riccamente decorata11. Le due chiese furono edificate secondo il nuovo impianto della basilica dotata di matronei, che, poco tempo prima, era diventato «di moda» in ambito bizantino (San Demetrio a Salonicco, fine V secolo). In entrambi i casi, a Roma non ci si scoraggiò all’idea di affrontare le enormi fatiche che comportava il lavorare la roccia, purché le tombe sante potessero essere sovrastate dalle nuove chiese. In ambedue i casi, gli altari delle nuove chiese furono collocati sopra i sepolcri dei santi e i presbiterii conformati nella maniera desiderata. Si sarebbe potuto procedere più semplicemente e trasferire i santi nelle loro antiche chiese, come si faceva in molti altri luoghi. Invece i santi restarono, inviolati, nei loro sepolcri originari, e anche qui si cominciò a celebrare le messe al di sopra delle loro tombe12. Solo nel contesto di queste ricostruzioni, avvenute intorno al 600, si può individuare la vera ragione della riorganizzazione del presbiterio di San Pietro. In primo piano non vi era il desiderio di una cripta semianulare, come spesso si legge negli studi storico-artistici, ma la volontà di adeguare il presbiterio e la posizione dell’altare al modello della basilica Lateranense. E ciò avvenne anche nelle altre chiese, fino a quel momento non conformi a tale modello. Lo scopo di tutte queste ricostruzioni era consentire il cursus liturgico della messa papale nella forma consueta già da molto tempo nelle altre chiese di Roma, in particolare nella chiesa vescovile del Laterano. Il cursus liturgico fu dunque uniformato e, da quel momento in poi, ebbe luogo ovunque – anche nelle importanti chiese apostoliche di San Pietro e San Paolo – in forma «aperta», come accadeva nella basilica Lateranense già dal periodo costantiniano: con l’introito del clero dall’atrio verso l’altare attraverso la navata centrale e con la celebrazione della messa sul sepolcro del santo, all’altare in quanto «palcoscenico», coram publico e versus populum. Così lo tramanda, intorno al 700, l’Ordo I Romanus come cursus tradizionale della messa papale13. Lo spazio della chiesa era diviso solo da basse recinzioni in modo tale da rimanere del tutto visibile e ben distinguibile da ogni membro della comunità laica14. La vera unificazione dello spazio liturgico ebbe luogo a Roma solo allora, nei decenni intorno al 600, in un grande e ultimo atto di forza. Nel periodo successivo – con papi di origine orientale, da Teodoro I (642-649) fino a Zaccaria (741-752) – a Roma si può individuare a mala pena ancora qual-


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8. Veduta della navata centrale di Sant’Agnese, Roma. 9. Matroneo di sinistra di Sant’Agnese, Roma. 10. Mosaico absidale di Sant’Agnese, Roma.

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che iniziativa edificatoria. L’edilizia cultuale roma- come San Pietro a Roma) fossero imparentate con na subì così un arresto per due secoli15. la basilica Lateranense, erano tuttavia – come tutte le altre chiese italiane del Nord – orientate ad Il resto d’Italia (476-568) est, ovvero non con abside a occidente come la cattedrale di Roma. Le restanti regioni d’Italia avevano le proprie pecu- Inoltre, a Milano, Aquileia e in quasi tutte le altre liarità. Ciò vale per le diocesi più distanti dalla sfera diocesi dell’Italia settentrionale, le cattedrali erano metropolitica di Roma (ad esempio Napoli, Siracu- conformate come «cattedrali doppie», a differenza sa) e in misura maggiore ancora per l’Italia setten- dell’uso romano16. Nel Nord-Est (ad Aquileia e in trionale con la compagine metropolitica rivale di alcune chiese episcopali suffraganee) si evitarono a Milano, dalla quale presto si separarono e presero lungo le absidi e, al loro posto, si costruirono dei la propria strada Ravenna, come singola metropoli subsellia, cioè dei banchi presbiteriali semicircolari (a quel tempo vera capitale d’Italia in quanto sede più o meno staccati dal muro di fondo. Anche il redell’imperatore e in seguito sede altresì dell’esarca stante arredo liturgico prese la propria strada, con bizantino) e, infine, anche il patriarcato di Aquileia un bema (presbiterio) trilatero rialzato nel corpo (con lo scisma tricapitolino del VI secolo). longitudinale e una solea (corridoio), che avevano Dal punto di vista teologico, a Milano si era deli- poco in comune con l’edilizia cultuale romana e anneata una tradizione autonoma già con sant’Am- zi erano molto più chiaramente rivolti verso modelbrogio. Ma anche sotto il profilo architettonico le li orientali. Questa evoluzione autonoma dell’archidiocesi dell’Italia settentrionale si differenziavano tettura delle chiese italiane settentrionali è studiata da Roma. Anche se le cattedrali del IV secolo a Mi- complessivamente molto poco, ma si lascia riconolano e Ravenna, nelle loro dimensioni e caratteri- scere già in modo evidente negli studi su Aquileia17. stiche strutturali (a cinque navate, a Ravenna sen- Da qui lo sviluppo continuò, sempre in modo indiza transetto, a Milano con appendici rettangolari pendente, nell’alto Medioevo, portando a un semai fianchi dell’abside, ma senza transetto «aperto» pre maggiore allontanamento dai modelli romani.

11. Scavo della trichora, Concordia Sagittaria. 12. Restituzione del complesso paleocristiano di Concordia Sagittaria, (da Furlan).

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13. Veduta della navata centrale di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna. Nelle doppie pagine seguenti: 14. Interno di San Vitale, Ravenna. 15. Veduta della navata centrale di Sant’Apollinare in Classe, Ravenna.

Benché questo sviluppo caratterizzasse anche le altre diocesi italiane settentrionali e abbia avuto il suo presupposto nella diversa liturgia di Milano, ovvero nella liturgia ambrosiana, più vicina a Costantinopoli e alle forme liturgiche orientali che non a Roma18, l’ulteriore evoluzione fu rafforzata anche mediante contatti nordalpini. Mentre Roma, nel VI e VII secolo, si «cristallizzava» in maniera conservatrice, l’architettura delle chiese nel Nord d’Italia accoglieva tanto più volentieri nuove forme, sia dagli Ostrogoti ariani, sia dai Bizantini, sia dai Longobardi ariani e, data la vicinanza alla Gallia tardoantica, anche dai Burgundi e dai Franchi ivi insediati. È vero che fino ad oggi sappiamo ben poco riguardo all’edilizia cultuale degli Ostrogoti e, in generale, degli ariani. C’erano state sicuramente chiese ariane già prima di Teodorico, ma al di fuori di Ravenna e Roma, non siamo tutt’oggi in grado di valutare dal punto di vista archeologico alcun edificio19. A Ravenna i giorni più felici sotto Galla Placidia erano ormai trascorsi da molto tempo, quelli meno felici sotto Teodorico hanno lasciato solo poche tracce e consentono di cir-

coscrivere, con la chiesa di Santo Spirito (insieme al battistero degli Ariani) e Sant’Apollinare Nuovo, un quadro modesto di piccoli edifici convenzionali alla «maniera greca», con abside «spezzata», esternamente poligonale, e decoro usuale20, non dissimili da ciò che abbiamo già menzionato parlando di Sant’Agata dei Goti e San Giovanni a Porta Latina a Roma. Purtroppo non esiste, in rapporto a tutti questi edifici, alcuna indagine sull’arredo liturgico. Ma già negli ultimi anni della dominazione gota nuove straordinarie costruzioni incalzavano: si tratta delle chiese cattoliche di Santa Maria Maggiore, San Vitale e Sant’Apollinare in Classe, ispirate artisticamente da Bisanzio e apertamente sostenute, anche finanziariamente, da Giustiniano. Esse erano state iniziate già prima della caduta della dominazione gota, ma furono consacrate solo dopo la conquista bizantina: Santa Maria Maggiore (525-534) come rotonda a imitazione del Pantheon di Roma21; San Vitale (522/32547) alla maniera della nuovissima creazione bizantina dei Santi Sergio e Bacco a Costantinopoli (527-536); Sant’Apollinare in Classe (532/36-549)

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come tradizionale basilica a colonne di dimensioni enormi (larghezza complessiva: 30 m)22. Con l’occupazione di Ravenna da parte dei Bizantini nel 540, tutte le chiese ariane della città vennero confiscate e chiuse, la religione ariana soppressa, la tomba di Teodorico profanata23. Solo nel 561, l’imperatore Giustiniano consegnò con un editto queste chiese nelle mani dell’arcivescovo Agnello di Ravenna, che le convertì al culto cattolico24. Ma dopo il promettente nuovo inizio sotto Giustiniano (San Vitale, Sant’Apollinare in Classe) lo slancio si esaurì rapidamente, tranne che in pochi edifici considerevoli, come San Giovanni in Castelseprio, Santarcangelo di Romagna (nella Pentapoli), e forse anche San Salvatore a Spoleto e Santa Maria di Compulteria presso Alvignano25. L’esarcato di Ravenna, a cui apparteneva anche Roma, nel 751 andò incontro alla sua fine in modo inglorioso, mentre nell’Italia meridionale immigravano monaci orientali che si insediavano con semplicissime dimore sui pendii rocciosi sulle coste ed edificavano chiese rupestri nell’entroterra, innestando qui nuovi elementi tratti dalla vita culturale d’Oriente. Il monachesimo era ancora ai suoi primi passi: fenomeno orientale, iniziò in questo periodo ad estendersi nell’Europa occidentale, con insediamenti lungo le coste nordafricane, italiane e galliche, fino all’Irlanda. Quando san Patrizio, nel 432, ritornò in Irlanda, aveva trovato già operanti e studiato i semplici insediamenti monastici dell’Italia meridionale, l’«agglomerato di edifici» di Lérin era già stato fondato e nella sua stessa Irlanda ebbe modo di incontrare monaci orientali. Tali semplici insediamenti configurarono anche l’orizzonte d’esperienza del giovane Benedetto da Norcia, prima che egli fondasse con i suoi seguaci, intorno al 529, il suo monastero a Montecassino. Eppure anche qui gli scavi hanno messo in luce soltanto un agglomerato di singoli edifici, nessun monastero «regolare» con chiostro ed edifici di clausura nel significato più recente del termine . Non esisteva ancora un chiostro, e l’abate e i monaci vivevano disordinatamente in edifici diversi. Questa non era ancora la grande architettura monastica. Le relative chiese, o meglio «oratori», erano piccoli edifici ad aula. Il medesimo quadro emerge anche dai primi monasteri delle città, per esempio a Roma, dove si assumevano edifici residenziali antichi quali abitazioni e si utilizzava poi una loro sala come chiesa (San Saba)27.

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Longobardi: 568-774 Nel frattempo, nel 568, nell’Italia settentrionale erano giunti i Longobardi ariani, trent’anni dopo la dissoluzione del regno ostrogoto da parte di Bisanzio (535). L’invasione longobarda fu rapida: Aquileia cadde nel 568 (il clero e il popolo fuggirono nella laguna verso Grado), Milano nel 569 (l’arcivescovo scappò nell’ancora bizantina Liguria verso Genova), Pavia nel 572. Alcune truppe proseguirono subito verso Spoleto e Benevento e lì fondarono dei ducati. Su questa via, i Longobardi distrussero anche il giovane monastero di Montecassino (577), i cui monaci fuggirono a Roma. Rimasero bizantine, in un primo momento, solo l’Istria, le lagune di Grado, Venezia (con la terraferma), Ravenna, la Pentapoli (da Rimini ad Ancona), la Liguria, il Lazio (con un ponte di terra presso Perugia), le isolate città costiere di Gaeta, Napoli e Amalfi, così come l’Italia meridionale con la Puglia, Basilicata, Calabria e le isole della Corsica, Sardegna e Sicilia. Successivamente, sotto

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il re Rotari (636-652), i Longobardi conquistarono anche la terraferma e la Liguria. Al loro arrivo in Italia, i Longobardi erano già cristiani, anche se di fede ariana. Per quanto ne sappiamo oggi, non si può ancora stabilire se avessero portato in Italia le proprie antiche usanze ariane dalla Pannonia (dove precedentemente si erano insediati già i Goti orientali ariani, e dove avevano lasciato probabilmente una «infrastruttura» di chiese ariane), o se soltanto giunti in Italia avessero iniziato un culto recuperando le chiese ostrogote non ancora distrutte, insieme al loro arredo, probabilmente ancor prima di entrare in contatto con le consuetudini nordalpine. In ogni caso, con la colonizzazione in Italia, essi avevano bisogno di chiese ariane per il culto divino. Dobbiamo supporre che ripristinassero gli edifici degli Ostrogoti, laddove fossero ancora presenti, per il proprio servizio liturgico. Paolo Diacono racconta che allora, in ogni città longobarda, risiedevano due vescovi, uno cattolico e uno ariano. Vi erano sempre anche due cattedrali con battisteri (come precedentemente a Ravenna);

16. Veduta da sud-est della chiesa di San Michele, Santarcangelo di Romagna. 17. L’andata a Betlemme, particolare dell’abside della chiesa di Santa Maria foris portas, Castelseprio.


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sente insieme al suo celebre decoro affrescato30. In molte chiese ad aula semplice l’abside venne addirittura sostituita da un ancor più semplice «coro» ad angoli retti, sia in forma quadrata (Cividate Camuno, Garbagnate Monastero), sia in forma di coro rettangolare «piatto» (San Martino a Trezzo d’Adda)31. Ma anche l’arredo liturgico era differente nelle chiese longobarde. I solenni concetti di introito del periodo tardoantico romano non avevano più l’autorevolezza di un tempo e, al contrario, le chiese erano adesso concepite per una celebrazione ad orientem. Gli altari venivano situati molto addentro nell’abside, la celebrazione avveniva nello spazio volto ad occidente, davanti all’altare, ovvero con il celebrante davanti ad esso e le spalle alla comunità; in questo modo verso l’altare si dirigevano gli sguardi tanto del clero quanto dei laici. Insieme a queste chiese comparvero nuove forme di arredo liturgico. E tali forme influenzarono poi anche gli edifici di culto cattolici del territorio longobardo. Le indagini archeologiche degli ultimi decenni hanno mostrato che, durante il periodo longobardo, anche nelle chiese già esistenti da molto tempo (quindi cattoliche), si giunse al rifacimento dell’arredo liturgico: i presbiterii furono spinti avanti, le

a Pavia, presso Sant’Eusebio, risiedeva il vescovo ariano28. Ancora oggi non si è indagato fino a che punto questi primi edifici ariani si differenziassero da quelli cattolici. Sulla base dell’analogia con il periodo goto (Roma, Ravenna) dobbiamo presumere che anch’essi fossero edifici piccoli, soprattutto perché la popolazione immigrata era anche numericamente molto inferiore a quella locale. D’altronde, anche la popolazione locale non disponeva più di risorse economiche per costruire nuove grandi chiese. Probabilmente si spiega così il fatto che nell’Italia settentrionale la costruzione delle chiese nel VII secolo raggiungesse ancora una modesta consistenza. Le nuove chiese nel VII e VIII secolo, almeno per quanto possiamo oggi giudicare, erano quasi senza eccezione piccoli edifici, dimessi anche nella forma29. Concezioni basilicali sopravvivevano a mala pena; l’architettura cultuale si impoverì esteticamente e si ridusse al tipo di chiesa ad aula semplice absidata. Come in numerose chiese tardoantiche, queste absidi spesso non erano neanche voltate con semicatini, ma si chiudevano in orizzontale con coperture lignee, come mostra ancora oggi il triconco di Castelseprio con la conca orientale ancora pre-

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18. Ricostruzione della pianta di Santa Maria di Aurona, Milano (da De Capitani d’Arzago). 19. Fasi del presbiterio della cattedrale di Aosta (da Bonnet). 20. Pianta della chiesa di Santa Maria delle Pertiche, Pavia (da Vicini).


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soleae eliminate o fortemente ridotte, lo spazio della navata, di conseguenza, suddiviso in zona del clero e zona dei laici e costituito in modo che il clero potesse entrare nel presbiterio da una sacrestia laterale vicina alla zona dell’altare, senza dover fare lunghi percorsi di introito attraverso la navata centrale32. Anche l’antico concetto di ambulacro, spesso ancora presente nell’architettura delle chiese tardoantiche, non fu più preso in considerazione nei nuovi edifici. A quanto pare, queste concezioni di edificio di culto degli Italiani cattolici e dei Longobardi ariani si intrecciarono così tanto che, dall’epoca della conversione dei Longobardi alla fede cattolica, nel corso del VII secolo, non si possono più individuare variazioni rilevanti nell’architettura delle chiese. Già la principessa baiuvara cattolica Teodolinda, consorte del re longobardo ariano Agilulfo, aveva rafforzato intorno al 600 l’influenza cattolica e lasciava, con il consenso di Agilulfo, nel 603, battezzare il proprio figlio Adalwald secondo il rito cattolico. Nel 612, Agilulfo appoggiò anche il santo monaco Colombano d’Irlanda nella fondazione del suo ultimo, e così importante, monastero a Bobbio, presso Piacenza. Al tempo del re Rotari (636-652) il vescovo ariano Anastasio della città reale di Pavia si convertì al cattolicesimo (probabilmente con tanti suoi compatrioti ariani)33. Sotto il re Perctarit (671-688) questo generale processo di conversione ebbe termine. Soltanto durante questa seconda fase «cattolica» dell’architettura cultuale longobarda ricomparvero più ricche conformazioni. Nelle costruzioni più ambiziose la navata unica venne combinata di frequente con tre absidi parallele, come ad esempio in Santa Maria di Aurona a Milano (ante 739), San Michele presso Santa Maria Teodote a Pavia (VIII secolo?) e San Salvatore a Brescia (costruzione I: fondata nel 759)34. Entra qui in gioco una nuova concezione nell’architettura italiana dell’alto Medioevo, che presto si diffuse anche nell’area nordalpina, soprattutto verso Graubünden (diocesi di Chur/Coira), ma anche fino alla Baviera (Sandau)35. Non conosciamo la genesi di questo nuovo tipo di edificio, di per sé assai caratteristico. È stato interpretato anche da una prospettiva teologica, ravvisando in esso il simbolo della Trinità dei Longobardi ormai cattolicizzati36. Un edificio di conformazione del tutto speciale era la chiesa di Santa Maria alle Pertiche a Pavia, una fondazione della regina Rodelinda (intorno al 680)37. La chiesa non era grande, ed era una rotonda con uno spazio centrale rialzato di circa 6 m di diametro, su sei colonne, circondato da

Anno 760 Seconda metà del XII secolo Demolizione del XII secolo Demolizione 1697-1698 Ricostruzione 1953 Anno 1698

21. Interno della chiesa di Santa Sofia, Benevento. 22. Pianta della chiesa di Santa Sofia, Benevento (da Belting). 22

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un deambulatorio. Presumibilmente essa guardava a modelli tardoantichi e bizantini, forse a Santo Stefano a Roma o a San Vitale a Ravenna. Non lo sappiamo. L’edificio non esiste più ed è anche mal documentato38. Esso mostra tuttavia grande affinità con la chiesa di Santa Sofia a Benevento, fatta costruire dal duca Arechi I (758-787) all’inizio del suo periodo di reggenza, intorno al 760/76539. Arechi fu elogiato dai suoi contemporanei per tre grandi progetti edilizi: due palazzi, uno a Benevento e uno a Salerno, e la chiesa di Santa Sofia del suo palazzo a Benevento40. I palazzi sono scomparsi, la chiesa di Santa Sofia, invece, esiste ancora. È un edificio a pianta centrale con un doppio deambulatorio e una cupola sopra il nucleo centrale, dotato, sul lato occidentale, di un avancorpo (torre?) e su quello orientale di tre piccole absidi, che sporgono appena dalla curvatura del muro portante e si toccano alle loro imboccature. Se si concentra lo sguardo sulle tre absidi, l’edificio sembra una chiesa longobarda ad aula unica con terminazione a tre absidi, «gonfiata» a forma di palla e in cui sono incluse colonne. Il tracciato perimetrale dell’edificio, originariamente a forma di stella, è oggi rettificato dal restauro, benché la sua idea costruttiva originaria sia egualmente poco chiara fino ad oggi. Lo spazio centrale su sei antiche colonne di spoglio è stato riformulato più tardi in stile barocco, ma di certo originariamente già rialzato, rispetto ai deambulatori. Questi ultimi, scanditi da dieci pilastri in muratura, non sono coperti con volte a crociera, ma con volte a vela fra sottarchi trasversali, un dato che rinvia a maestranze bizantine. A prescindere dalla pianta originaria a forma di stella, si può plausibilmente identificare il prototipo di questa chiesa nella precedente chiesa reale di Santa Maria alle Pertiche di Pavia (680 circa), anche per le dimensioni quasi identiche41. Evidentemente Arechi voleva imitare quel famoso edificio nel suo ducato di Benevento, tanto che fondò anche un collegio di canonici per la celebrazione della liturgia quotidiana, così come era in essere presso la cappella del palazzo reale di Pavia: un modello che poco dopo fu ripreso anche da Carlo Magno, per la sua nuova Cappella Palatina di Aquisgrana42. Da fonti contemporanee sappiamo tuttavia che Arechi, con questa cappella, voleva imitare anche la «chiesa di Stato» bizantina di Santa Sofia a Costantinopoli43. Il paragone con Santa Sofia risulta peraltro assai deludente, come anche il confronto con la Cappella Palatina di Carlo Magno ad Aquisgrana, di poco successiva, sia per quanto attiene alla forma goffa e

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alla realizzazione dell’edificio, sia per le sue modeste dimensioni (nucleo centrale: 5,60 m di diametro interno) che, se possono concorrere con quelle di Santa Maria alle Pertiche (circa 6 m), davvero non competono con quelle di Aquisgrana (14,45 m) né tantomeno con quelle di Santa Sofia a Costantinopoli (larghezza interna 33 m). Siamo qui di fronte ad un programma politico che spazia molto al di là delle capacità tecniche messe in gioco per realizzarlo. Così, nella valutazione del committente Arechi, figura di indubbio spicco storico, permane una sospetta smania di primeggiare. Proprio il confronto tra la Santa Sofia di Benevento, Aquisgrana e Costantinopoli mostra quanto fossero in realtà piccole e modeste tutte queste chiese longobarde44. Le loro dimensioni non erano condizionate solo dalla, inizialmente così bassa, percentuale di popolazione delle comunità ariane: da molto tempo i Longobardi si erano infatti inseriti nelle comunità cattoliche, costituendo insieme a queste gruppi piuttosto numerosi. Le piccole dimensioni delle chiese longobarde non trovano motivazione neppure nel fatto che si trattava di istituzioni e chiese private dell’aristocrazia longobarda. Dobbiamo invece constatare che i committenti longobardi non avevano l’intenzione, oppure non erano in grado, di edificare chiese di maggiori dimensioni e strutture basilicali più complicate. Ciò di certo sorprende, visto che si viveva fra tutti quei grandi edifici tardoantichi ancora esistenti e in uso, anche se, nel frattempo, ridotti ad uno stato di conservazione deplorevole. Una spiegazione soddisfacente per questo fatto singolare non è ancora stata prodotta. Forse le possibilità tecnico-costruttive, in quel periodo, erano nel frattempo divenute scarse; basti pensare che il papa, da Roma, inviò delle suppliche al re longobardo per la riparazione dei tetti delle sue chiese romane45. Il tentativo della ricerca più recente di interpretare l’architettura longobarda e, in particolare, l’architettura di Arechi, come documento prezioso di una renovatio, dalla quale Carlo Magno avrebbe tratto ispirazione poco dopo con il suo «rinascimento carolingio»46, non può trovare qui dunque alcuna conferma. Questa osservazione vale tra l’altro anche per la scultura architettonica, la pittura murale e la miniatura longobarda, benché nel tardo regno dei Merovingi, a nord delle Alpi, il livello artistico non fosse per nulla meglio di questo. Gallia e Germania 476-751 Se vogliamo valutare l’edilizia cultuale longobarda


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23. Pianta delle prime fasi di costruzione della cattedrale di Treviri (da Zink).

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nel suo contesto temporale, dobbiamo, però, gettare lo sguardo anche ai territori al di là delle Alpi, verso la Gallia e la Germania. Qui l’architettura chiesastica era cresciuta, a partire dall’età tardoantica, basandosi sulle proprie radici. Queste radici avevano avuto poco a che fare con Roma, così come la liturgia gallicana in uso in questi luoghi non proveniva da modelli romani, mostrando tutt’al più alcuni parallelismi con la liturgia ambrosiana di Milano, ed era alimentata piuttosto da fonti orientali. Così, anche le chiese tardoantiche in Gallia avevano altre forme ed erano officiate in modo diverso rispetto alle chiese di Roma. Mentre la chiesa vescovile romana del Laterano fu edificata come una singola, enorme basilica absidata a cinque navate, a Treviri, contemporaneamente, nasceva una cattedrale del tutto diversa, una cattedrale doppia come gruppo di quattro basiliche, due a nord poste in asse e provviste di atrii, e altre due a sud, similmente assiali e dotate di atrii. La navata centrale dell’aula nord era grande quasi come quella di Roma (larghezza interna: 17,50 m; basilica Lateranense: 19,50 m). In questo complesso era incluso anche un battistero intermedio. L’area del complesso monumentale era in questo modo di dimensioni davvero gigantesche, che superavano quelle della basilica Lateranense, anche se a Treviri le quattro basiliche avevano solo, come abbiamo detto, tre navate, con pilastri in muratura, senza absidi e decorate in modo poco dispendioso. I parallelismi strutturali con Aquileia sono numerosi ed evidenti, anche per quel che riguarda la posizione del battistero, mentre atrii interposti simili li conosciamo anche in Terra Santa, per esempio a Gerusalemme o a Gerasa47. A Treviri furono installate solo in un momento successivo delle soleae, sia nella chiesa nord che in quella sud, e precisamente con estremità allargate a ferro di cavallo verso occidente. Esse erano ornate con lesene lungo le pareti esterne e, a quanto pare, non possedevano alcun accesso da ovest48. Si trattava, dunque, di installazioni rialzate e chiuse, diverse da quelle che conosciamo in Italia. La liturgia romana dell’introito, quindi, qui non era praticabile. Non si trattava affatto di soleae adibite all’introito, ma di amboni rialzati in asse con la navata centrale, a cui si accedeva soltanto dal presbiterio orientale, salendovi da un corridoio di collegamento. Il progetto del monastero di San Gallo, risalente circa all’830, mostra ancora un analogo ambo circolare assiale, chiuso ad ovest, con recinzione che corre trasversalmente sul davanti. Qui, la pratica liturgica «nordica» si palesa in modo particolarmente chiaro, ri-

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spetto a quella che si esprimeva nell’edilizia cultuale romana. L’accenno ai particolari amboni di Treviri illustra, in modo piuttosto evidente, la speciale posizione dell’edilizia cultuale in Gallia rispetto agli standard italiani, ma evidenzia anche le lunghe tradizioni che improntarono di sé la regione ecclesiastica della Gallia e Germania per tanti secoli, fino al IX e X secolo. Con gli amboni di Treviri siamo all’inizio dell’età merovingica, nel periodo della conquista di Ravenna da parte dei Bizantini. Qui in Gallia, l’edilizia cultuale merovingica era cresciuta su tradizioni tardoantiche, ma per tutto il periodo dei Merovingi si attenne non soltanto a quei modelli, ma anche alla liturgia gallicana. Sappiamo che questa liturgia era ricca di processioni, molto più di quella romana, e che il popolo partecipava in misura molto maggiore alle celebrazioni. Diversamente dalla basilica romana, in cui le azioni liturgiche si svolgevano nello spazio absidale, all’estremità della chiesa, dunque, come su un palcoscenico teatrale, mentre la comunità dei fedeli poteva guardarle dalle navate, intervenendo soltanto al momento della comunione, lo spazio della chiesa in Gallia era articolato più fortemente e frazionato da recinzioni. L’altare, di solito, non si trovava nell’abside, ma era spinto più avanti, nella metà orientale della navata; dietro, e dunque nello spazio dell’abside, vi era, in recinzione, l’area della tomba del santo, che i pellegrini potevano raggiungere dalle navate laterali,

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24. Planimetria dello scavo di Santa Maria, Nivelles (da Vorromanische Kirchenbauten).


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25. Progetto del monastero di San Gallo dell’830 (particolare).

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senza interferire così con l’altare. È una soluzione che ci è ben nota dalla famosa abbazia tardoantica di Saint-Martin a Tours (461-470 circa), dove i pellegrini potevano trattenersi e pregare tra l’altare e la tomba di san Martino. Un corridoio assiale, come la solea nelle chiese romane, qui non era possibile: i collegamenti avvenivano tramite le navate laterali. Questa conformazione interna era consueta in molte chiese di quel primo periodo; essa passò intatta all’edilizia cultuale merovingica e continuò a sussistere fino all’architettura carolingia, e ancor dopo49. La celebre «pianta di San Gallo» (830 circa) mostra, ancora nel IX secolo, l’immagine di un’analoga navata centrale «sbarrata»: i percorsi di scorrimento erano configurati soltanto nelle navate laterali. Dalla morte del re Dagoberto (638) l’architettura merovingica cadde in una crisi sempre maggiore. Gli ultimi edifici basilicali furono quelli di Worms e Nivelles50. Presto, però, si tornò ad essere in grado e intenzionati a costruire chiese ad un’unica navata di piccole e medie dimensioni, terminanti non con un’abside, ma con coro (cappella per l’altare maggiore) rettangolare. Questa fase tarda offre un qua-

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dro ancora più dimesso rispetto all’edilizia cultuale longobarda italiana. D’altra parte, nella cerchia di corte del maggiordomo di palazzo Carlo Martello (714-741) e di Pipino (dal 741), si era consapevoli del fatto che erano necessarie forze esterne per la stabilizzazione politica. Si invitarono così a corte riformatori irlandesi e anglosassoni, proteggendo in particolar modo l’irlandese Willibrord e il famoso anglosassone Bonifacio, che, a sua volta, era in buoni rapporti con Roma. Pirmino fondò, nel 724, il monastero di Reichenau, con una chiesa ad aula unica e «coro» ad angoli retti (larghezza interna: 9,30 m). Il celeberrimo Willibald, appena tornato dalla Terra Santa, nel 741, fondò la diocesi di Eichstätt, dotandola di una grande cattedrale a croce greca (ampiezza interna di ogni braccio della croce: 12 m). Bonifacio stesso fondò a Fulda, nel 744, una basilica con abside (ampiezza interna della navata centrale: 11 m)51. Si tratta tuttavia ancora di iniziative legate a singoli committenti, mentre l’edilizia cultuale franca ci appare improduttiva, come «messa a maggese» a causa della forte opposizione del conservativo episcopato franco.

26. Pianta della prima fase della chiesa dell’abbazia di Fulda (da Vonderau).

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27. Pianta della chiesa dell’abbazia di Saint-Denis (da Wyss).


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Nord 751-900 Tanto meglio possiamo immaginare che impressione debba aver suscitato nei primi Carolingi la visione di ciò che ebbero di fronte, quando, per la prima volta, si confrontarono direttamente con Roma e la sua liturgia. Questo avvenne nel 753/754, quando il papa Stefano II, attraversate le Alpi, giunse in Francia per chiedere ai Franchi e al loro nuovo re Pipino (751-768) aiuto contro i Longobardi. Le forme liturgiche, con cui il papa si presentò allora a SaintDenis e in altri luoghi, devono aver impressionato Pipino così tanto che questi decise di sostituire l’antica liturgia gallica con quella romana52. Certamente, anche a livello politico si ebbe un’opportunità: mettere in difficoltà il regno dei Longobardi ed espandere la propria potenza verso l’Italia. Ma l’entusiasmo per la liturgia romana, come le fonti scritte lasciano credere, era sincero e senza calcolo, anche se, all’inizio, la richiesta di Pipino incontrò resistenza in alcune frange dell’episcopato franco. L’abate Fulrad di Saint-Denis, portavoce del «partito» filoromano, in questi anni, 768-775, fece costruire la chiesa della sua abbazia in linea con le nuove forme romane, con un transetto e un’abside con cripta semianulare, secondo il modello dell’antica basilica di San Pietro a Roma53. Contemporaneamente sorgevano altre nuove basiliche di medie dimensioni, come quelle di Lorsch, di Salzburg, di Mainz (Sankt Alban), e di Regensburg (Sankt Emmeram), che segnarono in questi anni un nuovo inizio per l’edilizia chiesastica franca54. Una vera e

propria «moda» romana esplose nel regno dei Franchi dopo il primo viaggio in Italia di Carlo Magno, figlio di Pipino, nel 774, quando sconfisse i Longobardi e visitò Roma per la prima volta. Nel suo secondo viaggio, del 787, Carlo Magno inaugurò poi una stretta complicità di intenti con papa Adriano I. Molte chiese furono costruite ispirandosi al modello romano, con cripta semianulare, tran-

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28. Pianta della chiesa dell’abbazia di Fulda (da Vonderau).

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setto e persino orientamento verso occidente: forme architettoniche, dunque, che l’architettura merovingica non aveva affatto conosciuto. A Fulda, si cercò addirittura con la nuova gigantesca chiesa dell’abbazia degli anni 790-819 (la più grande di quel tempo) di «riprodurre» esattamente il transetto «continuo» di San Pietro, attenendovisi persino nelle misure55 e descrivendo questa scelta precisa espressamente come more Romano56. La decisione per la costruzione di questo nuovo transetto occidentale coincide con l’entrata in carica del nuovo abate Ratgar (802-817). Le navate e l’abside est erano già realizzate in precedenza sotto l’abate Baugulf. La costruzione grezza fu terminata nell’817 e

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la consacrazione seguì nell’81957. In pochi anni sorsero numerosi altri nuovi edifici e ampliamenti nello stile di questa «maniera» costruttiva «romana», che testimoniano tale nuova visione architettonica Romano more nel regno carolingio. L’orientamento dell’edilizia cultuale carolingia verso Roma si dirigeva soprattutto verso San Pietro, in quanto edificio costantiniano: si desiderava rievocare il magnifico tempo delle origini cristiane, e la figura di Costantino, in quanto primo imperatore cristiano, costituiva anch’essa un punto di riferimento politico per la corte carolingia. Tuttavia, i conflitti interni tra la nuova politica filoromana e le posizioni spesso conservatrici dell’episcopato carolingio continuarono a sussistere in modo latente anche sotto Carlo Magno, Ludovico il Pio e i loro successori. E si manifestarono anche nell’edificazione delle chiese. Accanto alle nuove forme architettoniche «romane», troviamo pertanto altri committenti che persistevano nelle tradizionali concezioni «franche». Mentre all’836, a Paderborn, veniva di nuovo costruito un transetto occidentale con abside e cripta semianulare, contemporaneamente, a Corvey, si optava nell’822 per una semplice basilica con coro ad angoli retti, a cui, più tardi, fu aggiunto il famoso Westwerk (873-885), tuttora esistente58. Altri committenti si cimentavano con concetti alternativi, come dimostra il caso di Eginardo a Steinbach e a Seligenstadt59. Se costruire una basilica «romana» con una facciata concepita come una semplice superficie conclusa a timpano, transetto con abside e cripta semianulare, oppure una basilica «franca» con Westwerk, fu un’alternativa che durò ancora a lungo, fino al IX e X secolo. Solo gradualmente le combinazioni divennero correnti, soprattutto il collegamento del transetto con la terminazione a tre absidi, una novità del tardo periodo carolingio al Nord, divenne formula di straordinaria importanza per il più tardo sviluppo dell’architettura romanica60. Tanto chiara fu all’inizio la distinzione tra modo costruttivo «franco» e modo nuovo «romano», altrettanto chiaramente rimasero all’inizio separate le concezioni dell’uso liturgico, e forse fu questa la ragione essenziale per la diversa scelta di tipi architettonici. Se si voleva «riprodurre» la liturgia romana nel modo più preciso possibile, incluse le indicazioni di orientamento del Liber Pontificalis, ciò poteva naturalmente accadere solo in una chiesa con un altare a ovest, in un «coro» occidentato, secondo il modello romano. Solo così era infatti possibile la celebrazione versus populum, con contestuale dire-

29. Pianta della prima chiesa dell’abbazia di Corvey (da Lobbedey). 30. Navata centrale orientata ad est della chiesa di Santa Maria in Cosmedin, Roma.

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zione dello sguardo verso oriente61. Se invece si desiderava celebrare in modo tradizionale davanti all’altare, con lo sguardo rivolto ad oriente e la schiena del sacerdote verso l’assemblea, si poteva utilizzare una qualsiasi chiesa antica con «coro» orientale o costruire nuove chiese in modo simile. Si potevano altresì ottenere ambedue gli esiti contemporaneamente, mediante impianti a «doppio coro», cioè con chiese che avevano un coro a est e uno a ovest (Fulda, pianta di San Gallo). Il sorgere di questo particolare tipo di costruzione, negli anni intorno all’800, si può forse interpretare come desiderio di avere a disposizione entrambe le «modalità» nel corso dell’anno liturgico, così da poter celebrare alcune feste in modo tradizionale «alla franca», altre «alla romana». Roma 750-1000 Se volgiamo lo sguardo indietro, a nord delle Alpi, all’esaltante sviluppo architettonico degli anni a partire dal 768 (Saint-Denis), è chiaro che l’evoluzione di quei territori non può essere spiegata mediante le corrispettive nuove costruzioni che si sta-

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vano approntando a Roma. In questa città si era infatti giunti, alla metà del VII secolo, a un arresto quasi totale di ogni impresa edificatoria62. Solo Adriano I (772-795) si dedicò al restauro dei fatiscenti edifici di culto e delle diaconie, così come delle coperture delle chiese romane, fra le quali San Pietro. Come nuova costruzione possiamo menzionare unicamente Santa Maria in Cosmedin. Ma si trattava solo di un edificio di media grandezza (larghezza interna della navata centrale: 7 m), con navate basilicali a sostegni alternati e terminazione a tre absidi, sostruita da una piccola cripta a sala63. E per certo l’impegno costruttivo impiegato qui era del tutto rispettabile, considerando che si tratta di una basilica nel contesto dell’architettura longobarda, con l’aggiunta di un ciclo figurativo dipinto sulle pareti dello spazio interno, pur inarticolato. Ma al confronto delle ben più grandi antiche basiliche, questo nuovo edificio risultava assai modesto e anche esteticamente semplice. In quegli anni, la nuova chiesa abbaziale di Saint-Denis, con le sue forme «romane» ispirate dalla venerabile fabbrica di San Pietro, era già consacrata. E anche i successivi edifici carolingi del Nord, con le loro nuove forme «romane», con il transetto continuo, la cripta semianulare e il coro occidentale, furono costruiti in questi anni, senza che già si delineasse a Roma una «moda» architettonica parallela. Al contrario, la costruzione di Santa Maria in Cosmedin di Adriano I restò, con le sue forme, ai margini dell’evoluzione ulteriore. Così, la propensione del Nord verso il modello «romano» di San Pietro deve essere considerata come iniziativa personale di un episcopato franco affascinato da Roma. Essa era iniziata già nei giorni di Bonifacio, intorno al 730, e aumentò sotto Carlo Magno e la sua corte, negli anni Novanta dell’VIII secolo, senza che Roma ne avesse elaborato poco prima le premesse. Solo quando forme del genere si furono stabilite nel Nord se ne prese coscienza anche a Roma. Leone III (795-816) raccoglieva questi stimoli con il suo Triclinio al Palazzo del Laterano, intorno al 795-80064, e solo in seguito a ciò ebbe origine a Roma, intorno all’809, con la nuova chiesa di Santo Stefano degli Abissini, una prima costruzione chiesastica basata sul modello della San Pietro costantiniana65. Si trattava di una basilica a tre navate, orientata ad occidente, con transetto, abside semicircolare e cripta semianulare, nonché semplice facciata a capanna verso est. Il risultato era come di una San Pietro en miniature, con una navata centrale larga soltanto 7,80 m, e in alcun modo confrontabile con la chiesa

31. Pianta con fasi di costruzione e sezione della chiesa di Santo Stefano degli Abissini, Roma (da Krautheimer). 32. Navata centrale della chiesa di Santa Prassede, Roma.


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dell’abbazia di Fulda (larghezza della navata centrale: 17 m) che, in questi anni, stava per essere terminata. Inoltre, le altre due chiese di Leone III, cioè Santa Susanna (799 circa) e Santi Nereo ed Achilleo (814 circa), mostravano forme differenti: ambedue terminavano con un’unica abside; in quella dei Santi Nereo ed Achilleo, l’abside era ancora affiancata, alla «maniera bizantina», da annessi quadrangolari al modo dei pastophoria66. Dunque, in realtà, non potremmo parlare di una concezione architettonica omogenea di papa Leone a Roma, a prescindere dal fatto che fece costruire, con il suo nuovo Triclinio al Palazzo Lateranense, almeno un edificio consapevole della tradizione antico-imperiale, che Carlo Magno d’altronde «imitò» immediatamente in dimensioni molto più vaste ad Aquisgrana, interpretandola come aula palatina. Solo Pasquale I (817-824) fece erigere, con Santa Prassede, un secondo edificio secondo il modello di San Pietro, e questo edificio, finalmente, poté reg-

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gere il confronto con le nuove grandi basiliche del regno carolingio a settentrione, per quanto riguarda l’accurata esecuzione costruttiva e la grandezza ragguardevole (ampiezza interna della navata centrale: 14,50 m): una grande basilica a tre navate con ampio transetto e abside semicircolare con cripta semianulare67. In parallelo, però, sorsero altre chiese con forme ancora alternative: Santa Cecilia, priva di transetto, con abside e cripta semianulare; Santa Maria in Domnica, senza transetto, con tre absidi parallele68. Le ragioni di tali concezioni alternative non sono note. In ogni caso, non si deve parlare per quegli anni di un «programma architettonico» unitario a Roma, così come non va fatto per il Nord. Tuttavia, a Roma si trattava di iniziative architettoniche di singoli papi, non di eterogenee decisioni costruttive di diversi committenti in parallelo. La diversificata conformazione degli edifici romani di questi anni richiede, dunque, una spiegazione particolare. Fino alla metà del IX secolo sorsero ancora

33. Mosaico absidale della chiesa di Santa Prassede, Roma. 34. Particolare del mosaico absidale di Germigny-des-Prés.

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Cappella Addolorata

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Cappella Assunta Area del capitolo

35 Ex cappella S. Martino

Chiostro del priore

Fianco basilica desideriana

Sacrestia

Campanile desideriano

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alcuni edifici di culto di questo genere ricco di varianti: sotto Gregorio IV (827-844) San Marco, con abside e cripta semianulare69; sotto Sergio II (844847) San Martino ai Monti, solo con abside70; sotto Leone IV (847-855) Santa Maria Nova, con transetto, abside e cripta semianulare, poi i Santi Quattro Coronati, piccola chiesa con matronei, transetto e cripta semianulare, incorporata in un edificio preesistente molto più grande71. Poi l’edilizia cultuale romana si spense di nuovo per lungo tempo, questa volta fino all’inizio del XII secolo72. Il confronto dell’architettura romana di questo periodo con l’edilizia cultuale carolingia del Nord mostra che l’iniziativa della renovatio della basilica costantiniana scaturì dal Nord. Roma gli arrancava dietro. Si potrebbe anche dire che il Nord addi-

35. Scavo delle fondazioni della chiesa abbaziale di Montecassino (da Ferrua). 36. Ricostruzione della pianta di San Vincenzo Maggiore, San Vincenzo al Volturno (da Marazzi). 37. Ipotesi planimetrica della chiesa abbaziale di Farla in età carolingia (da McClendon).

Fronte basilica desideriana

Corrido io ovest

Chiostro dei benefattori

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Santa Restituta

Sala Capitolare

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Chiostro

Scala Corridoio II

Atrio

Corridoio IV

Basilica

Corridoio III

Corridoio I


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rittura suggerisse a Roma l’idea di riflettere sulla sua grandezza passata. Ma ciò avvenne probabilmente solo come riflesso dell’iniziativa del Nord. E quel che si realizzò nell’architettura non era in grado di concorrere con le nuove chiese d’Oltralpe – prima tra tutte Fulda –, così come assai poco poteva gareggiare in campo figurativo: basti paragonare i mosaici di Santa Prassede con il meraviglioso mosaico di Teodulfo a Germigny-des-Prés (806 circa). E questo mosaico a Germigny-desPrés può darci forse un’idea della qualità che deve aver avuto un tempo anche il mosaico dell’imponente cupola della Cappella Palatina di Aquisgrana (diametro interno: 14,50 m)73. Il resto d’Italia 774-900

38. Navata centrale della chiesa abbaziale di San Salvatore, Brescia.

Anche al di fuori di Roma, nel 774, la situazione politica era fondamentalmente mutata. Carlo aveva assunto la corona reale longobarda. Il regno longobardo continuava a vivere formalmente, ma di fatto

era governato dai Carolingi, in unione personale con il regno dei Franchi. Per assicurare il loro dominio, i Franchi occuparono importanti incarichi politici, vescovi franchi vennero insediati nelle sedi vescovili longobarde; nello stesso tempo, Carlo Magno chiamava alla sua ‘scuola di corte’ eruditi da tutti i paesi, Italia compresa. Si giunse ad una compenetrazione delle élites politiche e religiose di ambedue i regni, che diede vita a scambi culturali e a una reciproca influenza tra forme architettoniche. Fino ad ora la ricerca ha indagato poco questi fatti: gli studiosi di architettura in Francia e Germania si sono occupati principalmente dell’architettura carolingia settentrionale, quelli italiani, dell’architettura longobarda in Italia. Ma almeno alcuni elementi di tale influenza si possono, nonostante ciò, riconoscere. Se nel periodo longobardo fu predominante, quasi senza eccezioni, il modello della chiesa a navata unica (Saalkirche), in seguito, nell’Italia settentrionale si rimise in moto la costruzione delle basiliche.

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I principali monasteri italiani, provvisti fino a quel momento – nonostante la loro importanza – di una chiesa ad aula unica, scelsero ora le forme basilicali per le loro nuove chiese abbaziali. Primi fra tutti furono i celebri monasteri di Montecassino e San Vincenzo al Volturno. Ambedue si trovavano originariamente sul territorio beneventano, ma Carlo Magno, già nel 787, era intervenuto concedendo loro privilegi d’immunità e con ciò aveva posto in chiaro l’effettivo ordine imperante. A Montecassino, l’abate Gisulfo (796-817) fece costruire, al posto dell’antica chiesa abbaziale di San Martino, a navata unica, una basilica, che integrò in sé l’area dell’antica chiesa sepolcrale di san Benedetto e, di conseguenza, comprese la tomba del santo74. La precedente chiesa, con la sua abside orientale, fu inclusa nella basilica come navata centrale e allungata, così che la nuova navata centrale assumesse la larghezza dell’antica chiesa (8,70 m). In questo modo, la venerata tomba di Benedetto poteva essere inglobata senza doverla rimuovere75, e addirittura configurarsi adesso quale centro del nuovo presbiterio. Essa giaceva ora libera davanti all’abside e fu probabilmente sovraedificata col nuovo altare maggiore. Non il santo fu trasferito nella chiesa abbaziale, ma fu la chiesa ad «andare» verso il santo! Nella nuova chiesa abbaziale la tomba venne così a trovarsi nel luogo divenuto consueto da tempo in molte altre chiese che custodivano importanti tombe sante, ovvero sotto l’altare maggiore della chiesa abbaziale. Così, soltanto il monastero di Montecassino poteva celebrare la liturgia quotidiana sulla tomba del famoso fondatore dell’ordine, in analogia con quanto a Roma papa Gregorio I, intorno al 600, aveva reso possibile con la ristrutturazione dei presbiterii di San Pietro e San Paolo, e come era diventato di moda nel Nord mediante la ricostruzione di molti antichi impianti gallici76. Nello stesso periodo, nella vicina San Vincenzo al Volturno, l’abate Joshua (792-817) fece erigere una nuova chiesa abbaziale, che fu consacrata nell’80877. Anche qui si spostò la chiesa originaria, ma non per poter celebrare finalmente la liturgia quotidiana sulla tomba del santo ma per mancanza di spazio. Fu eretta una nuova basilica a tre navate orientate verso occidente, che superò quasi del doppio tutte le misure del «concorrente» edificio di Montecassino (larghezza interna navata centrale: 15,30 m), dotata ad est di una semplice facciata d’ingresso a capanna, e di tre absidi ad ovest. Nell’abside principale fu inserita, inoltre, una cripta semianulare. La nuova costruzione di Joshua, con

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l’orientamento ad ovest, non soltanto esibiva accenti, più chiari che a Montecassino, del «rinascimento carolingio», ma superava nelle sue dimensioni addirittura Santa Prassede a Roma, avvicinandosi persino alla gigantesca chiesa abbaziale di Fulda. Poco dopo, l’abate Sicardo di Farfa (830-842 circa) decise di trasformare la sua vecchia chiesa abbaziale di Santa Maria. Nei riguardi del vecchio edificio si procedette con i modi improntati a una consapevole pietas che erano stati adottati a Montecassino: si conservò l’edificio originario come «sala» absidata, tuttavia lo si allungò verso ovest mediante un transetto e un’abside occidentali, con un altare del Salvatore e una cripta semianulare al di sotto, nella quale vennero traslati i santi tuscanici Valentino e Ilario78. Con questa ristrutturazione, l’antica chiesa abbaziale fu liturgicamente «invertita» e dalla sala absidata, fino a quel momento orientata ad est, si ricavò un edificio a «T» in forme romane, con transetto occidentale e cripta semianulare. Riguardo all’incorporazione della chiesa originaria nel nuovo edificio, si superò Montecassino: l’edificio di fondazione era preservato, infatti, con un ampliamento che toccava solo la zona occidentale. Questo «conservatorismo» costrinse tuttavia ad alcune ‘insufficienze’, in particolare portò alle piccole dimensioni dell’edificio (lar-

39. Pianta e sezione del tempietto di Seppannibale presso Fasano (da Belli D’Elia). 39

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ghezza della navata simile a Montecassino: 8,30 m) e al fatto che il corpo longitudinale restava a navata unica. Tanto più ne erano messe in risalto le sue qualità innovative: l’orientamento ad ovest e le forme architettoniche romane dell’ampliamento. Anche a Brescia, nell’abbazia longobarda di San Salvatore, fondata da re Desiderio e retta per molti anni da sua figlia la badessa Anselperga, perciò caduta dopo il 774 nell’isolamento politico, la chiesa fu sostituita alla metà del IX secolo da una nuova

40. Pianta con fasi di costruzione della cattedrale di Spira (da Kubach).

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basilica, ancor oggi esistente, a tre navate orientate a est (larghezza della navata centrale: 7,20 m) con terminazione a tre absidi e piccola cripta a sala assunta dall’edificio precedente79. Le pareti esterne erano decorate da lesene come a Montecassino. Lo spazio interno fu dipinto in un secondo momento con un programma figurativo in forme tardocarolinge80. Il nuovo edificio deve essere sorto poco prima di questo intervento81, quando, dopo la morte della badessa Anselperga, il monastero era preso direttamente sotto il controllo della casa imperiale e diveniva importante appannaggio delle regine e principesse reali carolinge: dall’848 dell’imperatrice Irmingard (consorte di Lotario I), dall’851 di sua figlia Gisla, dall’868 dell’imperatrice Angilberga (consorte di Ludovico II), dal 916 di Berta (figlia di Berengario I e qui badessa)82. È comprensibile che le nuove principesse e regine carolinge non volessero insediarsi nell’antica chiesa a navata unica della famiglia fondatrice. La forma architettonica del nuovo edificio, che ora fu scelta, corrispondeva allo standard delle basiliche che abbiamo visto anche trionfare con le nuove chiese di Montecassino e San Vincenzo. Tale forma architettonica basilicale non era stata comune sotto i Longobardi; essa si faceva strada soltanto ora in Italia settentrionale, evidentemente nell’orbita dei Carolingi. L’edilizia cultuale del Nord d’Italia si trasformò; essa ricevette la sua impronta «carolingia», anche se determinate caratteristiche longobarde, come la terminazione a tre absidi, furono mantenute, rafforzate, e così diffuse in Europa83. Resta fermo che le nuove costruzioni italiane del IX secolo riprendevano le caratteristiche «romane» che avevamo già osservato sotto Carlo Magno a nord delle Alpi, il transetto (a Farfa), la cripta semianulare (a San Vincenzo e Farfa), l’orientamento ad ovest (a San Vincenzo e Farfa). Queste innovazioni, tuttavia, si lasciano seguire soltanto fino alla metà del IX secolo; esse cessarono in seguito, tanto in Italia settentrionale quanto a Roma e a nord delle Alpi. Forme romane del genere sembrano non aver riguardato più neppure Brescia. La cripta semianulare rimase in uso in Italia un po’ più a lungo rispetto al Nord; essa fu edificata ancora nel tardo IX secolo a Luni, a Ravenna (Sant’Apollinare in Classe) e a Santa Maria in Vescovio84, fino a far posto, nel X secolo, anche a nuove forme di cripta, cioè alla cripta a camera e alla cripta a sala. Sarebbe ovvio considerare i nuovi concetti di «occidentazione» di San Vincenzo al Volturno e Farfa come riflesso delle nuove costruzioni romane di

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Santo Stefano degli Abissini e Santa Prassede. Se prendiamo in esame da vicino le date degli edifici, risulta, tuttavia, chiaramente che il più grande edificio dell’abate Joshua a San Vincenzo (consacrato nell’808) fu costruito prima della piccola chiesa di Santo Stefano degli Abissini a Roma (circa 809). Santo Stefano non può quindi essere servita come modello per San Vincenzo. Joshua fece dunque direttamente riferimento ai grandi edifici dell’impero carolingio, ad esempio Fulda, in costruzione dal 791. La nuova chiesa di Joshua si situa, secondo le nostre attuali conoscenze, all’inizio dei concetti italiani di occidentazione, e la nuova grande chiesa ad essa paragonabile, Santa Prassede (817824 circa), la segue solo dopo. A Farfa (830-842 circa), il secondo clamoroso edificio con orientamento ad ovest ebbe origine solo parallelamente a San Marco a Roma (intorno all’833) e alla ricostruzione del duomo di Paderborn con transetto occidentale, abside occidentale e cripta semianulare (dall’836). Per tutti questi impianti occidentati dobbiamo immaginarci percorso e celebrazioni liturgiche secondo il modello degli Ordines Romani, con l’altare sulla soglia dell’abside e la celebrazione all’altare che si rivolgeva verso oriente. Così era stato concepito nell’edilizia cultuale romana del IV secolo, così avevano tramandato gli Ordines Romani in tempi successivi, così divenne nuovamente chic nell’architettura delle chiese intorno al-

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l’800, prima a nord delle Alpi, e poi di nuovo anche a San Vincenzo, Roma e Farfa. Il Sud d’Italia, alla fine, prese una propria strada. Il duca longobardo Arechi II (758-787) aveva abilmente reso omaggio a Carlo Magno e su questa base aveva conservato una certa indipendenza; egli e i suoi successori continuarono a guidare il ducato – adesso chiamato «principato di Benevento» –, al punto d’incrocio di influenze longobarde e bizantine, quand’anche con difficoltà politiche crescenti: divisione del Principato, ma anche perenne conflitto per la difesa dei confini di fronte ai residui territori bizantini e agli invasori saraceni85. A produzioni degne di nota non si giunse più. La medesima cosa sembra accadere nei territori bizantini del Sud. Le chiese che furono ancora costruite erano piccole e poco appariscenti, e mostravano caratteri bizantini: duplice finestra al centro dell’abside, volte a botte e soprattutto a cupola, come ad esempio a Seppannibale86. Sorsero, inoltre, numerose chiese rupestri di monaci orientali, immigrati già prima, specialmente dall’inizio dell’iconoclastia bizantina (730/754), nonché dalla conquista araba della Sicilia (dall’827 in poi), che diedero un’impronta sempre più bizantina al paese87. Impero e Italia 900-1000 Con gli inizi del X secolo anche l’edilizia delle chiese nord-italiane si interruppe, come in Germania e nel regno dei Franchi. Le scorrerie degli Ungari terminarono in questi paesi solo dopo che Ottone il Grande, nel 955, li ebbe definitivamente sconfitti nella famosa battaglia del Lechfeld, presso Augusta. In tutte queste terre, tuttavia, passò molto tempo prima che l’edilizia cultuale raggiungesse di nuovo alti livelli. In Germania, nel X secolo, sorsero comunque alcuni grandi edifici spettacolari (a Treviri San Massimino; a Colonia San Pantaleone; a Gernrode San Ciriaco; a Magdeburgo il duomo dell’imperatore Ottone I). Intorno all’anno Mille lo sviluppo architettonico raggiunse di nuovo un vertice, rappresentato in Germania dal gigantesco duomo di Willigis a Mainz (975-1011), dal San Michele a Hildesheim (1010-1033) e dalla cattedrale del vescovo Wernher a Strasburgo (dal 1015). Da qui lo sviluppo si diffuse alla vicina Limburg an der Haardt (1024-1025) e alla confinante nuova cattedrale di Spira (1025-1061), con immediato passaggio all’architettura protoromanica dei primi imperatori salici (dal 1024)88. In Italia le condizioni disastrose durarono più a

41. Ricostruzione della pianta della chiesa abbaziale di Spigno Monferrato (da Reiche).


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lungo, causate non solo dai saccheggi degli Ungari e Saraceni, ma anche dai disordini politici del potere temporale e dai costumi simoniaci che si erano diffusi nel clero. Il restauro e la nuova costruzione delle chiese ricominciò solo in seguito, intorno all’anno Mille, e in modo senz’altro esitante. Le iniziative provennero, in un primo momento, dall’Italia settentrionale, appoggiate, da una parte, dai benintenzionati sforzi di riforma dell’imperatore e dell’episcopato imperiale nord-italiano fedele all’imperatore (Ariberto a Milano, Poppo ad Aquileia), dall’altra parte stimolate dal movimento riformato dei Cluniacensi (Guglielmo da Volpiano), ma presto basate altresì sui tentativi di riforma di gruppi monastici italiani (Romualdo di Camaldoli). L’edilizia cultuale italiana di questi anni mostra dunque forme molto diverse, a seconda della vicinanza a queste sfere d’influenza: gli edifici della riforma vescovile, nell’Italia settentrionale, erano chiaramente posti sotto l’influenza dei nuovi grandi edifici salici della Renania (Aquileia); i monasteri riformati cluniacensi guardavano alla Borgogna (Fruttuaria), mentre i gruppi monastici riformati si ricollegarono con forza all’edificio a navata unica del periodo longobardo, e lo condussero, come «tipo riformato», fino al XII secolo (Fonte Avellana)89. Le cripte si svilupparono nelle forme della camera e della «sala» (con colonne), che subito sostruirono tutta l’estensione della parte orientale della chiesa, come a Spigno in Monferrato, e con ciò prepararono lo sviluppo della Hallenkrypta romanica, con il suo precoce culmine di Spira90. E quasi tutte queste chiese, dal volgere del millennio in poi, vennero ornate in modo crescente con dispendiosi decori esterni di lesene e archi ciechi: forme decorative che rapidamente si trasformarono da forme semplici di archi ciechi e archi gemini ciechi nel sistema evoluto delle cornici ad archetti ciechi (pensili), per esser presto adottate anche dai paesi del Nord91. Rimase estranea a questo sviluppo

l’edilizia delle chiese in Italia centrale, specialmente a Roma, esclusa ancora per decenni. I mutamenti degli arredi architettonico-liturgici, che avevamo già osservato nelle chiese dei primi Longobardi, proseguirono e iniziarono ad avere effetti anche a Roma in questo periodo. Il sacramentario romano, che sotto Carlo Magno aveva trovato strada e portato ricchi frutti nel regno dei Franchi, si era sviluppato ulteriormente e, alla fine del X secolo, tornò a Roma come «Pontificale RomanoGermanico», arricchito dalle aggiunte liturgiche dei paesi del Nord92, alle quali si associarono anche le influenze della riforma cluniacense provenienti dalla Borgogna. Joseph Braun ha spiegato i cambiamenti dell’orientamento della celebrazione della messa romana nell’ambito dell’Ordo VI (X secolo) – spostamento degli assistenti liturgici (prima dirimpetto al vescovo e di fronte all’altare, adesso a lato del vescovo, anch’essi coram publico) – con l’influsso della riforma cluniacense93. Allora, anche nelle chiese di Roma, almeno in quelle con abside ad est, si iniziò ad abolire l’obbligo di celebrazione ad orientem – prima così chiaramente acquisito – a favore di una celebrazione versus populum. Nelle chiese orientate ad est ciò portò ad una necessariamente «falsa direzione» del celebrante rivolto verso ovest, come anche davanti al vecchio altare della Cappella Sistina, orientata ad ovest. Altrove, la celebrazione ad orientem, cioè con il celebrante rivolto verso l’abside (orientata ad est), si impose ovunque, come abbiamo già visto nell’architettura franca e longobarda. E i concetti di occidentazione del rinascimento carolingio, che intorno al Mille avevano avuto un ulteriore rilancio, finirono per soccombere del tutto. Durante i secoli successivi si restò fedeli alla chiesa orientata a est, insieme alla celebrazione ad orientem, fino al Concilio Vaticano II. Le tradizioni che l’alto Medioevo aveva fondato ebbero effetto ancora per un lungo tempo a venire nella storia della civiltà europea.

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L’AMBULACRO E I «TRAGITTI» DI PELLEGRINAGGIO NELLE CHIESE D’OCCIDENTE SECOLI X-XII Paolo Piva

Strade «di pellegrinaggio», architettura «di pellegrinaggio», chiese «di pellegrinaggio»: dei concetti ambigui e il loro (difficile) superamento storiografico

1. Ambulacro con sedile, Sainte-Foy, Conques.

La «Guida del pellegrino di Santiago» (composta dopo il 1130), libro V del cosiddetto Liber Sancti Jacobi (Codex Calixtinus)1, elenca i corpi santi più venerati lungo le strade che portano a Santiago: vengono così menzionate le chiese di Saint-Trophime ad Arles, Saint-Césaire ad Arles, Saint-Honorat ad Arles, Saint-Gilles (la cui arca aurea riceve una lunga descrizione), Saint-Guilhem-le-Désert, Saint-Sernin a Toulouse, Sainte-Foy a Conques, Saint-Caprais ad Agen, Sainte-Marie Madeleine a Vézelay, Saint-Léonard-de-Noblat, SaintFront a Périgueux, Sainte-Croix a Orléans (la cattedrale), Saint-Martin a Tours, Saint-Hilaire a Poitiers, Saint-Jean (Baptiste) d’Angély, Saint-Eutrope a Saintes (santo di cui è trascritta la passio), oltre alla stessa Santiago de Compostela, ovviamente. La «Guida» ingenera l’idea di una sorta di «piano programmato» del pellegrinaggio tra Francia e Spagna, su quattro strade che, partendo da Arles (Saint-Gilles-du-Gard, Montpellier, SaintGuilhem-le-Désert, Toulouse), Le Puy (Conques, Moissac), Vézelay (Saint-Léonard-de-Noblat, Pé-

rigueux), Orléans (Tours, Poitiers, Saint-Jean d’Angély, Saintes, Bordeaux), convergono a Puente-la-Reina, per raggiungere Santiago attraverso Burgos e León. È da qui che nasce la teoria della «via di pellegrinaggio» come un organico «veicolo» di influenza artistica (Mâle 1922, Porter 1923, Vallery-Radot 1931, Lambert 1956, Conant 1959, Durliat 1977, 1990, che se non crede a una école delle chiese di pellegrinaggio pensa ancora a une famille o un type d’édifice), in relazione a un gruppo di costruzioni apparentemente omologhe (Conques, Limoges, Toulouse, Compostela, Tours), tutte citate dalla «Guida» salvo Limoges. Ma gli studiosi novecenteschi sono caduti in una trappola, la «tagliola» di un punto di vista particolare, quello di un francese il cui scopo era di celebrare e propagandare il santuario di Compostela e i santuari della sua terra, in un rapporto complementare e vincolante, oltre che di costituire un libro edificante. È ancora più sorprendente che, nonostante le avvedute puntualizzazioni critiche di studi successivi (Williams 1984, ma soprattutto Bango Torviso 1994, e poi Gerson 2000, Brenk 2002, AndraultSchmitt 2007), quel punto di vista sia tuttora dominante (quand’anche nuancé), pur se in ambiti sempre meno «scientifici». Isidro G. Bango Torviso ha negato che le cinque chiese costituiscano un grup-

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po per omogeneità di caratteri rispetto ad altri edifici; anzi, il deambulatorio aveva già una lunga serie di esempi precedenti, e le gallerie non sarebbero che un elemento di valenza statica ed estetica. Nel 2002 Beat Brenk ha mostrato l’inconsistenza della definizione «architettura di pellegrinaggio» (considerata «mito» o «fantasma») e della tradizione novecentesca (Bédier, Mâle, Porter) che aveva fatto ruotare l’arte e l’architettura attorno alle cosiddette «vie di pellegrinaggio». Non esisterebbe alcun elemento architettonico specifico del pellegrinaggio (quale ad esempio il deambulatorio a cappelle radiali – ancora riconosciuto come tale da Bango Torviso – o le gallerie sopra le navate), ma soltanto elementi che testimoniano la «pretenzione» del committente di produrre architetture di prestigio in funzione personale e in rapporto al santo venerato. Se un dubbio suscita la posizione dello studioso è nella sua critica radicale del «funzionalismo» architettonico. Non esisterebbero funzioni ma solo «forme di rappresentazione» o di «pretenzione». In realtà, quando egli afferma che il deambulatorio non è una «forma di pellegrinaggio» ha perfettamente ragione, tuttavia questo non significa che il deambulatorio non avesse alcuna funzione, ma che era una forma adattabile a funzioni diverse (peraltro testimoniate: ad esempio, disimpegnava il santuario, e le relative cappelle – se c’erano – alloggiavano altari per le messe private2). La «pretenzione» si leggeva eventualmente nella maggiore o minore enfasi. Riguardo al concetto delle «strade di pellegrinaggio», è appena il caso di osservare che le «vie» nominate dalla «Guida» non potevano essere soltanto «di pellegrinaggio», ma erano arterie stradali in generale3; che Compostela era il punto d’arrivo solo in una visione finalizzata; che non sono citati importanti santuari collocati su strade diverse (si pensi a Dijon, Charroux, Saint-Benoît-sur-Loire, Brioude, Rocamadour) e persino su quelle stesse vie (come Limoges) o sui loro prolungamenti (Chartres, Saint-Denis); che, infine, non sono state le strade a favorire la trasmissione di elementi costruttivi, tecnici, iconografici, stilistici, bensì i committenti. In particolare, la rivalità o «concorrenza» fra i santuari, ebbe esiti a volte determinanti, come nel caso di San Nicola Pellegrino a Trani, che non nasconde la ispirazione/derivazione da San Nicola a Bari, iniziata pochi anni prima (ma ad Autun la concorrenza nei confronti di Vézelay non produsse affatto un edificio «derivato» da Vézelay, bensì da Cluny). La rivalità si espresse al punto tale che in alcuni

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santuari erano inclusi altari e reliquie corrispondenti ad altri santuari famosi, per esibire agli «utenti» dei «surrogati» e un’«offerta di Santi» più esaustiva. Gli altari delle cappelle dell’ambulacro di Santiago, non a caso, erano dedicati a san Nicola (= Bari), santa Croce (= Orléans?), santa Fede (= Conques), san Giovanni evangelista, san Salvatore (= Roma), san Pietro (= Roma), santa Maria Maddalena (= Vézelay), sant’Andrea, san Martino (= Tours), san Giovanni Battista (= Saint-Jean d’Angely)4. Il medesimo si ripete a Civate, dove le cappelle est sono dedicate ai Santi e agli Angeli, ma in particolare a san Giacomo (= Compostela) e a san Michele (= Monte Sant’Angelo sul Gargano), mentre l’ingresso è sotto la «tutela» di due papi, Marcello e Gregorio Magno (= Roma). È nota l’importanza delle penitenze «tariffate», che erano imposte dal vescovo sotto forma di pellegrinaggi verso rinomati santuari5, e che dovettero contribuire alle relazioni fra i santuari stessi. Il problema del «gruppo» presunto di cinque chiese voltate «a sala» (ma solo tre sopravvivono: Conques, Toulouse, Compostela), con gallerie sulle navate laterali, transetto circondato da navatelle con tribuna, e ambulacro (abside a doppio guscio), va inquadrato in tale contesto. Si è voluto pensare a una «catena» in sequenza temporale, in capo alla quale ci sarebbe Conques, e in fondo Tours (creduta un tempo il «prototipo»), passando per Limoges, Toulouse, Compostela, ma le cronologie sono tutt’altro che assodate. La storiografia ha preferito sottolineare gli elementi comuni di quelle chiese, e meno le differenze, ma queste sono significative: Limoges non aveva navatelle ininterrotte nel transetto, come non le possiede Conques; quest’ultima è l’unica a fondere il tipo ad ambulacro con quello échelonné delle cappelle del transetto (che sono invece allineate negli altri casi), e l’unica ad esibire una corta navata, agli antipodi rispetto a Toulouse; Toulouse introduce infatti una versione clamorosa con cinque navate, che sono quelle assunte anche a Tours (di cui la «Guida» vuole invece accreditare la derivazione da Compostela). La vecchia storiografia ha posto la comparazione in termini principalmente planimetrici (anche perché due chiese su cinque non esistono più), ma leggendo le strutture in elevato e non solo in pianta le differenze si conclamano. In generale, molti degli elementi di queste chiese esistevano già nella Francia protoromanica6, come attestano l’ambulacro con o senza cappelle radiali (Clermont, Tournus, Roda), oppure il transetto a


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navatelle e cappelle allineate (Saint-Remi a Reims). Quindi, non esiste alcun «tipo» architettonico «di pellegrinaggio», ma eventualmente delle chiese «rivali» o concorrenti. La «concorrenza» forse fece sì che si assumessero elementi di uno o più edifici «di riferimento», pur ambendo a «superarli»7, ma ciò non individua affatto un gruppo omogeneo. Ancora, le gallerie di tali chiese sono state intese come un «contrassegno» del pellegrinaggio, immaginando che fossero motivate da necessità straordinarie di capienza di pellegrini nella festa del Santo e in altre occasioni8, ma nulla giustifica questa presunzione9. A Conques solo un piccolo portale (lato sud del transetto), accanto a quello che collega la chiesa al chiostro, consentiva certo ai soli monaci l’accesso alle gallerie (possibile invece a Toulouse e Compostela anche dalla zona occidentale, che però fu completata più tardi); a Santiago la «Guida» accenna alle gallerie solo per la presenza di altari nei bracci del transetto (cappelle dell’arcivescovo); la tradizione documentaria colloca in effetti nelle gallerie altari e spazi per i cantori10. Bisognerà rassegnarsi all’idea che le tribune, soprattutto in queste chiese interamente voltate, fossero in primo luogo la soluzione ideale per il rinfianco della volta a botte centrale, e solo in seconda istanza fossero utilizzate per ragioni liturgiche più o meno «occasionali» (cappelle, cantori, Sepulchrum pasquale come forse a Toulouse11). Come la liturgia, il pellegrinaggio «riempie» lo spazio, ma non lo determina né configura in maniera vincolante, essendovi molti altri fattori in gioco12. Persino l’idea che le navatelle costituenti un «circuito» attorno all’intera chiesa (navata e transetto) alludessero a un iter di pellegrinaggio è smentita per Compostela dalla stessa «Guida» (i pellegrini entravano dal braccio nord del transetto), ma anche a Toulouse è quasi certo l’ingresso dei pellegrini dal transetto (porta dei Conti a sud)13. D’altro canto, è evidente che nelle chiese «a sala» le navatelle (ed eventualmente, se presenti, le relative gallerie) servono a contraffortare la volta centrale. Gettare una volta a botte continua sull’intera navata rendeva d’obbligo la presenza di volte laterali. Come non c’è un’«architettura di pellegrinaggio», così non ci furono chiese «di pellegrinaggio», che non fossero prima ancora monastiche, cattedrali, canonicali14. Peraltro, poche fra le grandi chiese romaniche (e spesso anche le medie o minori), prima o dopo, non puntarono su qualche reliquia, se non addirittura sul «lancio» di un santuario.

Tragitti di pellegrinaggio Al concetto di «chiesa di pellegrinaggio» va dunque sostituito quello di «tragitto di pellegrinaggio» all’interno di una chiesa: concetto «ridotto» e non vincolante, ma assai più plausibile. Che un percorso di pellegrinaggio sia stato effettivamente previsto è spesso indotto da una serie di elementi incrociati, quali la collocazione se non l’iconografia di un portale15, l’ubicazione delle reliquie, la «struttura» del percorso eventuale, ma anche la documentazione diretta (come nel caso di Compostela). Ciò esclude interpretazioni rigidamente «funzionaliste» dell’architettura, ma nemmeno può indurre a concepire l’edificio solo come un generico contenitore «retorico» del Santo16. Tuttavia, non sapremo mai né se numerosi «tragitti» siano stati effettivamente utilizzati, cioè non solo progettati ma anche percorsi come tali. Il lancio di un santuario poteva fallire; ma poteva anche essere che poi il «tragitto» fosse modificato. A volte i «segni» sono ambigui: ad esempio, a Modena la storia del Santo è scolpita sul portale sud della cattedrale, ma non era questo il portale del pellegrinaggio eventuale, perché da qui entrava il vescovo17, e solo dal lato opposto (via Emilia) i laici. Dunque, al portale sud il santo protovescovo connota l’ufficio vescovile, e non altro. Beat Brenk, in un corposo e importante saggio del 1995, si è interrogato in relazione ai santuari paleocristiani meglio documentati: in particolare quali fossero le modalità di esposizione delle reliquie e delle memorie, e quali le strategie per suscitare emozione nel pellegrino. Egli ha così distinto i casi di reliquie nascoste alla vista (come in San Pietro a Roma), memorie seminascoste in una cripta o grotta (come a Gerusalemme e Betlemme), e reliquie visibili (come nel martyrium di San Sergio a Resafa). Facendo presente come, in realtà, l’accessibilità spesso riguardasse solo visitatori di riguardo, lo studioso ha in qualche caso potuto ricostruire anche il percorso dei pellegrini (chiesa dell’Anastasis di Gerusalemme). In questa sede non ci interrogheremo tanto sulle modalità di esposizione delle reliquie quanto sulla tipologia dei percorsi per raggiungerle, o almeno approssimarsi ad esse, nel contesto della chiesa. Nel considerare alcuni esempi significativi tra le molteplici «soluzioni» del pellegrinaggio, distingueremo tre categorie di edifici: quelli a sviluppo longitudinale senza ambulacro, quelli centralizzati, quelli con deambulatorio (abside a doppio gu-

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scio). Da un punto di vista essenzialmente estrinseco o formale, essi corrispondono a tre tipi di percorso: quello longitudinale, quello «circolare» e quello «misto» (chiese a deambulatorio). Il terzo percorso riguarda le navate laterali e l’abside, ma può anche coinvolgere solo il transetto e l’abside (se gli ingressi sono nel transetto). Selezioneremo una serie di casi in cui l’edificio stesso e/o le fonti testuali suggeriscono con qualche verosimiglianza un percorso di visita alle reliquie. Per la struttura a deambulatorio con cappelle radiali Brenk ha indicato come «prototipo» l’Anastasis di Gerusalemme18. Osservando giustamente che in origine i pellegrini dovevano entrare mediante tre porte e uscire per mezzo delle altre tre, tutte allineate e ricavate nella parete orientale verso il triportico, egli, contro la teoria di Corbo (che escludeva l’accesso dei fedeli e lo «riservava» al vescovo)19, postula che i pellegrini potessero percorrere il deambulatorio ad anello attorno alla tomba, senza accedere al nucleo centrale in cui essa è posta (riservato al vescovo e a laici privilegiati)20. Tuttavia, l’Anastasis fu parzialmente demolita e ricostruita nei primi decenni dell’XI secolo e le modalità di pellegrinaggio mutarono. I fedeli ormai potevano entrare nella tomba stessa21; comunque, permase, attorno al nucleo centrale, l’ambulacro circolare, che venne ripreso da molte chiese collegabili al Santo Sepolcro in Occidente22: dunque, è forse il percorso «circolare» a derivare da Gerusalemme

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più che quello ad ambulacro (approssimativamente semicircolare). È vero che le tre cappelle radiali dell’Anastasis possono essere state riprese lì presso nel deambulatorio del nuovo chorus dominorum dei Crociati23, ma che l’ambulacro della rotonda influisse in generale sui deambulatori semicircolari occidentali è da mettere in discussione (come poi vedremo) sulla base della constatazione che la comparsa del deambulatorio in Occidente è persino più precoce della costruzione dell’Anastasis. Che chiese occidentali del Santo Sepolcro potessero essere realmente aperte al pellegrinaggio (come «surrogati» dell’Anastasis) è invece evidenziato da alcune testimonianze, anche se di tempi diversi, relative a Cambrai, Neuvy-Saint-Sépulcre, Huy, Piacenza, Santo Sepolcro a Milano, Santo Sepolcro a Bologna24. Ma di queste non ci occuperemo in questa sede, così come di un tragitto che potrebbe essere definito «in verticale», per intenderci quello dei santuari dedicati all’arcangelo Michele (Monte Sant’Angelo sul Gargano, Sacra di San Michele, Mont-Saint-Michel), nei quali la visita richiede salita e discesa. Passeremo invece in rapido esame altre «variazioni» del tragitto con ambulacro. L’abside a «doppio guscio» (ambulacro): forma «strutturale» o struttura «funzionale»? L’ambulacro o peribolo (senza cappelle) è in se stesso una «forma strutturale», già esistente nel-

2. Planimetria del Santo Sepolcro, Gerusalemme (da Corbo) con l’aggiunta, (secondo l’ipotesi di Brenk) del tragitto del pellegrinaggio nel IV secolo.


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3. Piante schematiche di chiese romane a deambulatorio del IV secolo (da Fiocchi Nicolai). a) basilica in prossimità della via Ardeatina; b) San Sebastiano; c) Santi Pietro e Marcellino; d) basilica nei pressi della via Prenestina; e) Sant’Agnese; f) San Lorenzo.

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l’architettura romana, e implica due absidi concentriche (esterna e interna) costruite a tutta altezza. Va dunque ben distinto dall’«ambulacro di fatto», che in età paleocristiana sembra in molti casi determinato da un banco del clero (in muratura) concentrico all’abside e da essa staccato25. Quest’ultimo configura solo indirettamente un corridoio semicircolare, con possibili più limitate funzioni, ma qui intendiamo occuparci della «versione» strutturale con una doppia domanda: gli ambulacri della prima età cristiana e dell’alto Medioevo costituiscono le premesse di quelli romanici e gotici? In altre parole: la «forma strutturale» è stata concepita fin dalle origini anche come «struttura funzionale», oppure lo è diventata più tardi? L’ambulacro appare in contesto cristiano già a partire dall’età costantiniana, nella nota serie di basiliche cimiteriali nel suburbio di Roma, per le quali è invalsa la definizione di «circiforme» (Anonima della via Ardeatina, San Sebastiano o basilica Apostolorum, Santi Pietro e Marcellino, Anonima della via Prenestina, Sant’Agnese, San Lorenzo). Le sei aule di culto sono lunghe da 65 a 99 metri e furono definite fin dall’origine basilicae. Tomas Lehmann, seguito oggi da altri studiosi, ha fatto notare molto opportunamente che l’analogia con la forma del circo romano è superficiale, dato che si basa sulla sola planimetria, mentre una costruzione è soprattutto elevato26. In realtà, neppure la planimetria è simile, se si eccettua la conclusione a

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semicerchio su un lato corto. Il circo è uno spazio aperto unitario (con tribune simili a teatri e anfiteatri), dotato di una «spina» centrale funzionale alle corse di cavalli e carri; invece le basiliche a deambulatorio sono spazi coperti strutturati in tre navate (divise da pilastri) e conclusi da un peribolo che raccorda le navate laterali. La basilica «circiforme» è dunque l’ennesima «costruzione» della storiografia contemporanea, senza radici nella concezione originaria. In effetti, il fatto che sorgessero in area cimiteriale, presso catacombe e/o grandi mausolei, e ricevessero sepolture, non significa che avessero solo scopo funerario27. Un’iscrizione che esisteva nell’abside di Sant’Agnese ne attribuiva la committenza a Costantina (figlia di Costantino), il cui mausoleo sarebbe infatti collegato alla chiesa, definita templum e non affatto coemeterium. In almeno tre basiliche a deambulatorio, un’area «presbiterale» è chiaramente individuata, mentre in un caso (Sant’Agnese) una sorta di sacello o martyrium absidato era incluso nell’abside28. Resta ancora aperto il problema delle funzioni dell’ambulacro, ma è un dato di fatto che, essendo questo una continuazione/raccordo delle navate laterali, consentiva di ricavare ulteriore spazio per sepolture29. Di recente, Hugo Brandenburg30 ha supposto che potesse «servire anche alle processioni»: la qual cosa implicherebbe la dinamica di uno «scorrimento» liturgico. L’esempio più antico di aula di culto ad ambulacro sembra essere quello dei Santi Pietro e Marcellino sulla Labicana, cui si addossa (davanti all’ingresso) il mausoleo di Elena, madre di Costantino. Secondo Holloway31 la basilica fu concepita come estensione del mausoleo, e poi fu imitata negli esempi successivi, ma la spiegazione appare riduttiva. Convincente invece la conclusione di Brandenburg che sottolinea il carattere «imperiale» del rapporto chiesa-mausoleo, ma anche l’uso liturgico di aule di culto che non potevano essere destinate solo a banchetti funerari, e dovevano prevedere la presenza dell’altare (forse al centro della navata, come a San Sebastiano)32. D’altra parte, Richard Krautheimer, pur incline a intendere queste chiese come coemeteria subteglata, aveva già chiaramente proposto che il relativo deambulatorio potesse servire non soltanto per aumentare lo spazio delle sepolture e favorire il collegamento fra chiesa e mausolei esterni, ma anche per risolvere un problema «di traffico»: i pellegrini, scorrendo processionalmente in esso, avrebbero potuto vedere la mensa martyris nell’abside interna33. Comunque sia, le arcate aperte dell’absi-

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de interna sono un elemento da giustificare in qualche modo. Krautheimer rammentò altri casi di deambulatorio paleocristiano, in primis quello della cattedrale di Siagu, presso Hammamet, in Tunisia (VI secolo), interpretato come un raccordo fra chiesa e battistero assiale verso est. L’ambulacro di Siagu apparentemente non è comunicante con l’abside interna, bensì con le navate laterali e, al lato opposto, con un corridoio ad angoli retti, che immetteva a sua volta nel battistero34. Esso era funzionale soprattutto al raggiungimento del battistero, e dunque era percorso dal clero, ma ciò non esclude un utilizzo anche da parte dei fedeli. La basilica di Aquileia detta del Fondo Tullio alla Beligna è ancora, dai tempi della scoperta (1894), al centro di un acceso dibattito storiografico, sia in rapporto alla cronologia che alla funzione. Si tratta di un’imponente costruzione suburbana (m 65 x 25) a transetto (probabilmente rimodulato in seconda fase, assieme ai sostegni della navata tripartita). Un’abside interna (accertata nel 1978) è circondata da una grande abside esterna, in modo tale da consentire fra di esse un deambulatorio, al quale immettevano dal transetto due portali (di certo, rispettivamente, di entrata e uscita), e che stava a quota -55 cm rispetto ai mosaici della navata. Il mosaico in due tronconi che pavimentava

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l’ambulacro e il fatto che l’abside interna fosse poligonale verso l’ambulacro stesso costituiscono due elementi preziosi per ipotizzare che al centro di questa abside dovesse aprirsi una fenestella per la visione di reliquie poste al suo interno (nel presbiterio, in origine certo recintato). Non solo, infatti, un lato del poligono corrisponde al centro dell’abside, ma anche il centro dell’ambulacro, privo di pavimentazione musiva, attesta che questa era la posizione di stazionamento del fedele per vedere e venerare le reliquie35. Così, la basilica della Beligna diventerebbe un anello fondamentale di configurazione del «deambulatorio di pellegrinaggio», a maggior ragione se la sua identificazione con la basilica Apostolorum, cui si riferisce il vescovo Cromazio d’Aquileia verso il 390 in un sermone (accennando a ritardi di costruzione), fosse dimostrata36 e conducesse dunque a una datazione tra la fine del IV e gli inizi del V secolo37. In effetti, essendo la basilica ubicata nella più importante necropoli aquileiese, sulla via per Grado, ed essendo la planimetria cruciforme collegata alle basiliche Apostolorum (Costantinopoli, Roma/San Pietro, Milano), l’ipotesi resta la più plausibile. Posta la sua ampiezza, essa era stata programmata per un pellegrinaggio importante, e non locale, come sarebbe nel caso del culto di sant’Ermacora38,

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4. Planimetria della basilica di Sant’Agnese, Roma (da La Rocca). 5. Restituzione dell’alzato della basilica di San Sebastiano, Roma (da Lehmann).


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6. Planimetria della basilica della Beligna, Aquileia (da Bertacchi).

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attestato più tardi. Non è da escludere che transetto e deambulatorio denotino un «contatto» rispettivamente con la basilica Apostolorum di Milano (pseudotransetto) e con Roma, dove la basilica Apostolorum (San Sebastiano) era dotata di ambulacro. Ambulacri con accessi simmetrici ai lati dell’abside interna esistono anche in Slovenia (Norico) e in Asia Minore (Cilicia II), fra il V e il VI secolo. La basilica cruciforme di Celje (Celeia nel Norico), forse della prima metà del V secolo, ne è un esempio. Qui l’ambulacro è accessibile anche da ambienti esterni alla chiesa, e Franz Glaser ipotizza che l’abside interna fosse «forata» da finestre o archi39. Le reliquie, tuttavia, sarebbero state collocate sotto una lastra di marmo nell’ambulacro stesso, e non nell’abside interna. Lo studioso è però indotto a questa ipotesi dal confronto con la basilica della Beligna, dove probabilmente le reliquie non stavano nel deambulatorio. L’utilizzo di quello di Celje resta dunque incerto. In Cilicia II, se l’ambulacro della basilica nord di Akören 2 (inizi VI secolo) è un corridoio abbastanza stretto, quello della basilica di Anazarbos (grande edificio di m 56 x 28, anch’esso dedicato agli Apostoli!), di fine V secolo40, è un ampio deambulatorio, accessibile anche direttamente dall’esterno sui due fianchi, e potrebbe suggerire un utiliz-

Fase originaria Sviluppo presunto strutture Seconda fase

zo «di pellegrinaggio» (con le reliquie nell’abside interna). Tuttavia, questa resta un’ipotesi. Ambedue le chiese erano dotate di un pourtour di colonne nell’emiciclo. Assieme alla basilica della Beligna, ad Aquileia va citato il caso della basilica di Monastero: altrettanto enigmatica e databile alla prima metà del V secolo, è dotata di un vano retrostante l’abside che, pur non essendo un ambulacro semicircolare, poteva farne le veci, visto che era accessibile mediante due portali ai lati dell’abside41. Tuttavia, ben difficilmente esso era ad uso dei fedeli. La presenza in esso di sepolture ha fatto supporre di recente l’eventualità della collocazione di «reliquie venerate» all’interno dell’abside42, sulla base del principio della deposizione ad sanctos. Lo stesso dicasi per la chiesa di Sous-le-Scex, presso Sion (Svizzera), alla quale, forse nel VI secolo, viene aggiunto un «doppio guscio» absidale, nel cui ambulacro intermedio (accessibile dall’esterno, con un’entrata e un’uscita) una sepoltura privilegiata centrale e un altare hanno fatto dedurre un luogo di culto autonomo, meta di processioni, ma anche la possibile presenza di reliquie nell’abside interna (martiri Tebei?)43. Anche nei casi valdostani di Santo Stefano di Aosta e Santa Maria di Morgex (VI secolo) si riscontrano una grande abside oltrepassata esterna e un’abside interna, che configurano, più che un deambulatorio, «un’area funeraria monumentalizzata»44. L’ambulacro semicircolare «di pellegrinaggio» si conclama invece nelle forme di un corridoio con la cripta semianulare di San Pietro a Roma, nell’ambito di una riformulazione del presbiterio iniziata da Pelagio II ma realizzata soprattutto da Gregorio Magno (590-604)45. Lo scopo era separare in verticale lo spazio del clero da quello dei pellegrini: l’altare fu sovrapposto alla tomba, come lo spazio del santuario fu sovrapposto a quello del pellegrinaggio. Forse per la prima volta si era formulata una soluzione organica che consentisse l’accesso di pellegrini più numerosi alla «memoria» di Pietro e insieme la «tranquillità» delle celebrazioni nel santuario46. Brenk crede che anteriormente la maggior parte dei fedeli non mettesse neppur piede nel transetto, e che persino la cripta anulare (stretta) non consentisse lo scorrimento di masse, ma solo di privilegiati47. È da San Pietro che derivano molte cripte anulari dell’alto Medioevo, ma l’idea di cripte o di ambulacri finalizzati al pellegrinaggio non fu certo una «esclusiva» romana. San Demetrio a Salonicco sicuramente precede la

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soluzione di San Pietro. In quest’ultimo caso, Brenk48 ha proposto che, percorrendo la navatella nord (con gli ex voto a mosaico), si visitasse il ciborio con l’icona di san Demetrio (collocato nella navata centrale, riservata al clero), le cui «reliquie» stavano invece in un sacello cruciforme inaccessibile nel presbiterio (dove in un mucchio di terra fu trovato un reliquiario in marmo, contenente un flacone di vetro con polvere). Lo studioso osserva inoltre l’uso di colonne policrome come «indicatori» per i pellegrini: otto colonne verdi e quattro pilastri guidano, nella navata centrale, lo sguardo sul ciborio con l’icona del Santo, così come quattro colonne rosse nel transetto (due per ogni braccio) «indicano» le scale di discesa in cripta (parte di terme romane riutilizzate), dove stava un vano in cui Demetrio sarebbe stato imprigionato, ma anche una fonte d’acqua e un ciborio in marmo49. Salonicco anticiperebbe per questo una soluzione di età romanica (variatio dei sostegni in funzione «distintiva» se non «liturgica»). Si potrebbe così riconoscere un precoce esempio di percorso di pellegrinaggio esteso all’intera chiesa: una sorta di «itinerario di visita» potrebbe aver previsto l’ingresso da un portale laterale di facciata (non esisteva infatti il centrale), il percorso in una navatella, l’ingresso dal transetto alla cripta – nella quale un circuito consentiva il passaggio al lato opposto –, l’uscita dalla cripta e dalla chiesa percorrendo l’altra navata laterale. In Italia sono noti almeno due casi sporadici di deambulatorio di VIII secolo, preziosi perché costituiscono gli anelli di trasmissione dell’ambulacro dalla prima età cristiana all’età ottoniana: quelli di San Vincenzo al Volturno e della Santa Maria Annunziata di Prata. Gli scavi britannici del 19801986 nel sito dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno (Molise) hanno rivelato una chiesa «doppia» occidentata (V secolo e fasi successive). La chiesa sud ebbe dapprima un deambulatorio «di fatto» fra l’abside e la roccia retrostante, con una sepoltura privilegiata al centro50. In fase 3b, l’ambulacro fu in parte tradotto in muratura ed ebbe accessi (o ingresso e uscita) a nord e a sud, dall’interno della chiesa e ai lati dell’abside. In fase 3c (VIII secolo), la chiesa ebbe finalmente un deambulatorio interamente costruito, ora accessibile solo dall’esterno (a sud, senza uscita sul lato opposto). Costruita l’abside esterna, nell’abside interna fu innalzato un altare in muratura dipinto. Richard Hodges ipotizza una basilica funeraria, «versione rustica di un martyrium metropolitano»51 e suppone un rapporto

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fra reliquie interne (nell’altare) e ambulacro che le «enfatizzasse», in funzione dell’attrazione di pellegrini52. Manca tuttavia ancora una prova dirimente di una destinazione dell’ambulacro diversa da quella di semplice luogo di sepolture dietro le reliquie (altare), ma è significativo che l’ambulacro costruito dell’VIII secolo derivi da un deambulatorio di fatto tardoromano (V secolo). La basilica della Santa Maria Annunziata a Prata di Principato Ultra (fra Avellino e Benevento), a unica navata, è attribuita presuntivamente all’VIII secolo53, e lo stesso Hodges l’avvicina alla fase 3b di San Vincenzo (aula sud) per i due accessi all’ambulacro simmetrici54. Separa la navata dalla zona presbiteriale un triforio, la cui arcata centrale più ampia costituisce l’arco absidale, mentre le due laterali minori im-

Terme romane riutilizzate come cripta

Mini-cripta

Ciborio

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7. Planimetria della chiesa di San Demetrio, Salonicco (da Brenk).


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8. Chiesa doppia, fase 3c, VIII secolo (da Hodges-Mitchell), San Vincenzo al Volturno.

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mettono nel deambulatorio, sopraelevato e scavato nel tufo. L’ambulacro è in comunicazione visiva con l’abside tramite due serie di archetti su alto stilobate, separati da un nicchione che contiene una cattedra55. Secondo l’ipotesi di Jacobsen, nell’ambito di un’importante ricerca sulla dialettica, nell’alto Medioevo, fra l’uso merovingico della tomba santa post altare e quello romano della tomba sub altare (cripta semianulare di San Pietro), vi furono in Gallia casi in cui fu predisposto un atrium dietro l’abside della chiesa per consentire ai pellegrini di stazionare in ogni momento presso la tomba santa, visibile al centro dell’abside tramite una fenestella (Saint-Martin a Tours, Saint-Julien a Brioude, SaintMaurice d’Agaune)56. Non conosciamo le forme di

Cimitero

Muro 468 Chiesa Sud

Refettorio

Giardino

Ponte della Zingara rno R. Voltu 8

Cripta

tale atrium, ma la sua collocazione sembra corrispondere di fatto a un ambulacro57. Queste soluzioni antecedono la cripta semianulare di San Pietro, che però dal 750 circa inizia ad apparire anche presso i Franchi (San Lucio a Coira, Sankt Emmeram a Regensburg, Saint-Maurice d’Agaune), a volte in sintesi con il «sistema» post altare58, come a Regensburg, dove chi percorreva la cripta vedeva la tomba (nell’abside interna) tramite una fenestella. La cripta semianulare si impone in età carolingia (abbazia di Saint-Denis, cattedrale di Paderborn, abbazie di Farfa e San Vincenzo al Volturno), mentre è diffusa anche la cripta a «corridoi angolari»59. Questa (Saint-Théodule a Sion ca. 800; Steinbach ca. 823-827; San Gallo 830-836; Santa Walburga a Meschede ca. 900) non è funzionalmente diversa da quella semianulare, ed esistono anche soluzioni «miste» (Sankt Liudger a Werden)60. Non si può escludere che, come la cripta semianulare fu per la prima volta «pubblicata» in San Pietro in Vaticano, così quella a corridoi angolari prenda le mosse dalla cripta (anch’essa attribuibile a papa Gregorio Magno: 590-604) di San Paolo fuori le mura, ma per adesso questa non è che una mera illazione61. Nel IX secolo ebbero ambulacri numerose cripte62, come quelle della chiesa abbaziale di Saint-Philibert a Grandlieu, di Corvey e della cattedrale di Halberstadt63. Però, in Sankt Kastor a Koblenz, dedicata nell’836, un ambulacro esterno all’abside (dove il corpo santo stava forse in un santuario elevato), non confondibile con una cripta, permetteva ai pellegrini di vedere la tomba senza disturbare gli uffici64. Un vero «salto di qualità» avvenne con le cripte carolinge complesse, su due livelli corrispondenti (cryptae superiores et inferiores), in primo luogo con quelle di Saint-Germain ad Auxerre, dall’841 all’859, e Saint-Pierre a Flavigny, 860-880 (però in parte ristrutturata nell’XI secolo)65. Il deambulatorio «di pellegrinaggio» rimane collegato alla cripta, ma viene «proiettato» anche al livello superiore, presentandosi dunque in una versione nuova, collegata ai percorsi liturgici del clero. L’ambulacro inferiore circonda un piccolo vano/confessio centrale a quattro colonne (la «radice» della cripta «a sala»), che ad Auxerre è un sacello preesistente, e immette in cappelle e camere funerarie verso l’esterno; l’ambulacro superiore introduce, verso l’interno, nel santuario sopraelevato, e alle cappelle verso l’esterno. Queste strutture articolate del IX secolo aprirono la strada ai deambulatori francesi, ripetuti su due piani, della prima età romanica, con

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la differenza che le cripte vennero ormai in gran nell’abside interna, come in alcuni esempi paleoparte interrate. cristiani che abbiamo esaminato, rispetto ai quali è forse da postulare una continuità. La chiesa di SanIl tragitto con deambulatorio in età ottoniana to Stefano a Verona fu ricavata in una basilica cie gli ambulacri «doppi» miteriale paleocristiana (V secolo) tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo (manca un appiglio cronoloLa Germania ottoniana, che è la patria d’origine gico sicuro). Il restauro ottoniano, restituito dal della cripta «a sala» (in genere Ziborienkrypta a Verzone69, comportò la ripartizione in tre navate quattro colonne), frequentò di rado l’ambulacro, del corpo longitudinale, la conservazione del trancome nelle cripte di San Wiperto a Quedlinburg e setto e l’inclusione nell’antica abside di un ambuSan Michele a Hildesheim66. In quest’ultima, la lacro semianulare a due piani. Il pur bravissimo cripta è eccezionalmente inserita all’ingresso della Verzone riteneva che luogo di conservazione delle chiesa – che è collocato al centro dell’abside occi- reliquie fosse il deambulatorio inferiore (come già dentale –, sotto il santuario principale. Dall’ester- il de Dartein), entro cinque nicchie verso l’interno, no ci si introduceva in un ambulacro che circonda e ancor oggi questa è una soluzione qua e là sostela struttura «a sala» di tre navatelle, dove trovava- nuta. I fedeli si sarebbero affacciati a quattro (visino posto l’altare della Vergine, la sepoltura del ve- bili) o cinque fenestellae (corrispondenti alle nicscovo fondatore Bernward e una «raccolta» di 66 chie), stando nell’abside interna, dietro l’altare, e reliquie67. I laici che accedevano al tempio probabilmente scorrevano nell’ambulacro attorno alla «sala» (senza potervi accedere) e, dirigendosi indifferentemente verso destra o sinistra, confluiva10 no in chiesa, all’esterno del coro recintato. San Michele era una chiesa monastica, ma anche un tempio santo, dedicato all’Arcangelo. Di ambito ottoniano devono essere considerati anche i casi italici di Santo Stefano a Verona e della cattedrale di Ivrea68. L’interesse di questi due esempi viene tuttavia dal fatto che, pur mantenendo la formula carolingia del doppio ambulacro (su due piani), lo adottano come unico elemento costitutivo della cripta, che così non è dotata di un vano/confessio né di una «sala» verso l’interno dell’ambulacro (come accade a Hildesheim e negli esempi francesi). Come funzionava dunque questo «sistema» di visita alle reliquie? Esse erano poste

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9. Restituzione della zona orientale della chiesa di Perpetuus, ca. 470 (da Jacobsen), Saint-Martin, Tours. 10. Restituzione dell’assetto presbiteriale di Gregorio Magno (590-604) (da Taylor), San Pietro in Vaticano, Roma. A) fase costantiniana; B) fase gregoriana, al livello alto; C) fase gregoriana: pianta della cripta. 11. Sezione longitudinale del presbiterio e della cripta di Gregorio Magno (590-604) (da de Blaauw), San Pietro in Vaticano, Roma. 1) altare; 2) tomba/memoria; 3) cattedra; 4) altare del braccio longitudinale della cripta.


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12. Ambulacro superiore della cattedrale di Ivrea. 13. Ambulacro a due navate della cripta della cattedrale di Ivrea. 14. Restituzione assonometrica della cripta inferiore e superiore della chiesa di Saint-Germain, Auxerre, fase 4, 840-859, (da Sapin). 15. Planimetria della cripta della chiesa di Saint-Germain, Auxerre, fase 4, 840-859 (da Sapin).

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solo raramente avrebbero avuto accesso all’ambulacro inferiore (ma normalmente a quello superiore per calare oggetti «a contatto» attraverso umbilici)70. Questa soluzione non è in realtà plausibile. Era certamente il piano inferiore dell’ambulacro (quasi alla stessa quota di navate e transetto), e non l’abside interna, ad essere percorso dai pellegrini che, attraverso le fenestellae (di cm 50 x 40, e poste a m 1,50 dal suolo) vedevano le reliquie, poste nell’abside interna stessa ed evidentemente recintate da cancelli, per poi uscire sul lato opposto dell’ambulacro. È improbabile infatti che essi avessero accesso alla zona absidale, e altro indizio è costituito dal fatto che non è il deambulatorio inferiore ad essere dipinto, ma l’abside interna, sulla cui superficie è raffigurata una finta cortina appesa, uno di quei tessuti orientali (con rotae di leoni e aquile) spesso utilizzati in Occidente proprio per gli zoccoli absidali71, ma anche per avvolgere corpi santi o defunti di alto rango. Un’iscrizione lapidea sul secondo pilastro di destra della chiesa elenca le reliquie in essa contenute (oltre a quella del protomartire Stefano, quelle di vescovi veronesi, del legno della Croce, dei capelli di Maria, di quaranta martiri «e di altri innumerevoli Santi»). L’ambulacro superiore, con una diversa struttura di volte e con tre nicchie verso l’esterno, si affaccia all’abside interna con cinque arcate di altezza crescente ver-

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so il centro. Verzone riteneva che l’alta arcata centrale dovesse conferire dignità alla cattedra vescovile lapidea, che in passato era ubicata nella nicchia centrale (oggi risulta senza motivo trasferita al centro dell’abside)72. Le due nicchie laterali avrebbero invece contenuto altari. Un punto essenziale è quale fosse l’originario accesso al deambulatorio alto, e se questo fosse veramente un ambulacro o avesse diversa funzione. Lo stesso Verzone riteneva che non potessero esistere rampe di scale nel transetto (come non esistevano a Ivrea): «È probabile che le scale antichissime fossero situate ai due lati dell’ambulacro rivolte verso il centro dell’abside: nel muro in curva si osservano infatti tracce di due rampe, demolite il secolo scorso»73. Ma anche questa soluzione (l’attuale, in conflitto con le pitture murali) non sembra possibile. Era forse prevista solo una rampa lignea mobile oppure vi era un portale ricavato attraverso l’abside esterna (come a Ivrea)? Un portale murato, verso nord, si legge ancora, ed è anche visibile nella planimetria di Paolo Verzone. Ammettendo che la cattedra sia stata originariamente nell’ambulacro alto, questo poteva funzionare come una sorta di coro dei pochi canonici (come si può sospettare anche a Ivrea), per officiare sulle reliquie dei santi, eventualmente a fianco del vescovo nelle più significative occasioni liturgiche74. Questa resta natural-

16. Ambulacro superiore e abside, Santo Stefano, Verona. 17. Navata centrale verso l’abside, Santo Stefano, Verona.


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18. Sezione longitudinale della chiesa di Santo Stefano (da Verzone), Verona. Il deambulatorio inferiore è alla stessa quota della navata, essendo la cripta una aggiunta romanica. 19. Planimetria del livello inferiore della chiesa di Santo Stefano (da Verzone) con ipotesi di recinzione dell’incrocio e di tragitto del pellegrinaggio, Verona. R) reliquie. 20. Planimetria del livello superiore (da Verzone). Verso nord è indicato un portale con scala di accesso al deambulatorio, Santo Stefano,Verona.

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mente per ora una (probabile) ipotesi di lavoro. Una situazione analoga a Verona è ravvisabile nella cattedrale di Ivrea. Il vescovo Warmondo (969/9851002/1006), come di recente ha accertato Luisella Pejrani Baricco75, addossò alla vecchia facciata paleocristiana una contro-abside «martiriale» (ante 1005/1006), contenente le reliquie di Santi martiri (Besso, Savino, Tegolo e Dalmazzo), entro un sarcofago romano di reimpiego76. L’abside, occidentata, e di recente restaurata, contiene un doppio deambulatorio sovrapposto, racchiuso fra due torri (chevet armonique). La Pejrani Baricco ha verificato che in origine non esisteva alcun vano davanti all’ambulacro (anche nel santuario stefaniano di Verona la cripta venne aggiunta in età romanica). In un tempo successivo, all’ambulacro inferiore venne addossata una prima cripta «a sala», e dall’ambulacro superiore cinque fori a livello del suolo consentivano di vedere il sarcofago delle reliquie (ma in realtà di «comunicare» con esse da parte dei canonici). La chiesa era probabilmente ancora bicefala e, solo nella terza fase, con l’allungamento della cripta verso est, si può credere che ormai vi fosse un unico polo liturgico occidentale, come ancora oggi. Il deambulatorio inferiore, accessibile dalle navate laterali e con pavimento a quota più bassa di quello dell’abside interna, consentiva ai pellegrini che lo percorrevano di vedere il contenitore delle reliquie (certo recintato nell’abside interna), attraverso una sequenza di archi. Il muro pieno con fenestellae a Verona era invece giustificato dal fatto che l’ambulacro era a quota di poco più alta dell’abside interna. Per quanto riguarda l’ambulacro superiore di Ivrea, anch’esso prospettava in origine con una sequenza di arcate (o aperture architravate) verso l’abside interna. Le

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colonne che le supportavano si vedono oggi immerse nei tamponamenti murari. Il deambulatorio alto è largo circa m 3,50 e, come il corrispondente veronese, è di funzione enigmatica. Anche in questo caso si può sospettare un collegamento diretto con l’esterno (come ha giustamente fatto la Pejrani), dove il piano di calpestio è più alto: esiste ancora un ampio portale di età moderna, forse corrispondente ad uno preesistente più stretto. Il che non significa necessariamente postulare una destinazione ai pellegrini anche dell’ambulacro superiore. Il fatto che dietro l’abside ovest siano ancora riconoscibili le tracce del chiostro canonicale, può indurre ad affacciare l’ipotesi, già formulata per Verona, di una destinazione al clero: un contro-coro alto occidentale, dal quale si poteva officiare al cospetto delle reliquie dei santi. A Verona e Ivrea, verso il Mille, avremmo così una «conseguenza» ulteriore dell’assetto gregoriano (590-604) di San Pietro in Vaticano: la sovrapposizione del banco presbiteriale dell’alto clero a una cripta a corridoio, per separare in altezza funzioni del clero e necessità della visita alle reliquie. Il «sistema» era tuttavia semplificato al massimo, essendo stati eliminati sia il corridoio assiale della cripta sia la sopraelevazione del santuario, e dunque la sovrapposizione altare-tomba (in favore di una presumibile «dissociazione orizzontale», di tradizione nordica). Ambedue i poli cultuali a doppio ambulacro di Verona e Ivrea erano occidentati, come l’antica San Pietro, ma anche in linea con i contro-cori «martiriali» di età ottoniana. Ambulacri semplici e «doppi» nella Francia dell’XI secolo 10 m

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21. Planimetria della chiesa e della cripta di Saint-Philibert, Tournus (da Vergnolle). 21

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Più articolati di questi esempi (oltretutto privi di cappelle radiali) sono di certo i deambulatori sovrapposti della Francia protoromanica, collegati alla cripta (livello inferiore) e al santuario (livello superiore): così è ancora nell’abbazia di Tournus, ma doveva essere anche in altri casi, per quanto non più esattamente documentabili77. Nei «percorsi» verso queste cripte ovviamente non è coinvolta la navata centrale ma le laterali, come era già accaduto nella chiesa abbaziale di San Gallo (830836), e prima ancora nel San Demetrio di Salonicco (VI secolo). L’ambulacro inferiore, attraverso i suoi prolungamenti, consente l’ingresso in cripta da un lato e l’uscita al lato opposto. Tournus costituisce un raro caso in cui sussistono ambedue gli ambulacri.


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Luogo di ricovero fin dal IX secolo delle reliquie di saint Philibert, in «fuga» dalle incursioni normanne, la chiesa borgognona, danneggiata da un incendio (1007/1008), fu ricostruita dall’abate Bernier (1008-1028), il quale poté far consacrare la cripta e il santuario nel 101978. L’abate Ardain (1028-1056) riprese il cantiere dalla galilea a due

22. Confessio a tre navate della cripta della chiesa di Saint-Philibert, Tournus. 23. Planimetria della cripta della cattedrale di Clermont-Ferrand (da Chevalier).

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piani, a sua volta anteriore alle navate (seconda metà dell’XI, ma forse di un unico maestro)79. È significativo che l’accesso centrale fra il piano terra della galilea, cioè il vestibolo, e la chiesa fosse in origine chiuso da una porta (certo ad uso delle processioni monastiche verso il coro), mentre gli accessi laterali (corrispondenti alle navate laterali) erano forse diversi dagli attuali80: erano questi probabilmente ad essere imboccati dai pellegrini in marcia verso la cripta. Nel transetto, a nord, oggi esiste una sola scala di discesa alla cripta, ma in origine esisteva certo anche quella sul lato opposto, secondo lo schema discesa/risalita o entrata/uscita. L’ambulacro della cripta circonda una «sala» di tre navate con colonne e volte a crociera, lunga più di 11 m, dunque ormai una cripta ad oratorio. Una serie di cappelle quadrangolari si affacciano all’ambulacro, ad ambedue i piani, con comunicazioni strette. Christian Sapin81 ammette che si dovette procedere a costruire la cripta e il soprastante chevet per rispondere a uno sviluppo crescente del pellegrinaggio, ma il problema è cosa si visitasse e come lo si visitasse. Certamente il «fuoco» principale doveva essere il corpo di saint Philibert, al quale nel 1562 (verbali di un processo) era dedi-

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cata la cappella assiale dell’ambulacro superiore, fra san Benedetto e san Pietro82. Non sappiamo tuttavia a quando risalisse questa situazione e, in linea di massima, non può essere escluso che in origine il «corpo» del santo fosse conservato nella cripta. Alla confessio si accede dall’ambulacro inferiore attraverso cinque strette aperture: due a nord, due a sud e una (assiale) a est. Ai lati di quest’ultima, due fenestellae consentono di guardare entro due nicchie interne. Un pozzo (restaurato) è ubicato nella campata ovest della stessa confessio. In Saint-Germain ad Auxerre (841-859), cui Tournus evidentemente si collega (pur nelle differenze dei rapporti di quote pavimentali), la confessio è una camera-reliquiario di accesso ridotto, probabilmente precluso ai pellegrini, che dovevano tutt’al più scorrere attorno mediante l’ambulacro83. A Tournus, invece, la comunicazione fra le due zone è garantita dalle cinque aperture. Dobbiamo allora immaginare che i visitatori avessero accesso alla confessio? Non necessariamente, o almeno non sempre. Gli stessi dubbi permangono per l’ambulacro superiore: era anch’esso percorso dai pellegrini o era ad esclusivo uso del clero? Certo, il mur-bahut su cui poggiano le colonne dell’abside interna ostacola il passaggio ma non la visione verso l’abside interna stessa, e resta in piedi anche l’ipotesi che saint Philibert stesse nella cappella assiale84. Nel primo caso l’abbazia di Tournus avrebbe puntato alla «esposizione» di una pluralità di reliquie e memorie (come era in effetti frequente, e come avveniva ancora a Canterbury molto tempo dopo), nel secondo si sarebbe riproposta la sovrapposizione/separazione delle funzioni in altezza (pellegrinaggio-liturgia dei monaci). Probabilmente dobbiamo pensare alla questione in termini più complessi: una cosa poteva non escludere l’altra, nel contesto del «tempo liturgico» e di rituali a noi sconosciuti. Per molto tempo si è creduto che alla base delle cripte protoromaniche francesi a due livelli ci fosse la cripta della cattedrale alverniate di Clermont, che il vescovo Étienne II consacrò il 2 giugno 946, anche perché il biografo di Roberto il Pio, Helgaud de Fleury, scrive che il caput (chevet) della chiesa di Saint-Aignan a Orléans (consacrata nel 1029) era stato costruito in similitudinem di quello della cattedrale dei Santi Maria, Vitale e Agricola a Clermont. Lo scavo della cripta di Clermont (a partire dal 1855) e il confronto con quella superstite di Saint-Aignan sembravano confermare l’ipotesi, ma il confronto era impossibile, visto che conosciamo solo le cripte, e non tutto il caput delle due

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chiese. In effetti, la rilettura archeologica della cripta di Clermont ha condotto di recente Pascale Chevalier non solo a ritardare la cronologia della struttura agli inizi del Mille85, ma anche a postulare una datazione romanica (fine XI-inizi XII) per il soprastante chevet a deambulatorio a cappelle radiali, che provocò rimaneggiamenti alla cripta. Questa è costituita da una «sala» centrale a tre navate (terminante a est con tre piccole «absidi», la centrale con altare) e da uno stretto ambulacro che la circonda, sul quale si aprivano in origine quattro «cappelle» quadrangolari. Essendo seminterrato, l’ambulacro, voltato a botti anulari e trasversali, possiede prese di luce. Due soli passaggi, verso ovest, lo collegano alla confessio (che è inglobata in una muratura massiccia), mentre due scale

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24. Planimetria della cripta di Saint-Aignan, Orléans (da Rousseau).


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25. Planimetria della cripta della cattedrale di Chartres (da Vergnolle).

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simmetriche lo collegavano al livello della cattedrale superiore. È probabile che la cripta fosse destinata in primo luogo alle reliquie dei santi martiri bolognesi Vitale e Agricola, cui era già dedicata l’ecclesia del 450 e dei quali ci si procurarono reliquie ancora nel 768, conservate poi in tre capsae86. Ma resta il problema dell’uso delle quattro cappelle voltate: la Chevalier è giunta all’importante constatazione che in origine esse erano aperte con ingressi arcuati, e solo in una fase successiva (XII secolo?) ebbero l’aggiunta di arcosolii funerari, altari e armadi liturgici. Da vani di funzione incerta poterono così trasformarsi in oratori sepolcrali dei vescovi di Clermont87. È difficile pensare che la cripta fosse stata pensata per un largo afflusso di pellegrini, vista la strettezza dell’ambulacro e degli

accessi, ma i dati a nostra disposizione sono ancora pochi. Se qui entrava solo il clero, o dei «visitatori» privilegiati, non così si può dire della cripta di Saint-Aignan a Orléans. Aignan, vescovo d’Orléans, morì nel 453. In suo onore esisteva già una basilica nel VI secolo. Della chiesa di Roberto il Pio, consacrata il 14 giugno 1029, non sussiste che la cripta. Scavi degli anni 1953-1956 hanno rivelato anche tracce del transetto (m 44 x 14, con due bracci absidati) della chiesa superiore, che fu rasa al suolo due volte (1358 e 1428). Helgaud de Fleury dà anche le dimensioni della chiesa scomparsa, lunga circa 80 m, larga 22 e alta 19, e dotata di 19 altari88. Dei corridoi scendevano dalle navate laterali della chiesa verso la cripta, provvista di un deambulatorio con cinque cappelle radiali semicircolari (la cui regolarità anticipa gli ambulacri romanici), aperte a tutta altezza verso l’ambulacro stesso. Quest’ultimo è a sua volta largamente «aperto» verso una «sala» centrale89, a differenza del caso di Clermont. La significativa ampiezza degli spazi e dei collegamenti fa ritenere che la struttura prevedesse un pellegrinaggio numeroso. D’altra parte, si può facilmente comprendere perché la «sala» sia tanto aperta verso l’ambulacro: essa non coincideva affatto con la confessio, che si identifica invece con una camera rettangolare (m 8 x 2) verso occidente, posta sotto il transetto. La formula di Orléans è dunque del tutto nuova rispetto ai casi prima descritti, e per la prima volta siamo forse in grado di comprendere anche il suo «funzionamento». La camera delle reliquie, voltata a botte trasversale e dotata di due nicchie verso ovest, prospetta verso la «sala» centrale con una «facciata» di tre campate90, costruita con bella muratura di blocchi ricavati da sarcofagi. Solo un portale visibile, verso nord, certo riservato al clero91, permette l’accesso alla camera. Tuttavia, quattro fenestellae al centro della parete consentivano ai «visitatori» – salendo su uno zoccolo murario – di intravedere i corpi santi entro la camera. Sopra le fenestellae, altre tre monofore permettevano di vedere l’interno della cripta dalla chiesa superiore, oppure di «mettere in comunicazione» le due zone92. Roberto il Pio si era personalmente interessato ai corpi santi: quelli di Aignan e di altri sei santi, di cui Helgaud riferisce i nomi (Euspice, Monitor, Flosculus, Baudelius, Scubilius, Agia) e la relativa translatio in occasione della consacrazione del 102993. Erano certo questi ad essere contenuti nella confessio. Esisteva anche una capsa rivestita d’oro che il re fece ornare di pietre preziose

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(forse processionale). Quale era allora, nel caso di Saint-Aignan, la funzione della «sala» aperta centrale? Verso est, il «baldacchino» di quattro colonne (che subito si dovettero includere in pilastri per ragioni statiche) era forse una sorta di «ciborio» d’altare. L’ipotesi di Pierre Martin che contenesse un altare – sulla base di un rialzo della zona absidale interna – è senz’altro esatta94. Si può forse ipotizzare un altare per le messe dei pellegrini, che al contempo consentisse la celebrazione in «direzione» delle reliquie nella confessio. Non è da escludere che potesse trattarsi di uno dei due altari di saint Aignan che Helgaud de Fleury registra nella chiesa95. Martin ritiene che la zona dell’altare stesso fosse recintata da cancelli, in modo tale da determinare una «doppia circolazione» di pellegrinaggio: quella «trasversale» davanti al vano della confessio e quella «semicircolare» dell’ambulacro. Quest’ultimo tragitto avrebbe permesso di vedere l’altare da dietro, ma anche il «contenuto» eventuale delle cappelle radiali. La cattedrale di Chartres, ricostruita a partire dal 1020, dopo un incendio, fu opera del vescovo Fulberto (1006-1028). Era quasi finita nell’autunno 1025 e fu dedicata nel 1037. Si trattava di un edificio lungo 105 m, probabilmente dotato di un ambulacro sia al livello superiore (demolito per il rifacimento gotico) sia al livello basso, ancora esistente. Quest’ultimo non costituisce una vera e propria «chiesa inferiore», pur avendo accessi indipendenti (entrata-uscita) dalla facciata ovest della cattedrale. Si configura infatti come un ampio corridoio lungo quasi 200 m, dalle pareti inarticolate, posto sotto le navate laterali e l’ambulacro della chiesa soprastante. Verso l’ambulacro inferiore, voltato alternatamente con volte a crociera e con botti a penetrazione96, si aprono a oriente tre profonde cappelle di oltre 12 m, che nel XIII secolo (Ordinario liturgico) erano dedicate a san Dionigi (la centrale), san Cristoforo (la nord), san Pietro (la sud)97: con riferimento ai due maggiori santuari di Francia e Italia e al santo dei pellegrini (Cristoforo). Ignoriamo la funzione delle cappelle, ma è certo che l’ampio e lunghissimo percorso sotterraneo consentiva di mantenere un terrapieno sotto la navata centrale98 e, al contempo, un agevole scorrimento dei pellegrini99; ma quali erano i «fuochi» della venerazione o del culto? Stegeman ritiene che Fulbert avesse concepito un percorso di visita, ma anche «processionale», che iniziando dalla galleria nord (pozzo dei martiri:

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Saint-Lieu-Fort), proseguiva alle tre cappelle orientali, fino al battistero (cripta San Giovanni Battista) della galleria sud100. Erlande-Brandenburg101 crede invece che Fulbert, che attribuì alla festa della Natività della Vergine (8 settembre) la stessa importanza dell’Assunzione (15 agosto), puntasse soprattutto sul culto mariano, essendo documentate una statua della Vergine e la Tunica dell’Annunciazione (nel 1712 fu però trovato un velo), ma anche sul pozzo dei «Saints-Forts» (ancora visibile, che guariva dal fuoco sacro). Il Bugslag ha condotto di recente (2005) un più puntuale riesame delle fonti storiche, mirato a ricostruire l’evolversi del pellegrinaggio chartriano, e ha messo in dubbio che il culto della Vergine fosse collegato alla «chiesa inferiore» fin dall’origine (la statua probabilmente non fu venerata come miracolosa prima del XII secolo). D’altra parte, nello stesso XII secolo la reliquia della Tunica sembra fosse dietro l’altar maggiore della chiesa superiore (più tardi si parlerà di scrigno sopra l’altar maggiore)102. La Sainte-Châsse è menzionata già verso il 1000, nel necrologio della cattedrale103. Se immaginiamo che si trovasse dietro l’altare fin dall’origine, l’ambulacro superiore di Fulbert sarebbe stato anch’esso destinato al pellegrinaggio, che come in altri casi sarebbe stato previsto ad ambedue i livelli. In effetti, Bugslag ritiene che Fulbert concepisse la «chiesa bassa» soprattutto per il pozzo dei «Saints-Forts», dove si credevano gettati i martiri, e al quale si attribuivano miracolosi poteri curativi. I pellegrini avrebbero avuto ampio spazio presso un taumaturgico luogo di martirio, e alla «grotta» di valore ctonio della chiesa bassa sarebbe stata «contrapposta» la celeste purezza di Maria nella chiesa alta104. Deambulatori romanici e gotici La diffusione del deambulatorio, soprattutto in Francia, nell’età romanica è straordinariamente ampia (nella prima fase anche alla quota della cripta). È quasi inutile dunque specificare che non prenderemo in esame altro che una selezione minima di esempi particolarmente significativi. La chiesa monastica di Saint-Savin-sur-Gartempe (Poitou), famosa per i suoi cicli di pitture murali, è meno considerata come possibile luogo di pellegrinaggio105. La cripta, anch’essa dipinta, e il deambulatorio possono invece offrire spunti in proposito. La prima è costituita da un vano unico voltato a botte, dotato a est di un piccola cappella


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26. Interno della cripta di Saint-Savin, Saint-Savin-sur-Gartempe. 27. Planimetria, con ubicazione degli altari della chiesa di Saint-Savin, Saint-Savin-sur-Gartempe (da Heitz). 1) altare maggiore, scomparso; 2) altare del mattino, scomparso; 3) altare degli angeli; 4) altare delle vergini; 5) altare dei martiri; 6) altare di Saint-Martin; 7) altare dei confessori; 8) altare di Saint-Romard; 9) altare degli apostoli.

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«absidale», anch’essa voltata a botte e provvista d’altare, sopra il quale è dipinta la Maiestas Domini. Le pareti sono dipinte con le storie dei martiri Savino e Cipriano. Il profondo santuario è rialzato sulla cripta e circondato da una «corona» di dieci colonne (abside interna), che fanno da filtro rispetto all’ambulacro a cappelle radiali. Da quest’ultimo è possibile accedere alla «cripta SaintMarin» (posta sotto la cappella assiale) ma anche vedere l’interno della «cripta Saint-Savin» affrescata, senza potervi discendere. Ciò accade attraverso un’apertura/fenestella, che proietta nella cappella «absidale», al di sopra dell’altare. Tale apertura orientale ha ospitato la scala d’accesso a partire da una data ignota e fino al 1866, quando l’abate Lebrun scoprì e aprì le due scale occidentali, con le quali si scendeva originariamente in cripta. Altre fenestellae sono aperte nella stessa parete occidentale. Dunque, solo dall’incrocio del

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transetto (fra il coro monastico e il santuario) si entrava nella confessio, mentre in essa si poteva guardare attraverso aperture sia dall’incrocio stesso, sia dall’ambulacro. È tuttavia probabile che le fenestellae ovest fossero soltanto di «comunicazione spirituale» fra coro e reliquie, vista anche la collocazione bassa. Nella più recente monografia sulla chiesa (1999) vengono espresse due idee divergenti riguardo alla funzione dello stretto deambulatorio: Marie-Thérèse Camus sostiene che esso dovesse essere destinato ai monaci e a coloro che erano ammessi nel coro (ma il peribolo non era parte del coro), in occasione di processioni o per ragioni di devozione personale verso le reliquie contenute nelle cripte e nelle capsae sugli altari delle cappelle radiali; Isabelle Dangas scrive invece che i pellegrini potevano venerare le reliquie sia attraverso le fenestellae ovest che l’apertura a est106. È possibile che una soluzione intermedia sia la più plausibile: solo i monaci (e pochi «privilegiati»?) avranno potuto accedere al fronte della cripta di Saint-Savin (le scale prospettano infatti verso il coro, che si trovava nelle campate orientali della navata maggiore), mentre in determinate occasioni poteva essere prevista la presenza di pellegrini che, scorrendo all’esterno del coro e del santuario e imboccando l’ambulacro, avrebbero potuto venerare i martiri attraverso un’unica fenestella. La questione è resa più complessa dalla documentazione che Yvonne Labande-Mailfert ha reso nota fin dal 1974. Nella cripta di Saint-Savin era associata all’altare la sepoltura della martire Savina, mentre non esistono notizie di quelle dei martiri Savino e Cipriano, le cui vicende sono dipinte nella cripta stessa. Tuttavia, esattamente al di sopra dell’altare di Savina, nel santuario superiore, è descritto nel 1641 un altro altare (dietro l’altar maggiore) associato a una tomba. Si trattava di un piccolo sarcofago di pietra posto sopra una «piattaforma» in cui erano ricavati dei fori. Nella cavità della «piattaforma» furono trovate le ossa di un fanciullo e, al di sopra, anche il coperchio di un doppio sarcofago. Labande-Mailfert ritiene dunque che questa fosse l’ubicazione delle spoglie dei martiri Savino e Cipriano107 (in rapporto all’altare mattutinale), mentre la cripta sottostante sarebbe preesistente e sarebbe stata dipinta con le storie dei martiri come memoria del luogo della loro primitiva collocazione108. Tale preesistenza non sembra tuttavia «necessaria» e non può essere neppure certa la sistemazione dei martiri nel santuario superiore. È vero comunque che nella cripta sem-

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brano essere stati dipinti i santi le cui reliquie erano conservate negli altri altari della chiesa109. Comunque sia, i pellegrini avrebbero forse potuto vedere, dalla quota dell’ambulacro, anche le eventuali tombe dei martiri nell’abside del santuario superiore. E poiché agli altari della chiesa erano associate altre sepolture (sopravvive quella presso l’altare dei Santi Pietro e Paolo nel braccio sud del transetto), si può pensare che fosse previsto un più complesso «itinerario di pellegrinaggio» riguardante navate laterali, transetto, e ambulacro con relative cappelle.

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28. Planimetria e sezione longitudinale del santuario della chiesa di Saint-Benoît, Saint-Benoît-sur-Loire (da Vergnolle). 29. Santuario della chiesa di Saint-Benoît, Saint-Benoît-sur-Loire.


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Un caso molto interessante di «ritorno» al doppio ambulacro sovrapposto è quello di Saint-Benoîtsur-Loire110. L’abate Guillaume (1067-1080) iniziò a ricostruire la chiesa carolingia da est, ma solo il 21 marzo 1107 le reliquie di Benedetto (traslate a Fleury nel IX secolo) furono trasferite nel nuovo santuario e i relativi altari consacrati (altar maggiore di Santa Maria e altare mattutinale di San Benedetto). Ospita l’altare della Vergine un lungo santuario, cui segue il secondo santuario di Benedetto, sopraelevato sulla cripta seminterrata che conteneva le reliquie. Un ambulacro a cappelle radiali circonda il secondo e si sovrappone all’ambulacro della cripta (questo suddiviso da otto «simbolici» pilastri cilindrici in due «navate», per ragioni statiche). Qui avviene una singolare integrazione di architettura e funzione: la vera e propria confessio è un piccolo spazio voltato a botte, ricavato in un emiciclo formato da un pilastro «svuotato»111, che è un alloggiamento per la capsa delle reliquie, in qualche modo è la proiezione della capsa stessa. Il pilastro ha tre fenestellae che permettono di vedere la capsa dal deambulatorio, e ‘sorregge’ l’altare al piano superiore. È stato richiamato il concetto delle cryptae carolinge superiores et inferiores112, ma non si può evitare di riconoscere soprattutto un thronus d’altare e ancor più la sovrapposizione altare/tomba che Gregorio Magno introdusse nell’antica San Pietro a Roma113. Nella testata della cripta sono ricavate numerose fenestellae, non certo utilizzate dai pellegrini, come alcuni hanno scritto, ma dai monaci (Vergnolle), che dal santuario potevano vedere il contenitore delle reliquie (se non anche controllare il pellegrinaggio), ma soprattutto realizzare un «contatto» spirituale fra reliquie e altari114. Eliane Vergnolle definisce nel suo insieme «campata-reliquiario» quella delle reliquie di Benedetto, del suo altare soprastante e delle scene della sua vita scolpite sui capitelli alti dei relativi pilastri115. L’ambulacro superiore, certo ad uso dei monaci (per messe private agli altari?) è raggiungibile mediante due scalette simmetriche dal santuario. Poiché le scale per la cripta sono invece poste nei collaterali del santuario, esse erano utilizzate per lo scorrimento dei pellegrini, che poi dovevano circolare nell’ambulacro esterno o interno della cripta (viste le tre fenestellae) e non nella sua zona occidentale (forse recintata), dove sarebbero stati a contatto troppo diretto con la capsa. Più difficile è comprendere l’inizio e la fine dell’itinerario di pellegrinaggio. Probabilmente i pellegrini entra-

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30. Traslazione delle reliquie di san Benedetto, particolare della lunetta del portale nord della chiesa di Saint-Benoît, Saint-Benoît-sur-Loire. 31. Interno della cripta della chiesa di Saint-Benoît, Saint-Benoît-sur-Loire. 32. Planimetria della cripta della chiesa di Saint-Benoît, Saint-Benoît-sur-Loire (da Vergnolle). 33. Pilastro centrale con finestrelle della cripta della chiesa di Saint-Benoît, Saint-Benoît-sur-Loire.

vano dal fianco nord della chiesa, visto che a sud era posto il chiostro monastico116 e a ovest il famoso portico scolpito, che viene inteso come parte della clausura monastica117 (ma mi pare manchino argomenti solidi per l’XI-XII secolo). Quanto all’uscita, esisteva una doppia possibilità: utilizzo del portale sud della cripta e deflusso nella navata sud, verso il portico occidentale, oppure verso il fianco nord (attraversando la navata centrale, all’esterno del coro). L’abate Macario nel 1157 ottenne privilegi dal re per continuare la ricostruzione della chiesa carolingia (ma la dedicazione avvenne nel 1218). Le nuove navate sono ormai gotiche. L’11 luglio 1207 le reliquie di san Benedetto furono trasferite in una nuova capsa preziosa, collocata nel santuario, fra gli altari di Maria e Benedetto. La nuova teca in oro, gemme e argento è probabilmente quella raf-

figurata sul portale scolpito del fianco nord, il cui architrave contiene la scena della translatio delle reliquie a Fleury. Sauerländer connette giustamente i tempi del portale e della capsa: «Die Bilder am Portal sind Wegweiser zur theca in Chor»118. Il portale era certo un ‘indicatore’ per la visita alle reliquie, ed insieme il tramite per iniziare il percorso di visita. Trasferite le reliquie nel santuario, i pellegrini le avrebbero viste dai collaterali, e la cripta non avrebbe più avuto alcuna funzione. Ma la Vergnolle ha fatto osservare giustamente che la presenza di una finestra gotica nella cappella d’asse della cripta119 dimostra che la cripta non andò fuori uso. Si può forse immaginare che le reliquie venissero suddivise in due teche (come a volte accadeva), o comunque che la vecchia capsa vuota restasse oggetto di culto nella cripta? Nel santuario di Sainte-Foy a Conques (iniziata

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dall’abate Odolric: 1030-1065, ma col chevet databile a fine XI-inizi XII secolo) era oggetto di culto la statua di santa Fede, santa che il timpano scolpito occidentale ‘propaganda’ come liberatrice dei prigionieri e intercedente nel giorno del Giudizio120. La «statua» in trono è un oggetto «stratificato». Secondo le ultime indagini121, la testa aurea è anteriore al IX secolo, forse addirittura tardoantica, mentre le lamine auree che compongono la veste, montate su anima lignea e tempestate di pietre preziose, filigrane, smalti, cristalli e cammei, risalirebbero al IX-X secolo122. La reliquia del cranio della santa era inserita nell’anima lignea. Ma quale era l’ubicazione del manufatto nell’ambito della famosa chiesa a «sala» voltata a botte, con tribune, transetto, e ambulacro con cappelle radiali? Purtroppo non esistono dati oggettivi. Alcuni hanno «collocato» la statua nell’abside interna, dietro l’altare, altri nella navata, in una cappella chiusa da griglie di ferro. Pur nella genericità delle proposte, più di frequente si ritiene che essa si trovasse nell’abside interna, assieme ad altri reliquiari, recintata dai cancelli del santuario (databili all’XI secolo)123, ed offerta alla visione dei pellegrini che dovevano percorrere in un continuum navate laterali, transetto e ambulacro, per defluire dalla parte opposta124. Anzi, come ultimamente ha osservato Beate Fricke, la presenza di un banco/sedile continuo in muratura nell’abside esterna, sarebbe la prova che, non soltanto la statua d’oro (forse innalzata su una colonna) si trovasse nell’abside interna, ma che ai pellegrini fosse anche concessa una sosta di preghiera davanti ad essa125. Una collocazione analoga delle reliquie si riscontrerebbe nei santuari di Saint-Sernin a Toulouse e Santiago de Compostela, se non nella stessa Saint-Martin a Tours126 e in Saint-Martial a Limoges127. La cattedrale di Canterbury è un caso clamoroso per ricchezza di documentazione e per la possibilità di leggere le trasformazioni della struttura in rapporto alla vicenda dell’assassinio di Thomas Becket (1170). Gervase of Canterbury descrive l’incendio della vecchia chiesa nel 1174, e la costruzione della nuova, di anno in anno, fino al 1184. Il braccio orientale Early Gothic della chiesa rimpiazza una struttura romanica, che scomparve nel 1174. La chiesa di Lanfranco, primo arcivescovo normanno, fu edificata dal 1070. Essa ricevette, a partire dal transetto, il nuovo lunghissimo santuario dell’arcivescovo Anselmo, iniziato nel 1090 circa e dedicato nel 1130 (nove campate, transetto est, ambulacro a cappelle radiali), con cripta sotto-

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34. Santa Fede, statua conservata presso il Trésor de l’Église abbaziale, Sainte-Foy, Conques. 35. Planimetria della chiesa di Sainte-Foy, Conques (da Bernouilli/Durliat).

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36. Santuario e abside della chiesa di Sainte-Foy, Conques. 37. Cripta della Trinity Chapel, cattedrale di Canterbury.

stante. Quest’ultima rimase integra, mentre la navata centrale del piano soprastante fu danneggiata dall’incendio del 1174 e sostituita dalla costruzione Early Gothic. Al posto della cappella radiale quadrata si fece la Trinity Chapel (con sottostante prolungamento della cripta) e la relativa «Corona» circolare, che doveva avere un piano superiore mai realizzato. La costruzione (1175-1184) fu diretta da Guglielmo di Sens e poi da Guglielmo inglese. Lo Hearn, dopo aver identificato quattro differenti progetti per il braccio orientale fra il 1175 e il 1179, ha «disegnato» l’itinerario dei pellegrini verso la Trinity Chapel e la «Corona», con inizio dal primitivo transetto ovest, nel cui braccio nord si venerava il luogo del martirio128: un percorso molto preciso, che doveva avvenire su un duplice livello, quello della cripta e quello soprastante. Si toccavano i seguenti «poli» cultuali collegati a Thomas Becket: il luogo del martirio, la tomba (cripta della Trinity Chapel), l’altare superiore della Trinity Chapel su cui Becket aveva offerto la sua prima Eucaristia (ma questo altare inspiegabilmente fu

rotto nel 1179 per farne un altro nel transetto sud), la reliquia del suo cranio (posta forse nella «Corona» terminale alta poco dopo il 1184). Nel 1220 il corpo di Becket fu traslato al piano alto della Trinity Chapel, e questo fu il polo cultuale che sostituì l’altare. I pellegrini, dalla navata sud, giungevano al luogo del martirio percorrendo un tunnel sotto l’incrocio del vecchio transetto ovest, scendevano poi in cripta, ne percorrevano la lunga navatella nord fino alla Trinity Chapel (tomba), imboccavano la navatella sud e uscivano. Subito dopo potevano utilizzare la scala a fianco dell’uscita dalla cripta per salire nella navatella sud del piano superiore (per visitare il cranio di Becket), passare a nord, scorrere davanti alla tomba (dal 1220), e tornare a sud ridiscendendo le scale. Hearn fonda la sua ricostruzione sul fatto che questo era l’unico modo per evitare l’intersecarsi fra gruppi di pellegrini. L’uscita doveva avvenire o dal primitivo transetto (a sud) o dalla facciata ovest. Canterbury risulta così un’importante caso – ben documentato – di «allestimento» programmato di un percorso di

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pellegrinaggio sulle memorie e le spoglie di un martire «recente»: un percorso che, forse per l’ultima volta, prevede l’utilizzo di un deambulatorio su un duplice livello. Col Gotico, il deambulatorio sembra perdere alcuni aspetti funzionali guadagnati nel tempo, e torna una «forma strutturale». Le cappelle radiali, con ricchi altari e retabli, ne costituiscono le forme emergenti, mentre tende a perdersi il rapporto con l’abside interna. Già nell’ambulacro «luminoso» sugeriano di Saint-Denis la tomba dei martiri non si trovava più entro l’abside interna, ma più a ovest, sostituita dall’altare della Croce o del Salvatore129. E nel duomo di Colonia, le reliquie dei Magi passano forse dal centro della navata alla cappella assiale dell’ambulacro. Raramente gli ordini Mendicanti utilizzarono il deambulatorio del «gotico di cattedrale», e quando lo fecero il pellegrinaggio non fu mai in gioco (salvo nel caso del Sant’Antonio di Padova)130. Quando i pourtours degli ambulacri verranno infine chiusi dai cori lignei, una stagione era ormai tramontata da tempo.

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Tragitti «trasversali»: il sistema transetto-ambulacro Due dei più celebri santuari dell’Occidente romanico (Saint-Sernin a Toulouse e Santiago de Compostela) utilizzarono il sistema di un tragitto di pellegrinaggio che non si svolge a partire dalla facciata occidentale, ma da un braccio del transetto. Di ciò siamo assolutamente certi, anche grazie alla testimonianza esplicita del Liber Sancti Jacobi per Compostela. In altri casi il tragitto iniziava da un fianco della chiesa, come a Saint-Benoît-sur Loire. Le ragioni erano normalmente di carattere topografico e logistico, a volte più propriamente urbanistico, come a Toulouse, dove il lato meridionale della chiesa è rivolto verso la città (ha infatti ben due portali scolpiti) e ha quasi maggior rilievo della facciata ovest (però completata più tardi). I prospetti nord del transetto di Santiago e sud del transetto di Toulouse assumono così l’aspetto di facciate monumentali esibite ai pellegrini: ai Francesi in particolare, dice la «Guida del pellegrino» per Compostela, e a coloro che chiedono l’intercessione di san Saturnino a Toulouse, visto che la cosiddetta Porte des Comptes appare come una sorta di portale duplice «trionfale» del Santo. Nella «nicchia» centrale fra i due fornici era posto il rilievo di san Saturnino (c’è ancora l’iscrizione: Sanctus Saturninus), quasi un’icona del santo tito-

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38. Becket’s Crown, cattedrale di Canterbury. 39. Planimetria del braccio orientale della cattedrale di Canterbury (ai due livelli), con ipotesi dell’itinerario dei pellegrini (da Hearn). 40. Ambulacro della chiesa di Saint-Sernin, Toulouse.

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41. Porte des Comptes, Saint-Sernin, Toulouse. 42. Planimetria, con indicazione del percorso del pellegrinaggio e delle direttrici visive dei capitelli (da Lyman), chiesa di Saint-Sernin, Toulouse.

lare (preteso primo vescovo di Toulouse, martirizzato verso il 250), affiancata da figure di leoni, mentre nelle due incorniciature alle estremità erano forse inclusi i suoi compagni Papoul e Honest (oppure i vescovi suoi successori)131. Non è da escludere che, in questo caso, i leoni simmetrici ri-

spetto al Santo si conformino al tema del maître des animaux. Le fiere ammansite dal Santo sono qui come il male «neutralizzato», o meglio i peccatori pentiti e salvati: un «messaggio» particolarmente significativo per i pellegrini di Saint-Sernin132. I rilievi vennero distrutti nell’età della Rivoluzione. In un ampio studio del 1971 il Lyman propose un’analisi contestuale dei capitelli istoriati (anche quelli dell’ambulacro: Daniele, Michele), che asseconderebbero il percorso dei pellegrini. Anche Lazzaro sarebbe un riferimento ai poveri (cui i canonici agostiniani davano ospitalità) e alla promessa di salvezza loro offerta. Questo fu il primo portale costruito (forse verso il 1090)133, all’inizio del tragitto che conduceva dal transetto a navatelle verso l’ambulacro. Nell’abside interna era di certo contenuto l’oggetto del culto in un caveau, ma la scomparsa dell’assetto primitivo impedisce di comprendere con esattezza la sistemazione delle reliquie e le modalità di visita. La sparizione dell’assetto originario della cripta avvenne nel 1258, quando il sarcofago del martire Saturnino, conservato nella «cripta superiore», viene elevato dal vescovo Raymond du Falga, e installato sotto un baldacchino al centro dell’abside, per esporlo maggiormente alla vista dei fedeli. Oggi sopravvi-

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ve non il baldacchino (sacrificato nel XVIII secolo), ma il suo soubassement. La «cripta inferiore» fu aggiunta poco dopo (1263-1287)134. Il piano basso del baldacchino ebbe l’altare del vescovo Honorat, ma funzionò poi come vestibolo per la «cripta inferiore», che conteneva un’esposizione di reliquie. Nel XIII secolo i pellegrini accedevano dunque alla cripta, ma così pare non fosse in precedenza. Scavi degli anni ’60 del XX secolo nella «cripta superiore» hanno rivelato l’abside della chiesa paleocristiana (martyrium del 402 di SaintSylve e Saint-Exupère, in cui vennero sepolti essi stessi e altri vescovi di Toulouse), che i costruttori romanici avrebbero «incamiciato» rinforzandola. Questo «strato» esterno evidenzia ancora (verso l’ambulacro) una serie di nove aperture o finestre. Fra il 1956 e il 1967/69 si effettuò uno scavo nel deambulatorio ed emerse, sotto la finestra centrale, una fenestella alta solo 25 cm135. I pellegrini avrebbero calpestato il suolo a –1,28 (livello paleocristiano) e, percorrendo l’ambulacro, avrebbero potuto inserire oggetti a contatto del sepolcro attraverso la fenestella, ma ciò non è affatto sicuro136. Inoltre, le nove aperture superiori della nuova abside sarebbero servite per vedere la vecchia «necropoli» dei vescovi tolosani, diventata un caveau funeraire. Durliat ritiene che i fedeli non fossero ammessi nel caveau, ma che questo fosse accessibile dal coro137. In assenza di dati archeologici affidabili, dobbiamo credere che il martire fosse collocato nell’abside interna, ma sospendere ogni giudizio sulla sua sistemazione e sulle modalità di culto a lui attribuito. È da mettere in dubbio che i pellegrini, dopo la visita, uscissero dal portale nord del transetto, che era probabilmente ad uso dei canonici (il chiostro era a nord). Invece potevano uscire dalla facciata ovest, il cui portale (più tardo) venne scolpito e centrato sulla vita di san Saturnino. Ma questo potrebbe anche indicare che, terminata la costruzione con la facciata, il portale ovest fosse stato concepito a sua volta come un portale d’ingresso anche per i pellegrini. In ogni caso, il deflusso doveva essere assai meno programmato dell’accesso, ed è possibile che, in questo e in altri casi, si concedessero più opzioni. Anche per Santiago de Compostela (circa 10781122) si deve affermare che, mentre è certo il ruolo importante dell’abside interna, l’assetto originario è ormai perduto. Il Liber Sancti Jacobi (post 1130) attesta che i pellegrini (francesi) entrano nella cattedrale dal braccio nord del transetto

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44. Facciata ovest della chiesa di Saint-Sernin, Toulouse.

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43. Navata centrale della chiesa di Saint-Sernin, Toulouse.

(porta francigena)138. Davanti al portale nord stava un ospedale dei pellegrini e un atrio (paradisus) con una magnifica fontana a conca, dotata di una colonna bronzea centrale dalla cui sommità quattro leoni zampillavano acqua per dissetare i pellegrini (opera del 1122 di Bernardo, tesoriere di San Giacomo). Il portale fu demolito nel XVIII secolo e sostituito con la facciata dell’azabacheria. La Guida constata che fra l’altare maggiore di san Giacomo e l’altare del Salvatore (cappella assiale est)


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45. Planimetria della chiesa di Saint-Martin, Tours (da Lelong). 46. Planimetria della chiesa di Saint-Sernin, Toulouse (da Vergnolle). 47. Planimetria della cattedrale di Santiago de Compostela (da Conant). 48. Il transetto, da nord a sud, della cattedrale di Santiago de Compostela.

stava l’altare della Maddalena (abside interna), ove si cantavano le messe mattutinali per i pellegrini. Sappiamo così che i pellegrini percorrevano il deambulatorio139, forse vi stazionavano, e presumibilmente uscivano dal braccio sud del transetto, oppure raggiungevano le navate della chiesa. Lo sviluppo significativo dei bracci del transetto materializza certo la funzione importante di questo asse trasversale, destinato anche allo scorrimento dei fedeli. Il testo non accenna mai a un «contatto» ravvicinato dei fedeli con la maggiore reliquia. Il corpo del Santo – continua la Guida – sta sotto l’altare maggiore, in un’arca di marmo (arca marmorea reconditum, in obtimo arcuato sepulcro, quod miro opere ac magnitudine condecenti operatur). Si descrivono poi il paliotto in oro e argento e il ciborio dell’altare. Jeanne Vielliard140 sospettava (assieme ad altri studiosi) che l’arcuato sepulcro fosse una cripta. Il vano attuale per la teca delle reliquie è del XIX secolo, dopo più fasi di modifiche

nel santuario141. Più recentemente, Castiñeiras González ha proposto una originaria «camera nascosta» sotto l’altar maggiore142, chiedendosi se fosse dotata di una fenestella, e se esistesse «une trappe dans le dallage» per i soli visitatori privilegiati. Egli evidenzia comunque la singolare invenzione del vescovo Diego Gelmirez: una «cappella bassa» nell’abside interna (nel 1878 si è scoperto il dallage originario un metro sotto l’attuale), dietro l’altare/tomba dell’apostolo Giacomo, dove i pellegrini potevano assistere alla messa di mattino all’altare della Maddalena e pregare a ridosso del sepolcro di san Giacomo. Una preziosa miniatura del 1489 circa (cartulario dell’ospedale di Saint-Jacques a Tournai), edita da Vanwijnsberghe 2002 e analizzata da Carrero Santamaria 2007, raffigura la «cappella» della Maddalena, e in particolare la messa e il bacio della statua dell’apostolo da parte dei pellegrini. Carrero osserva che l’altare della Maddalena era l’altare di matti-

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no tipico di tutte le grandi chiese medievali e utilizzato per le messe quotidiane, ma non di sabato e festività, quando funzionava l’antistante altare maggiore. Lo spazio della cappella era chiuso a ovest da un muro con due porte, almeno dal XIII secolo, quando gli fu appoggiata la statua dell’apostolo Giacomo, che fu oggetto di una pratica devota dei pellegrini. A Compostela, dunque, non ci sarebbe stata visita vera e propria alle reliquie. I pellegrini dal XIII secolo potevano però approssimarsi alla tomba dell’apostolo e salire su una sorta di tribuna per abbracciare la statua. Resta incerto se anche nel XII secolo i fedeli accedessero all’abside interna oppure seguissero la messa di mattino dal deambulatorio. Carrero Santamaria nega un rapporto fra deambulatorio e pellegrinaggio, che si sarebbe organizzato in seguito, ma Castiñeiras González aveva giustamente constatato che era stata prevista una «topografia sacra» del pellegrinaggio, se è vero che le cappelle dell’ambulacro erano state intitolate ai santi dei maggiori santuari143.

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49. Miniatiura del frontespizio del Cartulario dell’ospedale di Saint-Jacques, 1489 ca., Bibliotèque de la ville, Tournai. 50. Lunetta della facciata nord del transetto della chiesa di San Michele, Pavia.

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51. Planimetria con tragitto ipotetico dei pellegrini dal portale nord verso la cripta, chiesa di San Michele, Pavia (da Peroni).


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Tragitti nei bracci del transetto

52. Santi scolpiti sull’architrave del portale nord della cripta della chiesa di San Michele, Pavia. 53. Particolare del prospetto ovest (di restauro) della cripta di San Michele, Pavia.

Anche in Italia possono essere riconosciuti dei casi omologhi a quelli di Toulouse e Santiago. Finora è stato trascurato in tal senso il caso di San Michele a Pavia (XII secolo)144, dove la facciata del braccio nord del transetto è evidentemente concepita come prospetto non meno importante della facciata occidentale, orientato verso il cuore della città. Una delle chiese dall’apparato scolpito più ricco, all’interno e all’esterno (ma qui purtroppo assai deteriorato), è anche una di quelle cui fa più difetto la documentazione. A chi era rivolto il portale settentrionale, al vescovo e al clero canonicale durante le celebrazioni «stazionali» in San Michele? L’iconografia offre qualche aiuto. L’architrave reca scolpiti alle estremità i santi vescovi Nicola ed Ennodio, entro clipei. La figura di un vescovo è ripetuta all’interno, nel braccio nord del transetto, mentre due santi in clipeo, simili a quelli esterni (con baculo pastorale e libro) ma questa volta sen-

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za tituli, sono scolpiti sull’architrave del portale che scende in cripta. Se si tratta degli stessi santi e se interpretiamo le loro figure come «segnaletica» del pellegrinaggio – correttamente ripetuta due volte –, potremmo immaginare che il portale nord fosse utilizzato non solo per cerimonie stazionali, ma anche come portale del pellegrinaggio (forse di raggio soltanto urbano). Il percorso si sarebbe sviluppato in cripta verso le reliquie per concludersi, verosimilmente, sul lato opposto (scala simmetrica verso sud), con possibilità di uscita attraverso il portale del fianco sud, oppure attraverso la facciata occidentale. San Michele era già in se stesso un sontuoso tempio dell’arcangelo Michele e degli angeli (le cui figure scolpite «presidiano» cinque portali), a protezione della città di Pavia e dei suoi abitanti. Le reliquie del proto-vescovo locale Ennodio e del famoso santo di Bari arricchivano certo la sacralità e l’«efficacia» del santuario. Una situazione omologa può essere individuata a Piacenza, con il santuario suburbano di Sant’An-

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tonino, che ebbe origine come chiesa cimiteriale e martiriale: è ormai certo che non fu mai la cattedrale; fu invece il santuario in cui – al di là delle confusioni della tradizione – nel IV secolo fu deposto il martire Antonino e poi molti vescovi di Piacenza, fra cui Vittore che ne fu forse il committente. Nell’VIII secolo la chiesa è detta beatissimi martyris et confessoris Christi Antonini et Victoris (...) ubi eorum sancta corpora requiescunt humata. Sant’Antonino è ora la chiesa ottoniana del vescovo Sigifredo (prima metà dell’XI secolo), a doppia polarità liturgica145. Risaltano con evidenza indiscutibile il grande transetto ovest «germanico» e soprattutto il suo incrocio che si connota per la presenza di una «corona» di dodici sostegni in quadrato, reggenti la torre ottagonale. Il transetto si «oppone» al corpo orientale della chiesa a tre navate, in origine concluse da tre absidi. Siamo in presenza di una normale basilica che si «ammorsa» ortogonalmente a un’imponente struttura cruciforme occidentale. Qui dovevano essere «esposte» in capsae le reliquie del martire Antonino e forse del vescovo Vittore (ammesso questo non fosse contenuto nel polo cultuale est), alla venerazione dei pellegrini e dei fedeli146. Si può immaginare che fra i sostegni corressero cancelli o transenne a protezione dei corpi santi. Ma qual era allora il tragitto di visita alle reliquie? A ovest si collega al transetto un corpo quadrato, la cui funzione può essere stata di vestibolo oppure di contro-coro occidentale. Un portale settecentesco, prima, e poi il suo totale rifacimento novecentesco da parte dell’architetto Arata, impediscono ogni tentativo di individuazione di un eventuale portale originario. In ogni caso, è più plausibile pensare a un contro-coro (sulla base di molti esempi germanici), anche perché l’ingresso alla chiesa è ancor oggi nel braccio nord del transetto, verso la città e la cattedrale. Il portale scolpito del transetto, databile al 1170 circa, venne in seguito dotato di un ampio portico, detto paradisus (XIV secolo). Come nel caso di San Michele a Pavia, il prospetto nord del transetto, concepito come facciata monumentale, doveva condurre vescovo e clero (provenienti dalla cattedrale) in direzione delle reliquie del maggior santuario urbano, almeno nella seconda metà del XII secolo, ma forse fin dall’origine. Il relativo portale poteva essere tuttavia anche quello del pellegrinaggio (forse soltanto cittadino), per quanto non possiamo escludere un portale distinto, oggi scomparso. Con il caso di Sant’Antonino siamo ormai al di fuori della «categoria» dei tragitti con ambulacro e, non esistendo

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neppure una cripta, un termine di confronto più indicato sarebbe quello di Saint-Lazare ad Autun (cfr. infra), ma ancor più quello delle chiese a «tragitto longitudinale», che vedremo in seguito. Tragitti «invisibili»: percorsi trasversali nelle cripte a navate 54. Transetto e torre della chiesa di Sant’Antonino, Piacenza. 55. Planimetria (da Bertelli/Summer) con ipotesi aggiunta di tragitto di pellegrinaggio e ubicazione del corpo santo. Sant’Antonino, Piacenza. S.A.: sant’Antonino. 56. Cripta di San Filastrio, Rotonda di Santa Maria, Brescia. 57. Planimetria (da Breda/Gallina) con ipotesi aggiunta di tragitto di pellegrinaggio, della recinzione e ubicazione del corpo santo. Cripta di San Filastrio, Rotonda di Santa Maria, Brescia. S.F.: san Filastrio.

Intendiamo per tragitti «invisibili» quelli che – in assenza di una struttura ad ambulacro – configurano un percorso a tratti ortogonali, non (architettonicamente) apparente, entro le cripte a navate. Questo percorso è spesso riconoscibile nel caso delle cripte a «sala» protoromaniche e poi delle cripte romaniche a «oratorio», più ampie delle prime. Rutishauser (1993) ha giustamente postulato una nuova funzione della cripta come ‘aula di culto’ (rispetto alle cripte a corridoio altomedievali), ma forse ha sottovalutato significativi elementi di continuità. In realtà, il culto delle reliquie rimase associato alle cripte147, ma emersero altre funzioni (a volte si tratta di secondi cori, desumibili ad esempio dalla presenza di accessi dal chiostro). Quasi sempre, ma soprattutto a partire dalla riforma gregoriana (seconda metà dell’XI secolo), la cripta ha la funzione «statica» di sopraelevare coro e santuario, garantendo così la riservatezza degli uffici monastici o canonicali, ma insieme, assai spesso, la possibilità di far coesistere un sottostante «pellegrinaggio» di laici alle reliquie in essa contenute. Questo è un

elemento di continuità rispetto alle cripte altomedievali, a partire da quella semianulare di San Pietro in Vaticano, anche se le strutture non erano ormai più a corridoio, ma a navatelle con file di colonne sempre più numerose. Gli elementi che in una cripta possono documentare un culto di reliquie sono soprattutto di natura archeologica: in particolare la collocazione dei portali, le tracce di cancelli divisori, la presenza di campate «privilegiate», se non addirittura la sopravvivenza della tomba o del cenotafio (come nella cripta di San Marco a Venezia). Duplici portali simmetrici (eredità delle antiche scale descensionis et ascensionis), siano essi sul fronte della cripta, oppure sui fianchi, oppure in corrispondenza delle navate laterali della chiesa, sono di frequente indicativi del percorso di visita. All’interno della struttura della cripta a navatelle longitudinali è così possibile leggere un percorso trasversale, di fatto riconducibile a un tragitto a «tratti ortogonali». Prendiamo in considerazione un solo esempio: la cripta di San Filastrio sotto la Rotonda di Santa Maria a Brescia, costruita verso il 1030 in collegamento con la chiesa paleocristiana di Santa Maria148. In origine le due scale erano poste alle estremità della cripta, verso ovest ed esternamente alle tre navate; inoltre, tracce dell’innesto di cancelli nelle colonne della seconda fila trasversale contribuiscono a individuare la campata centrale (purtroppo rimaneggiata) come luogo delle reliquie149.

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I fedeli dovevano dunque scendere da un lato, percorrere le due «navatelle» trasversali più a occidente (restando all’esterno dei cancelli), e risalire mediante la scala opposta. Oggi noi leggiamo questa bellissima «lipsanoteca» di San Filastrio come una struttura a navatelle longitudinali, ma la disposizione simmetrica dei capitelli antichi di reimpiego e protoromanici ci avverte che la si era concepita a navatelle trasversali. Senza tracce archeologiche sarebbe stata difficile questa lettura. Perduto il contesto e l’arredo originario, anche le cripte possono sembrare altro da ciò che erano state progettate. Molte cripte a oratorio italiane sono a portali simmetrici e furono destinate a ricevere rinomati corpi santi o reliquie, come quelle di sant’Ambrogio a Milano, san Dalmazzo a Pedona, san Silvestro a Nonantola, san Donnino a Fidenza, san Marco a Venezia, san Nicola a Bari. In genere, i portali sono sul prospetto principale (in relazione alla navata centrale, oppure alle due laterali) e inducono un percorso di visita che implica un’«andata» longitudinale, un passaggio trasversale davanti alle reliquie e un «ritorno» longitudinale. Le cripte con ambulacro (Tournus, Saint-Benoît-sur-Loire, Orléans) richiedevano invece il transito dietro le reliquie. Il percorso è tuttavia più o meno «obbligato» a seconda dell’ampiezza della cripta ed esistono anche soluzioni di percorsi diversi o più articolati. Le tracce dei cancelli al centro della cripta a navatelle del duomo di Aquileia sembrano implicare un percorso attorno alle reliquie. A volte i due portali sono sui fianchi e prospettano verso le navate laterali oppure verso il transetto (come a San Michele a Pavia). A Sant’Ambrogio a Milano si entra ancor

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oggi in cripta da un fianco, cioè da una navata laterale, e si esce in quella simmetrica. Una cripta poteva estendersi in senso trasversale, per l’intera larghezza della chiesa (come al San Silvestro di Nonantola)150, ma poteva anche essere prolungata in senso longitudinale verso la facciata, «assecondando» i passi dei pellegrini (come al Saint-Bénigne a Dijon). Un caso eccezionale di cripta che assurge di fatto a «chiesa inferiore» è quello di San Fermo Maggiore a Verona (iniziata nel 1065), che Gianpaolo Trevisan ha potuto plausibilmente restituire151, essendo stata la chiesa alta riformulata fra XIII e XIV secolo. Egli ha tuttavia giustamente evitato la definizione di «chiesa inferiore», poiché la cripta seminterrata del grande santuario veronese non aveva un accesso autono-

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della facciata, in corrispondenza dell’asse longitudinale centrale della cripta, e dunque portano a non escludere un utilizzo a scopo rituale/processionale del clero. L’asse stesso della cripta non era tuttavia visivamente libero in direzione delle reliquie: una fila di sostegni centrali (interposti in ragione della statica della chiesa superiore) obbligava un eventuale corteo o processione a bipartirsi anche nella navata centrale della cripta, strutturata dunque a sua volta in due «corsie». La fila centrale di pilastrini si interrompe in corrispondenza dell’ultima campata della navata centrale, davanti ai gradini del santuario, dove era forse prevista la «sosta di pellegrinaggio» per gettare lo sguardo verso l’abside centrale, in cui una triplice arcata su colonne ioniche è ancora l’«indicatore» della sede delle reliquie. Sia che l’itinerario dei fedeli fosse previsto nella navata centrale, oppure nelle laterali, della cripta, essi avrebbero dovuto comporre un percorso a U rovesciata. I santi Fermo e Rustico, e altri santi, erano probabilmente ivi deposti in una chiesa fin dall’età paleocristiana, mentre nel 765 il vescovo Annone ne aveva promosso il culto con una nuova sistemazione. Anche in questo caso non possiamo essere certi che il culto stesso travalicasse l’ambito cittadino. È però certo che la soluzione architettonica adottata in età romanica a San Fermo Maggiore (per santi che non erano i patroni principali) ha carattere di eccezionalità. Varianti dei tragitti

61 58-59. Triplice arco dell’abside della chiesa inferiore e navata centrale della chiesa inferiore, San Fermo Maggiore, Verona. 60. Planimetria della cripta della chiesa di San Fermo Maggiore, Verona (da Trevisan) con ipotesi del tragitto del pellegrinaggio. 1) ubicazione delle reliquie; 2) stazione di visita; 3) scale di discesa; 4) scale di discesa dalla controfacciata della chiesa superiore. 61. Santuario con gallerie della chiesa dei Santi Vittore e Corona, Feltre.

mo dall’esterno (come accade oggi e come accade, ad esempio, in San Francesco ad Assisi), ma numerosi accessi possibili solo dalla «chiesa superiore», e non dal corpo occidentale a più piani. Tali accessi erano otto rampe di scale ricavate nello spessore dei muri perimetrali: due si trovavano nei collaterali del santuario ad absidi échelonnées ed erano certo ad uso dei chierici (conducevano infatti nella zona dei corpi santi); altre quattro – due a nord e due a sud – erano incluse nei fianchi e accessibili dalle navate laterali, dunque ad uso dei fedeli e dei pellegrini; le ultime due erano incluse nel muro di controfacciata e accessibili ancora dalle navate laterali. Si direbbe che anche queste ultime fossero destinate ai fedeli, anche se si ricongiungevano in un breve tratto comune al centro

L’architettura romanica ha il connotato precipuo della produzione di varianti pur all’interno di un quadro omogeneo di forme e funzioni. Così, anche i percorsi di pellegrinaggio possono assumere sembianze diversificate sulla base di una stessa «struttura profonda». Esaminiamo pochi casi. Il piccolo ma significativo santuario dei Santi Vittore e Corona, presso Feltre (Belluno), è forse un altro caso di luogo di culto di valenza locale, ma l’orchestrazione dei suoi spazi è di assoluta originalità152. Esso è composto di tre nuclei principali voltati: un avancorpo occidentale a due piani, un corpo di navate che risulta dalla «sintesi» di pianta longitudinale e pianta a croce inscritta di nove campate (di altezze diversificate in origine), un santuario quadrangolare che è il contenitore dell’arca dei santi. Su questa, un’iscrizione trecentesca pone al 14 maggio 1101 la dedicazione della chiesa ad opera del vescovo di Feltre, Arpone, il cui padre (Giovanni da Vidor) è detto fundator aulae nel-

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l’epitaffio del suo sarcofago, che sarebbe stato posto a ridosso del santuario e della cassa dei martiri. Entro le murature di tre dei lati del corpo quadrato (santuario) sono scavate gallerie su tre piani, ma era soprattutto quella intermedia ad essere destinata al pellegrinaggio. Essa si affaccia infatti all’interno del martyrium con un loggiato di nove arcate, mentre quella superiore permetteva di guardare all’interno solo mediante una finestrella per ogni lato. I pellegrini potevano raggiungere il loggiato dall’esterno, da portali a 5 m di altezza (serviti certo da scale lignee), ricavati a nord e a sud in due torri contenenti le rampe di scale lapidee. Presumibilmente entravano da un lato, effettuavano la visita scorrendo lungo i tre lati del loggiato, e uscivano al lato opposto. I fedeli, dunque, in questo caso veneravano la tomba dei santi dall’alto (invece che dal basso, come nelle cripte), accedendo al santuario visivamente, ma restandone in pratica all’esterno, senza ostacolarne il funzionamento liturgico. Anche i chierici avevano la possibilità di accedere alle gallerie dall’interno del santuario, mediante due portali, e non è da escludere che il loggiato servisse per la liturgia (cantori?) quando il pellegrinaggio era escluso. La chiesa abbaziale di Saint-Sauveur a Charroux (nel Poitou) era un grande santuario monastico dell’XI secolo, contenente reliquie di Cristo153. Una cripta seminterrata (inserita poco tempo dopo e certo normalmente inaccessibile) era posta all’interno di una turris – l’unica ancora superstite –, che costituiva il «perno» centrale di una rotonda/transetto derivata dal Santo Sepolcro o Anastasis di Gerusalemme. La rotonda complessa a tre ambulacri era innestata entro l’impianto basilicale di un grande edificio, a costituire uno schema cruciforme (dato da bracci di transetto e da una terminazione est a triconco con deambulatorio). Charroux ebbe forse la costruzione della rotonda centrale verso il 1060-1080, l’aggiunta della cripta seminterrata verso il 1082, la consacrazione di un nuovo altare maggiore sopra la cripta nel 1096154. Nel XVII secolo è descritta la grande scalinata circolare che portava all’altare del Salvatore nella turris, e una fonte d’acqua miracolosa nella cripta sottostante. Ma nel 1045 i monaci di Charroux possedevano 51 reliquie, dieci delle quali relative alla vita di Cristo e della Vergine. Le reliquie più venerate erano i frammenti del legno della «Vera Croce», e il prepucium Domini nostri Jhesu Christi Sancta Virtus nuncupatum (detto in precedenza caro et sanguis Christi)155. È possibile che almeno al-

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62. La turris superstite della chiesa del Saint-Sauveur, Charroux. 63. Pianta e sezione della chiesa del Saint-Sauveur, Charroux (da Camus).

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65 64. Planimetria della chiesa di Saint-Lazare, Autun (da Rollier) con ipotetico percorso del pellegrinaggio.

cune reliquie fossero conservate nella cripta156, dove esisteva anche un altare. I nuclei centrali a due piani (cripta e cappella/podio) si ritrovano in più tarde costruzioni a pianta centrale collegate al culto della Tomba di Cristo, ad esempio il perduto Santo Sepolcro di Augsburg, consacrato nel 1128, o il Santo Sepolcro (Vera Cruz) di Segovia, consacrato nel 1208157. I tre anelli/ambulacri (il più interno però occupato dalle scale) attorno alla turris rendono assai probabile che fosse previsto uno scorrimento di fedeli attorno agli «oggetti» del culto (altare del Salvatore, reliquie in cripta), anche se non conosciamo l’ubicazione del coro monastico, né la funzione delle cappelle del transetto e del triconco orientale con ambulacro. Il possibile «movimento» semicircolare dei fedeli (se giungevano dalle navate laterali) individua di fatto un tragitto simile al percorso di un ambulacro, ma se pensiamo che la chiesa comprende un corpo longitudinale, un anello circolare completo (quello delle «copie» del Santo Sepolcro) e un ambulacro vero e proprio, si è anche tentati di ipotizzare che il santuario di Charroux fosse concepito come la somma di tutti i tragitti possibili. La chiesa-santuario di Saint-Lazare ad Autun (Borgogna) fu edificata perpendicolarmente alla cattedrale di Saint-Nazaire, in modo tale che il portale maggiore di quest’ultima corrispondesse in asse al portale sinistro del transetto di Saint-Lazare, anche se una via pubblica separava le due chiese. Costruita dal vescovo Étienne de Bâgé (1112-1138/39), e concepita come «concorrenziale» rispetto al san-

65. Santuario centrale della chiesa di Saint-Lazare, Autun. 66. Sezione longitudinale del mausoleo con ipotetica collocazione del sepolcro di Lazzaro e di altre statue nella chiesa di Saint-Lazare, Autun (da Rollier). 67. Ipotesi di restituzione del mausoleo nella chiesa di Saint-Lazare, Autun (da Rollier).

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tuario di Vézelay dedicato alla Maddalena (che nel Medioevo si credeva Maria di Betania, la sorella di Lazzaro resuscitato da Cristo: Gv. 11), la chiesa fu costruita fra il 1120 e il 1140 circa. Ad Autun non erano in realtà conservate le spoglie di Lazzaro, ma quelle del vescovo Lazare d’Aix (morto nel 420), traslate prima del Mille da Marsiglia nella cattedrale di Saint-Nazaire ad Autun, e poi da Saint-Nazaire a Saint-Lazare nel 1146158. Saint-Lazare, nota derivazione di Cluny III per l’articolazione della navata, non è dotata di un ambulacro, e nemmeno di una cripta. Dove collocare allora le reliquie? Si decise di sistemarle nella duplice campata del santuario, dietro l’altare, e di rendere direttamente accessibile il presbiterio ai pellegrini. Se a Feltre un «surrogato» dell’ambulacro consentiva di tenere i fedeli all’esterno del santuario (con reliquie e altare), ad Autun un «surrogato» di cripta consente loro di accedere all’interno. Si deve aggiungere che ciò fu possibile perché Saint-Lazare non era ancora la cattedrale, ma aveva lo statuto di chiesa-santuario. Il «surrogato» di cripta era un sontuoso sacello lapideo, con numerose figure scolpite, che fu distrutto nel 1766 e documentato per la prima volta da Hamann nel 1936159. Si trattava di una basilichetta in miniatura, oppure un reliquiario monumentale, di cui sono conservati molti frammenti al Musée Rolin ad Autun. Una ricognizione archeologica ha consentito nel 1991 di fare molti passi avanti nella restituzione del manufatto160, e anche di comprendere che il «mausoleo» (di m 7 x 4,30, con altare addossato verso la navata della chiesa) non poteva essere del 1146 circa, ma del 1170 circa, se non più tardo161. Esso era dotato di abside e di «transetto»: all’interno, Lazzaro era scolpito nel sarcofago avvolto in un sudario, e la sua resurrezione comprendeva varie figure, poste davanti. C’erano il Cristo che tendeva le braccia, san Pietro con le chiavi, sant’Andrea con un filatterio, e ancora Marta e Maddalena. Il sarcofago era lungo m 1,40, le statue alte 1,25. I pellegrini giungevano da sinistra e scendevano tre o cinque gradini: passando sotto il «transetto» vedevano le reliquie attraverso una fenestella (sotto il sarcofago) e poi risalivano altri gradini uscendo dalla parte opposta. Il corridoio di visita era lungo m 3,40 con le scale, e largo solo 0,60/0,70. Ripercorrendo le fonti dei pellegrinaggi fra il XV e il XVIII secolo, la Maurice-Chabard162 ricostruisce così l’itinerario di visita: entrando dal portale sinistro del transetto (nel cui timpano era scolpita la Resurrezione di Lazzaro), i fedeli giun-

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gevano alla cappella della Maddalena, dove stava nel 1444 l’antica urna delle reliquie, poi penetravano sotto il mausoleo, uscivano all’esterno per venerare la testa di Lazzaro in un reliquiario, e infine visitavano la cappella di Marta. Questo però avveniva in età moderna, e tuttavia poteva assomigliare a ciò che era accaduto nella seconda metà del XII secolo163. Il tragitto rettilineo longitudinale Nel Medioevo è esistita una terza modalità fondamentale di visita alle reliquie, anche se meno frequente: il tragitto longitudinale. Esso non è mai stato «individuato» come tale; ne segnaleremo dunque alcuni esempi, ne indagheremo i presupposti (paleocristiani), e ne descriveremo così la caratteristica essenziale: mentre l’ambulacro «semicircolare» implica quasi sempre un’uscita diversa dall’entrata, il tragitto «rettilineo» di frequente comporta un «ritorno su se stessi» (ma non sempre: si veda Civate). Il percorso di andata, insom-

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68. Planimetria dei due livelli della chiesa di Saint-Bénigne, Dijon, con ipotesi aggiunta del tragitto del pellegrinaggio in cripta (da Malone).


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ma, può facilmente coincidere con quello di ritorno. Vi è poi una differenza meno «formale» e più «pragmatica», che vedremo nell’ultimo paragrafo. Nella grande chiesa abbaziale carolingia di Fulda, al tempo dell’abate Baugulf (791-802), il sarcofago/cenotafio di san Bonifacio era probabilmente «esposto» al centro della navata, sulla linea dei «cancelli» divisori fra coro e navata liturgica164, presso l’altare della Croce. È presumibile dunque un percorso di visita in linea retta – in questa fase, prima di Ratgar (802-819) – dal portale occidentale al centro della navata, e un ritorno corrispondente. La grande chiesa monastica e santuario di SaintBénigne a Dijon, costruita dal riformatore cluniacense Guglielmo da Volpiano fra il 1001 e il 1016, ma consacrata il 13 maggio 1018 (rotonda orientale a tre piani), è oggi nota soprattutto grazie agli scavi, inevitabilmente parziali, di Carolyn Marino Malone165. La chiesa gotica, iniziata nel 1281, la distrusse, con eccezione della rotonda, che però ebbe demoliti i piani alti nel 1792 (documentati da Dom Plancher nel XVIII secolo). L’impianto,

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69. Planimetria con le fasi costruttive di metà e fine dell’XI secolo, con l’ubicazione della tomba dell’abate Mayeul (da Chevalier), chiesa di Saint-Pierre, Souvigny.

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complesso e originalissimo, comprendeva un’articolazione su tre livelli, almeno per la rotonda: la Marino Malone esclude il piano dei matronei sulle navate laterali del corpo basilicale, ma la questione non è del tutto risolta. I laici accedevano alla chiesa da ovest, nelle navate laterali, dalle quali scendevano alcuni gradini in una zona occidentale controabsidata, una sorta di galilea, che era anche la zona ovest della navata centrale. Circa a metà della lunghezza della navata si ponevano l’altare della Croce (per le messe dei laici) e una scala di 15 gradini che scendeva alla cripta. La Chronica di Saint-Bénigne colloca l’altare in medio ipsius ecclesiae, e in prossimità l’introitus criptae166. Dal centro della navata i livelli si sdoppiavano: sopra il coro monastico, sotto il braccio longitudinale a tre navate di una cripta, estesa anche sotto il transetto. Percorrendo il secondo, in linea assiale si raggiungeva il caveau in cui era ubicato il sarcofago di saint Bénigne, posto entro l’emiciclo di colonne che faceva da filtro fra cripta del transetto e cripta della rotonda. Il caveau, sottoposto a una recente verifica archeologica167, è absidato verso ovest. La parte originaria inferiore dell’abside include una fenestella di cm 0,40 x 0,65 (tamponata dopo la costruzione della chiesa gotica), che evidentemente doveva permettere ai pellegrini provenienti da ovest di vedere la tomba del santo168. Al caveau si accedeva invece solo da est, scendendo alcuni gradini: ciò che presumibilmente doveva essere concesso ai monaci e non ai pellegrini. La Marino Malone, nella ricerca di una collocazione dell’altare di Saint-Bénigne (che era in prossimità della tomba), lo pone a ovest del caveau, in quanto a est avrebbe «occupato lo spazio centrale del deambulatorio dell’emiciclo»169. Questa ipotesi è però in contraddizione con l’uso della fenestella, che la stessa studiosa ha riconosciuto. È invece più che plausibile che si prevedessero celebrazioni in onore del santo rivolte verso la sua confessio, come nel caso della cripta carolingia di Saint-Germain ad Auxerre (ricordata dalla stessa Marino Malone). È lecito dunque ubicare l’altare proprio in rapporto alle quattro colonne fra emiciclo e rotonda, la cui cripta non è detto fosse accessibile ai laici. Questi giungevano al caveau in linea grosso modo assiale, forse scorrendo a fianco dell’altare della Croce, percorrendo una navatella della cripta, stazionando al centro e infine tornando sui propri passi nella navatella opposta. Una scoperta importante, sia per i defunti coinvolti, sia per l’emergenza di un centro di pellegrinag-

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gio insospettato, è avvenuta nella chiesa priorale cluniacense di Saint-Pierre a Souvigny (Auvergne) fra 2001 e 2002: la tomba dell’abate cluniacense Mayeul (morto nel 994) e/o di Odilon (morto nel 1049), in più «versioni»170. La costruzione è ora una grande chiesa a cinque navate (m 87 x 34/28), risultato di più fasi medievali, ma il primo edificio, del 1040-1060 circa, tutto charpenté, era a una sola navata, transetto a due cappelle orientate, e santuario triabsidato con tre navatelle. Pier Damiani lo consacrò nel 1063. Scoperti oltre la metà della navata, nella seconda campata a ovest del transetto, un sarcofago in grès e il relativo coperchio erano recuperi di due diversi sarcofagi merovingici. Due cerchi metallici assicuravano la tomba da furti. Il lato sud del coperchio ha un foro quadrato (cm 15 x 17), che permetteva il contatto (quindi la tomba era accessibile). Il sarcofago era in una specie di ipogeo, circondato da lastre verticali inserite in blocchi di grès agli angoli (collegati da muretti dipinti all’antica con marmi, drappi, fogliami). L’accesso alla tomba avveniva scendendo dei gradini da occidente. Anche nelle fasi successive, di cui non tratteremo, la tomba fu sempre collocata all’esterno del coro liturgico, in modo da essere accessibile ai pellegrini. Nel XIII secolo si costruì un monumento gotico, con i due abati gisants, di cui restano disegni e sculture. L’accesso era ancora a ovest e delle fenestellae si trovavano a sud e a est (verso il coro). È certo che il pellegrinaggio sia stato incentivato e sia stato importante per secoli171. Pascale Chevalier ritiene che la tomba ritrovata fosse quella di Odilon, mentre Mayeul vi sarebbe stato associato solo nel 1095; ma Gautier, riesaminando con puntualità la documentazione scritta, ha dimostrato che la tomba doveva essere quella di Mayeul (associata all’altare della Croce, che era l’altare dei laici, esterno al coro), mentre la sepoltura di Odilon rimase probabilmente sempre nel braccio sud del transetto172. Il monumento gotico celebrava forse solo un culto comune, ma nessuna fonte parla di una tomba «unificata». Gautier lascia aperta la questione se i pellegrini entrassero da ovest (facciata) o da nord (cimitero dei laici e strade da Nevers e Autun), ma essendo il portale nord una semplice ipotesi, la prima soluzione è di gran lunga la più plausibile. Se tuttavia l’altare della Croce si fosse trovato nella campata antistante (ipotesi di Gautier, non ancora confermata dagli scavi), il tragitto assiale sarebbe stato ostacolato, o almeno «deviato». Esiste dunque anche la possibilità alternativa che i pellegrini scorressero

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fra l’altare stesso e la tomba, potendo introdurre oggetti a «contatto» tramite il foro del lato sud del coperchio. Anche la chiesa-santuario di Saint-Eutrope a Saintes ebbe origine in contesto cluniacense, dopo l’aggregazione a Cluny del 1081. Eutrope fu l’apostolo del Saintonge, tra III e IV secolo. La Guida di Santiago celebra una chiesa importante (quella costruita fra fine XI e XII secolo) e addirittura riporta la narrazione agiografica del santo. Nel 1096, il 20 aprile, Urbano II consacrò l’altare superiore, e il vescovo Ramnulfe l’altare inferiore. Quindi, il chevet in parte doveva essere costruito, ma i lavori non erano così avanzati come talora si è pensato173. Nello stesso 1096 ebbe luogo il solenne trasferimento della capsa di Eutrope, che esiste ancor oggi. È proprio la zona orientale della chiesa, strutturata su due livelli, che è sopravvissuta, ma la parte più stupefacente è la cripta a tre navate lunga m 35,50, con pilastri compositi polistili, potenti archi torici e volte a botte con penetrazioni174. I due livelli sovrapposti includono un transetto, un profondo santuario e un deambulatorio con tre cappelle radiali. La navata centrale, distrutta dopo il 1803, aveva due file di quattro pilastri. Dalla navata centrale si scendeva gradualmente, in linea as-

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70. Planimetria della cripta della chiesa di Saint-Eutrope, Saintes (da Vergnolle). 71-72. Cripta della chiesa di Saint-Eutrope, Saintes, da ovest e dall’ambulacro.


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siale, verso la cripta. Dei gradini erano posti sia all’ingresso della chiesa, sia a metà circa della navata, sia in fondo ad essa175. Nella prima campata lunga (dopo una corta d’ingresso) la quota pavimentale era quella delle navatelle, poi il pavimento si abbassava di 1 m, per due campate, solo nella navata centrale (dalla quale dei gradini laterali conducevano al livello delle navatelle, che consentivano la salita in coro mediante due ulteriori rampe di scale). Infine, si accedeva alla scala che scendeva di 2 m verso la cripta e che occupava solo i tre quarti della larghezza della navata centrale, lasciando un corridoio a nord. Questo sistema ricorda molto quello del Saint-Bénigne a Dijon, di certo noto al committente. Anche in questo caso la cripta era dunque accessibile in linea assiale, e possiamo ritenere che l’oggetto del culto fosse visibile ai pellegrini frontalmente. Tuttavia, la presenza di un ambulacro di cripta (come negli esempi protoromanici) non permette di escludere anche una visita da dietro, confortata dai ritrovamenti176. Non è qui possibile prendere in esame altri esempi 72

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di cripta con accesso frontale assiale (invece dei duplici ingressi laterali)177, ma possiamo almeno ricordare quello di una nota chiesa-santuario italiana che contiene il corpo del santo patrono cittadino: la chiesa abbaziale di San Zeno a Verona. Il prospetto della cripta si apre con tre arcate verso la navata centrale, mentre le scale di salita al coro sono ‘sospinte’ nelle navate laterali178. Bisogna però aggiungere che esistono anche accessi alla cripta dalle navate laterali. Dunque erano previste ambedue le modalità di visita: quella longitudinale e quella a «tratti ortogonali»? Un santuario – coincidente questa volta con una cattedrale –, sorto in contesto collegato alla sede pontificia, alla fine dell’XI secolo, quello della Vergine a Le Puy, offriva come «oggetto» del pellegrinaggio una famosa statua della Vergine, la cui esatta collocazione originaria è però ignota. Secondo Erlande-Brandenburg, i «visitatori» ne percorrevano l’asse longitudinale e si approssimavano alla statua, posta all’esterno del presbiterio, uscendo infine attraverso l’uno o l’altro braccio del transetto179. È certo che l’architetto aveva sfruttato il declivio del terreno in funzione del pellegrinaggio. A partire poi dal 1180180, due nuove campate furono aggiunte alla chiesa a ovest, gettate sopra un portico che conteneva una scala monumentale. Il pellegrino, dopo aver raggiunto la scenografica facciata, sarebbe passato sotto la costruzione e, grazie alla scala «interna», sarebbe sbucato al limite est della quinta campata, a pochi metri dalla statua. Tuttavia, non abbiamo purtroppo notizie sulla collocazione della statua prima del XV secolo, quando è detta a destra del lato del Vangelo, di fronte alla capsa di san Donnino, che sta a sinistra. Barral i Altet sospetta un’ubicazione della Vergine, come in altri casi, dietro o sopra l’altare (l’altar maggiore fu rinnovato nel 1720 e la statua posta sopra questo, dove si conservò fino alla Rivoluzione)181. I pellegrini l’avrebbero vista in fondo all’abside, attraverso il coro dei canonici, «a meno che il dispositivo del XV secolo, che la piazza a destra dal lato del Vangelo, non sia già esistito a quest’epoca [romanica]». Le due opposte teorie (di Erlande-Brandenburg e di Barral i Altet) sarebbero compatibili se – come accadeva nel santuario di San Pietro al Monte di Civate – l’altare maggiore del Puy si fosse trovato in origine davanti al coro, cioè verso la navata liturgica (contrariamente alla «norma» medievale). In questo caso i fedeli avrebbero potuto vedere a poca distanza, ma protetto dai cancelli, l’altare stesso e la statua al di sopra. 73

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La chiesa lombarda di San Pietro al Monte di Civate (Lecco) è un caso di santuario ancora straordinariamente leggibile, grazie alla sopravvivenza – pur parziale – di «complementi decorativi» (pittura, stucco) che, agli inizi del XII secolo, rivestirono l’architettura dell’XI secolo. È stato possibile ricostruire un percorso di pellegrinaggio sulla base di due dei quattro portali originari sopravvissuti182. I pellegrini entravano da est attraverso un vestibolo semicircolare e si dirigevano in linea assiale verso le reliquie degli apostoli Pietro e Paolo, contenute in una cavità dell’altare. Quest’ultimo non era solo occidentato (come quello della chiesa romana del Vaticano, in rapporto alla dedica a Pietro), ma era anche «proiettato» verso la navata liturgica, sul filo dei cancelli divisori, per essere accessibile visivamente ai pellegrini. Contro la «regola» medievale, il sedile (in muratura) del coro finì dunque addossato all’abside, come l’alto coro di San Pietro in Vaticano e secondo la «norma» paleocristiana. Effettuata la visita alle reliquie, era possibile imboccare le scale per l’oratorio della Vergine (cripta), oppure uscire dalla chiesa tramite il vicino portale nord e scendere il declivio verso un sacello dedicato al Battista183. La chiesa doveva essere interamente dipinta, a partire dalle figure esterne, sopra il portale est, di Pietro e Paolo che ricevono le Chiavi e la Parola divina (il mandato) da parte di un Cristo-Porta a mezza figura. Un titulus latino costituisce l’invocazione/richiesta dei pellegrini: «Concedi a noi, gravati dal peso della colpa, di entrare attraverso le porte di giustizia dedicate a Pietro e Paolo». Il Cristo qui è veramente «porta di salvezza» (Gv 10,9), al punto tale da coincidere col portale nella metà inferiore. Le immagini erano «lette» in parte da ovest, cioè dal coro («punto di vista» dei monaci), in parte da est,

73. Sezione longitudinale con scala sottostante la zona ovest della cattedrale di Le-Puy (da Barral i Altet). 74. Cristo tra Pietro e Paolo, particolare dell’affresco del portale d’ingresso della chiesa di San Pietro al Monte, Civate. 75. Navata verso l’altare, San Pietro al Monte, Civate. 76. Planimetria e percorso di pellegrinaggio in San Pietro al Monte, Civate: 1a-b) alternative per l’accesso; 2) altare-reliquiario dei santi Pietro e Paolo; 3-4) scale di discesa alla chiesa inferiore o cripta e di risalita; 5) cortile; 6) scala esterna di discesa; 7) piano inferiore dell’emiciclo; 8) sacello di San Giovanni Battista.

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cioè dai pellegrini durante il loro percorso di avvicinamento alle reliquie184. Attraversato il portale est, questi ultimi si trovavano ai lati le figure di due pontefici (Marcello e Gregorio Magno), in atto di accogliere catecumeni e penitenti, cioè loro stessi in metafora. Sopra la loro testa la rappresentazione della Gerusalemme celeste (da Ap 21-22) era una promessa di salvezza e nella volta successiva le personificazioni dei Fiumi del Paradiso versavano idealmente su di loro otri di «acqua di vita». Dunque, si volle significare che l’ingresso stesso nel santuario era una promessa di redenzione. Qui lo spazio liturgico e lo spazio «virtuale» dipinto dialogano per espliciti rimandi. Ma il luogo difficilmente raggiungibile del monte di Civate e il santuario di modeste proporzioni non possono essere stati destinati a grandi folle. Occorre dunque pensare a un santuario per un pellegrinaggio penitenziale «specializzato»185. Un altro celebre santuario apostolico, ubicato infatti sulla via Romana, fu a Milano quello dei Santi Apostoli, fondato dal vescovo Ambrogio nel 386, e da lui stesso arricchito prima con reliquie apostoliche, poi con quelle di san Nazaro (poste nell’absi-

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de). L’impianto cruciforme (navata unica con bracci di pseudotransetto «a celle») era stato pensato come immagine trionfale e simbolica della Croce/vittoria di Cristo da Ambrogio, e venne «confermato» in epoca romanica, quando la chiesa fu rimodulata con campate coperte da volte a crociera costolonata. La campata a cupola dell’attuale incrocio possiede un tale respiro spaziale e proporzionale da rendere accettabile l’ipotesi che qui siano sempre state ubicate le reliquie apostoliche186. Nel 1579 Carlo Borromeo le avrebbe infatti ritrovate sotto l’altare dell’incrocio. Nella prima visita pastorale (1567) del Borromeo l’altare maggiore (che si trovava sotto la cupola) era dedicato a san Pietro e sovrastato da un ciborio187. Anche qui, come a Civate, è documentata la reliquia di un braccio di san Pietro188. Naturalmente la documentazione è tardiva, ma l’ipotesi che anche in età romanica la navata fosse concepita per un percorso rettilineo longitudinale in direzione dell’altare delle reliquie non appare incongrua. Nella Milano di età medievale avremmo, secondo l’ipotesi che qui proponiamo, un secondo caso di «visita longitudinale» alle reliquie: quello di Sant’Eustorgio189. Non è questa la sede per riprendere in considerazione questo edificio di grande interesse (preceduto da una chiesa cimiteriale paleocristiana), che attende ancora un valido studio monografico. Va però almeno detto che le ipotesi formulate in passato su tempi o fasi diverse della costruzione romanica (a motivo del duplice sistema di alternanza dei sostegni a ovest e a est) non hanno ragion d’essere190. Fu solo nella fase domenicana (XIII secolo) che vennero rimodulate le parti superiori e fu prodotto un nuovo sistema voltato a «sala». Nella VI e VII campata si leggono ancora gli attacchi delle arcate della fase precedente, che si collegano al duplice sistema di alternanza. Resta incerta tuttavia la datazione di quest’ultimo, e persino se esso sia contestuale all’abside esterna con fornici e muratura ad opus spicatum. La McKinne l’ha datato plausibilmente 1128-1140 circa191, pur distinguendo due fasi. Comunque sia, la chiesa anche dopo il «restauro» domenicano risulta chiaramente bipartita per connotare gli spazi liturgici e non in ragione di fasi costruttive diverse: la zona ovest (dei laici) è costituita di quattro campate, il coro (zona est) ancora di quattro campate, e il santuario di una campata (voltata a botte). Le prime due zone dovevano essere separate da un tramezzo, sopra il quale, nel 1288, secondo la testimonianza di Galvano Fiamma, dovette essere innestato in medio

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ecclesiae il grande Crocifisso dipinto ancora conservato192. Le arcate della quarta campata da ovest sono più alte di quelle delle precedenti tre campate: forse qui oppure nella campata vicina a est (cfr. C. Travi, in «Arte Lombarda», c.d.s.) doveva essere collocato l’altare dei laici, oppure (ipotesi non necessariamente alternativa) un diverso polo cultuale (reliquie?). Entra in gioco a questo punto il noto capitello (prima metà del XII secolo?) che si vuole rappresenti la traslazione delle reliquie dei Magi, che è collocato esattamente sulla linea divisoria delle due zone liturgiche193. Secondo la leggendaria Vita Beati Eustorgii Confessoris (redatta però a Colonia nel tardo XII secolo) i Magi furono traslati a Milano al tempo di Costantino grazie al greco Eustorgio, funzionario dell’imperatore, che poi fu eletto vescovo della metropoli lombarda. Egli avrebbe trasportato a Milano le reliquie dei tre re in un sarcofago e vi avrebbe eretto una chiesa destinata a ospitarle, ove poi fu sepolto194. Il capitello raffigura un sarcofago su un carro trainato da due buoi, guidato da un uomo con bastone e assistito da un angelo195. La sagoma del sarcofago coincide con quello ancor oggi nel transetto di Sant’Eustorgio: un monumentale sepolcro tardoantico (forse a destinazione imperiale)196 che la tradizione collega alle

77. Navata, verso l’altare, della chiesa di San Nazaro, Milano.


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78. Spazio del coro della chiesa di Sant’Eustorgio, Milano. 79. Il sepolcro dei Magi, transetto destro della chiesa di Sant’Eustorgio, Milano. 80. Planimetria di Sant’Eustorgio (da Spreafico) con ipotesi aggiunta di tragitto di visita e collocazione delle reliquie dei Magi: M.

reliquie dei Magi (in un lato corto è stata ricavata una fenestella). Naturalmente non è detto che in origine il sarcofago fosse inteso contenere i corpi dei Magi (è stata formulata anche l’ipotesi del corpo di Eustorgio197), ma ciò non toglie che questo o un altro contenitore di reliquie potesse essere posto proprio a metà delle navate, davanti al tramezzo (ingresso del coro). La monumentalità del sarcofago farebbe pensare a una sua collocazione non centrale, per esempio contro il perimetrale della navata laterale sud, dal lato del capitello scolpito. Al centro della navata maggiore si può invece immaginare almeno un altare. Questa ipotesi richiederà comunque ben altri approfondimenti. Al tempo del saccheggio di Milano operato dal Barbarossa (1162), il cancelliere Rainald von Dassel avrebbe portato i corpi dei Magi a Colonia, dove divenne arcivescovo (lo attestano i Gesta Frederici I all’anno 1164). Dopo che Nicola di Verdun eseguì il celebre reliquiario (1182-1190 circa)198, le reliquie divennero meta di un importante pellegrinaggio, iniziato probabilmente già dal 1164. Clemens Kosch suppone che le reliquie si trovassero, dapprima, al centro della navata maggiore dell’antico duomo di Colonia199, dove anche il Dreikönigenschrein di Nicola sarebbe stato associato a un altare. Questa collocazione «riproduceva» forse quella che era già stata «in atto»

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a Sant’Eustorgio, e forse continuava ad essere in opera pur in assenza delle reliquie? Infine, devono essere ritenuti esempi di «tragitto longitudinale» di pellegrinaggio quelli delle chiese-mausoleo dei fondatori degli Ordini Mendicanti: San Domenico a Bologna (post 1228/1229) e San Francesco ad Assisi (post 1228). La prima, in gran parte superstite sotto il restauro barocco del 1727/1733, distingueva una «chiesa dei frati» (coro), voltata, da una «chiesa dei laici», a tetto, divise da un tramezzo. La «chiesa dei laici», a occidente, era anche chiesa dei pellegrini, e possedeva un proprio «santuario» a volte, nel quale due altari si addossavano al tramezzo divisorio. La tomba di san Domenico non si trovava tuttavia al centro, ma sulla destra, contro la parete della navata laterale200. Ai pellegrini dunque non era forse consentito di vederla frontalmente, ma il loro percorso di avvicinamento era comunque in linea assiale, da ovest verso est. La stessa cosa si può ritenere avvenisse (ma da est verso ovest) nella chiesa inferiore di San Francesco ad Assisi, concepita come criptamausoleo. Francesco venne sepolto al centro dell’incrocio del transetto, sotto l’altare (uno degli elementi che collegano la chiesa «pontificia» di Assisi all’antica San Pietro). Anche in questo caso, dunque, i pellegrini procedevano in senso rettilineo longitudinale verso la tomba, pur senza avere la possibilità di vederla201. Il «tragitto» rettilineo longitudinale è stato assai meno frequente dell’ambulacro, ma quale ne è stato il «modello», se così si può dire? La chiesa al monte di Civate può indirizzarci sulla pista giusta. È possibile che il duplice orientamento della chiesa (ad absidi opposte) fosse voluto per materializzare ambedue gli orientamenti delle chiese romane degli apostoli: il San Pietro occidentato e il San Paolo orientato, pur trovandosi le rispettive reliquie nell’unico altare (stando alla Chronica Danielis del XIV secolo)202. L’occidentazione, richiesta dalla dedica principale a San Pietro, è certo dominante, come si evince dall’altare verso ovest e dall’abside est forata dal portale e sezionata in due cappelle laterali absidate e in un vestibolo centrale per consentire il percorso verso ovest dei pellegrini. Tuttavia, l’eco di San Paolo fuori le mura sarebbe riconoscibile – oltreché nella sovrapposizione altare/confessio delle reliquie – nella posizione dell’altare a ridosso della navata liturgica, seppure protetto da cancelli e non accessibile. Quest’ultimo aspetto fu caratteristico del santuario ostiense che, come quello vaticano, ebbe un riassetto del-

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81. Nicola da Verdun, L’Arca dei Magi, 1182-1190. Duomo di Colonia. 82. Planimetria del duomo di Colonia e posizione ipotetica (al centro della navata di mezzo) del reliquiario dei Magi (da Kosch). 83. Planimetria della chiesa di San Domenico, Bologna (da Alce). 1) «chiesa dei laici»; 2) «chiesa dei frati»; C e D) altari di Santa Maria e San Pietro Martire; E) arca e altare di San Domenico. Alla pagina seguente: 84. Navata centrale della basilica di San Paolo fuori le mura, Roma.

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l’area presbiteriale ad opera di Gregorio Magno203, il pontefice che si trova rappresentato nel vestibolo di Civate. Si consideri che, in questa fase, l’altare di San Paolo ebbe un’apertura schermata da una grata (un possibile «modello» per Civate), attraverso la quale era possibile vedere le lastre dell’antica memoria e calare dei brandea204. Filippi e de Blaauw (2000) hanno ricostruito archeologicamente la fase gregoriana della basilica (590-604), dopo quella di Leone I. Gregorio Magno avrebbe previsto la sovrapposizione altare-tomba (per poter celebrare sulle reliquie), la presenza di una «cripta» (per consentire l’avvicinamento alla tomba/memoria), la cattedra dietro l’altare (ambedue entro un recinto di colonne trabeate). Questi elementi erano in comune con San Pietro, anche se non conosciamo la forma della cripta (certo a corridoio). La trabeazione del recinto divenne marmorea sotto Leone III (795-816), al cui tempo la cripta era accessibile. I disegni del Panvinio mostrano l’assetto presbiteriale: una scaletta dietro il recinto absidato permetteva l’accesso alla cripta, ma questa era normalmente aperta al pellegrinaggio? A questo proposito sono state formulate teorie opposte. Beat Brenk ha sottolineato che la caratteristica di San Paolo, rispetto a San Pietro, era di avere la tomba dell’apostolo vicino all’arco

trionfale, forse per venire incontro al desiderio dei fedeli di vicinanza fisica: «i pilastri a T evidenziano lì che il transetto non doveva essere calpestato»205. Al contrario, Hugo Brandenburg ritiene che il transetto fosse accessibile fin dall’origine ai pellegrini, che con Gregorio Magno lo fosse solo dalle navate laterali, e che la cripta gregoriana consentisse un accesso diretto alla tomba dell’apostolo206. La questione resta aperta, ed è anche possibile che papa Gregorio pensasse a dei pellegrini «privilegiati». In ogni caso, qui non interessa ciò che avvenne a San Paolo, bensì il fatto che il «tragitto assiale longitudinale» potesse prendere le mosse dall’assetto dell’antica chiesa «dei tre imperatori» di San Paolo fuori le mura (post 383), cioè dalla collocazione dell’oggetto del culto a ridosso della navata liturgica. Si osservi che quasi tutte le chiese del «tragitto longitudinale» che abbiamo preso in esame sono in un modo o nell’altro collegate a Roma. Fulda lo era anche prima della fase di Ratgar; Dijon, Souvigny e Saintes erano chiese cluniacensi e Guglielmo da Volpiano era stato a Roma; Le Puy era collegata alla sede pontificia; che la chiesa di Civate sia «romana» è attestato già nel XIV secolo; San Nazaro/Santi Apostoli a Milano si trova sulla via Romana; San Francesco ad Assisi era basilica papale, e non possiamo certo considerare meno collegate alla sede pontificia le chiese domenicane, come sono San Domenico a Bologna e Sant’Eustorgio a Milano. Conclusioni. La motivazione «discriminante» dei tragitti: l’accesso dei pellegrini al santuario

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Si è visto che, in genere, i pellegrini non avevano accesso diretto alle reliquie; erano invece offerte alla loro visione delle capsae o teche, delle tombe, degli altari, delle statue, oppure delle memorie, a volte a debita distanza (Verona, Feltre), o addirittura in un vano separato inaccessibile (Orléans, Santiago, Toulouse), a volte a distanza ravvicinata (Dijon, Souvigny). Dovevano essere inoltre non rari i casi in cui erano proposti più poli/oggetti di culto, riuniti oppure dislocati lungo un percorso di pellegrinaggio (Chartres, Saint-Savin, Autun, Canterbury). La cripta semianulare gregoriana (590-604) di San Pietro in Vaticano offrì al Medioevo la soluzione che consentiva di mantenere l’antica posizione absidale delle reliquie (sovrapponendovi l’altare) e nello stesso tempo di garantire l’avvicinamento dei pellegrini e la separatezza delle celebrazioni nel so-

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prastante santuario. Nel caso di ubicazione delle reliquie post altare (dietro l’altare), secondo l’antico uso merovingico, l’ambulacro portato alla quota del santuario consentì, in tanti contesti del Medioevo europeo, di rendere compatibili le medesime esigenze. Detto questo, si può però dubitare che, in genere, il «tempo del pellegrinaggio» dovesse per forza coincidere con il «tempo delle celebrazioni eucaristiche»; inoltre non ci è dato sapere a quali «categorie» di pellegrini di volta in volta ci si rivolgesse. L’assetto di San Paolo fuori le mura, cioè la vicinanza delle reliquie o della memoria alla navata liturgica (che in verità preesisteva all’intervento gregoriano, che sovrappose alla tomba l’altare), fornì invece al Medioevo la soluzione per chi volesse optare per un prudente allontanamento dei pellegrini dal santuario. Se per la cripta anulare fu San Pietro a «fare scuola», è possibile che San Paolo fosse talvolta il «modello» di chiese che optarono per la soluzione di tenere i pellegrini fuori dal santuario, pur senza escluderli dalla vicinanza fisica o dall’accesso visivo ai contenitori delle reliquie. È vero che nel primo caso i fedeli avrebbero in realtà «aggirato» il coro e il santuario, che erano comunque recintati, ma è anche vero che la «libertà» dei chierici sarebbe stata in qualche misura più condizionata. Di fatto, la seconda soluzione fu assai poco frequente. In ambedue i casi la presenza di cripte produsse un’ulteriore «separazione» fra clero e fedeli (l’«esplosione» delle cripte avviene nell’XI secolo, parallelamente a quella del culto delle reliquie). Roma sembra dunque alla radice sia della modalità di visita «semianulare» (chiese ad ambulacro, cripta gregoriana di San Pietro) che di quella «longitudinale» (San Paolo). È chiaro che mi riferisco solo al «tragitto di avvicinamento», e non all’inizio e alla conclusione di un percorso generale, che ha caratteristiche proprie di contesto in contesto. In linea di massima, la «modalità» semianulare richiede un’uscita diversa dall’entrata, mentre quella «rettilinea» può contemplare un «ritorno» coincidente con l’andata o a ridosso di questa e parallelo (ma non necessariamente: si vedano Le Puy e Civate). Riguardo all’ambulacro, possiamo distinguere, sulla base di quanto già visto, delle fasi evolutive. Prima si crearono a Roma le chiese cimiteriali ad ambulacro con l’idea di estendere lo spazio per sepolture dietro l’abside (che non esclude altre funzioni: collegamento con la catacomba, processioni, se non lo stesso pellegrinaggio). In un secondo tempo, ci si accorse del possibile ruolo dell’ambulacro

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85. Restituzione longitudinale e planimetrica della basilica di San Paolo fuori le mura a Roma prima degli interventi di Sisto V, con la tomba/altare dell’apostolo Paolo a ridosso della navata liturgica (da Docci). 86. Restituzione planimetrica del recinto gregoriano della tomba/altare di San Paolo, con ipotesi della cripta sottostante (da Tolotti).

per il pellegrinaggio (Beligna di Aquileia, cripta anulare di San Pietro). È ora che si produce la problematica dell’accesso dei pellegrini al santuario, fondamentale per i secoli successivi. In un terzo tempo (età carolingia) il deambulatorio (semicircolare o a corridoi angolari) rimase collegato alle cripte, ma fu proiettato anche al piano soprastante (Auxerre, Flavigny). Inoltre, il corridoio iniziò a circondare una confessio a «sala» verso l’interno, e a immettere in oratori o camere funerarie verso l’esterno. Ciò rende chiaro che non poteva più avere soltanto una relazione col pellegrinaggio, ma anche con il clero. I «casi» ottoniani di Verona e Ivrea lo fanno esplicito: se il piano basso è con ogni verosimiglianza ad uso dei pellegrini, il piano alto è plausibilmente ad uso dei chierici: una sorta di «banco» presbiteriale o corale per officiare sulle reliquie dei santi, ubicate nell’abside interna, al piano basso. L’Italia opta così, in questi casi, per la soluzione «ridotta»: il «vecchio» corridoio di scorrimento, su due livelli. La coeva ripresa in Francia (agli inizi dell’XI secolo) del «tipo» Auxerre prevede invece veri deambulatori su due piani, sia in

cripta che attorno al santuario superiore (Saint-Aignan a Orléans, Tournus). In cripta l’ambulacro circonda una «sala» con navatelle sempre più ampia, che s’avvia a diventare a «oratorio» e ad eliminare l’ambulacro stesso. La regolarizzazione delle cappelle radiali indica inoltre la volontà di utilizzare il peribolo come circuito nodale per oratori o camere funerarie (in cripta), per altari (al livello alto), talora per vere e proprie aule di culto secondarie (cripte di Chartres e Rouen). In età romanica il deambulatorio assume parvenze sempre più significative: la reliquia principale o l’oggetto del culto si trova spesso nell’abside interna, come documentano numerosi esempi; ma anche gli altari delle cappelle radiali possono diventare a loro volta «oggetti» di visita (così forse a Santiago). È stata lanciata anche per Cluny III (1088-1130) la suggestione che la presenza di importanti reliquie richiamasse un pellegrinaggio di laici207. Non esistono indizi puntuali di ciò, ma è vero che a Cluny, e in uno dei pochi casi italiani con ambulacro – San Benedetto in Polirone (chiesa derivata da Cluny III) – il venerdì santo era esposta nell’abside interna, per l’Adoratio, la croce, un «surrogato» delle reliquie: fertur crux retro maius altare, ut a popularibus adoretur208. I laici accedevano dunque all’ambulacro, almeno in questa occasione. Tra XI e XII secolo il deambulatorio ha un vero e proprio exploit in Francia. Gli altari delle cappelle radiali dovevano servire ad aumentare i luoghi di celebrazione per le messe private di monaci e canonici, ma anche come stazioni processionali (un circuitus orationum esisteva fin dall’età carolingia)209. L’ambulacro era anche un percorso di disimpegno: collegava zone opposte della chiesa e del monastero senza interferire con il santuario e con il coro, dove si officiava quasi continuamente. Ciò indica che era divenuto dall’originaria «forma strutturale», attraverso il passaggio di una «struttura funzionale», una struttura ormai «polifunzionale». La sua destinazione era al clero non meno che ai fedeli, e in rari casi deve essere esistito un deambulatorio solo «di pellegrinaggio» (per questo esistono dei «tragitti» ma non degli «elementi architettonici» di pellegrinaggio). Nelle cattedrali gotiche l’ambulacro assumerà forme sontuose, e le sue cappelle esibiranno tombe, reliquiari, pale d’altare. Già nella sugeriana SaintDenis le pareti «svuotate» delle cappelle erano diventate luce/colore in figura (vetrate). In qualche modo si trattava di una nuova versione dell’antica «forma strutturale»: il cerchio era chiuso.

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1. Angelo e diavolo si contendono un’anima, capitello della torre del portico, Saint-Benoît-sur- Loire.

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SCULTURA ROMANICA E LITURGIA Marcello Angheben

Fino al X secolo il decoro monumentale delle chiese si compose essenzialmente di mosaici e dipinti murali ma, a partire dall’anno Mille, si estese gradualmente alla scultura lapidea, che conobbe allora una diffusione senza precedenti, concentrandosi sui capitelli e sugli arredi liturgici all’interno dello spazio cultuale e, all’esterno, sui portali, i protiri e le facciate-frontespizio, tre creazioni fondamentali del periodo romanico (secoli XI-XII)1. A questa progressione quantitativa si somma un inedito sviluppo della figurazione. Dal secondo decennio dell’XI secolo appaiono nel portico di SaintBenoît-sur-Loire i capitelli istoriati2 mentre, verso il 1040, Acceptus produce nel nord della Puglia due amboni e una cattedra episcopale in marmo ornati di figure umane e animali3. Le prime facciate-frontespizio si trovano verso la metà del secolo a Saint-Mexme de Chinon e Azay-le-Rideau, precedendo di circa una generazione i primi portali istoriati (Jaca, Charlieu, Toulouse, Compostela) e i primi protiri (Modena, Bari)4. I temi trattati su questi supporti corrispondono in parte a quelli che si continuava ad affidare alla pittura o, più di rado, al mosaico: teofanie, Madonne con il Bambino, episodi biblici, agiografici o escatologici. Ma accanto a quest’iconografia religiosa si è sviluppato un repertorio «profano» infinitamen-

2. Capitello corinzio della torre portico con animali soprastanti, Saint-Benoît-sur- Loire. 2

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te più esteso rispetto a quello della pittura murale: lotte tra uomini, tra bestie, animali divoranti o minaccianti, bestiari, motivi vegetali5. In molti casi questi temi sembrano aver assunto un significato religioso, i comportamenti di uomini e animali servendo da exempla tanto ai fedeli quanto agli uomini di chiesa6. Sarebbe allora opportuno integrarli in una riflessione di ampio respiro sui rapporti tra la scultura monumentale e lo spazio liturgico. Tale riflessione riguarderà principalmente i temi eucaristici sviluppati nello spazio liturgico, ma affronterà anche la strutturazione stessa degli spazi: occorrerà infatti interrogarsi sul contributo che la scultura monumentale dei secoli XI-XII ha fornito alla strutturazione degli spazi in funzione della loro gerarchia e dei diversi usi liturgici. Questo approccio si basa su un numero relativamente ristretto di ricerche. Generalmente, e spesso a giusto titolo, si attribuisce a questi temi una funzione

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didattica, moralizzatrice, dogmatica o politica, ma è evidente che in numerosi casi l’immagine scolpita si relazionava anche con la funzione primaria degli edifici religiosi: la pratica quotidiana della liturgia e in particolare del sacrificio eucaristico. Essendo i temi iconografici polisemici per loro natura, non è possibile affermare automaticamente che la loro dimensione liturgica fosse quella più importante o almeno quella privilegiata da coloro che li concepirono7. Occorre inoltre poter basare la mia lettura su argomenti fondanti: a volte bastano alcuni indizi iconografici a confermarla, come ad esempio la rappresentazione di un calice, di una patena o di pani segnati da una croce sulla tavola dell’Ultima Cena, ma più spesso gli argomenti emanano dal contesto: posizione, orientazione o temi associati. Ecco perché una lettura di questo tipo richiede uno studio seriale dei temi potenzialmente liturgici e dei programmi nei quali sono sta-

3. Fiancata dell’ambone con il nome di Acceptus (1040 ca.). Cattedrale di San Sabino, Canosa. 4. Lettorino dell’ambone di Acceptus (1041) del santuario di San Michele arcangelo. Museo Lapidario, Monte Sant’Angelo.

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ti integrati, un approccio che definisco «sintattico»8. Un simile lavoro supera chiaramente i confini di questo saggio, per cui mi limiterò a formulare qui alcune ipotesi o piste di ricerca fondate essenzialmente sugli esempi che conosco meglio o i meglio studiati. Tali limiti metodologici spiegano anche perché la riflessione non sia stata estesa anche agli altri spazi liturgici ornati di sculture – chiostri, sale capitolari, refettori –, anche se di recente sono stati pubblicati studi molto pertinenti sull’argomento9. Per prima cosa occorrerà cercare di determinare il contributo della scultura alla strutturazione del luogo di culto con l’accentuazione della gerarchia naturale che separa lo spazio della liturgia da quello dei fedeli. Di seguito, si affronteranno i numerosi temi eucaristici scolpiti nella zona dell’altar maggiore. Bisognerà allora interrogarsi sui rapporti che potevano esistere fra questi temi e quelli, spesso analoghi, delle facciate. E per terminare questa rapida rassegna saranno affrontati altri rituali dei quali si trovano riflessi nella scultura: la liturgia funeraria, la pubblica penitenza, le processioni, il culto dei santi e i drammi liturgici. La strutturazione degli spazi A differenza dell’architettura romanica, che è solitamente tripartita – navata, transetto e coro architettonico – il dispositivo liturgico definisce solamente due zone funzionalmente e gerarchicamente distinte: lo spazio dei fedeli e il coro liturgico, che si suddivide a sua volta in due spazi funzionalmente complementari: il santuario, nel quale si trova l’altare, e il coro dei cantori, che in un primo tempo prese la forma di schola cantorum, per divenire in seguito il coro dei monaci o dei canonici. In rapporto allo spazio riservato al clero, la barriera del coro liturgico può situarsi all’ingresso del coro architettonico, all’ingresso del transetto o nella navata. Questa delimitazione spaziale è segnalata da una recinzione che, a seconda delle epoche e dei luoghi, può prendere la forma di una pergula o templon, di un tramezzo murario, di un jubé (tribuna) o di un pontile10. Nel mondo bizantino, questo recinto – l’iconostasi – si è progressivamente caricato di dipinti, ma nell’Occidente dei secoli XI-XII è stato per lo più supporto a sculture in pietra o stucco. L’importanza quantitativa di questo decoro scolpito ma anche le tematiche che esso veicola, e che tratteremo più oltre, fanno spesso di questa barriera una sorta di seconda facciata interna che

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annuncia, così come moltissime facciate, il decoro sviluppato all’interno dello spazio della liturgia. La delimitazione fisica tra lo spazio propriamente liturgico e quello dei fedeli si effettua inoltre con una sopraelevazione del primo: oggi che la maggior parte dei recinti corali è scomparsa, è proprio questa differenza di livello a consentirci, se autentica, di comprendere l’estensione del coro liturgico11. Infine, quando manca ogni traccia materiale di separazione, non si può comprendere il decoro del coro liturgico se non basandosi su quello del coro, tenendo presente che la frontiera architettonica di questo spazio non corrispondeva necessariamente con la frontiera dello spazio riservato al clero. Come vedremo, la demarcazione gerarchica tra lo spazio della liturgia e quello dei fedeli è spesso sottolineata da una diversa distribuzione dei temi, ma si può sin d’ora osservare che la differenziazione poteva essere evidenziata anche da una discriminazione quantitativa e/o qualitativa della decorazione. Per quel che riguarda gli aspetti architettonici dello spazio chiesastico – apparecchiatura muraria, copertura, modanature – si può osservare come in un certo numero di fabbriche sia stata dedicata alla parte occidentale della chiesa un’attenzione ridotta rispetto alla parte orientale, posto che i lavori avevano proceduto da est a ovest. E per numerose chiese si può supporre che la differenza di trattamento sia dovuta non alla mancanza di mezzi economici ma all’importanza che si dava agli spazi in funzione del loro utilizzo e della loro gerarchia12. Sebbene simili fenomeni siano numerosi e confrontabili, è difficile stabilire una reale intenzionalità nella riduzione quantitativa e/o qualitativa della scultura, che spesso può accompagnarsi a un cambiamento di bottega. Prendiamo in particolare tre edifici tra i più prestigiosi del mondo romanico: a Cluny III, Saint-Sernin di Toulouse e Santiago de Compostela la scultura della navata non è sempre qualitativamente inferiore a quella del coro liturgico, ma l’apparato figurativo mostra una regressione significativa a Toulouse e radicale nei due altri esempi13. La riduzione quantitativa della decorazione può anche riguardare insiemi nei quali la raffigurazione non occupa un ruolo di primo piano: così, nella chiesa d’Issy-l’Évêque (Saône-etLoire), i capitelli del coro e del transetto sono ornati principalmente da motivi vegetali di una certa qualità, mentre i capitelli della navata sono lavorati semplicemente a foglie lisce appena accennate14. Nell’antico ducato di Aquitania, simili esempi di demarcazione sono numerosissimi e meriterebbe-


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5. Personaggio con tralci intrecciati, capitello dell’abside dell’ex collegiata di Saint-Pierre, Aulnay-de-Saintonge.

quale hanno però ripreso alcuni motivi e un’analoga limitatezza del repertorio decorativo. Per il portale, situato qui sul fianco sud, si è invece fatto ricorso alla terza bottega di Aulnay. Di conseguenza il programma iconografico sembra rispettare il principio della valorizzazione del coro e dell’entrata principale messo in opera a Aulnay. La differenziazione degli spazi è ugualmente marcata nei grandi programmi decorativi dell’Alvernia – Mozac, Notre-Dame-du-Port a Clermont-Ferrand, Issoire, Saint-Nectaire. Già da tempo si è visto come i capitelli del rond-point absidale (il semicerchio di colonne libere fra deambulatorio e santuario) comportassero la più forte densità iconografica, costituendo inoltre programmi iconografici relativamente coerenti16. Anche se botteghe diverse hanno lavorato nel rond-point dell’abside interna e nelle altre parti della chiesa, l’intenzionalità di questa differenza di densità non è in dubbio, in quanto distingue il programma del rond-point non solo dalla navata e dal transetto ma anche dal deambulatorio. Nel Poitou, a Saint-Pierre de Chauvigny (Vienne), ritroviamo una concentrazione ancora più evidente di capitelli istoriati nel rond-point e l’insieme del programma decorativo ro perciò uno studio seriale, tanto più opportuno può inoltre essere attribuito alla stessa bottega, il per il fatto che alcune botteghe ivi operanti posso- che conferma l’intenzionalità della demarcazione no essere facilmente riconosciute, come mostra in est-ovest17. maniera particolarmente esemplificativa il caso di Lo spazio liturgico come figura del Cielo Aulnay. La prima bottega, attiva nell’abside e nel o del Paradiso transetto, è caratterizzata dalla profusione del suo repertorio ornamentale e iconografico, mentre la seconda bottega, che ha lavorato essenzialmente La preminenza gerarchica del coro liturgico, che nella navata, ha sviluppato forme estremamente deriva naturalmente dagli atti rituali che si svolgoschematiche, senza eseguire nemmeno un capitello no al suo interno, è notevolmente rafforzata dal istoriato. Infine, la decorazione della facciata è sta- suo simbolismo paradisiaco o celeste. La liturgia o ta scolpita da una terza bottega, che ha ripreso i commentari assimilano spesso l’insieme dello l’esuberanza decorativa e i temi istoriati della pri- spazio cultuale al Paradiso, al Cielo o alla Gerusama distinguendosene però per stile e dimensioni lemme celeste, attribuendo a volte questo simbolidelle figure15. Le due estremità della chiesa – fac- smo specificamente al coro liturgico18: quest’assiciata e spazio della liturgia – sono state chiaramen- milazione in seno allo spazio chiesastico è stata te valorizzate, mettendo in secondo piano lo spa- spesso materializzata, e di conseguenza rafforzata, zio dei fedeli. L’intenzionalità di una simile diffe- grazie alla decorazione. Nelle prime chiese cristiarenziazione è corroborata da un confronto con il ne si è espressa principalmente nelle teofanie absiprogramma strutturalmente analogo della chiesa dali: il Cristo glorioso circondato dai Viventi, da di Varaize. La prima bottega di Aulnay è interve- angeli o da santi, spesso assiso in un giardino nel nuta all’esterno del coro architettonico e probabil- quale scorrono i quattro fiumi del Paradiso o in mente all’entrata del coro, dove avrebbe eseguito una città assimilabile alla Gerusalemme celeste col’unico capitello istoriato posto all’interno del- me a Santa Pudenziana (Roma)19. Queste visioni l’edificio. Nel transetto e nella navata sono interve- celesti si sono mantenute per tutto il Medioevo, nute altre due botteghe mediocri e probabilmente principalmente in dipinti o mosaici absidali; ma in distinte dalla seconda bottega di Aulnay, della molte chiese la scultura ha ugualmente, e spesso in

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grande misura, contribuito a sottolineare la preminenza gerarchica del coro liturgico e la sua dimensione paradisiaca o celeste. Come vedremo nell’analisi tematica, solo raramente le teofanie sono state trasposte sui capitelli giacché questi temi erano generalmente trattati in modo più monumentale nel catino absidale, mentre ricompaiono spesso sulle recinzioni del coro, sui cibori e soprattutto sui decori dell’altare. La dimensione celeste dello spazio liturgico è proclamata anche dalla presenza separata di figure angeliche sull’arredo liturgico e sui capitelli. Uno degli esempi più eloquenti è la recinzione del transetto occidentale della cattedrale di Hildesheim, ove degli angeli stanno seduti nei «pennacchi» dell’arcatura che domina il monumento, occupando così una posizione preminente che conviene idealmente al loro status20. Anche sui cibori di San Nicola di Bari, Ripoll e Santiago de Compostela sono stati raffigurati degli angeli, e ciò è ancor più notevo-

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le se si pensa che nei primi due esempi un angelo porta un pane eucaristico21. A Saint-Sernin a Toulouse li ritroviamo sull’imposta di un pilastro del coro, ove un fregio di teste angeliche sembra far eco agli angeli rappresentati nel decoro scolpito dell’altare22. In maniera ugualmente significativa, a quanto pare, troviamo gli angeli all’ingresso del presbiterio di Orcival e di Sainte-Colombe (Charente)23. A fianco di questi temi che assimilano lo spazio della liturgia al Cielo se ne trovano altri più specificamente paradisiaci. Eccezionalmente il Paradiso può essere evocato direttamente nei suoi quattro fiumi: in Borgogna, li troviamo nei dipinti dell’arco absidale di Berzé-la-Ville e in una serie di quattro capitelli del coro a Cluny e Autun, all’ingresso del coro liturgico ad Anzy-le-Duc e nella campata che lo precede a Vézelay24. Sembra dunque evidente, almeno in questa regione della Francia, l’uso strutturalmente ragionato di questo tema,

6. Teofania, abside della chiesa di Santa Pudenziana, Roma. 7. Ciborio dell’altare maggiore, basilica di San Nicola, Bari. 8. Capitello del ciborio dell’altare maggiore, basilica di San Nicola, Bari. 9. Capitello con i quattro Fiumi del Paradiso proveniente dall’ex chiesa dell’abbazia di San Pietro e San Paolo e conservato presso il Museo del Farinier, Cluny.


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nell’intento di rafforzare il simbolismo paradisiaco dello spazio liturgico25. Altrove, il Paradiso può essere evocato attraverso la sua fauna e flora, ma l’interpretazione paradisiaca di questi temi ampiamente diffusi è difficilmente dimostrabile se non è confortata dal contesto.

Sulle recinzioni di coro troviamo spesso un albero della vita popolato di uccelli o di animali altamente valorizzati come il pavone, ad esempio sui plutei della cattedrale di Torcello26. Questi animali paradisiaci possono anche comparire sul decoro dell’altare e sui capitelli, come nel Sud della Francia, ove gli uccelli figurano su un’importante serie di altari scolpiti tra l’epoca paleocristiana e il periodo romanico27. Questa scelta tematica è particolarmente significativa nel coro di Saint-Sernin di Toulouse, dove uccelli molto simili compaiono tanto sulla mensa del celebre altar maggiore scolpito da Bernard Gilduin quanto su un capitello dei pilastri del coro. Ciò è ancora più significativo in quanto in quello spazio non si trovano animali chiaramente demoniaci ma unicamente uccelli e leoni, i quali ultimi sono per di più sottomessi gerarchicamente ai primi. Un analogo rispetto della gerarchia tra uccelli e leoni si ritrova in Borgogna, in un’importante serie di sei chiese, così come a Notre-Dame-la-

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animali divoranti o minacciosi – e figure demoniache. Sembra logico supporre che si sia scelto di allontanare queste tematiche da un luogo assimilato al Paradiso, un soggiorno celeste accessibile solo agli angeli, ai santi e ai giusti. In pratica, però, non dovevano esservi regole ferree, visto che tali tematiche sono state sviluppate in moltissimi programmi iconografici di cori liturgici: quando invece da questi sono state bandite, occorre dimostrare l’intenzionalità di questo rifiuto caso per caso, basandosi in particolare sulla figurazione di temi liturgici o paradisiaci nel coro liturgico o sulla presenza di figure nefaste nello spazio dei fedeli, che possa stabilire un contrasto marcato tra le due zone. Tale differenziazione è particolarmente apprezzabile in una notevole serie di chiese in Borgogna, come Cluny, Anzy-le-Duc o Saint-Laurent-enBrionnais29, e l’osservazione potrebbe essere estesa ad altri nuclei, ma per dimostrarlo occorrerebbero specifici studi regionali che affrontassero sistematicamente i programmi scolpiti sotto questo punto di vista.

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Grande di Poitiers28. In questi differenti insiemi, l’assenza di animali apertamente rappresentati come minacciosi o demoniaci e la preminenza accordata agli uccelli sembrano sottolineare la dimensione celeste e paradisiaca dello spazio liturgico. I temi eucaristici dei cori liturgici La dimensione ultraterrena può infine essere espressa anche con l’espulsione da questo spazio di scene violente – lotte tra uomini o tra animali, Dovendo affrontare la questione dei rapporti tra

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10. Traditio legis, chiesa priorale di Berzé-la-Ville. 11. I fiumi del paradiso, capitello della navata della chiesa di Anzy-le-Duc. 12. Capitello dedicato ai quattro toni del canto-piano, abbazia di Cluny, Borgogna.


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scultura romanica e liturgia, si sarebbe tentati di iniziare analizzando le rappresentazioni della pratica liturgica, che però sono estremamente rare al di fuori dei cicli agiografici, e non si incontrano affatto nello spazio delimitato dal recinto del coro30. Tra le eccezioni possiamo citare i candelabri di Capua e di San Giovanni del Toro (Ravello), sui quali è rappresentata la cerimonia dell’accensione del cero pasquale31. Possiamo anche menzionare un’evocazione diretta del canto gregoriano, che si effettua però solo tramite le iscrizioni. Due capitelli del rond-point della grande abbaziale di Cluny mostrano quattro musici ciascuno – sebbene la musica strumentale fosse teoricamente proibita all’interno delle chiese – e non dei monaci salmodianti, ma le iscrizioni che li accompagnano evocano gli otto toni del canto gregoriano32. Se questo esempio è prova eloquente che i temi sviluppati nello spazio liturgico possono riferirsi specificamente a una delle sue funzioni, conferma altresì che l’iconografia di solito non illustra in maniera fedele il rituale. Ugualmente può dirsi per i numerosi temi che saranno affrontati in questo capitolo, dato che si tratta per lo più di temi biblici che si riferiscono, più o meno direttamente, all’Eucaristia. Ancora una volta, è l’approccio sintattico che consente spesso di determinare se l’ideatore ha voluto effettivamente evidenziare la loro dimensione liturgica: per questo è opportuno esaminarne la collocazione e i pro-

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grammi iconografici nei quali si inseriscono. Un’attenzione particolare sarà rivolta alle teofanie, che costituiscono il tema più frequente nelle absidi, nei decori dell’altare, e sulle facciate, che approfondiremo nel capitolo successivo. Si affronteranno poi nell’ordine i paradigmi veterotestamentari, i soggetti neotestamentari e, per concludere, il tema dell’animale che si abbevera a un calice. Le teofanie Da molto tempo ormai le teofanie delle chiese orientali sono interpretate in senso liturgico, ma curiosamente tale lettura non è quasi mai stata privilegiata per le innumerevoli teofanie raffigurate nelle chiese romaniche, cominciando da quelle del catino absidale33. Visto che si incentrano quasi sempre su componenti derivate dalle visioni dell’Anonimo e dell’Agnello (Ap 4 e 5), vi si sono generalmente lette delle rappresentazioni della Seconda Parusia, il ritorno del Cristo alla fine dei tempi. Eppure Yves Christe ha dimostrato, basandosi sull’esegesi, che queste visioni divine non dovevano per forza essere situate nel tempo escatologico34. Esistono altri argomenti a supporto dell’attualità di queste visioni e soprattutto del loro legame con la liturgia eucaristica. In quest’ottica, la rappresentazione del Cristo glorioso circondato dai Viventi dell’Apocalisse, da angeli o santi sarebbe destinata a materializzare la sua presenza nella chiesa in mezzo all’assemblea all’inizio del canone della messa, nel momento in cui questa presenza è sollecitata attraverso le parole del Vere dignum. In effetti, la preghiera con la quale comincia il prefazio invoca le gerarchie celesti e Cristo, attraverso il quale gli angeli rendono grazie al Padre35. L’orazione è seguita dal canto serafico del sanctus, derivato sia da Isaia (Is 6,3) che dall’Apocalisse (Ap 4,8). Le illustrazioni del sacramentario comportano generalmente queste figure divine e angeliche, confermando in maniera molto esplicita la loro reale presenza nel luogo di culto al momento in cui queste parole sono pronunciate. Eccezionalmente il sacramentario di Metz (verso l’870) comporta un’illustrazione per il Vere dignum e una seconda per il sanctus; la prima riunisce i nove ordini della gerarchia angelica intorno alla Maiestas Domini – Cristo circondato dai Viventi dell’Apocalisse – mentre la seconda mostra Cristo con a fianco due serafini. Ma nella grande maggioranza dei sacramentari, l’illustrazione del prefazio comporta un’unica immagine, la Maiestas Domini, a

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volte accompagnata da uno o più serafini, oppure un cherubino tetramorfo isolato come nel sacramentario di Drogone36. Nel sacramentario di Saint-Denis (XI secolo), Cristo, circondato dai Viventi, da due angeli e da due serafini, sormonta una cappella nella quale compare un altare, materializzando così la presenza nel luogo di culto di quegli esseri celesti invocati nel Vere dignum. Nel contesto dei sacramentari, la Maiestas Domini si relaziona dunque effettivamente ai tempi presenti e più particolarmente alla presenza di Cristo e dei suoi angeli in chiesa al momento del canone. Questo tipo di teofania si ritrova sulla maggioranza delle pale e dei paliotti d’altare, siano essi in metallo, in legno, in stucco o in pietra. Tuttavia, non sono state quasi mai interpretate in una prospettiva liturgica, sebbene tale interpretazione, tenendo conto delle strette analogie con l’iconografia dei sacramentari e della posizione di queste teofanie, sembra imporsi, in particolare quando Cristo è accompagnato da serafini o da cherubini. Esempio è il paliotto dell’altare di Ratchis (Cividale del Friuli, 737-744) in cui Cristo è affiancato da due angeli che riuniscono gli elementi iconografici propri ai serafini – sei ali – e ai cherubini – le ali costellate di occhi37. Sull’antependium dell’altar maggiore di Saint-Denis, dono di Carlo il Calvo all’abbazia, opera che non ci è giunta ma della quale abbiamo una riproduzione in un quadro del XV secolo, due cherubini volano al di sopra di una teofania nella quale manca la tradizionale rappresentazione dei Viventi, ossia in un contesto iconografico che non presenta alcun riferimento all’Apocalisse38. Su molti altari portatili39 ritroviamo i due ordini superiori della gerarchia angelica. Infine, degli angeli con quattro ali – probabilmente dei cherubini – accompagnano una Maiestas Domini nelle pitture del dossale in muratura di Sant Pere de Terrassa (XI secolo)40. Per i dossali (retables) o i paliotti (antependia), infinitamente più numerosi, in cui non vi sono serafini, cherubini o altre allusioni dirette alle liturgie celesti o terrene, l’ipotesi eucaristica è più difficile da sostenere. Si potrebbe anche considerare che la semplice presenza dei due primi ordini della gerarchia angelica non basti a stabilirla. Tuttavia possiamo presupporre a giusto titolo che il decoro dell’altare dovesse preferibilmente essere in relazione alla sua funzione, analogamente alle decorazioni dei fonti battesimali, dei calici o delle patene, che si riferiscono solitamente alla loro funzione liturgica41. Così è per gli altari portatili, sui quali

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spesso si trovano rappresentazioni dei paradigmi veterotestamentari del sacrificio eucaristico e in particolare i sacrifici menzionati nella preghiera Supra quae che affronteremo più oltre: quelli di Abele, di Melchisedech e di Abramo. Li incontriamo insieme o separati sugli altari portatili di Darmstadt42, del Musée National du Moyen Âge a Parigi43, di Osnabrück44, di Berlino45, di Mönchengladbach46, di Colonia47, di Bamberga48 e di Stavelot49: la maggior parte di queste opere comporta una teofania, una Maiestas Domini o Cristo circondato dagli apostoli50. In modo ancor più significativo, l’altare portatile di Hildesheim presenta insieme al Cristo, circondato dagli apostoli e dalla Vergine, un sacerdote officiante davanti a un altare sul quale sono preparati un calice e una patena51. Su questi altari, di tipo particolare, il legame tra teofania e liturgia eucaristica sembra evidente, per cui vi sono forti probabilità che le teofanie dei dossali e degli antependia siano anch’esse in relazione con la presenza divina nella chiesa al momento del sacrificio dell’altare. Questa interpretazione è comunque molto più appropriata alla funzione di questo supporto di quella del ritorno di Cristo alla fine dei tempi. Anche sulle teofanie absidali sono possibili analoghe osservazioni. La teofania, comparsa molto presto, rimase per tutto il Medioevo il tema dominante di questo punto focale dello spazio cultuale. Nelle chiese copte, la loro dimensione eucaristica è confermata da due indizi iconografici: la menzione del trisagion sul libro tenuto da Cristo nella sala 6 e nella cappella XVII di Bawit, un pane eucaristico e un calice tenuti rispettivamente da san Pietro e san Paolo nella cappella XLV dello stesso sito52. In Cappadocia questa dimensione ha trovato espressione soprattutto nelle numerose immagini di serafini e di cherubini che circondano Cristo53. Anche in Occidente le teofanie absidali hanno ospitato presto figure angeliche. A Santa Maria Antiqua (757-767) a Roma, il Cristo del catino è affiancato da due cherubini tetramorfi54. Sempre a Roma ma un secolo più tardi, i dipinti di Santa Maria de Gradellis o in Secundicerio (872-882) hanno combinato una Maiestas Domini con due angeli a sei ali55. A partire dall’XI secolo, le composizioni di questo tipo si sono moltiplicate in maniera esponenziale56. Ne troviamo una notevole concentrazione in una regione di confine tra la Catalogna spagnola e la Francia (Ariège): Saint-Pierre a Montgauch, Sainte-Marie a Vals (Ariège), Santa Maria e San-

13. Miniatura del Sanctus del sacramentario di Metz (870 ca.). Bibliothèque Nationale, Parigi.


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Clemente a Taüll, Sant Serní a Baiasca, Santa Eulália d’Estaon, Sant Pau a Esterri de Cardós (Lérida), Sant Tomás de Fluviá e Santa Eulália a Vilanova de la Muga (Girona). In queste teofanie compaiono regolarmente, oltre alle immagini già citate, gli arcangeli Michele e Gabriele, ai quali tradizionalmente spetta il titolo di avvocati in ragione delle iscrizioni che li accompagnano57. Questa serie è tanto più importante per il fatto che contiene tre indizi iconografici che ne confermano la valenza eucaristica: per cominciare, il cherubino e il serafino che circondano la Maiestas Domini di

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Estaon sono accompagnati dalla tripla invocazione del sanctus; inoltre, a Vals ed Esterri de Cardós questi stessi angeli reggono un turibolo, come si vede anche a Maderuelo (Segovia). Nella liturgia dell’altare, il principale incensamento durante le messe ordinarie è praticato sulle sacre specie dopo l’offertorio, proprio prima del prefazio durante il quale sono appunto evocate le gerarchie celesti58. Infine, a Esterri de Cardós, sono rappresentati ai piedi degli angeli alcuni oggetti liturgici tra cui un calice: questo terzo indizio sembra confermare che il cherubino e il serafino incensano le sacre

14. Veduta generale dell’abside Hach Kilise, Kizil Cukur. Il Cristo in trono è circondato dai simboli degli evangelisti, da un serafino, cherubino e arcangeli. 15. Teofania, abside della chiesa di San Clemente, Taüll.


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specie offerte a Dio nel momento in cui il celebrante o un accolito pratica quest’atto attorno all’altare. Questa composizione doveva permettere ai chierici e ai fedeli di visualizzare la realtà immateriale della liturgia celeste che avveniva contemporaneamente alla liturgia terrena, come evocavano i testi e in particolare i canti e le orazioni del canone della messa. La dimensione eucaristica delle teofanie absidali, a parte la serie citata, può trasparire attraverso altri indizi iconografici. Nel catino absidale di Saint-Nicolas a Tavant, Cristo è circondato dai Viventi, da semplici angeli e da due angeli a sei ali su ruote di fuoco che combinano, come sull’altare di Ratchis, caratteristiche proprie ai serafini – le sei ali – e ai cherubini – le ruote di fuoco. Ma qui la cosa più

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notevole è che gli angeli tendono verso il Cristo oggetti nei quali si possono riconoscere ostie e calici. Essi rappresenterebbero quindi in maniera incredibilmente letterale l’angelo del sacrificio invocato nel Supra quae e nel Supplices affinché porti all’altare divino, davanti alla divina maestà, il sacrificio offerto sull’altare terreno59. Si ripropone qui, come già per i dossali e gli antependia, il dubbio sull’applicabilità di questa lettura eucaristica alle teofanie sprovviste di indizi iconografici così espliciti, e generalmente si possono avanzare le stesse. Da un lato, sembra legittimo privilegiare un’interpretazione conforme alla funzione del luogo, dall’altro, queste composizioni sono spesso accompagnate da paradigmi veterotestamentari del sacrificio eucaristico, come si vedrà successivamente.

16-17. Cherubino e serafino, lastre inserite nel deambulatorio, chiesa di Saint-Sernin, Toulouse. 18. Maiestas Domini, lastra scolpita nel deambulatorio della chiesa di Saint-Sernin, Toulouse.

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Prima di passare alla scultura occorre ancora precisare che l’interpretazione liturgica delle teofanie absidali non implica un’esclusività e ad essa possono sovrapporsi altri livelli semantici, una lettura dogmatica – particolarmente in relazione con la questione della presenza reale60 – oppure politica61; ma in mancanza di indizi iconografici sostanziali queste letture risultano difficilmente dimostrabili62. Dato che la lettura eucaristica è poco diffusa nella storiografia, potrebbe sembrare prematura o azzardata una sua trasposizione alla scultura monumentale. Questo saggio mi sembra però l’occasione per abbozzare a larghe linee i contorni di quest’ipotesi, riservando a ulteriori pubblicazioni le ricerche approfondite che merita. Il legame tra teofanie absidali e scultura monumentale è chiaramente stabilito dai rilievi scolpiti attribuiti a Bernard Gilduin – che probabilmente costituivano l’antependium dell’altar maggiore –, inseriti nel deambulatorio di Saint-Sernin a Toulouse63. Il rilievo centrale mostra una Maiestas Domini mentre i due laterali contengono ciascuno un angelo a due ali che porta un filatterio, la cui iscrizione menziona il sanctus e qualifica il suo proprietario rispettivamente come cherubino a sinistra e serafino a destra. Dato che il serafino è al vertice della gerarchia angelica, a rigor di logica il suo posto dovrebbe essere alla destra del Cristo e non alla sua sinistra, ma questa inversione gerarchica è esplicitamente menzionata dall’iscrizione dell’arco e sembra di conseguenza esser stata pienamente voluta dall’ideatore, tanto più che la si ritrova, tranne un caso, nell’intera serie delle teofanie catalane e dell’Ariège ricordate più sopra. Una così stretta parentela strutturale conferma che la teofania dell’altare corrisponde a quella dei catini: l’affinità si estende altresì alla tripla invocazione del sanctus, che stabilisce fermamente nei due casi un legame con la liturgia eucaristica. A Toulouse questo legame è ulteriormente rafforzato dalle parole pax vobis sul libro mostrato da Cristo, poiché le parole pronunciate dal Risorto sono riprese dal sacerdote al momento della colletta64. Sul fronte delle tribune di Serrabone e Saint-Michel de Cuxa troviamo composizioni analoghe. La tribuna di Serrabone, come ha di recente sostenuto Eduardo Carrero in modo molto convincente, è stata probabilmente concepita per il luogo ove si trova e non per servire da coro occidentale, e la tribuna smembrata di Saint-Michel de Cuxa doveva anch’essa elevarsi all’estremità orientale della na-

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vata65. Qualunque sia l’opzione privilegiata, il succo del mio discorso è che queste tribune costituiscono la «facciata» di uno spazio liturgico. Essa presenta una Maiestas Agni – l’Agnello circondato dai quattro Viventi – accompagnata da due angeli a sei ali66. La sostituzione della tradizionale teofania antropomorfica con l’Agnello si spiega presumibilmente in virtù del contesto obbligato: dato che il centro della composizione era occupato da un’arcata, occorreva che la figura divina fosse fuori asse e posta in un «pennacchio» d’angolo, uno spazio che si adattava meglio alla rappresentazione dell’Agnello iscritto in un clipeo piuttosto che a Cristo in gloria. Sul piano semantico, una differenza simile non costituisce affatto un ostacolo all’interpretazione, anzi, la rafforza in quanto l’Agnello rappresenta Cristo sacrificato e la sua immagine sormonta quasi sistematicamente l’altare maggiore sin dall’epoca paleocristiana, come si può vedere a San Vitale a Ravenna. A Cuxa l’interpretazione eucaristica è confermata dalla presenza di un angelo turiferario su uno dei capitelli conservati, un tema che avvicina questa composizione discontinua a quelle molto più compatte, ma iconograficamente analoghe, delle absidi catalane e dell’Ariège. Si può anche supporre che la «facciata» dello spazio della

19. Tribuna o Jubé dell’antica chiesa priorale di Serrabone.


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liturgia di Serrabone abbia svolto un ruolo analogo, o avanzare l’ipotesi, con tutta la prudenza che tali incognite richiedono, che le absidi de Serrabone e di Cuxa contenessero teofanie dello stesso tipo, che si incontrano con una frequenza eccezionale nelle regioni vicine. Da questa deduzione conseguirebbe che anche il ruolo delle sculture era quello di annunciare ai monaci simili visioni policrome, con un effetto di «sfogliamento» dello spazio, o offrire al semplice fedele, per il quale la tribuna nascondeva l’abside, l’immagine della presenza divina nella sua chiesa. Occorrerà ritornare più diffusamente su questo probabile effetto di «sfogliamento» quando si parlerà delle teofanie delle facciate. La lettura eucaristica può estendersi, come per le rappresentazioni dell’altare e del catino, e ancora per le medesime ragioni, alle composizioni che non presentano cherubini, serafini o qualsivoglia altra allusione diretta al sommo sacrificio. Rarissime all’interno delle chiese, queste dovrebbero inoltre essere considerate non in maniera isolata ma nei loro rispettivi contesti, come si può supporre per lo meno per i recinti del coro, come quello di Halberstadt. A Parma si conserva un rilievo proveniente da un pontile, o più probabilmente da un ambone, che rappresenta una Maie-

stas Domini accompagnata da due grandi angeli e dai Padri della Chiesa67. Qualunque fosse la sua posizione, mi pare che l’ipotesi di una lettura eucaristica possa essere estesa a quest’opera come a molti amboni che contengono una teofania, particolarmente quando delimitavano il confine dello spazio della liturgia come i recinti presbiteriali68. Anche il ciborio costituisce un elemento di scultura architettonica atto a ospitare le teofanie. Sul lato meridionale del ciborio di Civate è rappresentato Cristo in gloria portato da angeli, un tema frequentemente rappresentato nelle absidi del Centro e Sud Italia: la lettura liturgica è supportata dalla presenza di due temi legati alla Passione – la Crocifissione e la Resurrezione – sulle facciate orientale e settentrionale, mentre il tema rivolto verso il catino absidale – la Traditio legis – è manifestamente sprovvisto di una valenza specificamente eucaristica. Questo esempio mostra, insieme ad altri, come sia impensabile interpretare sistematicamente le teofanie degli spazi liturgici in un senso eucaristico69. Sui capitelli dello spazio della liturgia le teofanie non sono molto numerose, senz’altro perché dovevano sembrare ridondanti in aggiunta a quella del catino ma anche perché questo tipo di supporto non offriva spazio sufficiente per temi di una tale

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ampiezza. Possiamo tuttavia ricordare gli esempi del deambulatorio di Notre-Dame-la-Grande di Poitiers e di Vigeois (Corrèze)70. In particolare occorre menzionare l’esempio eminentemente originale di Conques: quattro capitelli dei pilastri occidentali dell’incrocio mostrano due a due un serafino e un cherubino, due arcangeli e quattro angeli reggenti filatteri che riportano i nomi dei quattro evangelisti. A queste otto figure angeliche si aggiungono quelle delle trombe orientali dell’incrocio che rappresentano di nuovo Michele e Gabriele. Il programma scultoreo dell’incrocio comprende dunque gli elementi principali delle teofanie absidali dell’Ariège e della Catalogna, ad eccezione del Cristo: possiamo supporre che queste figure fossero destinate ad accompagnare una teofania, forse quella rappresentata nel catino dell’abside o una rappresentazione divina prevista per il centro della cupola (la cupola attuale risale al XIV secolo). Se fosse davvero così, l’incrocio presenterebbe in maniera disgiunta un programma equivalente a quello delle tribune di Cuxa e di Serrabone, al quale si aggiungono i due arcangeli delle teofanie ariegesi e catalane. Le prefigurazioni veterotestamentarie Molti temi trattati nell’Antico Testamento sono stati interpretati come prefigurazioni dell’Ultima Cena o del sacrificio di Cristo sulla croce e, per estensione, del sacrificio eucaristico71. Tre di essi sono direttamente citati in una preghiera del canone romano della messa, il Supra quae, nel quale si chiede a Dio di accettare il sacrificio d’altare come ha accettato i sacrifici di Abele, di Melchisedech e di Abramo72. Questo è il motivo della loro frequente rappresentazione nei decori degli spazi e dell’arredo liturgico. Il sacrificio di Melchisedech è presente da solo a Santa Maria Maggiore a Roma, in un programma narrativo veterotestamentario che comincia con la storia di Abramo: il Ciclo di Abramo contiene inoltre un altro tema eucaristico, il banchetto dei tre angeli, e soprattutto si situa all’estremità orientale della navata, ovvero in prossimità dell’altare73. A San Vitale di Ravenna i tre sacrifici, ai quali si aggiunge l’ospitalità di Abramo, sono riuniti nel coro, in seno a un programma legato in gran parte alla liturgia eucaristica74. Due indizi confermano, se mai ve ne fosse bisogno, questa lettura: la presenza dell’Agnello al centro della volta a crociera del presbiterio, proprio sopra alle pareti dei sacrifici veterotestamen-

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tari, e la condivisione di uno stesso altare da parte di Abele e Melchisedech, in un salto cronologico che richiama l’enumerazione formulata nella preghiera. Nella pittura romanica, il principale paradigma rappresentato all’interno dello spazio della liturgia è quello di Abele: lo troviamo in particolare a Burgusio (o Burgeis, Bolzano), Grissiano (o Grissian, Bolzano), Pedret (Barcellona), Santa Maria de Taüll (Lérida), Santa Maria de Mur (Lérida), Sainte-Cécile a Flée (Sarthe) e nella cripta di Saint-Nicolas a Tavant (Indre-et-Loire)75. A Maderuelo, il sacrificio di Melchisedech accompagna eccezionalmente quello di Abele in una composizione dominata dall’Agnello, come a San Vitale di Ravenna76. A Concordia Sagittaria (Venezia), i sacrifici di Abramo e di Melchisedech sono stati associati nell’abside. Infine ritroviamo questi tre paradigmi insieme o separati nei sacramentari, come quello di Drogone (Metz), e ancora più numerosi sugli altari portatili già menzionati. Nella scultura romanica, per quel che mi è dato conoscere, i tre paradigmi non sono mai rappresentati congiuntamente e il più ricorrente non è, come nella pittura, il sacrificio di Abele, ma quello di Abramo, il quale compare presto nei cori di Saint-Benoît-sur-Loire e di Conques, in contesti iconografici perfettamente compatibili con il loro connotato eucaristico77. A Jou-sous-Moujon (Cantal) e San Vicente ad Avila, il sacrificio di Abramo costituisce in maniera molto significativa l’unico tema biblico del coro78. A Saint-André-de-Bâgé (Ain), il tema compare all’ingresso dell’abside, nella quale è presente Abacuc che porta un pane a Daniele, un altro tema biblico che possiede un significato eucaristico79. Compare ancora su un capitello del pontile di Modena, dove sembra annunciare la Passione, rappresentata sulle grandi lastre scolpite del parapetto80. Il sacrificio di Melchisedech, a mia conoscenza, non è mai stato scolpito in un coro liturgico, e quello di Abele vi compare raramente. Bisogna però ricordare l’eccezionale esempio del rond-point di Notre-Dame di Maastricht perché il sacrificio di Abele è lì associato al suo omicidio, altro episodio potenzialmente eucaristico81, e soprattutto al sacrificio di Abramo. Questa associazione è tanto più significativa in quanto il sacrificio di Abramo è rappresentato su uno dei due pilastri d’asse ove affianca tre altri temi eucaristici: l’incontro di Abramo con i tre angeli, il banchetto dei tre angeli e il sacrificio dell’ariete. Come abbiamo già visto,


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non si accordano affatto con questa iconografia, il che presuppone l’esistenza di diversi livelli di lettura paralleli o sovrapposti82. Sebbene il programma di Maastricht resti eccezionale per lo sviluppo dato ai temi eucaristici, è evidente che un inventario sistematico consentirebbe di moltiplicare gli esempi di sacrifici veterotestamentari negli spazi della liturgia83. I soggetti neotestamentari

21. Il sacrificio di Abele, capitello del rond-point della chiesa di Notre-Dame, Maastricht.

l’ospitalità di Abramo era già stata rappresentata in un contesto eucaristico a Santa Maria Maggiore e soprattutto a San Vitale di Ravenna, ove è stata associata al sacrificio di Abele: il programma comporta dunque tre dei quattro soggetti eucaristici del San Vitale di Ravenna – manca solo il sacrificio di Melchisedech –, ai quali si aggiunge il sacrificio dell’ariete. Il tema, estremamente raro, è stato per di più messo in evidenza attraverso la taglia smisurata dell’animale, confortando così l’interpretazione eucaristica dei soggetti riuniti sul capitello. D’altra parte, gli altri soggetti biblici del programma, concentrati nella parte centrale del rond-point,

Nel Nuovo Testamento molti episodi della vita di Cristo si legano direttamente o indirettamente al sacrificio eucaristico: i più numerosi appartengono logicamente al Ciclo della Passione nella sua accezione più ampia, comprendente Ultima Cena, Crocifissione, Deposizione dalla croce e Resurrezione. Il campo semantico di questi temi oltrepassa comunque ampiamente il contesto della liturgia. Integrati in un ciclo narrativo della Passione, gli episodi possono rivestire una dimensione didattica, commemorativa o anche dogmatica, o ancora rapportarsi al dramma liturgico84; per la Crocifissione poi il numero di interpretazioni possibili è ancora più ampio85. Nel mosaico o nella pittura parietale, la scelta del luogo costituisce un indizio essenziale del valore eucaristico del tema rappresentato: ad esempio, a Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna l’Ultima Cena è posta all’inizio del ciclo della Passione, all’estremità orientale della parete sud, ossia a lato dell’altare e praticamente di fronte alla Moltiplicazione dei pani rappresentata sulla parete settentrionale86. Sull’arco absidale di Santa Maria Antiqua le specificità liturgiche dell’iconografia si sommano all’argomentazione topografica: il Cristo inchiodato sulla croce è adorato da una folla di uomini e di angeli tra i quali si distinguono i serafini87. In contesti del genere, l’interpretazione eucaristica non presenta secondo me pochi dubbi. Analoghe composizioni si moltiplicarono nell’XI-XII secolo: nell’abside di Saint-Jacques-des-Guérêts, ad esempio, sono rappresentati simmetricamente una Maiestas Domini e una Crocifissione che sormontano rispettivamente l’Ultima Cena e le Pie Donne al sepolcro88. La Deposizione è stata rappresentata in una serie di programmi per i quali possiamo supporre, con un grado di certezza più o meno alto, la presenza di un altare: la parete occidentale della navata di Saint-Martin a Vicq, la tribuna di SaintSavin-sur-Gartempe, la cripta di Saint-Nicolas a Tavant e la rotonda di Saint-Jean du Liget89. In numerosi cicli, la Deposizione dalla croce sembra aver

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svolto il ruolo della Crocifissione90: questo tema possiede, sia che compaia solo o all’interno di un ciclo, un significato eucaristico profondamente ancorato nei commentari della messa che paragonano il sacerdote e l’arcidiacono a Giuseppe d’Arimatea e a Nicodemo, e il gesto dell’elevazione del calice compiuto dal sacerdote a quello di Giuseppe che depone Cristo dalla croce 91. Per quanto riguarda la scultura, questi temi sono stati rappresentati raramente negli spazi liturgici e la loro interpretazione eucaristica è generalmente più difficile da stabilire. A questo proposito citiamo il caso del pontile della cattedrale di Modena (prima del 1184?) che costituisce una nota eccezione. Il Ciclo della Passione sviluppato su tutta la larghezza di questa struttura è in effetti largamente dominato dall’Ultima Cena, inizialmente disposta al centro della composizione92. La correlazione con il sacramento istituito a partire da questo evento non pone alcun dubbio93. La celebre Deposizione del duomo di Parma scolpita da Bene-

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detto Antelami nel 1178, che in origine doveva appartenere a un ambone o a un pontile, ha senz’altro avuto un analogo significato, tanto più che la scena comprende una personificazione della Chiesa che regge un calice94. E come ho già suggerito più sopra, anche il ciborio di Civate può essere interpretato in questo senso, in quanto comporta sia una Crocifissione rivolta ai fedeli sia una Visitatio Sepulchri95. Anche sui capitelli gli episodi del Ciclo della Passione sono rari. Due eccezioni notevoli si trovano in Alvernia. Nel rond-point di Saint-Austremoine d’Issoire si trova un Ciclo della Passione i cui episodi devono essere letti da ovest a est: l’Ultima Cena e il Cristo portacroce sono stati confinati nei primi due capitelli mentre la Resurrezione – la Visitatio Sepulchri – e le apparizioni di Cristo dopo la Resurrezione hanno un posto privilegiato sui due capitelli assiali96. Vista l’organizzazione spaziale, è possibile che la Cena rimandi direttamente al sacrificio eucaristico e che Cristo risorto evochi il

22. Ambone e pontile del duomo di Modena. 23. Particolare dell’Ultima Cena, pontile del duomo di Modena.


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corpo e il sangue che il comunicante è chiamato a consumare realmente, anche se questo livello di lettura poteva essere connesso ad altri significati più precisi. A Saint-Nectaire ritroviamo Gesù che porta la Croce e le Pie Donne al sepolcro, mentre la Moltiplicazione dei pani e dei pesci sembra assumere il ruolo dell’Ultima Cena, visto che Cristo e gli apostoli si tengono davanti a una tovaglia distesa orizzontalmente da due apostoli come per coprire una tavola97. Gli altri capitelli del rondpoint rimandano invece a temi molto diversi, come il Giudizio Universale o scene della vita di san Nectaire. Sebbene il programma dell’abside non risulti omogeneo come quello di Issoire, vi è un dettaglio nella Moltiplicazione dei pani – i pani segnati con una croce – che suggerisce in maniera abbastanza esplicita un significato eucaristico. Restando alla decorazione dei capitelli, si citerà il coro di Saint-Étienne a Lubersac (Corrèze): sebbene numerosi capitelli di questo spazio siano dedicati alla vita di Cristo, non sembrano essere distribuiti in funzione di una precisa logica tematica o cronologica, a eccezione dei due capitelli dell’arco di accesso al coro, dedicati rispettivamente alla Crocifissione e alla Deposizione98. Possiamo dunque supporre che la messa in evidenza, sotto forma di coppia simmetrica, di questi due temi, narrativamente e tematicamente correlati, fosse destinata a sottolineare il loro legame con la funzione principale del luogo al quale introducono. A L’ÎleBouchard (Indre-et-Loire), infine, la Crocifissione è stata integrata in un ciclo cristologico che procede in maniera convergente dalle due colonne occidentali verso le due colonne assiali. Poiché il tema è stato disposto su uno dei due capitelli centrali e rivolto verso l’officiante e il fedele, si può pensare a un significato eucaristico99. Tra gli altri episodi neotestamentari legati al sacrificio eucaristico, uno dei più importanti è la cena in Emmaus: nel vangelo di Luca, in seguito suffragato dai suoi commentari e dai commentari della messa, essa è descritta come la prima reiterazione dell’Ultima Cena. Il fatto che la si ritrovi con maggior frequenza sui capitelli è senz’altro legato al numero dei protagonisti, molto più ridotto rispetto alla Cena. La serie più significativa si trova in Borgogna: a Chalon-sur-Saône e a Laizy, la cena si trova su un capitello del coro, mentre ad Autun su un capitello posto tra la cappella settentrionale e il coro è stato rappresentato il cammino verso Emmaus. Particolarmente significativo l’esempio di Laizy, una chiesetta costruita dal vescovo di Autun

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Étienne de Bâgé, perché la cena in Emmaus è l’unico episodio biblico trattato nel programma scolpito della chiesa; inoltre, a Étienne de Bâgé è attribuito un trattato sull’Eucaristia nel quale è appunto evocata la cena in Emmaus100. Nel vasto repertorio del Nuovo Testamento, altri episodi come la Natività, l’Adorazione dei Magi o la Presentazione al Tempio possono essere riferiti all’Eucaristia ma, nell’ambito della scultura, le rappresentazioni di questi temi iscritti nello spazio della liturgia sono di fatto rare o poco esplicite101. La Presentazione potrebbe tuttavia fare eccezione quando richiede la rappresentazione dell’altare del Tempio di Gerusalemme come nel rond-point di Chauvigny102. Ma, come a Saint-Nectaire, il programma di questo spazio è molto diversificato e i temi sviluppati sugli altri capitelli difficilmente potrebbero essere interpretati in senso liturgico, tanto che l’applicazione di questa lettura alla Presentazione al Tempio resta una semplice congettura.

24. La cena in Emmaus, capitello del coro della chiesa di Saint-Julien, Laizy.


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la104. Nella chiesa di Orcival, che non prevede una cappella assiale, il tema si trova sui due capitelli del deambulatorio ubicati sull’asse dell’edificio, mentre a Notre-Dame-du-Port, che ha un’identica configurazione architettonica, si è preferito inserirlo nella prima cappella posta a sinistra dell’asse105. In questo gruppo lo si trova di solito su capitelli identici e simmetrici, che assumono perciò una dignità supplementare106. Il tema si ritrova altrettanto significativamente in un capitello della tribuna di Cruas e sul pluteo più tardo di Bominaco107. I temi eucaristici delle facciate

25. Grifoni che bevono a un calice, capitello del coro della chiesa di Saint-Austremoine, Issoire. Nella doppia pagina seguente: 26. Facciata del duomo di Modena. 27. Facciata di Notre-Dame-la-Grande, Poitiers.

Le sculture analizzate finora, a eccezione di qualche recinzione di coro, sono sul piano quantitativo e visivo infinitamente meno importanti di quelle delle facciate. Il loro rapporto con l’Eucaristia è comunque più facile da stabilire, perché si iscrivono proprio nello spazio specifico della liturgia. Sebbene alcuni rituali si svolgessero davanti alla facciata, come le stazioni che ritmavano le processioni o alcuni drammi liturgici, è molto difficile poter attestare la loro pratica davanti a determinate opere, mentre si può dire senza tema d’errore che tutti i cori liturgici sono stati teatro del sacrificio eucaristico quotidianamente reiterato. Dal mio punto di vista, il principale legame tra le sculture 25 delle facciate e la liturgia deriva proprio dai suoi rapporti con i decori dei cori liturgici a cominciare dalle teofanie absidali, e non dalle cerimonie che si svolgevano di fronte ad esse. In primo luogo ocGli animali che si dissetano a un calice correrà dunque analizzare i rapporti iconografici e strutturali tra questi due luoghi capitali per il deOltre ai numerosi soggetti biblici, uno dei temi eu- coro delle chiese. caristici più ricorrenti è quello degli animali, generalmente uccelli o grifoni, affrontati a un recipiente Decori delle facciate e decori dei cori liturgici nel quale si riconosce solitamente un calice. Si tratta dunque di un tema improntato al bestiario ro- Proprio alle due estremità della chiesa, come già manico più diffuso, al quale si aggiunge un oggetto abbiamo ricordato, si sono generalmente concenliturgico che precisa la valenza positiva degli ani- trati dipinti e sculture, il che di per sé denota una mali rappresentati – cosa non trascurabile per i gri- relazione tra i due ambiti. Inoltre, la facciata si prefoni che solitamente i testi inscrivono nella sfera senta solitamente come una trasposizione sul piademoniaca –, e soprattutto il loro rapporto con no verticale dei programmi sviluppati nel coro e, l’Eucaristia. Si può dunque vedere in questa com- in misura minore, nella navata. I temi più ricorrenposizione un’immagine del fedele che consuma il ti sui timpani (lunette) di portali, sugli archivolti, vino eucaristico103. Il soggetto, che può essere rap- sui protiri o al vertice delle facciate-frontespizio presentato in luoghi assai diversi, si trova espresso sono teofanie e Madonne con il Bambino – intein maniera molto significativa in un’importante se- grate o meno in composizioni narrative come rie di cappelle d’asse, situate per la maggioranza in l’Adorazione dei Magi o l’Adorazione dei pastori Alvernia: Notre-Dame-la-Grande di Poitiers, Issoi- –, esattamente come nelle pitture absidali. Talvolre, Glaine-Montaigut (Puy-de-Dôme) e Composte- ta, queste immagini a dominante iconica sono ac-

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28. Zona centrale della facciata di San Zeno, Verona. 29. Ascensione, lunetta del portale occidentale della chiesa priorale di Anzy-le-Duc.

compagnate da cicli narrativi come a Modena, a Poitiers (Notre-Dame-la-Grande), Ripoll o Lincoln108: essendo i primi tre cicli gerarchicamente subordinati a una teofania – sottostanti nei primi due casi, ai suoi lati nel terzo –, essi appaiono come il riflesso dei cicli narrativi sviluppati all’interno delle chiese, solitamente nella navata. A San Zeno di Verona, i cicli vetero- e neotestamentari si trovano ai due lati del portale, richiamando in maniera ancora più precisa i programmi nei quali i due Testamenti si fronteggiano109. Le analogie tra decorazione esterna e interna sono spesso affrontate in modo generico, perché è rarissimo poter confrontare due programmi eseguiti all’incirca contemporaneamente alle due estremità opposte della chiesa. Le poche eccezioni mostrano tuttavia che queste analogie potevano essere affat-

to precise. L’esempio di Anzy-le-Duc è certamente uno dei più significativi: l’Ascensione è stata rappresentata sia sul portale, uno dei più antichi di Borgogna, sia nel catino absidale, e queste due visioni celesti sono simbolicamente sostenute da atlanti scolpiti110. L’intenzionalità di questo effetto di proiezione della teofania absidale sulla facciata sembra dunque incontestabile. A Cluny, l’abside e il portale occidentale – oggi distrutti – ospitavano ambedue una Maiestas Domini, più sviluppata però sul portale, dove si inseriva nel contesto più ampio di un’Ascensione. Ugualmente, a Notre-Dame-la-Grande (Poitiers), i due programmi non coincidono del tutto, ma presentano importanti tangenze: una Maiestas Domini e soprattutto i dodici apostoli iscritti negli archi, un tema sufficientemente raro da poter essere considerato specifico.

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Altrettanto può dirsi per la chiesa di Saint-Loupde-Naud, dove una Maiestas Domini accompagnata da apostoli sotto gli archi compariva sul portale e nei dipinti dell’abside purtroppo scomparsi111. A Conques, il Giudizio del portale occidentale comporta due gruppi di quattro angeli che rimandano alla quaternitas del già citato incrocio112 mentre, in un rapporto inverso tra scultura e pittura, il programma di Civate presenta una Traditio legis dipinta sulla facciata e una seconda scolpita nel ciborio113. A San Nicola di Bari, angeli portanti un’ostia si trovano sui «pennacchi» d’angolo del portale occidentale e sul ciborio114. Infine, la grande croce commissionata da Suger per il coro di Saint-Denis sembra essere stata pensata in relazione con quella del Giudizio raffigurata sul portale occidentale, giacché un’iscrizione l’assimilava precisamente alla croce della Parusia115. Questi differenti esempi mostrano in modo abba-

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stanza eloquente come si cercasse di creare un legame visivo e conseguentemente strutturale tra la facciata e lo spazio della liturgia, probabilmente per mostrare come la prima sia annuncio del secondo. La facciata avrebbe quindi offerto al fedele una visione divina che anticipava quella che si sarebbe imposta al suo sguardo sulla recinzione del coro o nello spazio della liturgia, producendo così un effetto di «sfogliamento» dello spazio. Le teofanie I temi svolti sui portali sono numerosi ed estremamente diversificati, e alcune particolarità iconografiche a volte molto esplicite indicano che i loro programmi iconografici corrispondono alle preoccupazioni specifiche del committente: esaltazione del santo patrono o di un santo del quale si possiedono le reliquie, affermazione di un dogma soste-

30. Portale sud di Saint-Pierre, Moissac.


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31. Facciata della chiesa di Santa Maria di Ripoll.

nuto localmente, evocazione di una situazione o di accadimenti politici dai quali dipende l’istituzione religiosa, ecc.116 Ciononostante, sulla grande maggioranza delle facciate figura almeno una teofania: può trattarsi di un’immagine estremamente discreta, come le rappresentazioni dell’Agnello divino, oppure imporsi al centro del portale o al vertice della facciata, o ancora iscriversi in composizioni eminentemente complesse come quelle del portale centrale di Vézelay, del portico di Moissac, delle facciate di Angoulême, di Ripoll e di Fidenza, o dei portali con scene di Giudizio come quelli di Mâcon, Autun, Beaulieu, Conques, Santiago de Compostela o Parma. È dunque opportuno domandarsi se questa onnipresenza divina non riveli in realtà un livello di senso generale che si somma ai livelli semantici propri a ogni programma oppure li precede. L’epigrafia apporta un primo elemento di risposta

nella misura in cui le tematiche che svolge sono spesso analoghe. Robert Favreau ha sapientemente dimostrato che essa effettivamente si concentra su due grandi temi: la chiesa è una figura della Gerusalemme celeste o del Paradiso, al quale dà accesso la porta coeli, e questa porta è Cristo stesso, secondo le parole riportate da Giovanni: ego sum ostium ovium (Gv 10,7) […] ego sum ostium. Per me, si quis introerit, salvabitur (Gv 10,9)117. Sembrano dunque esservi livelli di lettura generali applicabili a un gran numero di portali. Anche se l’epigrafia mantiene invece molto riserbo riguardo alla liturgia eucaristica118, mi sembra nondimeno che questa lettura meriti di essere presa in considerazione: ammettendo l’interpretazione eucaristica delle teofanie absidali e l’idea secondo la quale queste teofanie sono annunciate o riflesse da quelle delle facciate, se ne deduce che anche queste ultime possono contenere una di-

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mensione liturgica. Questa supposizione può trovare il sostegno di innegabili argomentazioni iconografiche nel Sud-Ovest della Francia dove, come abbiamo visto, esiste un’affinità strettissima tra le teofanie absidali, quella dell’altar maggiore di Saint-Sernin di Toulouse e le tribune di Serrabone e Cuxa. Se ne ritrovano in effetti le componenti principali su due portali, comunque assai distanti nel tempo. Sull’architrave di Saint-Andréde-Sorède, il tema già rappresentato a Saint-Genis-des-Fontaines – l’Ascensione – è stato ripreso, con simile composizione, ma sostituendo due apostoli con serafini, mentre sulla finestra della stessa facciata sono rappresentati i quattro Viventi, tre serafini e quattro angeli tubicini. Questi ultimi hanno dato vita a interpretazioni escatologiche, anche se è più probabile un collegamento all’Ascensione dell’architrave. L’esegesi ha infatti applicato a quest’episodio neotestamentario i versetti del salmo 46: «Ascende Dio tra le acclamazioni, il Signore al suono di tromba» (Sal 46,6)119; e spesso la scena dell’Ascensione è stata utilizzata per illustrare questo salmo. Comunque, resta il fatto che la facciata di questa chiesa ripropone le

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32. Architrave della chiesa abbaziale di Saint-André-de-Sorède. 33. Lunetta del portale sud della chiesa di Notre-Dame-du-Port, Clermont-Ferrand.

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principali componenti delle teofanie catalane e dell’Ariège: Cristo, i Viventi e i serafini. L’altro portale del Sud-Ovest francese che potrebbe riecheggiare una teofania dello spazio liturgico è quello di Moissac, dove si ritrovano gli elementi della facciata di Saint-André-de-Sorède, ai quali si sono aggiunti i Vegliardi dell’Apocalisse120. In Borgogna, tre portali contengono una visione gloriosa di Cristo accompagnato da serafini o da un serafino e un cherubino, con uno schema derivato più o meno direttamente dal tema dell’Ascensione: Perrecy-les-Forges, Charlieu (porta nord) e Semur-en-Brionnais121. Supponiamo pure che in questi portali gli angeli cantino il sanctus, ma tale indizio non è sufficiente per postulare che le teofanie che essi accompagnano evochino precisamente la presenza di Cristo all’interno della chiesa al momento del canone della messa. A Notre-Dame-du-Port (Clermont-Ferrand), invece, abbiamo un indizio forte a sostegno di questa lettura: la lunetta mostra Cristo in trono affiancato da due grandi angeli a sei ali e, al di sopra di due dei quattro Viventi, il vitello e il leone. L’architrave invece è stato dedicato a tre episodi della vi-

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ta di Cristo: l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio e il Battesimo. Si aggiungono infine a questi due elementi i rilievi che circondano il portale e sui quali si trovano Isaia, Giovanni Battista, l’Annunciazione e la Natività. Sull’architrave, la successione dei riquadri narrativi è dominata al centro dal Tempio di Gerusalemme, un’edicola contenente un altare sopra il quale è sospesa una lampada122. Per potergli offrire questo spazio centrale, più esteso degli altri anche in altezza, si è dovuta restringere la composizione nella metà destra dell’architrave, il che conferma l’importanza accordata a questo tema. Inoltre, il Cristo della lunetta era circondato da un’edicola simile a quella che ospita l’altare della Presentazione: sembra dunque che, all’interno di questo programma, i cui livelli di lettura sono probabilmente numerosi e complessi, la dimensione liturgica sia stata espressamente valorizzata. Il programma di Notre-Dame-du-Port rimane tuttavia eccezionale: la maggior parte delle teofanie in facciata è sprovvista di indizi altrettanto espliciti, al punto che la loro interpretazione liturgica si fon-

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da essenzialmente sulle analogie con le teofanie absidali. Come suggeriscono l’epigrafia e il decoro degli spazi liturgici, queste visioni divine significavano che la chiesa era la casa di Dio, che vi dimorava realmente. Resta invece ipotetico che questa presenza fosse specificamente legata alla liturgia eucaristica, anche se proprio in quel momento essa raggiungeva il suo apice. Quest’ipotesi può d’altro canto avvalersi di argomentazioni molto più solide quando Cristo viene rappresentato nella forma dell’Agnello, che richiama le vittime dei sacrifici veterotestamentari ed evoca il sacrificio sulla Croce. Lo si può vedere, tra gli altri, nella Porta dei Principi di Modena, a Piacenza, Ferrara, Verona, Semur-en-Brionnais, nel portale nord di Charlieu e nella Porta dell’Agnello

34. L’Agnus Dei sull’arco del protiro di sinistra della cattedrale di Piacenza. 35. Portale occidentale, Pont-l’Abbé-d’Arnoult.


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però basarsi sull’esistenza di almeno due esempi locali, Notre-Dame-la-Grande (Poitiers) e Montmorillon, tra i rari esempi di decori di coro che si conservino dell’antico ducato d’Aquitania. Bisogna anche citare l’esempio della tribuna della torre di Saint-Savin-sur-Gartempe, anche se qui l’Agnello non si trova nel coro ma al di sopra di uno spazio rialzato nel quale era sicuramente predisposto un altare, come suggeriscono l’apertura sulla navata e la presenza di una gigantesca Deposizione dalla croce dipinta. La figura divina è in effetti affiancata da due angeli turiferari, come su altri portali della regione. Si può dunque supporre che questa immagine evochi l’incensamento delle Sacre Specie, poste sull’altare prima del prefazio. In questi programmi, l’interpretazione liturgica delle teofanie è dunque confortata non solo dal significato inerente alla raffigurazione dell’Agnello, ma anche dalla rappresentazione di un atto rituale compiuto al momento del canone della messa. Gli episodi biblici e gli animali che si dissetano a un calice

di León. Gli esempi sono ancora più numerosi nell’antico ducato di Aquitania, in particolare nel cosiddetto gruppo «di Aulnay»123. Su uno degli archivolti, di solito il primo, l’Agnello è clipeato e circondato da angeli. Ad Aulnay, sebbene gli attributi non siano più identificabili su diversi portali derivati da questo modello o da quello che l’ha ispirato, si possono riconoscere nelle mani degli angeli un turibolo o un calice, a conferma del valore liturgico della teofania124. In tutti questi esempi, l’Agnello divino doveva certamente riflettere le numerose rappresentazioni analoghe negli spazi della liturgia, sia dipinte che scolpite, come sulle tribune di Cuxa e di Serrabone. Negli esempi citati non si conservano dipinti che consentano di confermare quest’ipotesi, che può

La maggior parte degli altri temi potenzialmente eucaristici, già menzionati prima riguardo ai decori scolpiti all’interno delle chiese, si ritrovano sulle facciate. In alcuni casi, degli indizi iconografici confermano questo significato ma, come per le teofanie, la sintassi non può essere presa in considerazione se non si ammette un legame strutturale tra coro liturgico e facciata. Una rapida enumerazione dovrebbe bastare a dar conto della pertinenza e dei limiti di questa interpretazione. Tra gli episodi veterotestamentari, il più frequente sulle facciate, come negli spazi liturgici, è il sacrificio di Abramo. Il tema si trova su un capitello nei portali di Saint-Michel de Lescure (Tarn-et-Garonne) e di Jaca, e sul trumeau del portale smembrato di Souillac, ma i programmi nei quali si integra non si accordano affatto con la loro dimensione eucaristica. Sul portale dell’Agnello di León, invece, il tema appare al centro di un fregio narrativo dedicato ad Abramo, sotto un Agnello iscritto in un medaglione: i due motivi sovrapposti nell’asse del portale si riferiscono dunque entrambi molto chiaramente al sacrificio eucaristico125. Tra i temi neotestamentari il più frequente è l’Ultima Cena. Le caratteristiche delle facciate hanno senz’altro svolto un ruolo di primaria importanza nel suo successo. Si tratta di un soggetto che mal si adatta ai capitelli, mentre si adegua perfettamente

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ai contesti allungati degli architravi o dei fregi. Così la troviamo sugli architravi di Saint-Julien-deJonzy (Saône-et-Loire), Vandeins (Ain), Savigny (Rhône), Bellenaves (Allier), Saint-Pons-de-Thomières (Hérault), Champagne (Ardèche), Thines (Ardèche), Vizille (Isère), Nantua (Ain), Saint-Gilles-du-Gard, Pistoia (San Giovanni Fuoricivitas), su un fregio che si prolunga su due capitelli a Chartres e su un capitello a Étampes, prossimo all’esempio chartriano. Trattandosi di portali relativamente tardi, il diffondersi di rappresentazioni dell’Ultima Cena può essere considerato come il frutto di un’evoluzione dei programmi iconografici. Ugualmente può dirsi per le rappresentazioni della Crocifissione e della Deposizione dalla croce, salvo che in Spagna si è esitato molto meno prima di mostrare le sofferenze di Cristo all’entrata delle chiese, come ci mostrano

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36. Portale occidentale, chiesa di Saint-Pierre, Vandeins. 37. Il sacrificio di Abramo, particolare del trumeau dell’ex chiesa dell’abbazia di Sainte-Marie, Souillac.


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38. Crocifissione, lunetta del portale destro della chiesa abbaziale di Saint-Gilles. 39. L’Ultima Cena, architrave del portale centrale della chiesa abbaziale di Saint-Gilles. Nella doppia pagina seguente: 40. La cena in Emmaus, architrave del portale sinistro della chiesa de la Madeleine, Vézelay.

la Porta degli Orefici (Portada de Platerías) di Santiago de Compostela, dove si fiancheggiano episodi plurimi della Passione, e la Porta del Perdono di León dominata dalla Deposizione. Lo stesso tema appare nella lunetta di Oloron-Sainte-Marie (Pyrénées Atlantiques), mentre la Crocifissione occupa quelle di Saint-Gilles-du-Gard, Champagne, Condrieu (Rhône) e Berceto (Parma)126. A Saint-Gilles-du-Gard l’evidenza accordata all’Ultima Cena e alla Crocifissione è stata interpretata come una risposta all’eresia di Pierre de Bruis, che aveva rifiutato i sacramenti della Chiesa e fatto bruciare dei crocefissi, prima di morire in uno di questi roghi nella stessa città, probabilmente nel 1136127: in seguito, questa lettura è stata estesa ad altri portali contenenti gli stessi temi128. Si tratta di un’ipotesi molto affascinante ma anche estremamente fragile, in quanto i temi sviluppati sul fregio

e sui tre timpani appartengono al repertorio tradizionale delle pitture murali e comparvero sui portali prima della lotta all’eresia petrobrusiana129. Per gli altri programmi poi, essa non si basa su nessun argomento fondante, a parte lo sviluppo tardo di questa tematica sui portali. Prima di tirare in ballo una spiegazione precisa come la lotta contro un’eresia, mi sembra essenziale chiedersi se a queste immagini non possa applicarsi un livello di lettura più elementare e più generale130. Per il tema dell’Ultima Cena, l’interpretazione eucaristica può avvalersi di alcuni argomenti fondamentali. Spesso sulla tavola poggiano oggetti liturgici come il calice (Vandeins, Saint-Gilles-duGard); l’iscrizione del portale de Vandeins, ancora più esplicita, afferma il legame tra l’Ultima Cena e il sacrificio eucaristico, e crea inoltre una correlazione con la Lavanda dei piedi rappresentata a la-

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to dell’Ultima Cena, intimando al fedele di fare penitenza131. Anche la cena in Emmaus può rimandare al sacrificio d’altare: sull’architrave del portale nord di Vézelay la scena si svolge in un luogo strutturato esattamente come un’abside e affiancato da due torri merlate; inoltre, la tavola dietro alla quale stanno i commensali poggia su colonnette, come numerosi altari di pietra. È evidente che l’ideatore ha voluto assimilare il fondale nel quale si svolge la cena in Emmaus a una chiesa cristiana, precisando così il senso che intendeva attribuirle. Sul portale minore nord di Charlieu, il tema è stato relegato su una delle mensole che reggono l’architrave, ma la sua risonanza eucaristica non presenta dubbi, perché questa tematica è stata estesa all’insieme del portale, ove sono rappresentati un sacrificio antico e le nozze di Cana132. Sulle facciate si trovano anche gli episodi potenzialmente eucaristici dell’Infanzia di Gesù – Natività, Adorazione dei Magi e Presentazione al Tempio – sia insieme che separatamente: Santiago de Compostela (Porta degli Orefici), Estella (Navarra), Notre-Dame-la-Grande, La-Charité-sur-Loire, Neuilly-en-Donjon, Anzy-le-Duc, Vézelay, Avallon, Nonantola, Ferrara, Verona, Parma, e la lista

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potrebbe tranquillamente essere ampliata133. Gli esempi per i quali la lettura eucaristica si fonda su indizi oggettivi restano tuttavia eccezionali. Abbiamo già citato quello del portale di Notre-Damedu-Port (Clermont-Ferrand), ma il più notevole è certamente il portale sud della facciata occidentale di Chartres in cui una Madonna col Bambino domina due registri narrativi dedicati all’Infanzia. La composizione, di fatto, è stata strutturata in modo da inserire nell’asse del portale due immagini del sacrificio di Cristo: il Bambino disteso nella mangiatoia nel registro inferiore e in piedi, sull’altare del Tempio di Gerusalemme, nel registro mediano. Per ottenere quest’allineamento è stato necessario rompere l’equilibrio tra le due metà dell’architrave, perché la parte sinistra era più densamente riempita della parte destra, come a Notre-Dame-du-Port, lasciando dunque intendere l’importanza accordata dal committente a questa disposizione. L’orientamento eucaristico di questo programma si mostra così in maniera evidente134. Per chiudere questa rapida enumerazione, è bene ritornare al tema degli uccelli che si abbeverano a un calice. Lo troviamo su due portali del Saintonge, quello dell’Abbaye-aux-Dames di Saintes e il portale meridionale di Aulnay. Nei due casi, la

41. Lunetta del portale destro della facciata della cattedrale di Chartres.


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42-43. Scene della vita di Cristo della lunetta sud della facciata della cattedrale di Chartres: in piedi sull’altare del Tempio di Gerusalemme e disteso sulla mangiatoia della Natività.

composizione si inserisce quasi nell’asse del portale, in una posizione preminente che corrisponde all’importanza che spesso gli è riservata negli spazi della liturgia. Ad Aulnay, questa posizione è ancora più significativa per il fatto che il tema si ritrova su un modiglione del capocroce, ugualmente spostato dall’asse di simmetria. Difficile determinare se questo doppio disassamento sia o meno intenzionale ma, comunque sia, è stata riservata a queste due occorrenze un’importanza comparabile a quella dei capitelli degli spazi liturgici. A NotreDame-la-Grande (Poitiers) queste analogie strutturali sono rafforzate dalla presenza di calici sul-

l’arco settentrionale del primo registro della facciata e su un capitello dell’arco meridionale. Visto che il tema degli animali al calice compare nella cappella assiale, possiamo legittimamente supporre che i primi facciano eco ai secondi. Altri riti La liturgia della parola Fino ad ora mi sono occupato solo del sacrificio eucaristico e ho brevemente menzionato il canto liturgico riguardo ai capitelli di Cluny. È bene però con-

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siderare l’altro momento fondamentale della messa, ovvero la liturgia della parola, in quanto la sede della lettura – il lettorino e soprattutto l’ambone – è spesso ornato di sculture. Quando gli amboni contengono cicli narrativi, principalmente episodi tratti dai Vangeli, si può supporre che essi si riferiscano al contenuto delle letture lì effettuate, e si può anche presumere che servissero alle omelie che seguivano le letture. A questo proposito citiamo la notevolissima serie di amboni toscani che contengono cicli narrativi, il più celebre dei quali è il pergamo del duomo di Pisa scolpito da Guglielmo e trasferito nel XIV secolo nella cattedrale di Cagliari135. A parte le immagini narrative, uno dei soggetti più ricorrenti è costituito dai simboli degli evangelisti: anche quando è presente Cristo, come nelle numerose teofanie degli spazi liturgici di cui si è detto, possiamo esser certi che i Viventi dell’Apocalisse si riferiscono agli evangelisti e ai loro libri, le cui pericopi erano lette al sommo dell’ambone136. Quando troviamo, come accade sui primi amboni

44. Pulpito della chiesa di Santa Maria del Lago, Moscufo. 45. Lettore, particolare del pulpito della chiesa di Santa Maria del Lago, Moscufo. 45

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46. Interno e ambone della chiesa di Santa Maria in Porclaneta, Rosciolo.

o sui lettorini, un’aquila senza le altre figure alate – si vedano gli amboni di Acceptus –, si può supporre che si tratti del simbolo di Giovanni, anche se non regge il libro137. Esempi più recenti, come San Giovanni del Toro di Ravello e San Vittore del Lazio, nei quali l’aquila domina una figura umana, come in numerosi amboni meridionali, confermano questa lettura perché l’animale tiene esplicitamente il suo vangelo aperto tra gli artigli138. Sugli amboni di Moscufo, Cugnoli (Pescara) e Rosciolo (L’Aquila), l’evocazione della liturgia della parola è realizzata in maniera straordinariamente esplicita perché vediamo il lettore – un diacono – chino su di un leggio che poggia significativamente su un’aquila139. Anche su numerosi amboni conservati nel Sud Italia si incontrano temi diversi relativamente frequenti nell’arte romanica, come l’uomo morso da un serpente o la storia di Giona, ma sviluppati su altri supporti. Si può supporre che il messaggio trasmesso dalle immagini corrispondesse a quello

sviluppato nelle omelie, in particolare quando lo si può decifrare con una certa precisione: è il caso del programma iconografico dell’ambone di Sant’Ambrogio di Milano per il quale Anat Tcherikover ha sostenuto, con argomenti molto convincenti, riferimenti alle idee patarine140. In Campania, le iscrizioni mostrate dai profeti spesso si riferiscono al sermone Contra judaeos, paganos et arrianos di Quodvultdeus, ma si ignora in quale misura tali testi si collegassero alle letture proclamate dall’alto di questi amboni141. La liturgia funebre I riti praticati in occasione dei funerali sono spesso raffigurati nelle vite dei santi e, in misura minore, sui monumenti funerari, mentre non se ne conserva traccia, a mia conoscenza, nei luoghi in cui si svolgevano queste pratiche rituali, in particolare nei diversi ambienti dove si poneva il corpo prima dell’inumazione142. Possiamo comunque supporre

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un collegamento tra la rappresentazione dell’angelo che libera le anime dalle grinfie di un demone e le messe di suffragio recitate quotidianamente per la salvezza dei defunti: è proprio il caso di un capitello oggi scomparso del deambulatorio di Cluny, posto in prossimità di una delle cappelle dove probabilmente si celebravano ogni giorno le messe funebri143. Kristina Krüger ha proposto un’interpretazione analoga per due capitelli della tribuna della galilea (vestibolo) di Vézelay, sui quali si trovano, da un lato, monaci che pregano e cantano davanti a un moribondo o un morto, e dall’altro, le anime protette da angeli sottoposte alla pesatura144. Krüger ne deduce che le tribune servissero essenzialmente alle messe per i defunti, ma ci si può chiedere se la scelta di questi temi non sia stata condizionata dalla intitolazione della cappella superiore a san Michele, ciò che spiega ugualmente i programmi angelologici di numerose cappelle del piano alto145. La pubblica penitenza Due volte l’anno, uno dei portali della chiesa diveniva il fondale architettonico di spettacolari rituali di penitenza: la Chiesa imponeva per i peccati pubblici una penitenza altrettanto pubblica, che si manifestava attraverso due cerimonie di grande forza espressiva, l’espulsione del penitente il mercoledì delle Ceneri e la sua riconciliazione il giovedì santo146. In una simile circostanza, la porta della chiesa era il luogo più appropriato per significare che il peccatore era temporaneamente escluso dalla Chiesa prima di esservi riaccolto una volta terminata la penitenza. Durante la cerimonia dell’espulsione, il penitente doveva prosternarsi o inginocchiarsi più volte e la sua messa al bando dalla Chiesa era paragonata alla cacciata dal Paradiso comminata ad Adamo ed Eva a seguito del peccato originale. Ogni rappresentazione del peccato originale inscritta nel contesto di un portale è dunque suscettibile di essere interpretata in quest’ottica, anche quando non si tratti di una chiesa episcopale: Modena, Lucca, Toulouse, Lescure, Poitiers, Besse, Autun, Neuilly-en-Donjon, Anzy-le-Duc, Bourges, Andlau, Tudela, Lincoln147. Ma il contesto e gli indizi iconografici solitamente non consentono di dimostrare che l’ideatore abbia proprio voluto evidenziare questa lettura tra le tante del vasto campo semantico del Peccato Originale. All’interno di questa serie non esaustiva, il portale nord della cattedrale Saint-Lazare d’Autun fa tutta-

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via eccezione. Otto Karl Werckmeister, in un magistrale articolo, ha sostenuto che i rari elementi conservati o documentati di questo portale fossero in relazione alla penitenza pubblica. L’argomento più solido è probabilmente l’atteggiamento di Eva, al tempo stesso inginocchiata e prosternata in una specie di proskynesis analoga a une delle posizioni umilianti imposte al penitente. Altrettanto significativa la presenza, sui capitelli delle strombature del portale, di due temi biblici che fanno anch’essi riferimento alla penitenza: la resurrezione del figlio della vedova di Naim e il ritorno del figliol prodigo. Lo studioso si è anche basato su due altri indizi, di carattere rispettivamente iconografico e strutturale: il primo deriva dalla presenza, documentata da antiche testimonianze, della Resurrezione di Lazzaro nella lunetta (timpano) del portale, un episodio interpretato come allegoria della confessione; il secondo viene dalla posizione del portale sulla facciata settentrionale del transetto, che richiama la porta nord del tempio della visione di Ezechiele (Ez 40,20) e l’omelia di Gregorio Magno secondo cui è da questa porta che il peccatore accede al perdono attraverso la compunzione e la penitenza148.

47. Il Peccato Originale, particolare della facciata della cattedrale di Modena.


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48. Eva strisciante, Musée Rolin, Autun.

L’importanza di questi due argomenti deve però essere attenuata, poiché la rappresentazione della Resurrezione di Lazzaro – il solo episodio biblico che riguardi questo personaggio – si spiega prima di tutto con la dedicazione della chiesa, che era stata costruita a sud della cattedrale di Saint-Nazaire non per sostituirla, ma per ricevere le reliquie di san Lazzaro149. La scelta di questo tema agiografico può qui avere una spiegazione semplice ed evidente, per cui mi sembra sia più difficile sostenere che sia la pratica di una cerimonia che si svolgeva in due momenti una volta l’anno ad aver determinato il programma iconografico: si può piuttosto supporre che la dimensione penitenziale della resurrezione di Lazzaro abbia suscitato, non fosse che parzialmente, la scelta di altri temi che potessero rafforzare e completare questo significato. Quanto alla posizione del portale, la si deve alla topografia locale: l’accesso dalla cattedrale di Saint-Nazaire avveniva da nord, per cui era logico sottolineare l’entrata del nuovo edificio con un portale che proclamasse la sua funzione primaria. Inoltre, il portale occidentale era volto verso il cimitero, il che spiega senz’altro il motivo principale della scelta di rap-

presentare qui il Giudizio Universale150. Non si tratta di dettagli senza importanza: a partire dall’articolo citato si è infatti iniziato ad attribuire ad altre rappresentazioni della Resurrezione di Lazzaro una dimensione penitenziale anche dove il contesto non era esplicito come ad Autun, e a cercare programmi penitenziali sui lati settentrionali delle chiese151. Il portale occidentale di Jaca presenta un analogo programma ancora più esplicito di quello di Autun, confermando implicitamente anche il fatto che la cerimonia della penitenza pubblica non dovesse necessariamente svolgersi davanti al portale settentrionale. Questa lettura penitenziale è basata su indizi iconografici ed epigrafici innegabili: la lunetta è dominata da un chrismon trinitario affiancato da due leoni che dominano, a destra, un orso e un basilisco, e a sinistra, un uomo che afferra un serpente152. Come ha ben dimostrato Serafín Moralejo, l’atteggiamento di questo personaggio corrisponde a quello del penitente e l’iscrizione sopra al leone di sinistra ne conferma lo status: «Il leone sa risparmiare colui che è disteso a terra, e il Cristo colui che l’implora»153. A ciò si aggiunga che durante il rito dell’espulsione il sacerdote recitava

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una lunga orazione implorando Dio di non dare in pasto alle belve feroci l’anima di colui che si pente154. Infine, la rappresentazione di Daniele nella fossa dei leoni su uno dei capitelli del portale evoca probabilmente la preghiera pronunciata dal profeta dopo essere stato risparmiato dalle fiere e ripetuta dai penitenti reintegrati nella Chiesa155. Sebbene il programma di Jaca sia eccezionale, esiste un altro portale che può suffragare un’interpretazione penitenziale grazie all’importanza dei suoi argomenti visivi156. Nella porta detta dei leoni del duomo di Matera, due uomini stanno inginocchiati davanti ai leoni stilofori del protiro e non sotto le loro zampe come nella maggior parte dei portali lucani e pugliesi. Essi sembrano dunque essere risparmiati dalle fiere e hanno anche adottato una posizione che era imposta tre volte ai penitenti espulsi dalla chiesa. Inoltre, sono per metà nudi e in particolare il personaggio di destra sembra battere il mea culpa perché ha il braccio destro ripiegato contro il fianco e la mano chiusa sul petto157. Vi sono dunque forti probabilità che si tratti di penitenti risparmiati dalle bestie feroci in virtù del loro pentimento. È probabile che numerosi programmi di altri portali siano stati concepiti in quest’ottica, senza tuttavia un’iconografia altrettanto esplicita. Potremmo citare ad esempio i portali di Neuilly-en-Donjon e di Foussais dove compare Maria Maddalena prosternata ai piedi di Cristo158: nel primo esempio, il tema è legato alla dedicazione della chiesa e, come nel caso del portale settentrionale di Autun, l’esistenza di un’interpretazione semplice non esclude un livello di lettura più complesso pur rendendone più difficile la dimostrazione. Nel caso di Foussais, sebbene la dedicazione della chiesa non sia di ostacolo, il programma è sprovvisto di indizi iconografici espliciti come ad Autun, Jaca e, in misura minore, a Matera. Probabilmente uno studio approfondito e sistematico consentirebbe una migliore comprensione dei possibili nessi tra l’iconografia dei portali e il rituale della pubblica penitenza. Le processioni Le processioni svolgevano un ruolo importante nella liturgia, durante il rito d’entrata e ancor più in occasione delle grandi feste: Natale, Pasqua, Ascensione o Pentecoste. Nei monasteri, la messa domenicale era spesso preceduta da una lunga processione, che passava per differenti luoghi del monastero ed effettuava regolarmente delle stazio-

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ni. Gli ordinari e i consuetudinari descrivono nel dettaglio il percorso, il luogo delle stazioni, la lista delle antifone e delle preghiere. Occupandoci del solo spazio della chiesa, le principali stazioni si effettuavano all’entrata della chiesa, un luogo che corrisponde spesso alla galilea e all’entrata dello spazio della liturgia (coro). Nell’arte paleocristiana questa dimensione itinerante della liturgia è stata ammirevolmente tradotta in immagini nelle processioni dei santi, in particolare a Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna, ove due processioni parallele di santi e di sante, riprendendo verosimilmente la separazione di uomini e donne durante gli uffici, sono disposti su tutta la lunghezza delle pareti della navata159. Allo stesso modo si potrebbero interpretare i cicli narrativi, pittorici o musivi, che prevedono una deambulazione, ma l’itinerario seguito dallo spettatore non corrisponde necessariamente a quello delle processioni. Quest’ipotesi è ancora meno certa per la scultura, poiché non esiste nessun esempio di ciclo narrativo composto da più capitelli che possa essere letto in maniera continua lungo la navata. Esistono certo dei programmi scolpiti che presentano una certa progressione gerarchica nei temi sviluppati, come a Vézelay, ma difficilmente potremmo collegare questa progressione a quella delle processioni160. Si potrebbero anche stabilire delle corrispondenze tra il contenuto teologico delle antifone e delle preghiere pronunciate durante le stazioni e i programmi degli spazi della chiesa davanti ai quali si fermavano le processioni, ossia i portali e le recinzioni del coro161. In questa ottica, Margot Fassler ha supposto una correlazione tra il rito d’entrata, in particolare i tropi cantati in quell’occasione, e il programma scolpito della facciata occidentale di Chartres, ma i legami restano assai generici e a volte si basano su interpretazioni un poco forzate dei soggetti rappresentati162. Il culto dei santi La scultura monumentale si collega spesso al santo dedicatario della chiesa o a santi oggetto di una venerazione più specifica, solitamente legata alla presenza di reliquie. Per i capitelli interni, possiamo citare quelli di san Benedetto a Saint-Benoît-surLoire163 e di santa Fede (Sainte-Foy) a Conques164, e gli esempi sono ancora più numerosi sulle facciate. Così, il pellegrino di Santiago de Compostela poteva contemplare una grande effigie di san Giacomo sul trumeau del portale centrale del santua-

49-50. Un uomo inginocchiato davanti al leone, particolare della porta detta dei leoni, cattedrale di Matera.


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rio a lui dedicato. Il patrono della chiesa figura anche sui portali di Sant’Isidoro di León e a SaintLoup-de-Naud. Altrove troviamo invece immagini narrative più o meno numerose a evocare il santo patrono o il santo di cui la chiesa possedeva le reliquie: san Lazzaro ad Autun, san Geminiano a Modena, san Silvestro a Nonantola, san Giorgio a Ferrara o san Zenone in San Zeno di Verona. Si conservano anche programmi scolpiti direttamente legati al culto del santo, come testimonia la tomba di san Lazzaro nella cattedrale di Autun, uno degli esempi più spettacolari. In un piccolo sacello costruito nel coro si ergeva un gruppo di statue monumentali (circa m 1,25) che rappresentavano la Resurrezione di Lazzaro165. Si citerà anche la tomba di Saint Junien a Saint-Junien e il cenotafio di san Vincenzo a San Vicente ad Ávila166. Per concludere questa veloce rassegna, è opportuno tornare sul caso paradigmatico di Sainte-Foy di Conques. La santa era rappresentata oltre che sui capitelli, come già visto, anche nella famosa statua-reliquario, conservata oggi nel tesoro dell’abbazia, e sul portale occidentale. Quest’ultima immagine è notevole per diversi aspetti: sebbene – come in altre facciate già menzionate – faccia mo-

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stra di sé sopra l’ingresso della chiesa abitualmente utilizzato da fedeli e pellegrini, essa si integra qui perfettamente nell’iconografia del Giudizio Universale. Ma l’elemento più interessante ai nostri fini è il collegamento diretto tra la raffigurazione e il culto della santa: in uno sfondo architettonico che richiama la chiesa di Conques, la santa si è alzata da un seggio simile a quello della statuareliquiario e si è prosternata in preghiera davanti a una mano divina dotata di un nimbo crucifero, probabilmente per intercedere in favore della salvezza dei suoi devoti. Due indicazioni iconografiche permettono di inserire ancor più precisamente la scena nella realtà della devozione e della liturgia. La prima: sono raffigurate, sospese a travi o tiranti in legno fra le colonne della chiesa, le catene dei prigionieri liberati per intercessione della santa, illustrando così una pratica menzionata nel Liber miraculorum sancte Fidis167. La seconda: su di un altare rappresentato dietro il trono di santa Fede vi è un calice, a suggerire che la mediazione della santa è favorita dal sacrificio eucaristico celebrato nella chiesa e forse, più precisamente, dalle messe private finanziate dai devoti. Seguendo questa ipotesi, l’immagine materializzereb-

51. Portale centrale del santuario dedicato a san Giacomo, Santiago de Compostela. 52. San Zeno, chiesa di San Zeno, Verona, lunetta di facciata (Nicolò).


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53. Statue della tomba di san Lazzaro, Musée Rolin, Autun.

be in maniera estremamente vivace il legame esi- Per il fregio di Notre-Dame-la-Grande si è discussa l’influenza del Dramma dei profeti: i testi che quatstente tra il culto dei santi e le messe votive. tro profeti mostrano e la presenza di NabuchodoIl dramma liturgico nosor corrispondono esattamente al sermone di Quodvultdeus, quel Contra judaeos, paganos et arÉmile Mâle aveva postulato già più di un secolo fa rianos da cui è derivato l’ordo prophetarum, ma in che il dramma liturgico avesse esercitato una certa parte se ne allontanano; poi Nabuchodonosor e i influenza su più temi iconografici: le Pie Donne al profeti sono preceduti dalla scena del Peccato Orisepolcro, l’Adorazione dei Magi, i profeti che sro- ginale, come nel Jeu d’Adam, un dramma del XII setolano un filatterio o la parabola delle dieci vergi- colo nel quale il corteo dei profeti conclude la rapni168. Quest’ipotetica influenza riguarda di solito presentazione del Peccato Originale e della storia alcuni dettagli figurativi, ma a volte si estende a di Caino e Abele. Se, sulla base di questo argomenprogrammi più vasti, come la facciata di Notre- to, si postulasse un’influenza del Dramma dei profeDame-la-Grande (Poitiers) o i portali di Cremona, ti o del Jeu d’Adam sul programma della facciata, Ferrara e Verona. Sin dal momento della loro for- bisognerebbe dedurne che il testo è stato modificamulazione queste ipotesi sono state spesso oggetto to, ciò che sembra poco probabile171. Bisogna piutdi discussione. Si pensi in particolare alle numero- tosto considerare con molta prudenza l’idea, cose rappresentazioni della parabola delle vergini munque seducente, secondo la quale la facciata di sagge e delle vergini stolte sui portali del cosiddet- Notre-Dame-la-Grande è stata concepita come un to «gruppo di Aulnay»: Émile Mâle supponeva gigantesco allestimento di pietra che serviva ogni che il gesto delle vergini stolte che rovesciavano la anno da scenografia per il dramma liturgico. lampada, non presente nel testo biblico, fosse stato Lo stesso può valere per i tre portali dell’Italia del ispirato dal dramma liturgico169, mentre lo si trova nord e gli amboni campani nei quali alcuni profeti già in una delle primissime raffigurazioni del tema, esibiscono estratti del sermone di Quodvultdeus. nelle catacombe romane di San Ciriaco170. Per i portali, Dorothy Glass ha ridestato la discus-

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sione basando il suo ragionamento su di un manoscritto dell’Ordo prophetarum conservato a Zagabria databile al 1200, dimostrando così che il Dramma dei profeti doveva già essere conosciuto in Italia nel XII secolo172. L’epigrafia non ci consente tuttavia di confermare l’ipotesi di una influenza del dramma sull’iconografia. Per la facciata del duomo di Modena, l’ipotesi può avvalersi di argomenti iconografici supplementari. Se i filatteri dei profeti scolpiti sugli stipiti del portale sono sprovvisti di iscrizioni, questi personaggi veterotestamentari accompagnano il ciclo narrativo che si dispiega lungo il fregio correndo per tutta la larghezza della facciata, essenzialmente dedicata al Peccato Originale e alla storia di Caino e Abele come nel Jeu d’Adam, la qual cosa ha portato Chiara Frugoni a postulare un’influenza del testo su questo programma173. I principali argomenti proposti possono però essere confutati. Il tema di Eva che lavora la terra, ad esempio, era già stato rappresentato in Italia sin dalla prima metà dell’XI secolo, prima di essere introdotto nel dramma174. La parola rex iscritta nel nimbo del Cristo può richiamare il termine sire utilizzato nel dramma, ma questo tipo di aureola è rappresentato sin dall’epoca carolingia ed è stato precocemente trasposto nella scultura romanica, come sulla porta Miégeville e forse a Conques175. Infine, le parole Dum deambularet, recitate nel dramma e iscritte nella scena dei rimproveri rivolti da Dio ad Adamo ed Eva, appartenevano inizialmente a un responsorio cantato la domenica di Settuagesima176. Come per Notre-Dame-la-Grande (Poitiers), i contro-argomenti non impediscono di pensare a un legame tra il Jeu d’Adam e il programma della facciata, che avrebbe potuto essere utilizzata come fondale scenico, ma rendono l’ipotesi estremamente fragile. Le stesse incertezze pesano sul tema dell’Adora-

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zione dei Magi: Ilène Forsyth ha suggerito, basandosi su solide argomentazioni, che le Madonne in Trono, le Sedes sapientiae romaniche, dovevano essere utilizzate nel dramma dei Magi per interpretare la Vergine col Bambino, davanti ai quali si presentavano tre religiosi vestiti come re177. Si sarebbe tentati di interpretare in questo senso le numerose raffigurazioni del tema, in particolare quando i Magi presentano gli atteggiamenti descritti nel dramma, inginocchiandosi davanti al Bambino o indicando la Stella178. La tentazione è ancora più forte in Alvernia, dove si conservano numerose Sedes sapientiae, in particolare sul portale di NotreDame-du-Port (Clermont-Ferrand) dove la rappresentazione della Vergine con Bambino su trono ligneo presenta forti somiglianze con la statuaria. Tuttavia, queste analogie non sono sufficienti per privilegiare solo questa parte del vastissimo campo semantico del tema a scapito degli altri. Questa panoramica molto succinta e non esaustiva mostra le numerose forme che possono assumere i rapporti tra liturgia e scultura romanica, ma anche offre la misura delle pesanti incertezze che gravano sulle numerose ipotesi formulate a riguardo, iniziando da quelle che ho proposto in queste pagine. Queste ultime reclamano in effetti studi approfonditi, seriali e sintattici, che dovrebbero apportare argomenti sia favorevoli che contrari alle interpretazioni liturgiche, e aggiungerne di nuove; ma è probabile che solo di rado esse conseguano delle certezze, perché le immagini esplicite, come i dipinti di Esterri de Cardós, i rilievi scolpiti di SaintSernin di Toulouse, il portale di Jaca o gli amboni abruzzesi, sono eccezionali. Se, pur non riuscendo a convincere, le numerose suggestioni formulate in questo saggio potessero suscitare nuove ricerche di questo tenore, esse avrebbero raggiunto uno dei loro principali obiettivi.

54. La santa inginocchiata davanti alla mano di Dio, chiesa di Sainte-Foy, Conques. 55. Lunetta della facciata della chiesa di Sainte-Foy, Conques.


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IL DECORO DIPINTO DEGLI EDIFICI ROMANICI PERCORSI NARRATIVI E DINAMICA ASSIALE DELLA CHIESA Jérôme Baschet

1. Scene della vita di Cristo sulla parete sinistra del santuario della chiesa di Saint-Martin, Nohant-Vic.

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Le opere che il Medioevo ci ha lasciato sono delle immagini-oggetto, o immagini-luogo, aderenti a un oggetto o a un luogo, di cui costituiscono il decoro e di cui accompagnano l’uso. Non si potrebbero perciò comprendere le pitture che ornano i muri delle chiese romaniche senza considerare lo status sociale e l’uso liturgico di tali luoghi rituali. Eppure, non si postulerà un adeguamento completo e sistematico fra l’immagine e il suo luogo, ma si tenterà piuttosto di cogliere le relazioni variabili e flessibili che le uniscono, sottolineando il contributo attivo del decoro dipinto al funzionamento del luogo di culto. Si cercherà di mettere in evidenza un aspetto particolarmente importante dell’edificio romanico: la sua dinamica assiale, al pari delle diverse modalità che permettono al decoro dipinto di esprimerla. Non potendo separare tale aspetto dalle altre caratteristiche dell’edificio, si getterà dapprima uno sguardo sulla struttura del luogo di culto in epoca romanica, insistendo sul fatto che esso registra le conseguenze delle più rilevanti trasformazioni sociali e istituzionali di questo periodo. In seguito, si analizzerà dettagliatamente un esempio privilegiato, il ciclo dipinto della volta della navata centrale di Saint-Savin. La riflessione sarà poi completata considerando edifici più modesti, e altre modalità

mediante le quali il decoro dipinto può contribuire alla dinamica assiale del luogo rituale. Precisiamo ancora che ci si limiterà al decoro dipinto, ma che converrebbe cogliere nel suo insieme tutti gli ornamenta ecclesiae, che siano dipinti, scolpiti, tessuti, incisi nel vetro o ancora di oreficeria, e ciò senza separare iconografia e ornamentazione, poiché è l’aggregazione multimediatica di immagini-oggetto a fare del luogo di culto un luogo di immagini. L’edificio di culto in epoca romanica: uno sguardo strutturale Una chiesa romanica è ben più che un semplice luogo di culto. Già durante l’alto Medioevo, gli edifici episcopali e monastici costituivano centri di potere di primaria importanza, e nel corso dei secoli XI e XII anche le chiese più modeste, come parrocchiali o priorati, acquisirono un maggiore ruolo sociale. La società medievale conobbe allora una vasta riorganizzazione, alla quale Robert Fossier ha dato il nome di «incellulamento»1: la stabilizzazione e il raggruppamento di abitato conduce, nella più parte delle regioni d’Occidente, alla costituzione di una rete stabile di villaggi, il cui polo di riferimento è il più delle volte costituito dalla chiesa e dal cimitero che la circonda. Anche nelle

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regioni in cui l’abitato resta disperso, tale polo cultuale è determinante, grazie alla generalizzazione della rete parrocchiale: è questo il quadro di vita decisivo, che associa nello stesso luogo il triplice obbligo di Battesimo, versamento delle decime e sepoltura. Bisogna precisare che il termine «incellulamento» non deve condurre a immaginare una giustapposizione di cellule locali, indipendenti le une dalle altre. Dal momento in cui si suppone che l’Eucaristia assicuri la Presenza reale di Cristo, ogni parrocchia è il luogo in cui si realizza l’unità globale della cristianità. In tal senso, lo spazio feudale funziona meno per giustapposizione di unità elementari che per un gioco di incastri e sineddoche che identificano volentieri la parte con il tutto. Come ha sottolineato Alain Guerreau, «nell’Europa feudale, lo spazio non era concepito come continuo e omogeneo, ma come discontinuo, eterogeneo e polarizzato»2. Ora, sono essenzialmente gli edifici religiosi ad assumere questa polarizzazione (l’aristocrazia laica e il castello sono ugualmente in gioco, ma il contrasto fra l’instabilità della rete castrense e la stabilità di quella ecclesiastica basta a mostrare quale fra le due abbia maggior peso). Bisogna inoltre insistere sul cimitero, che ormai circonda le chiese, trovandosi di conseguenza nel cuore degli spazi abitati, che siano rurali o urbani. Tale disposizione è il risultato di una mutazione capitale3. L’antichità romana seppelliva i suoi morti lontano dagli spazi abitati e l’alto Medioevo ha conosciuto un’ampia diversità d’usi: traslazione

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dei corpi santi nelle chiese urbane, necropoli in piena campagna, sepolture isolate, ancora frequenti in epoca carolingia. Successivamente, nell’XI secolo, il cimitero pertinente alla chiesa, essendo ormai oggetto di uno specifico rituale di consacrazione, si generalizza ovunque come il solo luogo lecito di sepoltura dei defunti. Di conseguenza, recarsi in chiesa significa attraversare la terra dei morti: l’edificio di culto è così circondato non dal mondo profano, ma da una sfera sacrale, associata allo statuto fondante dell’ancestralità. Dominique Iogna-Prat (2006) ha recentemente messo in luce l’emergere di una nuova dottrina del luogo di culto, che si può ritenere il punto d’arrivo dei processi sociali che si andranno a evocare. I cristiani della tarda antichità e dei primi secoli medievali concepivano la comunità in modo essenzialmente spirituale e tendevano a minimizzare l’importanza del luogo materiale dove si svolgeva il culto (al pari di quello di sepoltura dei defunti). L’epoca carolingia segna una tappa importante nella valorizzazione del luogo di culto, come indica chiaramente lo sviluppo di un rituale specifico di dedicazione della chiesa negli ordines dell’VIII secolo. Successivamente, nei secoli XI e XII (nello stesso momento in cui un rivolgimento della dottrina eucaristica conduce alla proclamazione papale della Presenza reale di Cristo nella specie eucaristica), un radicale rivolgimento conduce ad attribuire all’edificio di culto un carattere di assoluta necessità. Il clero di epoca gregoriana sviluppa

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2. Assetto liturgico della cattedrale di Canterbury verso il 1100 (da Klukas): A) altare maggiore; B) altare mattutinale; C) altare esterno al tramezzo; S) reliquie; a) altari laterali al piano terra; b) altari laterali al livello della galleria; c) cattedra vescovile. 3. La dualità clero/laici nel seno della Chiesa. Particolare dell’Exultet di Montecassino, 1087 ca. Biblioteca Apostolica Vaticana.

un’inedita dottrina, affermando che non possono essere somministrati i sacramenti senza l’uso di luoghi consacrati. Gli edifici di culto sono divenuti letteralmente indispensabili al funzionamento della Chiesa, e dunque alla società nel suo insieme. Il contenitore (la chiesa) è la condizione d’esistenza del contenuto (la Chiesa), il mezzo e la forma stessa della sua realizzazione. Ruolo decisivo nella strutturazione dello spazio sociale, carattere di necessità per la somministrazione dei sacramenti, identificazione piena fra chiesa ed Ecclesia (nozione che si avvantaggia di un continuo rapporto metonimico fra la sua accezione comunitaria – il corpo formato dall’insieme dei cristiani – e quella istituzionale – il clero): l’eminenza del luogo di culto non potrebbe essere sottolineata con più forza. È a partire da questa «ipersacralizzazione» che conviene approcciarsi agli edifici di culto romanici, poiché la diffusione

di decori dipinti sempre più vasti, anche nelle piccole chiese, è certo una manifestazione della loro estrema valorizzazione sociale e liturgica. Se l’unità sacrale del locus rituale è un dato maggiore, essa si combina con una divisione dello spazio interno la cui storia comincia a essere ben conosciuta4. Dopo alcuni accenni a Roma, dal VII secolo, è in epoca carolingia che appaiono le prime recinzioni che isolano il santuario mediante un muro basso, in relazione alle prescrizioni che interdivano ai laici di trovarsi in prossimità dell’altare al momento della messa. Una tappa ulteriore si avvia a partire dalla metà del secolo XI: dalla penisola italiana fino all’Inghilterra, si generalizza l’impiego di alti muri di recinzione, in modo che i laici siano sottratti agli sguardi del clero e il clero a quello dei laici5. Questo dispositivo, che esclude fisicamente e visivamente i laici dal luogo della celebrazione eucaristica, è l’espressione architettonica di una separazione fra clero e laici alla quale la rifondazione della Chiesa dei secoli XI e XII conferisce estremo rigore. Ci sono ormai – secondo l’espressione del Decretum di Graziano – «due tipi di cristiani», gli uni votati agli affari secolari (e al matrimonio), gli altri che offrono il celibato e la rinuncia ai legami di parentela carnale agli affari della Chiesa. E, come precisa Umberto di Silva Candida, per tale ragione essi dovevano essere «separati in seno ai santuari in rapporto alla collocazione e ai ruoli»6. Nel XII secolo i liturgisti insistono, quando commentano la struttura dei luoghi di culto, sulla dualità che oppone la navata (navis), associata ai laici, e il santuario (sanctuarium, cancellus), proprio del clero7. Tale dualità basta tuttavia a rendere conto delle gerarchie interne all’edificio o bisogna far valere, con Paolo Piva (2006), una divisione ternaria che distingue navata, coro, dove il clero recita gli uffici, e santuario, spazio di celebrazione della messa? Di fatto, i liturgisti del XIII secolo tendono ad adottare una tale tripartizione, esplicitamente enunciata da Guglielmo Durando8. In ogni caso, tale divisione non vale che per gli edifici più importanti (abbaziali, cattedrali o collegiate), serviti da una comunità monastica o canonicale che si riunisce nel coro per gli uffici. Si deve qui anche sottolineare che il clero di epoca romanica privilegia una rappresentazione duale della chiesa. Soprattutto, si vorrebbe sottolineare che l’unità del luogo di culto e le sue divisioni interne sono inglobate in un movimento unico, dal momento che lo spazio interno è attraversato da una dinamica assiale polarizzata dalla conca absidale e dall’altare

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maggiore. Ciò deve essere considerato, una volta in più, il risultato di una rilevante evoluzione storica9. Se le prime grandi basiliche romane e ravennati erano immediate testimonianze di un modello nettamente assiale, in epoca carolingia è prevalsa una complessità di dispositivi liturgici associati alla moltiplicazione degli altari (una ventina a San Michele a Hildesheim e sulla pianta di San Gallo), in uno spazio liturgico di cui l’architettura materializzava la bipolarità fra un’abside orientale dedicata a un santo e un corpo occidentale enfatizzato, che accoglieva l’altare del Salvatore (eventualmente quello della Vergine nella cripta e quello di Michele nelle tribune). Nel corso dei secoli X e XI questa configurazione si disgrega, e si assiste al raggruppamento della più parte degli altari nell’area orientale dell’edificio (altare maggiore e altare mattutinale nel santuario, ai quali potevano aggiungersi gli altari delle absidiole del transetto e del deambulatorio; solo l’altare della Croce rimane frequentemente situato al centro della navata e a ovest della recinzione, ad uso dei laici), tanto che i corpi occidentali perdono importanza e cessano di costituire un polo liturgico che rivaleggia in importanza con l’abside. Nella misura in cui la bipolarità carolingia si affievolisce, l’assialità dinamica dell’edificio, polarizzata anzitutto dall’altare maggiore e dall’abside, si afferma come una delle caratteristiche maggiori degli edifici di culto d’Occidente. Verso il 1200, il vescovo Sicardo di Cremona esprime chiaramente questa dinamica assiale, dal mo-

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mento che associa la lunghezza dell’edificio di culto alla pazienza «di chi sopporta le avversità fino al raggiungimento della patria celeste» (longitudo eius longanimitas est quae patienter adversa tolerat donec ad patriam perveniat)10. Tale espressione, tanto ricca quanto concisa, può suggerire l’associazione della navata con l’avversità (la lotta spirituale fra il bene e il male) e dell’abside con la pienezza paradisiaca. Soprattutto, essa assimila l’assialità (longitudinale) dell’edificio alle pene dell’homo viator, al pellegrinaggio della vita umana volta alla speranza del Cielo11. In poche parole, Sicardo associa abilmente la dinamica assiale della chiesa e il valore centrale della società cristiana: la ricerca della salvezza. La sua espressione ci autorizza ad affermare che la dinamica assiale dell’edificio rimanda all’iter (il cammino), uno schema molto presente nelle concezioni medievali dello spazio12. Dispiegando interiormente l’iter polarizzato dall’altare maggiore e dall’abside, l’edificio di culto riproduce così, in scala ridotta, il modello del pellegrinaggio di cui esso stesso costituisce sovente il polo d’attrazione. Si può allora affermare che l’edificio di culto associa in sé un doppio valore, come locus e come iter. Si tratta del luogo sacro per eccellenza, che polarizza lo spazio sociale (localmente o in modo più ampio, in funzione dei flussi di pellegrini che smista); ma l’unità sacrale del suo status di locus si apre dinamicamente, dispiegando al suo interno un iter scandito da una serie di soglie reiterate, da

4. Disposizione degli altari alla fine del secolo VIII (da Taylor), Saint-Riquier, Centula. 4

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oltrepassare quali altrettanti ostacoli (adversa). Tale associazione locus/iter può sembrare paradossale e, di fatto, aiuta a cogliere la complessità dell’edificio di culto, al pari delle tensioni che costituiscono la ricchezza delle sue modalità di funzionamento. In ogni caso, tale associazione paradossale è chiaramente formulata nel rito di dedicazione, che qualifica l’edificio quale domus Dei et porta caeli13. Se domus Dei suggerisce bene la sacralità di un locus ove il Creatore si rende presente, esso è allo stesso tempo assimilato a una soglia, nel cammino (iter) verso il pieno ricongiungimento con Dio. Si esprime così la dualità di un luogo pienamente sacro e nondimeno attraversato da una forte tensione. In generale, gli edifici di culto di epoca romanica vedono convergere in sé tre fenomeni, che si accentuano a vicenda e partecipano di un medesimo processo: il loro ruolo privilegiato nella «spazializzazione» dei rapporti sociali conferisce ai luoghi di culto un’ipersacralità; il rafforzamento della separazione gerarchica fra clero e laici conduce a una materializzazione sempre più forte delle divisioni interne dell’edificio; infine, l’affermazione di

5. Pianta della chiesa abbaziale di Saint-Savin (da Favreau, 1999).

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una dinamica assiale, che esprime la tensione della cristianità in marcia verso la salvezza, consente di integrare le sue gerarchie interne in un cammino comune a tutti. Unità sacrale, divisioni interne e dinamica assiale devono essere considerate tre caratteristiche maggiori di cui gli edifici romanici manifestano l’affermazione congiunta. La prima è l’effetto dello status socio-spaziale degli edifici di culto; la seconda manifesta l’accresciuto potere dell’istituzione clericale; la terza evoca soprattutto la costituzione ecclesiale della comunità cristiana, tesa verso la speranza della Salvezza. È solamente in questo senso che si può dire che l’edificio di culto è espressione (doppiamente paradossale) dell’Ecclesia: in esso – iter e locus – si intrecciano la simbolizzazione del potere clericale (essendo questo il luogo del ricorso obbligato alla mediazione sacerdotale) e quella della comunità dei fedeli (pietre vive che compongono l’edificio-corpo della chiesa). La volta a botte dipinta di Saint-Savin Tentiamo ora di comprendere come i decori dipinti degli edifici romanici possano farsi carico – in modi assai differenti – di questi aspetti. Come già detto, ci si concentrerà, ma senza isolarla, sulla dinamica assiale dell’edificio, dalla facciata principale al santuario, trascurando di conseguenza spazi più specifici, quali portico, nartece, cripta o deambulatorio, di cui andrebbe condotta un’analisi esaustiva relativa al decoro dipinto romanico14. I dipinti della volta dell’abbaziale di Saint-Savin meritano un’analisi attenta, poiché forniscono un esempio rilevante di «dialettica» tra un ciclo narrativo e la dinamica assiale dell’edificio. Sarà anche l’occasione per avviare lo studio dei percorsi narrativi e dei diversi fattori che intervengono nella disposizione delle immagini, e per tracciare un quadro globale del decoro dipinto e dei suoi effetti, senza dissociare, come si fa troppo spesso, gli aspetti iconografici da quelli ornamentali15. Realizzati negli ultimi anni del secolo XI, al termine della costruzione dell’imponente chiesa abbaziale, i dipinti murali di Saint-Savin sono fra i più importanti fra quelli conservati a nord delle Alpi per l’epoca romanica16. Il loro carattere d’eccezione deriva anche dal fatto che rivestono una volta a botte di navata centrale, opzione rara per il periodo in questione (ricordiamo che la sua volta senza archi trasversali che scarica direttamente su colonne semplici è una soluzione singolare, che contra-

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sta con le tre campate occidentali la cui volta su archi trasversali scarica su pilastri compositi). D’eccezione è ancora la scelta di un ciclo così ampio dedicato all’Antico Testamento, dalla Creazione a Mosè (al quale si aggiungono figure monumentali di profeti nei pennacchi che sormontano le colonne). Mentre la Passione appare nella tribuna, l’Apocalisse nel portico17, i santi nelle cappelle del deambulatorio e nella cripta, e Cristo in Maestà, di cui Mérimée ha fatto cancellare i resti, nel santuario18, la navata centrale è interamente posta sotto il segno dell’Antica Legge. Dato rilevante, se si pensa che i cicli che occupano le navate dei grandi edifici romanici associano generalmente i due Testamenti, al fine di ribadirne l’unità tipologica (infra). Bisogna allora supporre un ciclo neotestamentario nelle navate laterali? Niente di meno sicuro. Si sa che i perimetrali delle navatelle furono ornati con un finto paramento murario al tempo del rimaneggiamento del XV secolo, ed è poco probabile che fosse stato ricoperto un ciclo narrativo

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6. La donna e il drago. Scena dell’Apocalisse del portico della chiesa abbaziale di Saint-Savin. 7. Particolare della serie dei santi raffigurati nella cappella assiale del deambulatorio della chiesa abbaziale di Saint-Savin. 8. Volta della navata centrale della chiesa abbaziale di Saint-Savin.

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di epoca romanica nel momento in cui quello della volta era oggetto di un impegno di consolidamento. Certo, tracce di personaggi sono stati messi in luce negli angoli delle volte a crociera, ma il racconto neotestamentario si sarebbe trovato su di un supporto assai frammentato, poco adeguato a fare da pendant a quello della botte della navata centrale19. Piuttosto, è un’altra pista che conviene privilegiare, sottolineando che l’Antico Testamento non è concepito, a Saint-Savin, in maniera autonoma: Yvonne Labande-Mailfert aveva già osservato che la scelta dei personaggi della volta e la loro importanza relativa evocano abbastanza chiaramente il discorso di Paolo sulla fede degli antenati (Eb 11), in modo che l’Antico Testamento apparisse evocato attraverso la mediazione del Nuovo. Le pitture sono organizzate in quattro registri, la cui lettura dispiega un percorso totale di 168 metri

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di lunghezza. In genere, la disposizione delle scene è stata giudicata caotica (pur se ci si è sforzati, più recentemente, di svelare un pensiero all’opera dietro un «apparente disordine»). Tuttavia pare più conforme ai modi del pensiero medievale descriverla come coerente, sebbene complessa. Notiamo anzitutto che l’inizio del ciclo (l’Opera dei sei giorni), sul fianco nord, dissocia le due parti della navata: bisogna leggere per prime le tre campate voltate su archi trasversali, per poi passare alla parte orientale della volta, senza archi trasversali (ne risulta una marcata asimmetria, poiché la parte sud della navata ignora tale dissociazione e incatena in maniera continua le scene, dal transetto alla controfacciata e viceversa). Tale «inconveniente» produce altresì due vantaggi in termini di significato, che dovevano sembrare più importanti agli ideatori del ciclo in confronto al rispetto di

9-10. La creazione del sole e della luna (9) e Dio che presenta Eva ad Adamo (10), particolari della volta della chiesa abbaziale di Saint-Savin.


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11. Isacco e Ismaele seppelliscono Abramo, volta della chiesa abbaziale di Saint-Savin.

una logica strettamente formale. In effetti, le scene della Creazione sono raggruppate per formare un «polo edenico» nella parte occidentale dell’edificio; ciò non è privo di pertinenza simbolica, posto che il passaggio da una parte all’altra della navata (che comporta il superamento dell’ultimo arco trasversale), corrisponde all’espulsione dal Paradiso terrestre. Inoltre, tale disposizione permette di stabilire un parallelo fra Adamo, padre degli uomini, e Abramo, padre di tutti i credenti, il cui ciclo occupa la parte corrispondente del lato meridionale20. Per il resto, il ciclo è stato descritto, in particolare da Florens Deuchler, quale caso raro ma esemplare di lettura bustrofedica (che cioè alterna la lettura da sinistra a destra e quella da destra a sinistra). Lo schema di lettura mostra in effetti tre registri che si incatenano in uno zigzag continuo (che tut-

tavia non include il registro inferiore nord)21. Tale analisi deve essere però rivista. È curioso osservare come essa derivi dall’aver ignorato le condizioni d’osservazione in situ, fondandosi sull’uso di uno schema che proietta su di un unico piano la tridimensionalità della volta, cancellando così la distinzione fra i fianchi sud e nord. Restituita nello spazio, la lettura del registro superiore della volta va condotta dalla facciata verso il transetto (guardando verso nord), poi dal transetto verso la facciata (guardando verso sud). È lo spettatore a voltarsi fisicamente (da nord a sud), in modo che per lui il senso di lettura non cambi: egli resta orientato da sinistra a destra, ignorando di conseguenza l’inversione del senso di lettura (da sinistra a destra, poi da destra a sinistra), caratteristica dello schema bustrofedico22. Tale inversione si produce una volta (e una soltanto), nel registro inferiore del

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12. Schema della disposizione dei cicli della volta della navata della chiesa abbaziale di Saint-Savin (da Vergnolle).

Creazione

13. Veduta d’insieme della navata centrale della chiesa abbaziale di Saint-Savin.

Abramo

Sud

Nord

Abele Mosè

Babele

Giuseppe 12

Noè

Noè

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Abramo

fianco sud, poiché il Ciclo di Abramo, dopo una lettura da sinistra a destra, riparte sotto da destra a sinistra. Ma ciò non basta a fare dello schema bustrofedico il principio generale di organizzazione della volta dipinta, e conviene perciò proporre una diversa analisi del dispositivo adottato a SaintSavin (appoggiandosi a un altro schema di rappresentazione del decoro della volta). Ricordiamo che esistono due tipi principali di disposizione dei cicli narrativi sulle pareti di una navata: il «tipo parallelo», che associa due cicli che corrono in parallelo su ciascuno dei due muri che si fronteggiano; il «tipo circolare», in cui il ciclo si incatena in maniera continua da un muro all’altro (infra). Il dispositivo adottato a Saint-Savin (nella parte di volta senza archi trasversali) può essere semplicemente descritto come l’associazione di questi due tipi: nel registro superiore della volta, la lettura è circolare (centrata sul Ciclo di Noè, il cui inizio e la cui fine sono disposti esattamente in corrispondenza verticale); nel registro inferiore, la lettura è parallela (facendo fronteggiare il Ciclo di Giuseppe, che si reca da Canaan all’Egitto, e il Ciclo di Mosè, che conduce il suo popolo dall’Egitto alla terra di Canaan). L’organizzazione del decoro è certo complessa, poiché associa questi due differenti schemi (parallelo e circolare), giocando allo stesso tempo con la dualità architettonica della navata23. Ma la sua complessità risulta essenzialmente dalla combinazione di molteplici fattori, e si rivela nell’insieme sufficientemente coerente per non meritare giudizi negativi, che evocano confusione e anomalie. Soprattutto, conviene analizzare gli effetti che tale disposizione permette di produrre. Come sempre, la disposizione dei cicli in un edificio è il risultato della combinazione di molteplici fattori: la logica narrativa; la ricerca di una localizzazione pertinente di certe scene, che permetta di stabilire un rapporto con altre scene o con punti dell’edificio simbolicamente o liturgicamente significativi; infine, la dinamica globale creata dallo sviluppo dei cicli. A Saint-Savin, la logica narrativa è fortemente sottolineata dal dispiegarsi largamente coerente della catena di lettura. Occorre precisare che un ciclo del genere non era principalmente destinato a essere «letto» in maniera lineare ed esaustiva: si deve piuttosto immaginare una comprensione più globale, suscettibile di isolare certe scene particolarmente rilevanti e in grado di tessere fra loro relazioni produttrici di senso. Quanto all’unità di insieme del ciclo, essa poteva essere percepita in

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modo abbastanza immediato, sotto la specie dei suoi dispiegamenti lineari e della sua sovrabbondanza narrativa. Trattando della localizzazione pertinente delle scene, ci si accontenterà di insistere sulla densità di senso che si accumula all’estremità orientale della volta24. Nel punto in cui il Ciclo di Noè compie il suo mezzo giro si constata una rilevante amplificazione del racconto, fra La discesa dall’Arca e L’ebbrezza. L’insistenza sul sacrificio, il primo della storia biblica, è già significativa, perché sono associati il dono delle colombe e la presenza di un agnello sull’altare, e perché è raro trovare insieme, in tale scena, l’offerta all’altare e la presenza della divinità25. Oltretutto, all’estremità di ciascun registro, due scene mostrano Noè viticoltore: da una parte, egli vendemmia e raccoglie un grappolo in una coppa; dall’altra, beve il suo vino. Tale insistenza non può essere compresa che in una prospettiva tipologica, quale annuncio del sacrificio di Cristo. È degno di nota che tale prospettiva si

14. Sviluppo del ciclo pittorico della volta della navata centrale della chiesa abbaziale di Saint-Savin. 15. Noè viticoltore, ricostruzione a tratto del particolare del Ciclo di Noè della volta di Saint-Savin. 15

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Nelle doppie pagine seguenti: 16. I sacrifici di Abele e Caino, particolare dell’affresco della navata di Saint-Savin. 17. L’Arca di Noè, particolare dell’affresco della navata di Saint-Savin.

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mette in moto al limite dell’incrocio del transetto, nella parte di volta che, dalla navata, è visivamente associata al santuario, dove si compie il sacrificio eucaristico (compreso il caso in cui la recinzione sottraesse l’altare maggiore agli sguardi). Gli altri registri presentano a loro volta connessioni di rilievo: il Ciclo di Giuseppe si sviluppava in una zona il cui intonaco dipinto è andato perduto, ma che doveva mostrarlo intento a distribuire il grano, scena che prefigura Cristo che offre il suo corpo ai discepoli26. Nel Ciclo di Mosè, la penultima scena mostra, con singolare insistenza, La consegna delle Tavole della Legge (l’Antica che prefigura la Nuova). Ciò potrebbe rapportarsi alla prossimità del santuario, tanto più che una delle due iscrizioni incise sulle tavole – ADORA DEUM – evoca la funzione presente del luogo di culto e invita ad attualizzare la scena. Quanto all’ultima scena, perduta, rappresentava forse La costruzione della tenda dell’incontro, con l’Arca dell’Alleanza, posta così in corrispondenza con la zona più sacra

della chiesa27. Comunque sia, la raffigurazione del grano, con Giuseppe, e del vino, con Noè, basta a evocare, nella zona più prossima all’altare, le due specie eucaristiche. Si può pertanto affermare che una prospettiva tipologica ha guidato la concezione del ciclo di Saint-Savin: l’Antico Testamento è come teso verso il santuario e verso la realizzazione eucaristica delle promesse che prefigura. Anche la disposizione del ciclo rivela tale preoccupazione dinamica28. Notiamo anzitutto che la sua lettura ha inizio nella facciata occidentale (Creazione e Peccato Originale) per completarsi nel transetto (Mosè e la Legge), conformemente all’orientamento dominante dell’edificio. In più, la disposizione adottata ha l’effetto di orientare tre dei quattro registri verso il santuario, così da sottolineare ancora la dinamica assiale già evocata, mentre le fasce narrative non sono divise da montanti verticali, la cui presenza interromperebbe visivamente la continuità del racconto (scandito da sfondi colorati e da elementi che fanno parte delle scene

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stesse, ed è per eccezione che delle bordure verticali isolano una scena tanto negativa quale La maledizione di Canaan). Infine, la dinamica assiale del ciclo deve molto all’ampia banda ornamentale di colmo, che costituisce l’‘armatura’ del decoro della volta e, certamente, la prima àncora visiva che si impone allo spettatore. I motivi che la ornano furono ridipinti e modificati in tre occasioni, fra la fine del XIV e l’inizio del XVI secolo29, ma l’effetto globale che produceva è rimasto essenzialmente inalterato. Tale effetto può essere descritto come un forte contrasto fra il ritmo discontinuo e intermittente indotto dall’agitazione dei molteplici personaggi biblici e dalla rapida successione degli sfondi colorati, da una parte, e, dall’altra, la potente direttrice che attraversa la volta: il contrasto ritmico fra una vigorosa linearità mediana e zone laterali di notevole agitazione non potrebbe essere più netta. La banda di colmo di Saint-Savin ci offre l’esempio rilevante di un elemento ornamentale che gioca un ruolo struttu-

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rante nell’impaginazione di un decoro dipinto. Senza essere orientata, la banda di colmo sottolinea efficacemente l’asse della navata, che i cicli narrativi vengono letteralmente a occupare per organizzarne la dinamica, in rapporto con la polarizzazione liturgica del luogo rituale. L’interazione di questi fattori contribuisce ad attivare il «funzionamento» della navata, a farne uno spazio teso verso il santuario. Ciò coincide particolarmente bene con la maniera con cui Sicardo di Cremona, un secolo più tardi, evoca la lunghezza della navata, associandola al cammino dell’uomo alla ricerca della patria celeste. Si può allora suggerire una convergenza (ma certo non un totale adeguamento) fra tre fenomeni: la struttura del luogo rituale, che subordina la navata alla polarità del santuario, luogo della piena presenza divina; il dispiegamento iconografico dell’Antico Testamento, che esprime le tribolazioni dell’umanità, ma che una prospettiva tipologica orienta verso una realizzazione più compiuta della volontà divina; infine, la dispo-

Nella doppia pagina precedente: 18-21. L’ebbrezza di Noè e la pietà dei figli; La costruzione della torre di Babele; Giuseppe sul carro del faraone; Il passaggio del Mar Rosso, particolari della volta dell’abbaziale di Saint-Savin.


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22. Mosè riceve le Tavole della Legge, volta, Saint-Savin. 23. Noè maledice Canaan, volta, Saint-Savin.

sizione dei cicli e la loro strutturazione ornamentale, che contribuiscono a rendere sensibile la dinamica assiale della navata. A Saint-Savin, la navata, spazio teso verso il santuario, è impregnata di un’atmosfera veterotestamentaria, che offre una storia contrastata e imperfetta; essa si inscrive però in una prospettiva dinamica che conduce, storicamente, alla Redenzione, e, liturgicamente, alla reiterazione della presenza divina nel sacrificio eucaristico. Tuttavia un curioso elemento ornamentale, invece di inscriversi in questa dinamica, la contraddice. Si tratta dell’unico arco trasversale dipinto, che marca visibilmente la volta là dove nessun elemento architettonico la interrompe. Come rendere conto di tale elemento, generalmente considerato con qualche imbarazzo? Si sarà voluto ristabilire, mediante l’illusione di un arco trasversale dipinto, una continuità fra le due parti della navata distinte dai diversi caratteri costruttivi? Si sarà tentato, a tale scopo, di ritmare la parte orientale della nava-

ta con due archi trasversali dipinti (uno ogni due campate), prima di abbandonare la realizzazione di uno di essi30? Pur accettando tale ipotesi, resterebbe da comprendere perché la figurazione di un solo falso arco trasversale, in tal punto, è apparsa tanto pertinente da essere stata caricata di un’iconografia densa, con dodici figure a mezzobusto entro medaglioni. Non è certo che quella al centro, danneggiata, fosse provvista di nimbo, ma essa è quantomeno caratterizzata dal suo orientamento, nell’asse della banda di colmo e non in quello dell’arco trasversale dipinto come per gli altri medaglioni31. Si può ritenere che l’insieme di queste figure costituisca un abbozzo di società paradisiaca, secondo uno schema di vecchia data impiegato per il decoro dei sottarchi, in particolare dell’arcone trionfale o di accesso a una cappella32. Quanto al personaggio solo posto in basso sul lato nord, talvolta qualificato come atlante o orante, se ne rimarcherà soprattutto la funzione sintattica: mentre la testa di profilo sottolinea l’asse dell’arco trasversale dipinto, le braccia aperte debordano verso le scene che lo circondano. Tale figura ristabilisce così la continuità del racconto, che la banda ornamentale interrompe. Mediante la sua postura, articola l’asse orizzontale del ciclo narrativo e l’asse verticale del falso arco trasversale. Sebbene nessun indizio permetta di restituire l’arredo liturgico dell’abbaziale dei secoli XI e XII, l’ipotesi secondo la quale il posizionamento del falso arco trasversale corrisponda a una cesura dello spazio della chiesa è da prendere in considerazione, confortati dal confronto con le planimetrie con arredi liturgici degli edifici contemporanei, come quelli del dominio anglo-normanno, riformati nell’ultimo terzo dell’XI secolo grazie all’impegno di Lanfranco di Canterbury33. Gli stalli del coro avranno occupato le tre campate orientali della navata, come si vede ancora nella pianta di Saint-Savin realizzata nel 1675, e come era il caso, nell’XI secolo, della cattedrale di Canterbury o dell’abbaziale di Evesham34? Il confronto con gli edifici inglesi inviterebbe a situare la recinzione e l’altare della Croce al limite della campata seguente in direzione ovest, esattamente in corrispondenza del falso arco trasversale. Ripetiamo che tale disposizione è possibile, o meglio ha buone probabilità di corrispondere al vero, ma resta tuttavia una congettura35. La presenza di un solo falso arco trasversale sarebbe allora giustificata dal suo adeguamento a una divisione interna dello spazio della chiesa e come segno visivo della dignità dell’altare

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24. L’arco trasversale dipinto e la sua intersezione a croce con la banda longitudinale, volta della navata, Saint-Savin. 25. Progetto di ristrutturazione del 1675 dell’abbazia di Saint-Savin (da Favreau).

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26. Separazione di Abramo e di Lot, affresco della volta dell’abbaziale di Saint-Savin.

della Croce. L’arco dipinto evocherebbe una frattura nel ciclo della storia umana, un’apertura celeste contraddistinta dalla presenza divina che convoca la celebrazione eucaristica. Esso riprodurrebbe, nel «cielo» del decoro che unifica la volta, la separazione compiuta al di sotto fra lo spazio dei monaci e quello dei laici. Che la congettura di cui sopra corrisponda o meno a verità, un altro approccio è possibile per rendere conto dell’effetto visivo del falso arco trasversale in rapporto alla struttura della volta e del suo decoro. L’arco trasversale dipinto segna una cesura nella volta, perpendicolarmente alla sua dinamica assiale. Si tratta del solo elemento che produce tale effetto e contraddice un dispositivo generale che accentua il dispiegamento dinamico dei cicli. L’arco

trasversale dipinto associa dunque all’asse longitudinale della navata, marcato dalla banda ornamentale di colmo, l’evidenza materiale della larghezza dell’edificio. Sebbene il testo, già citato, sia posteriore alle pitture, è utile prestare attenzione a ciò che Sicardo di Cremona scrive di questa dimensione della chiesa: «la larghezza è la carità, che, nel suo seno dilatato, dispensa il suo amore agli uomini»36. La navata non è solamente un asse teso longitudinalmente verso la presenza divina; essa deve pure dilatarsi in larghezza per accogliere gli uomini nel proprio seno. In quest’ottica, il falso arco trasversale sembra come le braccia aperte della Chiesa che riunisce, oltre le tribolazioni della storia, la moltitudine delle figure bibliche al pari dei cristiani assembrati sotto la volta (e che sperano di

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giungere al Cielo come gli eletti dell’arco trasversale dipinto). Il decoro narrativo della volta e l’arco dipinto che l’attraversa danno così corpo ai due assi che strutturano la pianta dell’edificio: non vi è lunghezza senza larghezza. Ora, è difficile, nell’universo cristiano, trattare di queste due dimensioni senza evocare la croce, maggior referente degli assi del mondo, e ciò a fortiori dal momento in cui ci si trova in una chiesa di pianta cruciforme. È pertanto lecito dire che l’arco trasversale dipinto forma con la banda di colmo un’immensa croce, che sembra, grazie all’effetto prospettico della volta, levarsi dal santuario ed estendersi lungo la navata. È tuttavia evidente che non abbiamo qui a che fare con una croce nel senso iconografico del termine, come invece avviene, a Saint-Savin, in due punti situati significativamente sull’asse mediano dell’edificio: accanto a Cristo dipinto nel portico, e nella Depo-

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sizione della tribuna, giusto sopra la monofora che si apre sulla volta della navata. Non si tratta di una vera e propria crux gemmata, come nella volta di Chalivoy-Milon o nella cripta di Auxerre37. A Saint-Savin, banda di colmo e falso arco trasversale sono formati da motivi eterogenei, tratti dal repertorio delle bande ornamentali. Ciononostante, queste due bande comportano oggettivamente una disposizione cruciforme, sensibile per chi si trova sotto l’arco o nella parte occidentale della navata. Considerando che tale suggestione si manifesta in maniera imperfetta, ben lontana dall’oggetto di cui la Passione di Cristo apporta la piena rivelazione, si suggerirà che le bande ornamentali della volta mostrano non la croce, ma l’abbozzo ornamentale di una croce. Che quest’ultima sia solo accennata non ha nulla di sorprendente, perché la volta dispiega il mondo dell’Antica Legge. Ma, come già detto, il decoro veterotestamentario di

27. Volta e timpano del portico dell’abbaziale di Saint-Savin. 28. La crux gemmata che organizza il decoro dipinto sulla volta del santuario della chiesa di Chalivoy-Milon.


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secolo, il rito dei due alfabeti, greco e latino, che il vescovo deve tracciare sul suolo, all’interno dell’edificio, in due linee che collegano diagonalmente gli angoli dei perimetrali38. Questi due assi non corrispondono a lunghezza e larghezza dell’edificio, ma è chiaro che il rito ha per funzione l’unificazione del luogo rituale, articolando la sua assialità longitudinale e la sua dualità laterale, e che è lo schema della croce a possedere tale virtù unificatrice. È particolarmente significativo per la nostra tesi che il rito che istituisce il luogo sacro inscriva, per tutta la sua lunghezza, un’impronta cruciforme, con l’efficacia di una croce, senza averne esattamente la forma (e significando oltretutto l’unità dei due Testamenti)39. D’altra parte, è bene sapere che il significato degli assi della chiesa, menzionato da Sicardo di Cremona, può essere ugualmente riferito ai bracci della croce. È ciò che mostra in particolare l’accurato disegno di un manoscritto miniato a Prüfening, verso il 1170-1175: i bracci verticali della croce associano longitudo e perseverantia, mentre i bracci orizzontali latitudo e karitas40. Ora, è interessante constatare che la lunghezza di questa croce-scala celeste ha ugualmente valore di iter, allo stesso tempo percorso storico che conduce dal Peccato alla Grazia passando per la Legge, e cammino individuale alla ricerca di Dio (qui rappresentato nel medaglione superiore, in atto di attirare a sé lo spirito e la carne legati nell’unità della persona umana). L’omologia fra la struttura del luogo di culto e tale schema, la cui portata è allo stesso tempo cosmologica, antropologica e storica, è sorprendente. Del resto, Alano di Lilla dice della croce più o meno ciò che Sicardo di Cremona dice della chiesa: «la croce di Cristo è una scala che dalla terra giunge al Cielo […] Essa conduce l’uomo dall’esilio alla patria, dalla morte alla vita, dalla terra al Cielo, dal deserto di questo mondo al Paradiso»41. La croce e la chiesa sono due modalità omologhe dell’iter; ed è in riferimento al modello del corpo e della croce di Cristo che l’asse della chiesa assume il valore di un cammino verso Dio. VIII

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29. Il corpo e l’anima si elevano a Dio, sulla croce-scala celeste. Da De laudibus sanctae crucis, Prüfening, ca. 11701175. Bayerische Staatsbibliothek, Monaco.

Saint-Savin tende ad andare oltre la lettera biblica. Banda di colmo e falso arco trasversale potrebbero allora evocare l’ombra della croce, portata sul racconto veterotestamentario. In associazione con la dinamica dei cicli e la localizzazione delle scene di portata tipologica, tale «schizzo» cruciforme potrebbe contribuire a inscrivere l’Antico Testamento nella prospettiva del suo compimento neotestamentario, e a far «dialogare» il racconto biblico con il presente dei cristiani riuniti nel luogo di culto, l’uno e gli altri tesi verso il sacrificio dell’altare. Non sorprenderebbe che tale operazione avesse richiesto l’evocazione del segno della Passione, operatore decisivo del divenire dell’umanità. Che si ammetta o meno tale interpretazione, essa invita a porre la seguente domanda: c’è qualche ragione per proiettare in tal modo l’ombra di una croce sull’asse della chiesa? Se ne evocheranno due. Gli ordines di dedicazione includono, dall’-

Dalla facciata all’abside: polarizzazione attraverso il decoro dipinto Si potrebbero certo moltiplicare gli esempi di impostazione assiale del decoro dipinto comparabile a quella della volta di Saint-Savin. Pensiamo, per ampliare la prospettiva a supporti diversi dalla pittura murale, all’albero che forma l’asse del mosai-

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co del pavimento della cattedrale di Otranto, o ancora al soffitto ligneo dipinto di San Michele a Hildesheim, che conduce, da ovest a est, dal Peccato Originale alla Vergine con Cristo in trono. Ad ogni modo, bisogna riconoscere l’eccezionalità del decoro di Saint-Savin, il quale, oltre a occupare fisicamente l’asse mediano dell’edificio, ne assume la dinamica assiale a un grado che si osserva di rado, particolarmente quando si passa da chiese ad ampie navate a costruzione più modeste. Bisogna perciò evocare altre configurazioni e altre modalità mediante le quali il decoro dipinto può contribuire alla dinamica assiale dell’edificio, come, in fine, al suo basculare verso una dinamica verticale. In primo luogo, si osserverà che i cicli narrativi che ornano il corpo delle navate sono più spesso disposti sui muri laterali della navata centrale o delle navatelle piuttosto che sulle volte. Al posto d’occupare la zona mediana, che unifica la navata maggiore, il decoro è allora attraversato da una problematica supplementare: si tratta di congiungere i due versanti laterali della chiesa, fra i quali esiste un differenziale simbolico e pratico. In effetti, la parte destra, più eminente, è quella in cui prendono posto gli uomini, mentre la parte sinistra, più sottoposta alle influenze malefiche, è quella che compete alle donne42. Tale dualità gerarchica (ma integrata alla sacralità globale del luogo) trova frequente eco nel decoro dipinto, quando quest’ultimo associa due cicli, relativi all’Antica e alla Nuova Legge. Si tratta così di esprimere una corrispondenza tipologica fra i due Testamenti, mostrando così la continuità della storia della salvezza. Formalmente, tale dispositivo manifesta l’unità di una dualità, come mostra bene, al momento della dedicazione, il rito dei due alfabeti, che simboleggiano i due Testamenti e uniscono i due lati dell’edificio. In senso più generale, i cicli biblici (ma anche agiografici) attualizzano gli eventi fondanti dell’Ecclesia e dei suoi riti, di cui l’edificio di culto è precisamente il luogo di realizzazione43. Ciò significa anche rendere visibile una storia che si dispiega nel tempo, dalla Creazione alla seconda Parusia, per condurre dalla temporalità terrestre all’eternità della Salvezza. Si possono evocare principalmente tre tipi di disposizione dei cicli nel corpo delle navate44. Il «tipo parallelo» rimonta ai prestigiosi modelli ravennati e romani (San Paolo fuori le mura, antica basilica di San Pietro in Vaticano45), in cui due cicli, l’uno veterotestamentario, l’altro neotestamentario, corrono paralleli dall’abside (l’uno si legge da

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sinistra a destra, l’altro da destra a sinistra). Ma questo tipo scompare in epoca romanica, per riapparire in alcuni contesti privilegiati a partire dalla fine del XIII secolo (Santa Maria in Vescovio, basilica superiore di Assisi). Di fatto, a partire dall’XI secolo – compresi i cicli che costituiscono citazioni esplicite di San Pietro in Vaticano46 –, si impone una disposizione «muro per muro»: due cicli sono disposti l’uno di fronte all’altro, sui muri della navata, ma invece di avanzare paralleli sono da leggere entrambi da sinistra a destra. Generalmente è l’Antico Testamento a doversi leggere, sul muro sinistro, dalla controfacciata verso l’abside, mentre sul muro destro le scene procedono dall’abside verso la controfacciata. Si può trattare del Nuovo Testamento, come a San Pietro in Valle a Ferentillo (fine dell’XI secolo), o di un ciclo agiografico, come nella cattedrale di Aosta (Sant’Eustachio, intorno al 1040), o a Carugo (San Martino, intorno al 1080-1100, o forse più tardi)47. Infine, la «disposizione circolare» ‘incatena’ i muri laterali della navata in una lettura continua, sempre da sinistra a destra. Questo dispositivo può ugualmente permettere la relazione fra i due Testamenti, sia disponendoli l’uno sopra l’altro, come a San Julián de Bagües (intorno al 1080-1100) o a San Giovanni a Porta latina a Roma, oppure disponendo il Nuovo Testamento nella navata centrale, con l’Antico che gli corre attorno nelle navatelle (eccezione adottata a Sant’Angelo in Formis48). Aggiungiamo che la disposizione circolare è particolarmente adatta ai decori che comportano un solo ciclo, soprattutto negli edifici di piccole dimensioni, come quello di Brinay49. In generale, tale disposizione pare adottata sempre più frequentemente nel corso del tempo, particolarmente oltre l’epoca romanica. In realtà, nessuno di questi dispositivi esprime in modo stretto la dinamica assiale dell’edificio di culto. Nel tipo parallelo, la disposizione dei cicli parrebbe far procedere la storia sacra da Dio, piuttosto che manifestare l’orientamento dell’edificio polarizzato dall’abside. Nel tipo «muro per muro», uno dei due si orienta conformemente alla dinamica assiale dell’edificio, ma l’altro avanza in senso inverso. Lo stesso accade nel «tipo circolare», che oltretutto assimila la disposizione di ciascuna narrazione a un cerchio, che infine torna al punto di partenza. L’analisi di tali scelte esula dal quadro del presente studio. Tuttavia può essere chiamata in causa, per il passaggio dal «tipo parallelo» a quello «muro per muro», un’esigenza di


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30. Particolare del soffitto dipinto della chiesa di Saint-Martin, Zillis.

leggibilità narrativa, nella misura in cui pare comportare una lettura di tutti i registri da sinistra a destra, conformemente al modo di scrivere praticato in Occidente. Quanto al «tipo circolare», esso presenta a sua volta un vantaggio in termini di lettura dei cicli, poiché permette di «incatenare» l’insieme delle scene in modo continuo, senza obbligare a «percorsi ciechi» per ritornare al punto di partenza di ciascun nuovo registro; inoltre, esso unifica più esplicitamente il luogo sacro, invece di

dare l’impressione di dissociare le due pareti laterali, come nella disposizione «muro per muro». Ad ogni modo, queste sommarie note invitano a osservare che i cicli narrativi non saprebbero corrispondere strettamente alla dinamica assiale dell’edificio: manca, negli esempi qui evocati, un orientamento privilegiato dei cicli verso l’abside. Tale constatazione invita a ragionare su di un piano più generale: indipendentemente dalla disposizione dei cicli, il decoro della navata ne fa uno spa-

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zio della narrazione, destinato agli eventi fondanti dell’Ecclesia (universale e/o locale). Ma la storia della Salvezza che la pittura narrativa presenta si attualizza, nelle concezioni medievali del tempo, in due modi: come rappresentazione lineare di una storia orientata, dalla Creazione alla fine dei tempi; come reiterazione ciclica del tempo liturgico che commemora tale storia. Di fatto, non è proibito pensare che lo sviluppo dei dispositivi circolari abbia qualche relazione con il peso di una temporalità liturgica: penetrando nell’edificio di culto, fedeli e clero si trovano inglobati, presi nella circolarità di una storia sacra la cui liturgia celebra, nel corso dell’anno, i momenti principali50. Di conseguenza, la diversità di modi di disporre la narrazione dipinta può essere considerata l’espressione della tensione propria del tempo cristiano, al contempo lineare e ciclico51. Tale dualità è del resto inscritta nel modo di «istituire» il luogo sacro, poiché il rituale di dedicazione associa strettamente percorsi circolari (che «rinforzano» l’involucro murario che separa l’esterno dall’interno del luogo sacro) e movimenti «cruciformi», di cui il rituale del doppio alfabeto è il più rilevante (si è già detto che esso prendeva in carico l’assialità longitudinale dell’edificio, articolandola con la sua dualità laterale). Sottolineando però ciò che più importa, la narrazione della storia sacra è un percorso del tempo, che presuppone una linearità orientata. In questo senso, quale che sia la disposizione fisica dei cicli che la esprimono, essi associano il decoro della navata, se non alla dinamica assiale dell’edificio, almeno all’iter che caratterizza ogni vita individuale, al pari del destino comune della cristianità. Consideriamo ora la parte occidentale dell’edificio. Certo, l’accesso principale non si trovava sempre a ovest, anche per i laici, come si constata nelle regioni centrali e meridionali della Francia, dove il portale principale si trova spesso sul fianco sud della chiesa52. Inoltre, bisognerebbe prestare attenzione agli spazi di transizione fra esterno e interno (portico, nartece, galilea, ecc.)53, come alla relazione fra i differenti portali di uno stesso edificio. Ma ci si attiene qui a considerazioni generali, senza la pretesa di tracciare un modello unificato della chiesa romanica. Trattando del portale, tre aspetti rilevanti si coniugano alla sua funzione di soglia: importanza pratica (celebrazione di riti molteplici, esercizio della giustizia episcopale, ecc.); importanza simbolica (fondata sull’equivalenza fra Cristo e la porta, secondo Gv 10,9); amplificazione crescente del decoro scolpito o dipin-

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to (conseguenza dei due punti precedenti)54. Trattando del decoro dipinto interno, saranno evocati due possibili effetti. In primo luogo, l’immagine collocata a ridosso del portale può rappresentare l’entrata in un luogo santo. È il caso dell’Entrata di Cristo in Gerusalemme, sulla controfacciata della cappella di San Pellegrino a Bominaco55. L’immagine fa così eco alla processione della Domenica delle palme, che assimila la porta della chiesa a quella della Gerusalemme terrestre, essa stessa immagine della Gerusalemme celeste. Tale assimilazione della porta della chiesa alla porta della città celeste è frequentemente attivata dalla liturgia e ripresa dall’immagine (per esempio, a Saint-Vincent de Mâcon, dove la processione funeraria si arresta per cantare l’antifona In Paradisum – «che gli angeli e i martiri ti conducano nella Gerusalemme celeste» – giusto sotto il Giudizio finale dove figura l’accesso degli eletti al Paradiso56). A Civate, gli affreschi che rappresentano i catecumeni e i penitenti accolti dai papi Gregorio e Marcello e traducono in immagine la funzione stessa dello spazio cui accedono i fedeli varcando la soglia della chiesa57. Essi fanno glissare da un ordine di realtà all’altro (da materiale a spirituale): l’entrata nella chiesa diviene accoglienza da parte dell’Ecclesia, simboleggiata dai membri più eminenti della sua gerarchia, e allo stesso tempo prefigurazione dell’accesso alla Gerusalemme celeste, figurata sulla volta che sormonta l’entrata. In secondo luogo, grazie al loro status di soglia, portali e zone d’accesso costituiscono una collocazione pertinente per temi iconografici che esprimono un passaggio, un incontro (come l’Annunciazione, momento di unione fra umano e divino, figurata a Bominaco presso il limite sinistro della controfacciata), o una separazione (come il Giudizio finale). Peter Klein ha proposto di rendere conto della frequente localizzazione del Giudizio finale sul muro ovest della chiesa in rapporto al simbolismo dei punti cardinali, che associano da una parte l’ovest alla morte e al male, dall’altra l’oriente alla vita e alla salvezza58. Tale simbolismo ha effettiva importanza e rende conto della regola che vuole che i cristiani dirigano le loro preghiere a oriente (da cui, malgrado rilevanti eccezioni, l’orientamento generalizzato delle chiese)59. Tuttavia, si consideri come il simbolismo dei punti cardinali intervenga in maniera indiretta: il fatto che il Giudizio finale sia collocato sulla controfacciata è più importante rispetto alla sua localizzazione a ovest; ed è anzitutto in funzione della strutturazio-


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31. Pitture murali della navata di San Pietro in Valle a Ferentillo.

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ne dell’edificio di culto che conviene rendere conto della sua localizzazione. In più, per giustificare l’adeguamento fra Giudizio finale e localizzazione a occidente, strettamente associata al male, Klein è indotto a considerare il Giudizio finale come un tema essenzialmente negativo60. Sembra però difficile qualificare come negativa un’immagine che comporta Cristo al centro, soprattutto quando svela agli occhi degli uomini la piena realizzazione, in fine, della giustizia divina. Il Giudizio finale è in effetti il momento in cui la confusione del mondo cede il passo alla giusta disposizione di tutte le cose (male compreso)61. Si suggerirà pertanto che la localizzazione del Giudizio finale in controfacciata si accorda per tre ordini di motivi con la struttura dell’edificio. In quanto rappresentazione di una separazione ordinata del bene dal male, il Giudizio finale entra in risonanza con la funzione di soglia del portale (che separa l’interno, associato a un valore di inclusione, dall’esterno, legato all’idea di esclusione)62. In più, il Giudizio finale include frequentemente una rappresentazione della porta del Paradiso, che suggerisce così un’assimilazione fra l’accesso all’edificio reale e l’accesso degli eletti al Paradiso. Più precisamente, il bilanciamento fra Inferno e Paradiso combina minaccia e promessa, fra le quali si deve instaurare un legame dinamico: di fatto, l’immagine del Giudizio finale è un appello alla conversione dei peccatori, e l’entrata nella chiesa è precisamente l’atto che deve rispondere a tale appello. In secondo luogo, per effetto della sua localizzazione in controfacciata, la destra di Cristogiudice coincide con la parte destra dell’edificio, mentre la sua mano sinistra ne designa la metà sinistra. Ciò, unito alla disposizione dell’Inferno e del Paradiso, attiva la dualità laterale dell’edificio, subordinandola alla figura centrale e unificante di Cristo-giudice. A Bominaco, il Giudizio finale cede il posto al Giudizio delle anime, con l’Inferno disposto sulla parete sinistra e il Paradiso su quella destra. Precisiamo che, in dispositivi di questo genere, l’opposizione assoluta fra Inferno e Paradiso attiva la dualità destra/sinistra dell’edificio, che ha tuttavia un valore soltanto relativo (la metà sinistra dell’edificio non può essere considerata propriamente negativa: essa è soltanto meno positiva di quella destra)63. In terzo luogo, il Giudizio finale carica la zona di accesso all’edificio di un coefficiente ambivalente: la designa come il luogo di un’articolazione del positivo e del negativo (così come il Battesimo, generalmente associato al-

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l’ovest, significa la conversione dal Peccato alla Grazia). Tale articolazione/separazione del positivo e del negativo si applica efficacemente alla soglia, che dà accesso al luogo sacro e segna il punto di partenza dell’iter simboleggiato dall’asse longitudinale dell’edificio. In tal modo, la tensione fra la controfacciata, alla quale il Giudizio finale conferisce un valore di articolazione fra positivo e negativo, e il santuario, contraddistinto liturgicamente e iconograficamente dalla piena Presenza divina, costituisce una modalità decisiva di attivazione della dinamica assiale dell’edificio. Il dispiegamento dei cicli narrativi della navata accompagna così il percorso che conduce da un’immagine della divinità impegnata nella temporalità e nella separazione del bene dal male, verso un’immagine atemporale della gloria divina64. Tuttavia, la localizzazione del Giudizio finale in controfacciata non è la sola possibile. Uno studio condotto su di un corpus di settanta dipinti murali del Giudizio finale (che includono Inferno e Para-

32. Gli eletti, particolare della controfacciata della chiesa di Sant’Angelo in Formis. 33. Il Giudizio Universale, controfacciata della chiesa di Sant’Angelo in Formis.


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diso), in Francia e in Italia fra il XII e il XV secolo, mostra che tale disposizione è adottata nella metà dei casi65. Per l’epoca romanica, che qui interessa, la percentuale è nettamente superiore. Il 14% dei casi, essenzialmente a partire dal XIV secolo, prendono posto sull’arco trionfale (invitando a sottolineare il valore di soglia di questa parte della chiesa). Infine, il 29% dei Giudizi finali studiati figurano sul muro sud della navata, contro il 4% sul muro nord (eccezioni corrispondenti a opere tarde, la cui composizione è spesso verticalizzata). La sproporzione fra queste due opzioni può essere interpretata come un tentativo di adattamento alla struttura del luogo di culto. In effetti, solamente quando il Giudizio finale figura sul muro sud la mano destra di Cristo, che indica il Paradiso agli eletti, è orientata verso l’abside, mentre la sua mano sinistra spinge i dannati all’Inferno e al contempo verso la facciata occidentale. Così disposta, l’immagine del Giudizio finale contribuisce dunque ad attivare la dinamica assiale dell’edificio, quando invece, sul muro nord, tende a contraddirla. Avanziamo ora nell’edificio, e domandiamoci se il modo in cui il decoro dipinto fa eco alla divisione fra navata e santuario può contribuire ad attivare la dinamica assiale. A Saint-Martin de Vicq il ricco decoro dipinto si concentra nel santuario e può essere a malapena intravisto dalla navata, attraverso lo stretto arco che si apre nel muro diaframma66. Al contrario, i muri laterali della navata e la controfacciata sono ricoperti da un rivestimento privo di figurazioni. La ripartizione del decoro accentua così la gerarchizzazione duale degli spazi interni e sottolinea visivamente la preminenza sacrale del santuario. Bisogna tuttavia aggiungere che il muro diaframma, offerto agli sguardi dei laici, è esso stesso interamente dipinto, probabilmente in relazione agli altari laterali che vi si addossano. Allo stesso tempo, l’ornamentazione del muro diaframma annuncia in qualche modo la sacralità del luogo che sottrae agli sguardi; esso contribuisce a inscrivere la navata in una dinamica tesa verso il santuario. A Bominaco, una netta differenza è stabilita fra la navata, dove dominano i cicli narrativi, e il santuario, contraddistinto dall’abbondanza di figure isolate di santi67. Tale contrasto fra uno spazio della narrazione e uno spazio a connotazione più cultuale partecipa alla polarizzazione della cappella, anche se si tratta di un edificio di dimensioni modeste, che il decoro dipinto tende a far ripiegare su stesso, in un effetto globale di sacralizzazione attraverso il colore, piuttosto che esprime-

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re l’assialità longitudinale, come può essere il caso delle lunghe navate dei grandi edifici del clero regolare o secolare. Tuttavia, il Ciclo dell’Infanzia, che si dispiega nelle prime due campate della cappella, oltrepassa il limite marcato dalla recinzione presbiteriale e penetra in parte nel santuario. Tale disposizione permette di articolare le due parti dell’edificio, tanto più che l’Annuncio del messaggio angelico ai pastori, giusto in corrispondenza della recinzione, trascrive in immagine la relazione fra clero e laici, che si gioca precisamente in quel punto. In più, l’immagine dipinta sottolinea la polarità dell’edificio nell’indicare l’orientamento dei fedeli, volti in direzione dello spazio da cui giunge la Parola divina (e clericale). Aggiungiamo che il ciclo del santo al quale il luogo è consacrato, Pellegrino, deborda anch’esso oltre la recinzione, nel santuario. Esso svolge dunque il ruolo di giunzione fra le due parti dell’edificio, e punta dalla navata, ove è raccontato il percorso terrestre del santo, verso l’altare, ove sono venerate le sue reliquie. A Vicq come a Bominaco, la dualità navata/santuario si manifesta attraverso una differenziazione del decoro dipinto, che tuttavia deborda sopra la delimitazione68. Si tratta probabilmente di un elemento di portata generale (certamente non di un’anomalia), tanto che anche a Saint-Savin il decoro oltrepassa, in maniera certo più marcata, la delimitazione fra navata dei laici e coro monastico. Malgrado la cesura dell’arco trasversale dipinto, il decoro oltrepassa le divisioni funzionali del luogo consacrato, per manifestare la sua unità e assumere la sua dinamica assiale, tesa verso l’altare. A differenza degli edifici tripartiti (abbaziali, collegiate e cattedrali, che includono un coro monastico o canonicale, spesso disposto parzialmente o interamente nella navata), il decoro dipinto degli edifici bipartiti (chiese parrocchiali, curazie priorali, cappelle) esprime senza dubbio con maggior nitidezza la distinzione gerarchica fra lo spazio dei laici e quello del clero. Ciononostante, pure in questo caso, sconfinamenti ed elementi di continuità visiva mostrano che non si tratta di dissociare completamente le due parti dell’edificio, quanto di articolarle gerarchicamente in seno a una unità dinamica. Penetriamo ora nel santuario. Non si tratta di uno spazio omogeneo, e il decoro dipinto può contribuire a elaborarne le differenze interne, per esempio suggerendo una progressione fra la campata presbiteriale e l’abside, o fra le zone inferiori e superiori. La narratività può così investire la campa-

34. Lo schema illustra la dinamica assiale dell’edificio, dalla teofania del giudizio della controfacciata alla teofania atemporale dell’abside. 35. Veduta dalla navata del muro diaframma dipinto, Saint-Martin de Vicq.

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ta presbiteriale, come a Chalivoy-Milon69, o la parte inferiore dell’abside, come a Saint-Lizier (anche se in questo caso la disposizione del Ciclo dell’Infanzia dà meno risalto alla linearità del racconto piuttosto che alla valorizzazione simmetrica, da una parte e dall’altra dell’asse mediano dell’edificio, delle due grandi figure della Vergine, presenti nell’Adorazione dei Magi e nell’Annunciazione70). A Berzé-la-Ville, il decoro absidale articola temporalità multiple, in una progressione ascensionale che associa in particolare il tempo dei santi e quello del culto delle reliquie, quello della fondazione della Chiesa (Traditio legis) e l’eternità della luce divina71. A Bominaco, i dipinti dell’area dell’altare sono contraddistinti dalla significativa compresenza di due apparizioni di Cristo, che cela la sua identità sotto un’apparenza dimessa: il povero al quale Martino donò il suo mantello e il pellegrino

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36. Controfacciata del santuario, Saint-Martin de Vicq. 37. Particolare dalla navata verso l’altare, Saint-Martin de Vicq. 38. Schema della disposizione dei cicli, San Pellegrino, Bominaco: E) ciclo dell’Infanzia di Cristo; Pa) ciclo della Passione; Pe) ciclo di san Pellegrino; Ca) calendario liturgico; S) figure di santi e profeti; +) Paradiso; –) Inferno (da Baschet). 39. Veduta generale verso il santuario della cappella di San Pellegrino, Bominaco.

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che appare ai discepoli sul cammino di Emmaus. È ragionevole pensare che tale evocazione di Cristo, pauper et peregrinus, sia un modo di valorizzare le reliquie di questo sanctus Peregrinus, dall’identità alquanto incerta, di cui l’altare custodisce le reliquie72. Peraltro, la presenza di un eccezionale calendario liturgico, che si dispiega sulla volta che sormonta l’altare, designa quest’ultimo, in modo visibile e permanente, come il luogo di celebrazione delle feste che compongono il circulus anni. Infine, è più che probabile che la rappresentazione di Cristo crocifisso, significativamente assente dal Ciclo della Passione disposto nella navata (che alla Flagellazione fa seguire la Discesa dalla croce), figurasse su di una croce dipinta, sospesa sopra l’altare o sopra la recinzione presbiteriale. Questa singolare operazione, che consiste

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nel prelevare dal ciclo narrativo una scena, nonostante ne costituisca il momento cruciale, al fine di far prevalere la sua localizzazione in prossimità dell’altare, luogo della reiterazione sacramentale del sacrificio di Cristo, è l’espressione esemplare di una logica di adeguamento dell’immagine al suo luogo. Essa costituisce un contributo rilevante alla polarizzazione del luogo rituale. In effetti, privato della propria completezza, il ciclo narrativo della navata è come sottoposto alla forza d’attrazione del santuario. Colui che lo contempla è come spinto, forzato verso lo spazio eucaristico, dove i «percorsi circolari» della storia sacra trovano il loro pieno compimento. Uno dei tratti più costanti del decoro dipinto del santuario è la presenza, nella conca absidale (o talvolta sulla volta della campata presbiteriale, come

40. Annuncio ai pastori, San Pellegrino, Bominaco.


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41. Carità di san Martino e Apparizione di Gesù sulla strada di Emmaus, San Pellegrino, Bominaco.

a Notre-Dame la Grande de Poitiers) della Maestà divina, mostrata nella sua atemporalità gloriosa73. Una variante significativa è la rappresentazione absidale della Vergine con il Bambino entro un’ampia mandorla, come a Santa Maria de Taüll, dispositivo che sottolinea l’eco tra la Presenza reale di Cristo nel sacramento dell’altare e la sua presenza incarnata nel seno di Maria. Il priorato di Saint-Nicolas de Tavant offre un esempio particolarmente calzante, poiché la classica immagine di Dio in trono nella sua gloria è completata da angeli che tendono verso di lui ostia e patena74. Oltre a essere una vigorosa riaffermazione della dottrina eucaristica (in una regione dove il ricordo delle polemiche provocate da Berengario di Tours era senza dubbio ancora vivo alla fine dell’XI secolo), tale iconografia sembra costituire la materializzazione

visibile di ciò che la liturgia compie normalmente in maniera invisibile, dal momento che le preghiere del canone della messa indicano che le offerte eucaristiche sono trasportate dagli angeli fino all’altare celeste. In generale, la teofania dei decori dipinti absidali esplicita e rende sensibile la congiunzione, realizzata al momento del canone, fra liturgia terrestre e liturgia celeste, nella piena Presenza di Dio e degli angeli. Nel complesso, il decoro dipinto associato all’altare maggiore visualizza e stimola la sua forza polarizzatrice giocando su tre aspetti: la presenza visibile dei santi le cui feste ornano il ciclo liturgico e le cui reliquie garantiscono la sacralità dell’altare; il Sacrificio della croce, di cui l’Eucaristia è la reiterazione; la piena Presenza della divinità alla quale il sacramento dell’altare dà accesso. La dinamica

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assiale dell’edificio è così attivata dal differenziale di sacralità fra il santuario e il resto dell’edificio, che il decoro dipinto attesta con evidenza. Quest’ultimo può talvolta anche attivare una tensione che corre fra la soglia occidentale, dove è evocata la dissociazione del bene dal male, fino alla pienezza della Presenza di Dio e dei santi nel santua-

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rio, mentre i dispiegamenti degli eventi narrativi fondanti accompagnano, nella navata, il cammino dall’una all’altro. Ma una tale schematizzazione non saprebbe far dimenticare il carattere paradossale dell’edificio di culto (nel contempo locus e iter), con cui lo stesso decoro dipinto non cessa di giocare. Assimilata dalla liturgia e dalle sue mate-

42. Vergine con Bambino e Adorazione dei Magi, particolare dell’abside della chiesa di Santa Maria de Taüll.


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43. La Maestà divina e gli angeli che porgono l’ostia e la patena, abside della chiesa di Saint-Nicolas di Tavant.

rializzazioni visive alla Città celeste, la chiesa è allo stesso tempo un’anticipazione del Paradiso e la «figura» del percorso che ad esso conduce. Essa è l’immagine dell’Ecclesia in cammino verso Dio e, allo stesso tempo, già unita a lui. Come afferma Suger, gli ornamenta ecclesiae, che non appartengono «per nulla né al fango della terra né alla pu-

rezza del Cielo», testimoniano il desiderio «di essere trasportati da questo mondo inferiore verso il mondo superiore»75. Locus sacro attraversato dalla dinamica dell’iter, l’edificio di culto costituisce un paradossale «luogo liminare» che apre, nel pellegrinaggio terreno degli uomini, la soglia di una congiunzione verticale con il mondo divino.

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CATTEDRALI GOTICHE E PORTALI SCOLPITI LE CONNESSIONI CONTESTUALI DEL CULTO DELLE RELIQUIE Bruno Boerner

1. Portale centrale della facciata della cattedrale di Amiens.

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In un brano del Livre de politique d’Aristote di Nicola d’Oresme (1320-1382 circa), emerge chiaramente che, durante il Medioevo, immagini e riti liturgici erano considerati in coesione funzionale1. L’erudito spiega come opere d’arte, architetture, culto divino e altre cerimonie siano in grado di influenzare l’uomo in relazione al suo senso corporeo. Nella vita terrena la ragione umana è racchiusa e dominata dal corpo carnale. Proprio per questo motivo si impiegano numerosi «oggetti» sensoriali, capaci di suggestionare la maggior parte degli uomini e accordarli in un solo coro contemplativo. Un poco oltre, nel testo, si dice che le chiese ed altri edifici, le immagini, le pitture, i paramenti, le reliquie, gli odori, le luci, le parole ben formulate, il bel canto, le cerimonie, ecc., tutte queste cose debbano essere presentate nel giusto ordine in modo solenne. Spetta, dunque, a questi elementi, così come alla condotta e all’etica di quelle persone che li utilizzano e li applicano, il compito di stimolare il popolo alla religione, al buon costume, all’amicizia e all’unione, senza le quali nessuna buona comunità (policie) potrebbe esistere2. Tali posizioni sorprendono per la convinzione non solo che ai riti liturgici e alle immagini possano essere ascritte funzioni omologhe, ma anche che ambedue sviluppino la loro efficacia «operativa» sul-

l’uomo attraverso il senso corporeo. Degna di nota, inoltre, risulta l’affermazione che la determinazione del significato religioso delle immagini e dei riti liturgici debba essere alla fine condotta anche in un contesto sociale e comunitario. Questi riferimenti ci forniscono elementi del tutto nuovi per l’interpretazione dei programmi dei portali medievali e delle loro correlazioni liturgiche, come vedremo in seguito, analizzando le cattedrali di Amiens, Chartres e Strasburgo3. La scultura dei portali di Amiens I portali occidentali della cattedrale di Amiens valgono come esempio classico per il programma della facciata di una cattedrale gotica. L’accesso centrale è un portale del Giudizio Universale, affiancato a destra da un portale dell’Incoronazione della Vergine e, a sinistra, da un portale dei Santi4. L’immagine del Giudizio finale si distribuisce sul timpano, gli archivolti e la strombatura del portale centrale5. Il giudice del mondo, che è affiancato dagli intercessori Maria e Giovanni, appare nel registro superiore del timpano. Sotto avviene la separazione delle anime. Al centro del registro, le strade dei beati e dei dannati si dividono. Nel compartimento inferiore si riconosce la risurrezio-

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ne dei morti, al centro dei quali si dispone Michele con la bilancia per le anime. Nella zona inferiore degli archivolti, a sinistra è rappresentato il Paradiso; in corrispondenza, sul lato destro, immagini con scene infernali. Nel resto degli archivolti troneggia la corte celeste, l’Ecclesia triumphans. Vi compaiono innumerevoli figure di martiri, religiosi e donne con libri o vasi, che compartecipano già alla visione divina, la Visio Dei, mentre l’osservatore all’ingresso la deve ancora attendere. Nelle strombature del portale, gli apostoli sono presentati come martiri, che affiancano Cristo trionfante sul leone e il drago, sul trumeau. Sotto gli apostoli è ancora collocato un ampio ciclo di Virtù e Vizi. Nel programma iconografico di Amiens, la reale sequenza narrativa degli eventi del Giudizio non occupa un posto di primo piano. È piuttosto la

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questione dei presupposti sulla base dei quali agli uomini spetti la salvezza e la dannazione che assurge a vero e proprio «oggetto» del programma. In nessun luogo ciò si esprime più chiaramente che nella rappresentazione della pesatura delle anime, nel registro sopra il portale. In quella, nel presentare l’agnello della Carità nel piatto della bilancia delle buone opere, si riflette l’assioma vigente nella teologia di quel tempo par caritas par meritum. Ciò significa che l’osservatore deve riconoscere che, alla fine, il raggiungimento della vita eterna si deve alla grazia di Cristo e non all’uomo stesso. Secondo la teologia medievale, la virtù dell’amore divino è conferita al cristiano con il Battesimo. Grazie ad essa egli può guadagnarsi la vita eterna. Per questo motivo, anche nel ciclo delle Virtù sottostante, la Carità è rappresentata con

2. Timpano del portale centrale della facciata della cattedrale di Amiens.


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3. La pesatura delle anime, particolare del portale centrale della facciata della cattedrale di Amiens. 4-5. Caritas e Fides, particolari del portale centrale della facciata della cattedrale di Amiens.

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l’agnello come emblema. Naturalmente siamo anche di fronte a un chiaro riferimento eucaristico, che rievoca l’Agnus Dei dello spezzare il pane. Tale rimando liturgico è ancora più evidente nella rappresentazione della Fides, il cui scudo-emblema contiene una coppa con una croce. Nel portale adiacente dedicato a Maria i legami con la liturgia sono ancora più espliciti rispetto al

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portale centrale6. Il programma iconografico è in stretto rapporto con la liturgia dell’Assunzione di Maria del 15 agosto7. Ciò è palese già nella solenne messa in scena principale, al vertice del campo arcuato (timpano). Maria troneggia alla destra di Cristo8. Due angeli le pongono la corona sul capo, mentre ella riceve la benedizione di Cristo. Grazie ai quattro angeli che agitano incenso e reggono

6. Incoronazione di Maria, timpano del portale destro della facciata della cattedrale di Amiens.


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candele, la scena acquista un particolare carattere cerimoniale-liturgico. Questa impressione rituale segna, in ancor più forte misura, ambedue le immagini del registro centrale, la morte di Maria e la sua resurrezione corporale, che temporalmente precedono l’incoronazione, raffigurata nel settore superiore. A sinistra si celebra la liturgia dei morti per la madre di Dio. Cristo in persona appare alla

messa funebre, mentre la defunta è adagiata nel suo sepolcro. Nella scena di destra ha luogo la resurrezione di Maria, di nuovo in presenza di angeli che agitano incenso e reggono candele. L’Assumptio di Maria come resurrezione corporale è tuttavia solo più o meno allusa. Due degli angeli sembrano sollevare il corpo di Maria dal sarcofago di pietra, ma ella, immobile, si fa riconoscere appena come colei che è risorta e l’azione rappresentata si differenzia davvero poco dalla deposizione del corpo effettuata dagli apostoli nel rilievo adiacente. Il motivo di questa particolare moderazione nel rappresentare l’Assumptio corporale di Maria deriva dal fatto che nella teologia di allora quest’ultima non era ancora del tutto indiscussa9. La maggior parte dei teologi riteneva la credenza nell’ascensione corporale di Maria una credenza devota accettabile. Ciononostante, si era costretti a nutrire un cauto dubbio al riguardo, poiché questa circostanza non trova alcun fondamento biblico. Questo atteggiamento continua a riflettersi nella stessa liturgia. Anche qui, da una parte viene letto il Cogitis me dello Pseudo-Girolamo, che nutre dei dubbi riguardo all’Assumptio corporalis, dall’altra si prega, però, anche la Veneranda, che annuncia l’ascensione corporale. Sul trumeau del portale vi è la madre di Dio, trionfante sul serpente dell’Eden. Sopra, le fa da baldacchino una struttura architettonica, che si lascia riconoscere come l’arca santa dell’Antico Testamento con il tabernacolo e si proietta nel registro più basso del timpano arcuato. Di fianco a Maria vi sono i sacerdoti dell’Antico Testamento, tra cui Mosè con le tavole della legge e Aronne con la verga fiorita. Maria, Madre di Dio, è presentata quindi come Casa di Dio. Al più tardi, qui deve essere reso chiaro all’osservatore che la cerimonia rappresentata nel timpano configura non solo l’Incoronazione di Maria, ma, al contempo, anche l’incoronazione dell’Ecclesia, ovvero il trionfo della Chiesa istituzionale alla fine dei tempi. Nell’Incoronazione di Maria, in parallelo alla vicina scena del Giudizio Universale fu, dunque, scelta una visio glorificationis Ecclesiae come «oggetto» d’immagine. L’itinerario di santificazione di Maria – rappresentato sui timpani con la morte, il risveglio e l’incoronazione finale – documenta, peraltro, non solo il cammino di tutta la Chiesa istituzionale, ma traccia anche il cammino personale di salvezza di ogni singolo membro della Civitas Dei, che risorgerà e verrà «santificato» nel giorno del Giudizio. L’autorappresentazione ecclesiologica nelle fi-

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7 7. Trumeau del portale destro della facciata della cattedrale di Amiens.

gure della facciata della cattedrale si proponeva, infatti, di richiamare l’attenzione sulla funzione principale della Chiesa, la quale identifica il suo ruolo nell’essere anello di congiunzione tra i fedeli e Cristo. Non ultimo, per mezzo del carattere liturgico della rappresentazione, l’osservatore deve essere avvertito di ciò: che anche il suo personale cammino di salvezza può condurlo alla vera destinazione, la vita eterna, solo sotto la protezione della Chiesa e il dono dei suoi sacramenti. Nelle strombature del portale mariano di Amiens,

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le scene riguardanti l’Infanzia di Cristo, come l’Annunciazione, la Visitazione e la Presentazione al Tempio, rinviano alle feste mariane più importanti dell’anno liturgico. L’Adorazione dei Re (Magi) simboleggia, non per ultimo, anche la nascita della «Chiesa dei pagani». Uno sguardo comparativo al portale dell’Incoronazione della Vergine della facciata della cattedrale di Parigi, che fu peraltro il modello più importante per gli ideatori del programma di Amiens, evidenzia una soluzione differente per quel che riguarda la configurazione della strombatu-

8. Scene dell’Annunciazione, della Visitazione e della Presentazione al Tempio, strombatura destra del portale destro della facciata della cattedrale di Amiens. 9. (Da destra) i Re Magi, Erode, Salomone e la regina di Saba, strombatura sinistra del portale destro della facciata della cattedrale di Amiens.


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ra. A Parigi sono presentati, quali figure della strombatura, i santi locali della diocesi parigina accompagnati dagli angeli, come Dionigi (Denis), Genoveffa e Stefano, integrati da rilievi raffiguranti i loro martirii. Una tale associazione iconografica è di pieno significato, poiché, con l’Incoronazione di Maria, non viene espresso solo il trionfo della Chiesa universale, ma anche l’azione salvifica della Chiesa locale, rappresentata dalle figure dei santi le cui reliquie si trovano in possesso della chiesa parigina. Ma anche sulla facciata occidentale di Amiens questo «punto di vista» gioca un ruolo notevole. I santi locali non compaiono nella zona basamentale del portale dell’Incoronazione di Maria, ma è loro dedicato un portale specifico, ubicato in aderenza e a sinistra di quello del Giudizio. In questo portale dei Santi, il ruolo principale è riservato a Firmino, il primo vescovo di Amiens. Firmino fu decapitato dal governatore Sebastiano sotto la reggenza di Diocleziano. L’agiografia di san Firmino

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10. Timpano del portale sinistro della facciata della cattedrale di Notre-Dame di Parigi. 11. San Dionigi tra due angeli, sguancio sinistro del portale di sinistra della facciata della cattedrale di Notre-Dame di Parigi. 12. Portale di sinistra dedicato a Firmino e portale centrale della facciata della cattedrale di Amiens.


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offre, per così dire, alla diocesi di Amiens il mito della fondazione. Già Willibald Sauerländer ha scorto dei parallelismi strutturali con il portale dell’Incoronazione di Maria, posto simmetricamente. Al trumeau vi è il santo titolare (Firmino) che con il piede calpesta, come Maria fa con il serpente, il sacerdote pagano Auxilius, responsabile del martirio di Firmino. Stephan Murray sottolinea a ragione la somiglianza tra l’edicola che serve da baldacchino alla figura del trumeau e il ‘tabernacolo’ sopra Maria; anch’esso si spinge nel registro inferiore del timpano arcuato ed è fiancheggiato da figure in trono10. Se tuttavia nel portale dell’Incoronazione di Maria si trattava di sacerdoti dell’Antica Alleanza, qui le figure si fanno chiaramente riconoscere come vescovi. Il baldacchino sopra Firmino simboleggia, così, la nuova cattedrale di Amiens, che funge da casa di Dio, come il tabernacolo e Maria. I parallelismi strutturali con il portale di Maria troverebbero qui la loro spiegazione11. Se al portale destro fu messo in scena il trionfo dell’Ecclesia universalis, il portale sinistro fu dedicato alla Chiesa locale. Per quanto riguarda le figure nel registro inferiore del timpano, si tratta di vescovi di Amiens. Anche per la selezione degli altri santi della strombatura, l’accento è posto con forza sul significato dell’Ecclesia localis. Se l’identificazione di Georges Durand fosse giusta, qui comparirebbero soprattutto quei santi che per la chiesa di Amiens hanno un significato e le cui reliquie appartenevano alla cattedrale. Le lipsanoteche di questi santi erano esposte nel coro della chiesa ed erano visibili ai laici percorrendo il deambulatorio. Sul lato destro della strombatura del portale, dall’interno verso l’esterno, Durand identifica il confessore Firminus, Domicius, Salvius, Fuscianus, Warlus, Luxor e, nella strombatura di sinistra, Honoratus, Acius, Aceolus, Ulphia12. Negli archivolti del portale di Firmino circondano il timpano dell’arco angeli con corone, candelabri, turiboli, contenitori d’acqua santa, che di nuovo ‘esibiscono’ il carattere liturgico delle scene del timpano. Tuttavia, come rito liturgico non è mostrato il funerale del protagonista, come avviene nel portale di Maria, ma la solenne traslazione delle reliquie di Firmino nella cattedrale di Amiens. Per questa enfasi sull’Ecclesia localis come dimora delle reliquie, nel programma iconografico si rinuncia volentieri alla presentazione dei cicli dei santi e degli scrigni per le reliquie, se non forse ai soliti riferimenti alla vita e ai miracoli dei santi13. Nel registro centrale è raffigurato, anzitutto, il ri-

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trovamento (Inventio) delle reliquie di Firmino ad opera di san Salvius, anch’egli vescovo di Amiens e, dunque, un successore di Firmino. Si vede il vescovo, come fosse chinato su un sarcofago. La leggenda del santo riferisce che dal sepolcro fuoriuscivano dei profumi così soavi che dalle porte delle città vescovili vicine – Thérouanne, Beauvais, Noyon e Cambrai – gli abitanti accorrevano per far visita alle reliquie del santo. Tale richiamo all’attrattiva delle reliquie di Firmino fu per gli ideatori del programma così importante che gli riservarono ben quattro pannelli di questa fascia scolpita. Qui non si trovano ancora, tuttavia, gli abitanti di Amiens. Essi compaiono solo nel campo superiore del timpano, dove si vede anche la cerimonia propriamente liturgica della traslazione delle reliquie, che segue al ritrovamento. È qui «narrato» come lo scrigno con le reliquie di san Firmino fosse traslato dal vescovo e dal clero, in processione solenne, ad Amiens, nella cattedrale. I bambini si arrampicano sugli alberi e gli spettatori si sistemano i vestiti prima che arrivi la processione. Le reliquie del santo patrono sono accolte dai cittadini di Amiens come un tempo Cristo fu accolto all’ingresso in Gerusalemme. Con ciò doveva essere esibito il tributo d’onore (la venerazione) che la popolazione urbana dimostrava verso il patrono della città. Inoltre, mediante segni miracolosi, è reso esplicito quanto le forze celesti condividessero la traslazione del corpo del santo nella cattedrale: d’inverno le piante fioriscono e il sole riscalda la cerimonia della traslazione. Ciò è significato anedotticamente da una persona in coda al corteo, che, con una verga fiorita in mano, in modo dimostrativo porta il suo mantello non più addosso, ma legato a un bastone sopra la spalla. Nella scelta delle scene del timpano è apertamente insita l’intenzione di mettere in evidenza lo speciale rapporto del santo con la cattedrale e la cittadinanza di Amiens. Mentre i cittadini delle altre città, come appare nel registro centrale, si spostano per raggiungere le reliquie, il corpo del santo giunge agli abitanti di Amiens, che sono in grado di accoglierlo nella loro cattedrale. Del pari, si esprime anche il fatto che questo particolare zelo di devozione per il santo torna a vantaggio dei cittadini stessi, anche se ne approfittavano in ugual misura i pellegrini, che giungevano da più lontano, così come i borghigiani delle altre città. Per comprendere questi nessi si dovrebbe richiamare alla mente la funzione e il significato delle reliquie dei santi conservate e venerate nelle chie-

Nella doppia pagina precedente: 13. Timpano del portale di San Firmino della facciata della cattedrale di Amiens.


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14. Particolare con scene della scoperta e della traslazione delle reliquie del santo, timpano del portale di San Firmino, cattedrale di Amiens.

se14. Nel formulario De benedictione capsarum pro reliquuiis conservandis si afferma: «Le reliquie aiutano contro il diavolo e i suoi angeli coloro che vi si avvicinano per venerarle». Nella teologia del XIII secolo, si era definitivamente affermata l’opinione che le anime dei santi, subito dopo la morte, entrassero in Paradiso e attingessero alla visione divina. Lì dovevano intercedere presso Dio per la salvezza dell’anima dei fedeli sulla terra. Questa facoltà di intercessione i santi la devono alle loro speciali azioni eroiche, alle loro opere di ‘eccedenza’, che facevano meritare lo stato di santità. Godono dell’intercessione dei santi soprattutto quei fedeli che sulla terra hanno cura reverente delle loro reliquie oppure perseguono come pellegrini la

loro vicinanza. Ciò è legato al fatto che Dio doveva remunerare anche le ‘opere eccedenti’ che i santi compiono in vita: egli faceva sì che negli avanzi dei loro corpi lasciati sulla terra restasse una specie di «forza miracolosa». Quest’ultima, presente nelle reliquie e in grado di aiutare gli uomini nelle loro necessità, è registrata nelle fonti per lo più con il termine virtus. Le anime dei santi, tuttavia, agiscono da mediatrici nell’interazione tra Cristo e i fedeli sulla terra, inoltrando a Dio le preghiere dei fedeli. I santi operano così come una sorta di relais-station tra Dio in cielo e la Chiesa con i fedeli sulla terra. Se l’osservatore del portale di Firmino di Amiens getta uno sguardo al portale adiacente del Giudizio, negli archivolti vede la Visio Dei dei

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santi. Questi, ordinati come Chiesa trionfante intorno al Cristo sovrano nel timpano, compiono l’intercessione, che è visualizzata nel campo arcuato specialmente attraverso l’azione di Maria e Giovanni. È, dunque, questa specie di doppia esistenza dei santi che rende efficace il loro intercedere per gli uomini sulla terra: la virtus delle loro ossa sulla terra e la forza d’intercessione delle loro anime in cielo presso Dio. Il fatto che, nel XIII secolo, le teche con le reliquie fossero visibili anche ai fedeli si rivela importante per la pratica dell’adorazione dei santi. Il cofanoreliquiario di san Firmino era custodito su una tribuna dietro l’altare maggiore del coro di Amiens, insieme a quelli di altri santi, le cui figure emergono dalle strombature del portale di Firmino15. I fedeli e i pellegrini potevano vedere la tribuna con lo scrigno del martire Firmino dal deambulatorio. Sul reliquiario riccamente ornato, accanto alle altre scene, erano raffigurati anche il ritrovamento delle reliquie, rappresentato sul timpano del portale, e l’accoglimento delle ossa nella cattedrale da parte degli abitanti di Amiens16. Il rapporto speciale tra la popolazione di Amiens e Firmino si convalida, tuttavia, non solo nella rappresentazione figurata del reliquiario e nella scultura del portale, ma anche e soprattutto nella liturgia della cattedrale17. Le feste liturgiche dedicate a Firmino erano: Ingressus il 10 ottobre, Firmino martire il 26 settembre, giorno in cui si commemorava la decapitazione del martire, e Inventio et translatio sancti Firmini. Le rappresentazioni nel timpano del portale rinviano insistentemente all’Ingressus e alla Inventio et translatio sancti Firmini, che erano celebrate il 13 gennaio. Il Liber ordinarius della cattedrale del 1291 ci offre informazioni relativamente precise riguardo allo svolgimento di questa festa18. Alla vigilia dell’Inventio, già prima del vespro, tutti gli scrigni venivano scoperti, ad eccezione di quello di san Firmino. Durante il responsorio Dum aperiretur beati Firmini sepulchrum, due canonici rimuovevano il panno anche dallo scrigno del santo patrono, panno con cui evidentemente veniva replicato ritualmente il ritrovamento delle reliquie del santo19. Anche i portenti «climatici», che la leggenda ricorda e che sono «leggibili» all’esterno nel timpano, erano resi visibili e percepibili nel rito, per esplicitare il consenso divino nei confronti del ritrovamento e della traslazione. Poi, nel corso della cerimonia in coro, i canonici si toglievano le loro vesti nere invernali e si rivestivano

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di indumenti estivi bianchi. Veniva, inoltre, cosparsa dell’edera per ricordare che le piante, in pieno inverno, iniziavano a germogliare. Infine, per accordare l’olfatto agli eventi leggendari, si faceva bruciare dell’incenso, che doveva rievocare il dolce profumo emanante dalle reliquie durante il ritrovamento20. Il «gioco visivo» liturgico aveva, quindi, il compito di rendere sensorialmente esperibili ai fedeli i fatti della leggenda, affinché questi ultimi li interiorizzassero il più possibile. Il giorno seguente, quello della festa vera propria, il rito prevedeva una processione lungo il chiostro. Al ritorno, il vescovo benediceva i fedeli con il reliquiario del braccio di Firmino. Come le immagini sul portale anche il rito aveva lo scopo di rendere ‘impressivo’ il rapporto speciale fra il santo e la popolazione urbana. Ciò risulta ancora più evidente nella liturgia della festa dell’Ascensione di Cristo, in cui si utilizzava anche lo scrigno del patrono della città. Dopo il mattutino del giorno dell’Ascensione, lo scrigno veniva spostato dal coro posto all’incrocio del transetto allo spazio davanti al jubé (tramezzo), nella zona dei laici, che così potevano osservare e venerare le reliquie da immediata vicinanza21. Seguiva poi una processione per le strade della città. Le informazioni del Liber ordinarius sui portatori dello scrigno sono particolarmente circostanziate. Dapprima, il compito di trasportare il reliquiario fuori dalla chiesa era demandato ai nobili; in seguito, veniva assunto dai rappresentanti dei cittadini, che conducevano la capsa attraverso la città22. Anche nel timpano del portale dei Santi la traslazione è rappresentata come processione liturgica. Eppure, ad un primo sguardo, la selezione delle scene sorprende. Le immagini non raccontano né la vita del santo, né i suoi prodigi dopo la morte; al centro stanno solo il ritrovamento e la translatio delle sue reliquie. Già la scelta delle immagini rende dunque chiara la vera intenzione del programma: sottolineare la relazione privilegiata del santo con la sua cattedrale e con i cittadini di Amiens. Firmino fu sia il con-patrono della cattedrale che il santo protettore della comunità urbana. In quanto oggetto di devozione collettiva, il patrono della città incarnava l’ideale di una società sacrale, nei cui riti si trovavano insieme il clero cattedrale e i borghigiani per un sacro culto comune. Mentre il portale del santo, nel punto di sutura tra spazio sacrale e pubblico rimanda di continuo, tutto l’anno, a questi legami, la liturgia li trasforma in una speciale esperienza collettiva un giorno all’anno.


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15. Timpano del portale di Sant’Onorato, parte superiore, fianco destro della cattedrale di Amiens.

Queste corrispondenze funzionali intermedie tra immagini del portale e liturgia devono essere considerate, quindi, in modo particolare per misurare il significato iconografico del portale per la cattedrale e la città. I cittadini, come osservatori del timpano, potevano riconoscere nel campo arcuato del portale del santo se stessi nell’atto di ricevere le reliquie di Firmino; dovevano ricordarsi del privilegio che ebbero quando il santo scelse la loro città e la loro chiesa come dimora per le proprie reliquie, mentre gli abitanti delle altre città dovevano andare in pellegrinaggio ad Amiens per partecipare all’incidenza «virtuale» delle reliquie del santo. La volontà del santo e il suo consenso alla traslazione si esprimono attraverso i miracoli ‘climatici’ che lo accompagnano. La rappresentazione del caldo e della crescita delle piante non è quindi un aneddoto accessorio, ma un argomento che doveva essere valorizzato sia nella figurazione del portale che nella liturgia. Mentre i chierici del-

la cattedrale, con la processione liturgica, conferivano ai rappresentanti dei cittadini il privilegio di trasportare la teca del patrono attraverso la città, essi ricordavano loro, come già avveniva mediante le immagini del timpano, gli obblighi che dovevano adempiere nei confronti della sede del loro patrono, ovvero la cattedrale. Costruzione e mantenimento dell’edificio della chiesa – così suona il messaggio – dovevano essere un anelito personale di ogni singolo cittadino. Queste relazioni diventano ancora più chiare quando si prenda in considerazione il secondo importante portale della cattedrale di Amiens dedicato a un santo, quello di sant’Onorato, uno dei successori di Firmino sulla cattedra di Amiens23. Quando, ben due decenni dopo l’inizio della costruzione della cattedrale, i mezzi finanziari per il cantiere rischiavano di esaurirsi, si ricorse ad un mezzo diffuso a quel tempo. Nel 1240 si decise di portare in giro le reliquie di sant’Onorato all’inter-

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no della diocesi di Amiens con lo scopo di raccogliere denaro. Murray propone di mettere in relazione questo «itinerario» delle reliquie di Onorato con la rappresentazione della processione delle medesime reliquie nel portale del transetto sud della cattedrale24. Willibald Sauerländer ha rigettato questa proposta con la motivazione che un avvenimento così episodico difficilmente avrebbe potuto improntare le immagini incluse in questo portale con riflessi di lungo periodo25. In effetti, il rilievo rappresenta piuttosto un episodio dell’agiografia di Onorato sulla base del quale, durante una processione con le reliquie del santo, un’immagine di Cristo crocifisso nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo si sarebbe inclinata proprio davanti all’incedente reliquiario di Onorato26. Per quel che riguarda la funzione comunicativa della rappresentazione, tuttavia, si può stabilire un nesso tra l’iconografia del portale e l’itinerario delle reliquie del 1240 finalizzato alla raccolta di fondi per la costruzione della cattedrale. Infatti, ciò che è evidenziato nel rilievo non è soltanto il rinvio iconografico a un episodio della leggenda del san-

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to e alla sua «ripetizione» liturgica, ma esso giunge anche a portare nello specifico modo di rappresentazione dell’immagine un argomento teologico-agiografico. Ciò significa che in questo registro del portale di Onorato non è mostrato solo lo scrigno delle reliquie portato dai chierici e in rapporto con il crocifisso, che si trova nel «pennacchio» superiore del timpano, proprio al di sopra. Come secondo motivo centrale della fascia scolpita compare l’olio che dalla teca gocciola sugli uomini, i quali, di conseguenza, guariscono. Naturalmente, grazie a queste raffigurazioni che insistono sull’efficacia delle reliquie del santo, si favorisce anche la raccolta delle offerte per la cattedrale. Le scene scolpite nella fascia inferiore del timpano, contenenti anch’esse molteplici collegamenti con la liturgia della cattedrale, hanno la funzione di giustificare e dar fondamento alla santità di Onorato. Nel secondo registro, sopra gli apostoli, è tematizzata la nomina di sant’Onorato all’ufficio vescovile, ciò che, naturalmente, deve rimarcare il suo puntuale rapporto con la cattedrale di Amiens. Il rilievo mostra come il santo, ancora pieno di

16. Scene della traslazione delle reliquie del santo, particolare del timpano del portale di Sant’Onorato della cattedrale di Amiens.


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17. Portale di Sant’Onorato, fianco destro della cattedrale di Amiens.

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umiltà, all’inizio rifiuti la carica, ma, dopo essere stato colpito da un raggio celeste, manifesti il suo consenso. Accanto si trova il ritrovamento dei corpi dei martiri Fusciano, Vittorico e Genziano, avvenuto per iniziativa di Onorato. Nel registro soprastante si vede un altro segnale celeste: durante la celebrazione della messa appare al vescovo la mano di Dio. Indicativo per la «messa in scena» del culto del santo è il modo in cui è rappresentato l’altare. A questo è aggiunta una sovrastruttura, sulla quale è da riconoscere una teca di santo. La situazione dovrebbe rimandare alla tribuna-reliquiario menzionata precedentemente nei pressi dell’altar maggiore, nel «coro» della cattedrale. Si evince l’impressione che l’osservatore del rilievo scolpito debba porre in collegamento la celebrazione della messa e il prodigio della mano divina con le sante reliquie esposte nel coro e con il loro significato salvifico. Collocando dietro al vescovo, come testimoni del miracolo, un chierico, un diacono, un sub-

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diacono e un ragazzo cantore, si mettono di nuovo in risalto in special modo gli uffici ecclesiastici della cattedrale. Nella scena che segue si vede ancora un altare con un antependium. Oltre a questo si trova una figura di vescovo. La scena racconta come Onorato apparisse a una donna cieca, che gli aveva fatto visita al suo altare, e le ordinasse di toccarsi gli occhi con la tovaglia dell’altare stesso. Subito dopo la donna riacquistò la vista. La rappresentazione di questo miracolo post-mortem rinvia naturalmente al positivo ricavo dell’intercessione del santo. Anche con questa raffigurazione all’osservatore è «consegnato» un motivo per andare in pellegrinaggio alle reliquie di Onorato, nella cattedrale. Apertamente ci si dovrebbe conformare al personaggio all’estrema destra del rilievo, che, con la speranza di guarire, sorretto dalle stampelle, si reca all’altare del santo per invocare la sua intercessione presso Cristo. Il ruolo di mediatore del santo emerge anche nelle scene processionali già

18-19. Scene della vita e dei miracoli del santo, portale di Sant’Onorato, fianco destro della cattedrale di Amiens.


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20. Portale centrale del fianco sinistro della cattedrale di Chartres.

menzionate, nella zona superiore del portale, dove lo scrigno del santo stesso, portato sulle spalle dai chierici, appare come un punto di connessione tra il pellegrino giunto per godere del suo olio santo, sotto, e il Cristo in croce sopra. Per quanto riguarda la funzione comunicativa, nel portale di sant’Onorato sono posti accenti un poco diversi rispetto al portale di san Firmino. In ambedue i programmi iconografici è espresso il ruolo salvifico del santo locale e delle sue reliquie per la cattedrale. Nel primo, tuttavia, si vuole soprattutto segnalare agli occhi di chi guarda – mediante la «messa in scena» dei miracoli – la «competenza salvifica» dell’Ecclesia localis nella persona di Onorato; invece, nel portale di Firmino, di poco precedente, si avverte un’enfasi persistente sullo stretto rapporto del patrono della chiesa, quindi della Chiesa stessa, con la popolazione di Amiens, e si sollecita in questo modo l’identificazione del cittadino con la sua cattedrale.

Chartres I riferimenti figurativi al patrimonio di reliquie di Chartres, nella seconda metà del XII secolo e nella prima metà del XIII secolo, improntano il più delle volte le sculture delle facciate delle chiese francesi. Quando, dopo l’incendio della cattedrale nel 1194, si provvidero ambedue le facciate del transetto di programmi figurativi assai articolati, la rappresentazione dei santi e delle loro vite giocò un ruolo non infimo. Dal momento che si dovevano decorare con cicli di sculture sei portali in tutto su due lati, due di questi poterono del pari essere riservati a temi agiografici. Più tardi si applicarono persino ulteriori immagini con scene agiografiche ai pilastri di rinforzo che puntellano sul davanti le concavità dei portali. I portali del braccio nord del transetto sono dedicati a Maria, all’Infanzia di Cristo e all’Antico Testamento. Ma anche qui, sul sostegno intermedio (tru-

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meau) del portale centrale, una figura di sant’Anna rinvia ad una reliquia importante della cattedrale acquisita poco tempo prima. I due veri e propri portali dei santi, dedicati ai Martiri e ai Confessori, fiancheggiano il Giudizio Universale sul lato meridionale. Non di tutti ma di un gran numero di santi rappresentati la cattedrale ha di fatto posseduto le reliquie. La particolarità della cattedrale di Chartres consiste nella grande quantità di vetrate originali pervenute, delle quali un numero non esiguo raffigura temi agiografici27. La nostra ricerca guadagna con ciò un nuovo accento, laddove rinvia alla funzione «mediatrice» della pittura su vetro e della scultura. Mentre le vetrate interne mostrano ai visitatori i santi e le loro gesta, la scultura della facciata assume il compito di rievocare questi soggetti all’esterno, a coloro che non intendono entrare in cattedrale.

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Claudine Lautier, in una meticolosa ricerca, ha messo in correlazione le raffigurazioni di santi delle vetrate di Chartres con il «tesoro» di reliquie della cattedrale28. Dal momento che, come gran parte dei ‘tesori di reliquie’, anche quello della cattedrale di Chartres oggi è quasi del tutto scomparso, l’autrice poté ricostruire in larga misura il patrimonio medievale delle reliquie solo grazie ad uno studio filologico delle fonti. Da questo studio risultò anche che gli altari citati a partire dal XIV secolo erano esistenti già all’inizio del XIII secolo. Le vetrate, che sono dedicate agli stessi santi dei singoli altari, si trovavano per lo più vicino a questi ultimi oppure esattamente sull’asse visuale del prete celebrante all’altare. Come ad Amiens, anche a Chartres c’era un matroneo delle reliquie, che già nel periodo della ricostruzione della cattedrale si trovava in fondo al coro. Esso è rappresentato nella vetrata detta di Carlo Magno.

21. Particolare della vetrata dedicata a Carlo Magno nella cattedrale di Chartres. 22. Particolare del portale dei Martiri, portale di sinistra del fianco destro della cattedrale di Chartres.


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Un aumento significativo di reliquie si deve alla quarta crociata del 1204. Il conte di Blois-Chartres fu uno dei promotori più importanti di questa crociata. Così, proprio nel momento in cui la ricostruzione era agli inizi, la cattedrale di Chartres poteva anche approfittare in buona misura del trasferimento di reliquie in Occidente derivante dalla conquista di Costantinopoli. Due terzi dei santi rappresentati nelle finestre si possono mettere in relazione con il patrimonio delle reliquie. Nella raffigurazione dei santi nelle vetrate deve essere anche visualizzata la presenza delle reliquie nella cattedrale, non fosse per il fatto che queste ultime, non tutte o non di continuo, potevano essere esposte agli occhi del pubblico. Il vero tesoro della cattedrale erano le sue reliquie, sottolinea Claudine Lautier, e non i loro contenitori, quand’anche costituiti da materiali pur così nobili. I reliquiari potevano essere fusi o alienati in tempi di necessità; solo di rado, però, ci si separava dalle reliquie, alle quali spettava il vero e proprio ruolo salvifico nel culto dei santi. Di conseguenza, il possesso delle reliquie si rispecchiava anche nell’organizzazione della liturgia locale, nella quale giocavano un ruolo importante le festività dei santi e l’invocazione della loro intercessione. Più volte si lasciano confermare correlazioni tra reliquie, pittura su vetro e scultura esterna. L’accesso sinistro del braccio sud del transetto, il cosiddetto portale dei Martiri, è dedicato soprattutto al protomartire Stefano e alla sua leggenda. La sua statua compare già nella strombatura sinistra del portale insieme a un santo cavaliere come Clemente papa romano e Lorenzo. Sulla strombatura opposta compaiono Vincenzo, Dionigi (Denis), Piatus e il santo cavaliere Giorgio. La figura di Stefano, rivolta verso l’interno, dall’apparenza quasi estatica, indossa una veste liturgica, che lo dà a riconoscere come un diacono. Nel campo dell’arco è raffigurato il suo martirio. La storia inizia già negli archivolti (fila in basso a sinistra), dove Stefano appare fra tre figure che configurano l’alto consiglio dei Giudei, davanti al quale il martire dovette comparire e che alla fine decretò la sua lapidazione29. Quest’ultima è mostrata immediatamente di fianco, sull’architrave del portale e nel registro inferiore degli archivolti di destra: sul lato sinistro dell’architrave, dapprima si conduce Stefano fuori dalla porta della città. Nella metà destra si vede, dunque, la lapidazione di Stefano, inginocchiato, che, con le mani congiunte in preghiera, chiede a Cristo di non imputare ai suoi 22

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malfattori il peccato del suo omicidio. A destra si vedono i suoi assassini che gli lanciano addosso le pietre. Sono di nuovo da osservare i «toni» dello svolgimento figurativo dell’episodio. Mentre i lapidatori dietro Stefano e tutti gli altri guardano verso di lui, lo sguardo dell’inginocchiato, con la testa alzata, è rivolto verso Cristo, che appare tra due angeli nella zona superiore del timpano e impartisce la sua benedizione. L’accento della descrizione figurativa dell’episodio viene quindi posto sul ruolo di mediatore e intercessore di Stefano. All’osservatore è richiesto dunque di appellarsi al santo all’interno della chiesa per implorare tale intercessione per sé. In relazione a ciò sta la constatazione che si presta vistosamente molta attenzione anche ai lapidatori con i loro strumenti di lancio. Essi si vedono non soltanto all’opera sul lato destro dell’architrave, ma alcuni compaiono anche sul lato destro della parte inferiore degli archivolti. Qui viene mostrato soprattutto come ammucchiano le pietre nei loro vestiti. Anche per

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questo c’è una spiegazione. La cattedrale possedeva infatti come reliquie le pietre del martirio di Stefano: esse sono per lo meno menzionate nell’inventario del 132230. Peter Kurmann e Brigitte Kurmann-Schwarz ritengono giustamente che esse appartenessero alla cattedrale già ai tempi della sua ricostruzione31. Al martire Stefano si era consacrato anche l’altare della cappella dei Martiri in cattedrale e lo si commemorava in più feste liturgiche. Numerose processioni nel corso dell’anno conducevano alla chiesa di Stefano, ubicata presso il chiostro della cattedrale32. Due finestre della chiesa erano inoltre dedicate al protomartire. Una lo mostra in piedi con un libro e una palma di martire, sotto un’immagine che raffigura la sua lapidazione. La seconda è la finestra assiale della cappella in cui si trova il suo altare. In essa sono mostrate, da una parte, la vita e la morte del santo, dall’altra, il ritrovamento delle sue reliquie. Nel calendario delle feste liturgiche della cattedrale quest’ultimo è commemorato il 3 agosto33.

23. Scene del martirio di santo Stefano. Portale di sinistra del fianco destro della cattedrale di Chartres.


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24. Raccolta delle pietre nei vestiti per il martirio di santo Stefano. Portale dei Martiri della cattedrale di Chartres. 25. Il martirio di Thomas Becket. Portale dei Martiri della cattedrale di Chartres.

Nell’archivolto interno del portale contornano il timpano le figure dei ‘bambini innocenti’ che Erode fece assassinare. Queste figure fungono da prototipi dei martiri, perché dovettero sacrificare la loro vita per Cristo. La cattedrale si sapeva in possesso delle reliquie de sepultura Innocentium pluri0morum e, nel mondo figurativo della cattedrale, le rappresentazioni dell’assassinio dei bambini innocenti avevano un ruolo eccezionalmente importante. Già nel fregio capitellare del Portail Royal, risalente alla metà del XII secolo, all’episodio biblico fu attribuito grande rilievo, ma anche nella pittura su vetro esso figurava tra i soggetti più frequenti34. Per quanto riguarda i rilievi dei martiri dei pilastri del portico, in questa sede non possono essere prese in considerazione tutte le rappresentazioni. Perciò saranno menzionati solo i rilievi sul lato orientale35, dove, in alto, si riconosce l’assassinio di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury e cancelliere del re d’Inghilterra. Si vede il santo in

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valieri stanno per ucciderlo con la spada, già prossima al suo capo. Becket doveva morire perché non voleva accettare che i diritti della Chiesa dovessero essere limitati dal sovrano inglese. Il suo cervello, con il colpo, doveva grondare sul pavimento della chiesa. Già nel 1173 fu dichiarato santo. Giovanni di Salisbury, vescovo di Chartres nella seconda metà del XII secolo, servì Becket come segretario e portò il suo sangue a Chartres, dove, in seguito, fu venerato come santa reliquia36. Claudine Lautier accenna anche ad un coltello, ugualmente venerato come una reliquia del santo37. Il sangue fu conservato in un recipiente per reliquie e custodito insieme al coltello nella cappella di Saint-Denis, nella cripta, come si può ricavare dall’itinerario processionale della vigilia nella sera precedente la sua festività38. In una finestra della cappella dei Confessori sono descritte la sua vita e la sua efficacia taumaturgica dopo la morte. Oltre a ciò, una rosetta di finestra sul lato settentrionale della navata mostra la sua immagine. Sotto al martirio dell’arcivescovo di Canterbury compare, sul pilastro di contrafforte del braccio meridionale del transetto, quello di san Biagio. San Biagio era il vescovo di Sebaste, in Armenia, quando per evitare la persecuzione degli sgherri di Diocleziano fuggì in una grotta e là fu scoperto. Poiché si rifiutò di rendere omaggio agli dei, fu appeso a una trave e torturato a morte. Questa è la scena che viene tradotta in immagine. Anche di san Biagio la cattedrale possedeva reliquie, e c’era inoltre una finestra a lui dedicata, purtroppo distrutta durante la Rivoluzione nel 1791. Il rilievo posto sotto Biagio mostra come furono cavati gli occhi col fuoco a san Legerius39. Sotto, segue il martirio di san Vincenzo, alla cui statua nella strombatura del portale si era già accennato. Egli era diacono quando la persecuzione dioclezianea dei cristiani fu portata a Valencia. Qui fu torturato a morte dal governatore Daziano. Le sue spoglie furono gettate in pasto agli uccelli e agli animali silvestri, ma un corvo si prese cura del corpo del santo, proteggendolo dalle bestie della foresta. Nel rilievo di Chartres si distingue bene un lupo, insieme al corvo che si trova presso il cadavere. Poiché la salma del santo rimase intatta, il despota pagano la volle far affondare in mare con un macigno legato al collo. Ma il corpo del santo, nonostante il macigno, raggiunse nuovamente la terraferma più velocemente dei marinai che dovevano affondarlo. Questo episodio è mostrato nel rilievo di Chartres mediante la grande pietra ton-

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26-30. Martirio di san Biagio, san Legerius, san Vincenzo, san Lorenzo e san Cheron, portale dei Martiri della cattedrale di Chartres. 30


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31. Portale destro del fianco destro, cattedrale di Chartres.

da, appesa con una corda intorno al collo del santo e che deve tirarlo sott’acqua. La cattedrale possedeva reliquie di Vincenzo, custodite nel reliquiario delle tre Marie e nel cosiddetto reliquiario di cristallo. Una grande finestra con 28 episodi della sua vita è nella cappella dei Martiri. Sotto al rilievo di Vincenzo, sul pilastro del portico, si riconosce san Lorenzo, torturato su una griglia incandescente. Anche lui compare già come statua della strombatura nel portale dei Martiri. D’altra parte, Lorenzo sembra aver goduto di una particolare venerazione a Chartres. Di lui si possiede un dente, che deve aver compiuto miracoli

di guarigione soprattutto per il mal di denti. Nel cleristorio della navata una grande figura rappresenta il santo, e nella chiesa numerose vetrate più piccole mostrano scene della sua vita40. Il ciclo dei rilievi del portico meridionale viene concluso in basso da un’immagine della morte per martirio di san Cheron, che era stato missionario a Chartres. Ucciso dai briganti, anch’egli, come Dionigi, porta tra le mani la propria testa e si reca nel luogo dove desiderava essere sepolto. Sul rilievo di Chartres, dietro di lui c’è il suo assassino con la spada alzata, rappresentato come un avido brigante con una borsa intorno ai fianchi. In una famosa

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32. Scene della vita di san Martino e san Nicola, timpano del portale destro del fianco destro della cattedrale di Chartres. 33. La virtù della Carità, raffigurata sui contrafforti del portale del Giudizio Universale della cattedrale di Chartres. 34-35. Particolari della vita di sant’Egidio, archivolto sinistro e destro del portale destro del fianco destro della cattedrale di Chartres. 35 32

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vetrata della cappella dei Martiri sono mostrati, accanto a questa scena, anche i miracoli che il santo fece in vita. Di san Cheron la cattedrale non aveva delle reliquie, che si trovavano tuttavia nell’abbazia agostiniana del quartiere suburbano. Questo è un esempio del fatto che i santi titolari delle chiese diocesane erano rappresentati anche nei programmi delle vetrate della cattedrale, cosa che, come Claudine Lautier sottolinea a diritto, aveva la funzione di mettere in risalto il ruolo della cattedrale come chiesa madre. Questa relazione si esprime anche nelle processioni liturgiche della cattedrale

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che, non di rado, includono le chiese della città41. Il portale destro della facciata sud del transetto è dedicato ai santi Confessori42. Nelle strombature del portale, sul lato sinistro, si trovano san Laudomarus (Laumer), poi un papa (forse Leone Magno), un arcivescovo, in cui si vuole riconoscere Tommaso di Canterbury, e infine un vescovo, forse san Nicasio. Nella strombatura destra stanno san Martino di Tours, san Girolamo, papa Gregorio Magno e sant’Avito. Il timpano mostra scene tratte dalle vite di san Martino e san Nicola. In basso a sinistra, nell’ar-

36. Portale sinistro della facciata del duomo di Strasburgo. 37. Scene dell’Infanzia di Cristo nel timpano tripartito del portale sinistro della facciata del duomo di Strasburgo.

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chitrave della porta, si scorge san Martino – che nella strombatura appare già nella ricca veste liturgica di vescovo di Tours – ancora una volta come cavaliere, che offre una parte del suo mantello a un mendicante infreddolito. Sopra, è rappresentato mentre dorme nel suo letto. A terra dorme un servitore. Al Santo appare in sogno Cristo, presente sul rilievo nella parte superiore del timpano. La leggenda racconta che Cristo, nella visione di Martino, appare nella mezza veste del mendicante, e riferisce che sia stato rivestito dal non ancora battezzato cavaliere Martino. In conseguenza di ciò il cavaliere dovette farsi battezzare e più tardi divenne monaco e vescovo. Martino, che fu nel Medioevo una figura centrale fra i culti santi in Francia, aveva una ricca presenza anche nella liturgia di Chartres. Non solo l’11 novembre, il giorno della sua festa principale, ma anche in altre festività era commemorato con più lezioni. Presumibilmente, nel Medioevo, era a lui già dedicato anche un altare in cattedrale, che avrebbe potuto trovarsi in stretta vicinanza alle vetrate illustranti la sua vita43. Anche san Nicola appare nel portale dei Confessori in quanto benefattore. Nella metà destra dell’architrave della porta, egli fa cadere nell’abitazione di un uomo povero, attraverso una finestra, tre palle di sterco di cavallo, che la sua preghiera aveva trasformato in oro. Quest’uomo aveva appena deciso di far diventare le sue figlie prostitute perché non poteva fornire loro di una dote. Grazie all’aiuto di Nicola, egli poté abbandonare questo intendimento. Sopra è mostrato come l’olio santo goccioli sugli uomini che si intrattengono sotto il sarcofago di Nicola. Si tratta di un motivo molto simile a quello che abbiamo già conosciuto nel portale di Onorato, ad Amiens. Già Willibald Sauerländer ha richiamato l’attenzione sul rapporto tra i rilievi e la liturgia di Chartres. Durante il vespro della festa di san Nicola, il 6 settembre, veniva cantato il responsorio ex eius tumba, che ricordava il miracolo dell’olio44. Nel registro inferiore degli archivolti sono raffigurati episodi della vita di sant’Egidio. A sinistra si riconosce un parallelismo con la vita di san Martino del timpano: sulla via della chiesa, Egidio lascia il suo indumento a un mendicante malato. L’episodio è raccontato, tuttavia, in modo diverso rispetto alla partizione del mantello nel timpano dell’arco. Si vede il mendicante infilarsi nel vestito che il santo gli tiene pronto. La leggenda riferisce che il mendicante, a contatto con quella stoffa, sia guarito dalla sua malattia. I seguenti tre rilievi pertinen-

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ti agli archivolti raccontano insieme un episodio. Quando Egidio si era ritirato nella solitudine della Provenza per dedicarsi completamente alla preghiera, lo nutriva il latte di una cerva. Nel secondo rilievo si vede il re visigoto Wamba, alto su un destriero, durante la caccia alla cerva, che scappa presso il suo protettore Egidio, inseguita dai cacciatori fino all’eremo. Una freccia, diretta alla cerva, colpì tuttavia il santo: lo si vede seduto su un muretto, con un libro sulle ginocchia e con il dardo mal diretto che gli si ficca nella coscia. La cerva si accovaccia ai suoi piedi. A destra, nell’archivolto che segue, vi è un partecipante alla battuta di caccia che si rivolge al santo. Il re deve aver offerto a Egidio l’aiuto del suo medico, cosa che quest’ultimo però respinge, con la motivazione che per lui era più importante la sofferenza rispetto ad una veloce guarigione. Ma ciò che rende le immagini della leggenda di Egidio interessanti per la nostra ricerca si rivela soprattutto nella fascia inferiore del lato destro degli archivolti. Egidio fu chiamato dall’imperatore Carlo Magno, che gli confessò di un grande peccato che lo opprimeva. Così pregò il santo di intercedere per lui, affinché Dio lo perdonasse. Nel primo archivolto si vede il santo all’altare per la celebrazione della messa. Durante il rito, un angelo deve avergli portato un messaggio da parte di Dio, dove si leggeva che Dio stesso avrebbe perdonato all’imperatore il peccato se di questo egli si fosse pentito e avesse reso confessione. Vicino alla scena dell’altare si vede il re in ginocchio in preghiera. Le scene fanno riferimento ad un episodio della leggenda di Carlo che è esaustivamente trattato nelle vetrate del deambulatorio e nel cleristorio settentrionale del corpo longitudinale. Riassumendo, si può affermare che nei portali dei Santi di Chartres vengono a galla più strati di significato riguardanti il loro culto. Per prima cosa bisogna prendere confidenza con la figura del santo e la sua vita. Non meno importante, tuttavia, è il riferimento alla liturgia del santo e al ruolo salvifico delle reliquie. Questo viene richiamato all’osservatore attraverso la specifica «messa in scena» iconografica di alcuni episodi della vita. Quando il riguardante vede come Stefano, durante il suo martirio, alzi lo sguardo verso Cristo in posizione implorante per chiedere perdono per i suoi assassini, si accorge che il santo si trova nella Visio Dei. In quel momento, egli si fa garante presso Dio per la comunità della Chiesa che nella liturgia implora collettivamente la sua intercessione. L’intercessio-


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38. Portale centrale del duomo di Strasburgo.

ne giunge in ugual misura a favore dei pellegrini che si recano in visita al «tesoro di reliquie» della cattedrale, per approfittare della sua virtus. Nel portale dei Confessori, l’efficacia delle reliquie si esprime in modo chiarissimo attraverso l’olio guaritore che fuoriesce dal corpo morto di Nicola45. Lo stesso processo di intercessione è visualizzato negli archivolti dalle figure di Carlo e di sant’Egidio. L’uno, ovvero Carlo, prega per l’intercessione, che più tardi, dall’altro, Egidio, nel corso della santa Messa, è inoltrata a Dio. L’angelo accanto all’altare di Egidio chiarisce che le intercessioni del santo sono esaudite da Dio. I rilievi di Martino e Nicola nell’architrave dello stesso portale rinviano ad un’ulteriore funzione del santo, cioè di servire all’osservatore come modello per azioni meritevoli. Il gesto compassionevole dell’offerta dell’indumento ricorda la virtù della caritas, ripetuta sui

contrafforti che fiancheggiano il portale del Giudizio Universale. Anche questa personificazione è mostrata nel gesto di offrire a un mendicante un capo d’abbigliamento. La Caritas, in cui si riuniscono l’amore di Dio e l’amore dell’uomo, è la virtù principale, che conduce gli uomini alla vita eterna; ne è informata, come abbiamo visto precedentemente, anche la rappresentazione della pesatura delle anime ad Amiens. I portali occidentali della cattedrale di Strasburgo Nel 1277 il vescovo pose la pietra di fondazione del massiccio occidentale della cattedrale di Strasburgo e la produzione del patrimonio figurativo fu ultimata al massimo negli anni Ottanta e Novanta. Il programma dell’impianto a tre portali evidenzia, in particolare dalla struttura, somiglianze

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39. Scene della Crocifissione, della discesa agli Inferi e del Noli me tangere, particolare del timpano del portale centrale del duomo di Strasburgo. 40. Scene della Deposizione e delle Pie Donne al sepolcro, particolare del timpano del portale centrale del duomo di Strasburgo.

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con i modelli dell’Île-de-France risalenti alla prima metà del XIII secolo, sebbene si riconoscano anche inequivocabili accenti nuovi e autonomi46. Il portale laterale sinistro (nord), che nella cronologia del programma generale sta all’inizio, mostra episodi dalla storia dell’Infanzia di Cristo. Il timpano dell’arco è articolato in tre registri. In basso a sinistra, si introduce il ciclo con la visita dei tre santi Re (Magi) ad Erode; a destra, si conclude con l’adorazione del Bambino. Nel secondo registro del timpano, è mostrata la strage degli innocenti a Betlemme: in mezzo troneggia il sovrano Erode, nella parte destra del registro si trovano Giuseppe e Maria, lei con Gesù Bambino sul dorso di un asino, in fuga verso l’Egitto. Nel «pennacchio» superiore del timpano dell’arco, è infine visibile la Presentazione al Tempio, laddove Simeone predice le sofferenze di Cristo e i dolori di Maria. Angeli e santi sono alloggiati nei quattro archivolti. Nelle strombature, su entrambi i lati del portale, le dodici Virtù sono personificate da figure femminili che trafiggono con le loro lance i dodici Vizi, rannicchiati sotto i loro piedi. Nel registro centrale del timpano, dove è rappresentato l’infanticidio ordinato da Erode, il centro

è costituito da un gruppo di figure con una madre in affanno. È accovacciata a terra e si affatica inutilmente per sottrarre suo figlio a uno sgherro che sta per infilzare un pugnale nel petto del bimbo. La disperazione di questa madre sembra aver riscosso a Strasburgo particolare attenzione. Già per i padri della Chiesa le madri sofferenti simboleggiavano l’Ecclesia che si dà pena per i suoi figli. Il loro supplicare sta per l’intercessione (pro te fleat) della Chiesa47. Esegeti successivi vedono nei bambini innocenti soprattutto i primi martiri cristiani, che sacrificarono la loro vita per Cristo e che furono compianti dalla Chiesa. Importante per la comprensione dei riferimenti di contenuto è il fatto che a Strasburgo il bambino innocente che riceve una pugnalata fu inserito proprio sotto il Bambino Gesù della Presentazione al Tempio. Dunque, mentre nella scena della Presentazione, in alto, si rammemora Cristo che si offre sull’altare per l’umanità, in basso i martiri – simbolizzati dai bambini – sacrificano se stessi, nel ruolo dei più importanti membri della Chiesa secondo Cristo. Anche i tre Re offrono a Cristo i loro doni. Troppo di rado ci si occupa, nelle analisi di storia dell’arte, di che significato avessero più precisamente i doni

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dei Re a Cristo. Evidentemente si tratta anche qui, ancora una volta, delle opere che i cristiani hanno da presentare di fronte a Gesù. Qui val la pena soffermarsi sui rapporti dell’immagine con le connotazioni liturgiche della cattedrale di Strasburgo. Si rivelano ricchi di aperture dei passi tratti da un «mistero» drammatizzato detto Stella che, secondo Joseph Walter, era rappresentato nel XII secolo nella cattedrale di Strasburgo48. Nella scena dell’Adorazione, i Re vengono accolti da donne bianche che li invitano ad adorare il Bambino in quanto salvatore del mondo. A lui i Re porgono i doni49. I Re del ‘mistero’ semiliturgico forniscono subito la spiegazione dei loro doni nel testo recitato. Ciascuno dei tre doni caratterizza un aspetto della fede e della venerazione che i Magi portano al cospetto di Cristo: a Gesù Bambino identificato come «re» è destinato l’oro, mentre deve ricevere l’incenso in quanto «Dio». La mirra vuole essere il segno della sua sepoltura, poiché a quei tempi questa sostanza profumata veniva utilizzata come unguento per le salme. Da qui emana l’interpretazione dei doni del mistero drammatizzato di Stra-

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sburgo da parte dell’esegesi corrente. Già Gregorio Magno interpretava i munera dei tre Magi in questo modo50. Egli si rivolge in ciò contro determinati «eretici», che credevano in Dio ma la cui fede non investiva tutti gli ambiti necessari. Questi sarebbero indicati dai doni mistici (mysticis muneribus) che i tre Magi consegnarono a Cristo. Con l’oro essi venerano il re, con l’incenso Dio e con la mirra il «mortale». La mirra come signum sepulturae simboleggia anche la fede in Cristo come uomo mortale. Con molta evidenza questa interpretazione viene riformulata, come appello al suo uditorio, nei Sermones del cisterciense Isacco de Stella (morto intorno al 1169). «Offriamo oro al nostro re» sollecita Isacco «affinché crediamo in lui in quanto sovrano onnipotente. Fateci offrire a lui l’incenso, affinché lodiamo in lui il Dio da sempre esistente e creatore di tutto il mondo. E offriamogli mirra, per non dubitare che egli abbia assunto un corpo mortale per la nostra salvezza»51. In questa «triplice natura del dono» è visto il «perfetto mistero della fede cristiana». Isidoro di Siviglia pone a contrasto di questa manifestazione di fede

41. Discesa agli Inferi, particolare del timpano del portale centrale del duomo di Strasburgo. 42. Portale del Giudizio Universale (destro) della facciata del duomo di Strasburgo.

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43. Le vergini stolte con il «principe del mondo», portale del Giudizio Universale del duomo di Strasburgo.

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la persona di Erode, in quanto simbolo del male: mentre i Magi rappresentano i popoli pagani che incarnano la vera luce della fede e che, attraverso i loro doni, designano Cristo come Dio, re e uomo morto e sepolto, Erode che portò la morte ai bambini figurerebbe come immagine del diavolo e dei pagani desiderosi di cancellare il nome di Cristo dal mondo e responsabili della morte dei martiri52. Anche se non ci si dovesse basare sul presupposto che gli ideatori del programma del portale di Strasburgo facessero riferimento direttamente a questo passo di Isidoro, la sua interpretazione mette tuttavia in rilievo una componente semantica importante del registro scolpito inferiore, che si esprime essenzialmente già di per sé nella composizione e configurazione iconografica di ambedue le scene. Agli antipodi di Cristo figura Erode, dal quale i Re si allontanano per dirigersi verso il loro Dio, dimostrando la loro fede con dei doni. Potremmo tener fermo, come conclusione, che le offerte dei Re simboleggiano di conseguenza, per l’osservatore del portale di Strasburgo, la vera fede in Dio e gli ricordano il Credo della Chiesa, che rappresenta uno degli elementi essenziali dell’insegnamento cristiano, la cui conoscenza era richiesta a ogni laico53. Principalmente, nella struttura profonda dei tre portali di Strasburgo, si lascia intendere una sorta di schema di Credo. Il Christus natus è adorato dai Re nelle scene dell’Infanzia del portale laterale settentrionale; il Christus passus subisce la passione nel portale centrale e proprio lì, sulla croce, muore da salvatore; il Christus ressurectus si presenta come dominatore del mondo nel portale destro del Giudizio. Ma i doni dei re possono connotare, oltre alla «vera fede», anche altre opere di virtù54. La mirra, ad esempio, simboleggia l’opera della castità, con la quale devono essere repressi i desideri carnali. Non di rado, nei tre doni dei Re, l’esegesi vede indicate le tre principali Virtù teologali. Ciò significa che la rappresentazione dei doni dei Re contiene ancora un appello all’osservatore. Egli, infatti, deve darsi premura per queste opere virtuose per poter conseguire un giorno la beatitudine eterna. Queste osservazioni ci aiutano anche a «gettare un ponte» fra i contenuti del timpano e delle strombature. In queste, le Virtù stanno al di sopra dei Vizi e sono personificate da donne eleganti, che indossano lunghe vesti fluenti e portano corone. Queste ultime significano il conseguimento della vita eterna, che deriva dalle opere virtuose.

Il portale della Passione Nel portale di mezzo, si porta davanti agli occhi dell’osservatore, in forma dettagliata, la passione in quanto evento centrale della redenzione, mentre i profeti nelle strombature gli spiegano le relative profezie messianiche dell’Antico Testamento. Negli archivolti l’osservatore trova poi un intero catalogo di informazioni catechetiche. La storia della Genesi, con la Creazione del mondo e la raffigurazione del Peccato Originale, rappresenta gli inizi del mondo e la perdita del Paradiso a causa del medesimo peccato. Altri episodi tratti dall’Antico Testamento visualizzano il proseguimento della storia della salvezza e rinviano al senso cristologico degli eventi vetero-testamentari. La rappresentazione dei singoli miracoli di Cristo informano riguardo l’operato di Cristo sulla terra, la sua onnipotenza divina, mentre le immagini dei martirii degli apostoli trattano degli inizi della Chiesa, della sua legittimazione e delle sue vittime. Figura centrale di tutta la composizione è la Crocifissione che, disposta esattamente sull’asse longitudinale dell’intera chiesa, rimanda anche all’immagine di culto centrale all’interno della chiesa, sopra l’altar maggiore. Essa serve dunque come richiamo alla santa Eucaristia e alla liturgia della messa nel santuario. L’effetto dispensatore di vita del sacrificio e della morte di Cristo per la salvezza, così come il suo riferimento eucaristico, sono espressi anche attraverso la vicina Ecclesia in piedi, che con un calice raccoglie il sangue del Salvatore, sgorgante dalla ferita del costato. Alla Chiesa, che tiene in mano il vessillo della croce come segno del suo trionfo, si contrappone, alla sinistra di Cristo, la Sinagoga, che con gli occhi bendati lascia cadere la testa sul petto in segno di sconfitta. Perché in questo contesto l’Ecclesia di Strasburgo sia provvista di un calice come emblema eucaristico si spiega solo mediante il decreto De fide del quarto Concilio Lateranense del 1215, che afferma: «Una è la Chiesa universale dei fedeli, fuori della quale nessuno veramente si salva. In essa lo stesso Gesù Cristo è sacerdote e vittima; il suo corpo e il suo sangue sono contenuti realmente sotto le specie del pane e del vino nel sacramento dell’altare, dal momento che il pane è transustanziato nel corpo, il sangue nel vino, per divino potere [...]. Questo sacramento per nulla può celebrarlo chicchessia, se non un sacerdote che sia stato consacrato sulla base dell’ordinazione, a misura del-

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l’autorità della Chiesa che lo stesso Gesù Cristo concesse agli apostoli e ai loro successori»55. Dunque, non è menzionata soltanto l’istituzione salvifica che amministra i sacramenti, ma anche l’ufficio ecclesiastico che li celebra e che, dunque, deve essere insignito del privilegio della potestà delle chiavi. Indubbiamente il clero della cattedrale voleva vedere rappresentato se stesso, le proprie prerogative e azioni sacerdotali, nel modo di personificare l’Ecclesia. A destra, accanto, segue la Deposizione, nella quale Cristo morto viene deposto dalla croce. Maria regge la testa di Cristo, il cui braccio sinistro, teso e ancora fissato alla croce, è liberato da Nicodemo con una grossa tenaglia dal chiodo e dalla traversa. Il corpo del defunto cade tra le braccia di Giuseppe di Arimatea, mentre la testa giace sul seno e tra le mani della madre di Dio che l’accarezza. Per l’osservatore, quindi, Maria diventa personaggio principale della scena accanto a Cristo e funge ora da sua partner «interlocutrice». Il suo volgersi a mezza figura verso Cristo e verso l’osservatore in basso supporta questa funzione di mediatrice. La costruzione scenica della Deposizione di Strasburgo trae origine dall’ambito bizantino e presto trovò terreno nell’area culturale occidentale56. Anche i liturgici Lamenti di Maria, alla fin fine, si basano su scritti spirituali e apocrifi orientali. Tali testi costituiscono anche il retroterra di nuove formulazioni d’immagine, come quella della Deposizione di Strasburgo. Fra questi, quello forse più ricco d’influssi è il cosiddetto Trattato di Bernardo, un testo omiletico in prosa e l’estratto di un’omelia che, come Barré ha documentato, venne redatto da Oglerio di Trino, abate dal 1205 dell’abbazia cistercense di Santa Maria di Lucedio, presso Trino Vercellese, in Piemonte. Come già rivela il nome, il Trattato di Bernardo fu ascritto, nel Medioevo, al famoso abate di Clairvaux. Probabilmente già nel XIII secolo ha avuto origine l’adattamento tedesco Unser vrouwen klage, che fu utilizzato nella liturgia di frequente e in diversi contesti57. La Deposizione dalla croce gioca un ruolo fondamentale in questo «trattato di Bernardo» ed è in stretto collegamento con la rappresentazione nel timpano di Strasburgo. Il testo racconta come Maria stenda le braccia per portare al suo seno la testa di Cristo, mentre il primo aiutante sostiene la salma e l’altro toglie i chiodi dalla traversa della croce. Poi Maria copre il volto di Cristo di baci e lacrime. Allora si esortano gli ascoltatori a piangere ed essere afflitti con Maria.

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Anche il rilievo della Deposizione di Strasburgo vuole senza dubbio stimolare la compassione dell’osservatore ed esortarlo ad affliggersi e piangere con Maria. Di sicuro questa scena costituisce anche il culmine emozionale del dramma della passione rappresentato. Immediatamente dopo, però, inizia la cesura. Con la visita delle donne al sepolcro, il suicidio di Giuda e la raffigurazione di Cristo agli Inferi, è condotto agli occhi dei fedeli il trionfo pasquale. La resurrezione stessa si deve pensare come precedente alla visita delle donne al sepolcro, anche se l’evento vero e proprio non è visualizzato. Nell’episodio della discesa di Cristo agli Inferi, dei diavoli orribili con smorfie ebeti e sconvolte dalla pena, oziano davanti alla grande gola spalancata dell’Inferno, mentre Adamo ed Eva ne vengono condotti fuori grazie alla mano di Cristo, che tiene nella sinistra una croce astile. Il Salvatore viene qui presentato come Christus Victor, trionfante sulla morte e il diavolo che, sconfitti, sono rannicchiati a terra. L’immagine deve consentire all’osservatore di rintracciare i fatti della redenzione, che fu operata attraverso la morte in croce. Per questa ragione, credo che la discesa agli Inferi fosse anche parte integrante della liturgia pasquale medievale della cattedrale di Strasburgo, di cui ci informano le Consuetudines del cantore Baldolf, risalenti al XII secolo58. Secondo queste ultime, nella domenica di Pasqua, dopo il rito al santo sepolcro, tutto il clero con i fedeli si recava all’esterno, sul sagrato della cattedrale, dove era «messo in scena» liturgicamente il «mistero» della discesa agli Inferi. Il cantore intonava il canto Cum rex glorie Christus infernum debellaturus intraret e i cori gli rispondevano. Poi venivano aperte le porte e tutti attraversavano il centro della cattedrale fino a raggiungere il coro. Senza dubbio questa processione doveva semantizzare il corteo dei giusti dell’Antico Testamento, dal limbo verso la salvazione; la comunità realizzava così il corteo trionfale del giorno di Pasqua, che liberava dai dolori e dalle angosce del giorno precedente. La rappresentazione tragicomica degli abitatori infernali, nel timpano, deve essere compresa in un contesto analogo. Il principe dell’Inferno è accovacciato sul margine anteriore della gola del Leviatano; la sua smorfia grottesca come di maschera è segnata dal dolore della sconfitta. Un altro diavolo avvolge il proprio corpo attorno alla caldaia infernale, in modo che la sua testa appaia sul lato destro e, a sinistra, il suo lucido posteriore sia di-


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retto verso l’osservatore. Nel Medioevo, denudare il posteriore era un mezzo espressivo utilizzato di frequente nel linguaggio del corpo comico-grottesco e valeva come offesa in rapporto al codice medievale del linguaggio mimico appropriato59. Naturalmente tali immagini dovevano stuzzicare lo spettatore medievale al sorriso compiaciuto e alla risata. Scene simili si trovano anche nel teatro liturgico60. Anche qui, nelle scene della discesa agli Inferi, le forze diaboliche, che nella vita di tutti i giorni rappresentano per i fedeli una continua minaccia, personificano i vinti e i posti fuori combattimento. La comicità – così sostiene Rainer Warning – deve aiutare a vincere nello spettatore le angosce del periodo della Passione; la risata funziona come atto di liberazione, come un momento «della paura vinta»61. Come nel teatro liturgico, anche i diavoli grotteschi del rilievo della discesa agli Inferi nel timpano di Strasburgo dovevano provocare nel riguardante un mutamento di stato d’animo. In un primo momento, per la Deposizione e le altre scene della Passione, all’inizio delle «letture figurate», erano richiesti all’osservatore dolore e compassione per la sofferenza del Redentore; per le immagini successive della Resurrezione e Ascensione, invece, egli doveva provare gioia e soddisfazione. Ritengo che, come nella frequentazione del teatro liturgico, il sorriso compiaciuto davanti alle immagini dei diavoli sconfitti e disperati dovesse procurare una sorta di cambiamento d’umore. Anche nell’adiacente portale del Giudizio Universale si possono individuare alcuni collegamenti con il teatro liturgico. Mentre nelle strombature del Giudizio Universale di Amiens, come in genere nei «classici» portali francesi dedicati al Giudizio, sono mostrati gli apostoli, nelle strombature di Strasburgo appare la parabola delle vergini sagge e stolte. Le vergini, in quanto figure di strombatura più grandi del naturale, sono piazzate nel luogo in cui possono entrare direttamente in contatto con l’osservatore. Mentre, dunque, nel timpano il Giudice del mondo rappresenta la sfera celeste come centro del programma d’immagine, nella zona inferiore del portale si apre all’osservatore la sfera terrestre, che gli si offre come diretto «piano identificativo». Mentre le vergini stolte gli si porgono come exempla ex negativo, le vergini sagge fungono per i fedeli come modello di uno «stile di vita» riuscito in direzione della felicitas aeterna. Nell’essenza viene portato davanti all’osservatore un dramma in due atti ricavato nella pietra, che fa pensare ai medievali «giochi teatrali» delle vergi-

ni62. Come polo opposto allo Sponsus-Cristo nella strombatura destra, il quale accompagna le vergini sagge, compare a sinistra un ragazzo vanitoso, per il quale nella storia dell’arte è stata adottata la denominazione di «principe del mondo». Sulla schiena del cicisbeo si vedono strisciare verso l’alto vermi, serpenti e rospi, visibili solo per l’osservatore che sta da quella parte. Questi significano la depravazione del mondo illusorio, dal quale l’osservatore deve stare alla larga. Nel primo atto del dramma, il vanitoso tiene nella mano destra alzata una mela e la offre alla vergine stolta in piedi accanto a lui, che si lascia sedurre, ridendo in modo civettuolo. Le conseguenze di questa condotta del mondo decaduto sono personificate, per così dire, nel secondo atto del dramma, dall’atteggiamento delle restanti vergini stolte. Il dolore e l’angoscia sono scritti sul loro volto, a misura di una bocca contratta dal pianto e di tratti degli occhi segnati dalla disperazione. Come marchio della loro perdizione tengono verso il basso le vuote lampade a olio «del merito», mentre le vergini sagge sono accolte da Cristo, come Sponsus celeste, alla porta del cielo, configurata nella porta stessa della chiesa. In sintesi Per trarre una conclusione dalle precedenti riflessioni, bisognerebbe dapprima richiamare ancora una volta la citazione di Nicola d’Oresme, menzionata all’inizio, che vedeva le azioni liturgiche e le immagini in un contesto funzionale confrontabile. Ambedue avrebbero esercitato il loro effetto sui fedeli, non da ultimo sui sensi corporei, e il loro significato deve essere valutato anche in un contesto socio-culturale. Tale determinazione di significato e la reciproca «complicità» tra riti liturgici e scultura delle facciate sono state chiarificate soprattutto nell’ambito dell’analisi dei portali dei Santi di Amiens. Nel timpano del portale di Firmino si rinunciò a visualizzare il martirio del santo e, quindi, a rappresentare la leggenda di fondazione della diocesi di Amiens; essa era eventualmente raffigurata alla base del trumeau. Per gli ideatori del programma era più importante mostrare all’osservatore – con la rappresentazione del ritrovamento della salma e della sua traslazione nella cattedrale – come le reliquie del santo patrono fossero state accolte in cattedrale dalla popolazione di Amiens. Scopertamente si attribuiva un valore speciale alla possibilità di ancorare queste figure nella memoria collettiva della comunità cittadina. Queste stesse

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intenzioni giocavano un ruolo anche nell’organizzazione della liturgia propria della cattedrale, laddove, nelle feste del Santo, la comunità sacrale locale doveva essere rafforzata in grazia del proprio culto santo collettivo. Il santo, le sue reliquie e la sua casa appartenevano essenzialmente al sistema simbolico e rappresentativo della comunità cittadina solidale. In nessun contesto ciò risulta più evidente che nella liturgia del giorno dell’Ascensione, quando i rappresentanti dei cittadini portavano il reliquiario di Firmino in processione rituale attraverso la città, mentre la popolazione, presumibilmente, doveva indirizzargli gli stessi gesti di riverenza che manifestavano i suoi «rappresentanti» raffigurati nel timpano del portale63. A Chartres, lo studio della contestualità tra liturgia dei santi e iconografia della cattedrale acquista altre componenti aggiuntive nei bracci del transetto, grazie all’eccellente stato di conservazione delle vetrate e all’esteso patrimonio figurativo. Anche qui l’aspetto della «rappresentanza» ha un ruolo importante: la raffigurazione dei santi nei reliquiari e nelle sculture della facciata deve, non da ultimo, conferire una visibilità alla presenza delle reliquie nella cattedrale, anche se queste ultime non possono essere esposte tutte oppure continuativamente agli occhi del pubblico. Come ad Amiens anche a Chartres la presenza fisica dei santi nella cattedrale rappresenta una parte non secondaria della sua rinomanza come istituzione di mediazione salvifica. Tanto più numerosi erano i resti corporei posseduti dei santi, tanto maggiore era l’attività della Chiesa trionfante in cielo a favore della Chiesa locale sulla terra; peraltro, i resti stessi innalzavano anche il prestigio della cattedrale e attiravano le schiere dei pellegrini. Prima di tutto, nella liturgia propria della cattedrale veniva effettuata la rituale assunzione di contatto collettivo con i santi. Ma la popolarità dei singoli santi poteva essere soggetta a oscillazioni, cosa che aumentava l’esigenza delle chiese di sapersi in possesso di una molteplicità di reliquie. Per il fatto di avere reso visibile, nelle sculture e nelle finestre della chiesa, la presenza materiale di una pluralità di corpi di santi che si trovavano in suo possesso, la cattedrale di Chartres offriva agli occhi del visitatore il suo «capitale» simbolico. Seppure le vite dei santi sui contrafforti esterni venivano mostrate soltanto in singole immagini, alla maniera di pezzi di scenario, all’interno potevano essere illustrate per esteso nella pittura su vetro. Negli archivolti e timpani dei portali dei Santi, invece, si ricorreva intenzionalmente

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a scene tali che mostrassero ai fedeli la funzione e il significato dei santi, così come delle loro reliquie. Alla fine del XIII secolo la passione di Cristo assunse un rilievo sempre maggiore anche nella scultura esterna. A Strasburgo non è più il Giudice del mondo a costituire il centro della facciata iniziata intorno al 1280, ma il Cristo morto sulla croce del portale della Passione. I rapporti con la liturgia sono, dunque, ancora più evidenti, poiché – come può rendere plausibile all’osservatore soprattutto la rappresentazione dell’Ecclesia che raccoglie il sangue del crocifisso – la passione è commemorata nel sacrificio quotidiano della Messa. Una volta all’anno, durante la settimana santa e a Pasqua, questi ‘mitici’ eventi nodali della fede cristiana sono ritualmente restituiti in una para-liturgia teatrale di più giorni. Le seguenti tre azioni drammatiche della settimana santa e di Pasqua erano le più importanti: l’Adoratio crucis – lo scoprimento e l’Adorazione della croce avevano luogo il venerdì santo –, alla quale seguiva la Depositio crucis, la Deposizione della croce in un sepolcro simbolico; l’Elevatio del mattino di Pasqua, infine, simboleggiava la Resurrezione di Cristo. Siamo istruiti riguardo al cursus liturgico della cattedrale di Strasbourg grazie alle Consuetudines del cantore Baldolf, risalenti al XII secolo. Unitamente all’ausilio dell’antico Cantatorium dello stesso secolo e all’Ordinarium del cronista Fritsche Closener, le cerimonie si lasciano ricostruire con qualche approssimazione64. Il venerdì santo la processione del clero della cattedrale si trasferisce per l’Adorazione della croce (cruce salutata) e per la messa a un santo sepolcro, che era allestito nella cappella di Sant’Andrea. Qui ha luogo la deposizione, avvolgendo una piccola croce nel lino e ponendola in un temporaneo sepolcro65. Con Closener, nel XIV secolo, ha luogo un cambiamento: non si depone, infatti, alcuna croce, bensì un’ostia. La domenica di Pasqua, il cantore sceglie due diaconi, che devono «recitare» il ruolo degli angeli; per le tre donne al sepolcro sono selezionati tre preti. Poi si suonano le campane, e in quel momento, probabilmente, i laici occupano il loro posto nella chiesa e il clero si raduna al sepolcro. Le tre donne, interpretate dai chierici, si avvicinano ora al sepolcro con incensieri accesi simboleggianti i vasi d’unguento, e là vengono accolte dagli angeli. «Quem quaeritis in sepulcro, o christicolae?» domandano questi; «Jesum Nazarenum, o caelicolae», rispondono le donne. «Non est hic: surrexit, sicut praedixerat. Venite et videte». Poi le donne


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si avvicinano al sepolcro e si accorgono che è vuoto. Prendono il sudario e lo mostrano ai fedeli, annunciando: «surrexit Dominus»66. Nella scena della Resurrezione del portale della Passione, il momento in cui le donne guardano stupite nel sepolcro vuoto è restituito in modo pieno d’effetto. Ciò vale anche per gli altri rilievi del timpano, che così possono trasferire ai riti pasquali una ‘verosimiglianza’ tanto maggiore. Ciò spiega anche la funzione particolare di queste immagini in riferimento alla liturgia. Mentre, infatti, i riti pasquali hanno luogo solo una volta all’anno, il portale è davanti agli occhi degli osservatori per tutto l’anno e ricorda loro costantemente l’accadimento redentivo della passione. Occorre certo anche considerare che i fruitori stessi portano con sé tali im-

magini, in quanto accumulate nell’immaginazione, durante la frequentazione della liturgia pasquale. Ne consegue che le immagini stesse si amalgamano con le impressioni visive del rito e agiscono dunque in favore di una maggiore «evidenza» e di un’esperienza più intensa della liturgia. Viceversa, il ricordo degli eventi liturgici deve entrare in gioco anche durante l’osservazione diretta del portale, affinché chi guarda abbia consapevolezza della «competenza salvifica» dell’istituzione ecclesiastica che presiede ai riti. Analoghe connessioni intermodali si devono immaginare anche per il portale dei Santi e la liturgia dei santi ad Amiens e Chartres, solo che qui, nell’immagine e nella liturgia, la «competenza salvifica» della Chiesa locale riceve un’enfasi del tutto particolare.

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NOTE Introduzione LE VIE DELLO SPAZIO LITURGICO Paolo Piva 1 M.A. LAVIN, The Place of Narrative. Mural Decoration in Italian Churches, 431-1600, ChicagoLondon 1990, p. 15. 2 Cfr. ora: J. GOLL, M. EXNER, S. HIRSCH, Müstair. Le pitture parietali medievali nella chiesa dell’abbazia, Müstair 2007. 3 P. PIVA, San Pietro al monte di Civate: una lettura iconografica in chiave contestuale, in Pittura murale del Medioevo lombardo. Ricerche iconografiche. L’alta Lombardia (secoli XI-XII), a cura di P. PIVA, Milano 2006, pp. 87-96, 145-151. 4 Cfr. M. ROSSI, Galliano: pieve millenaria, Lyasis, Sondrio 2008. 5 Cfr. Gli affreschi di San Pietro in Valle a Ferentillo, a cura di G. TAMANTI, Napoli 2003. 6 W. JACOBSEN, Der St. Galler Klosterplan – 300 Jahre Forschung, in Studien zum St. Galler Klosterplan II, ed. P. Ochsenbein, K. Schmuki, St. Gallen 2002, pp. 13-56. 7 M. ANGHEBEN, Les chapiteaux romans de Bourgogne. Thèmes et programmes, Turnhout 2003. 8 Il soggetto dell’Ingresso in Gerusalemme fu spesso collocato in facciata (con riferimento alla processione della Domenica delle Palme, che coinvolgeva il vestibolo della chiesa e il tema simbolico dell’ingresso nella chiesa come regno celeste): cfr. ad esempio il rilievo di Saint-Paul a Cormery (E. VERGNOLLE, L’art roman en France, Paris 1994, p. 121, fig. 140), e le pitture in controfacciata a Castel Appiano e Bominaco. 9 Menziono solo: W. JACOBSEN, Der Klosterplan von St. Gallen und die karolingische Architektur, Berlin 1992, purtroppo mai tradotto in italiano. 10 Non è però da sottovalutare il fatto che i «frazionamenti» ebbero origine dall’interposizione del coro fra altare maggiore e fedeli proprio sulla base di presupposti romani: cfr. P. PIVA, Metz: un gruppo episcopale alla svolta dei tempi (secoli IV-IX), «Antiquité Tardive», 8 (2000), pp. 237-264. 11 Fra le monografie e i saggi di Baschet essenziali in questo senso: Lieu sacré, lieu d’images. Les fresques de Bominaco (Abruzzes, 1263). Thèmes, parcours, fonctions, Paris-Roma 1991; Les justices de l’au-delà, Roma 1993 (École Française); L’iconographie médiévale, Paris 2008. 12 Baschet ha usato di recente, per contestare questo ‘mito’, l’energica espressione: «Pour en finir (vraiment) avec la bible des illettrés» (J. BASCHET, L’iconographie médiévale, Paris 2008, p. 26). Cfr. anche E. PALAZZO, Liturgie et société au Moyen Age, Paris 2000, pp. 150-176. 13 Tradotti in italiano in H. TOUBERT, Un’arte orientata. Riforma gregoriana e iconografia, Milano 2001 (Paris 1990). 14 Per l’altare della Croce a Saint-Savin, in possibile rapporto con il falso arco trasversale dipinto: J. BASCHET, Ornementation et structure narrative dans les peintures de la nef de Saint-Savin, in Le rôle de l’ornement dans la peinture murale du Moyen Age, CESCM, Poitiers 1997, pp. 165-176. 15 H. TOUBERT, Un’arte orientata. Riforma gregoriana e iconografia, Milano 2001, pp. 103-141. 16 Si veda ora P.K. KLEIN, in M. ANGHEBEN (ET

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AL.), Alfa e Omega. Il Giudizio Universale fra Oriente e Occidente, ed. V. Pace, Milano-Castel Bolognese 2006, pp. 43-44. Stessa tradizione iconografica ad Acquanegra sul Chiese: monografia in corso di elaborazione curata da chi scrive. 17 Sull’iconografia dei capitelli in relazione agli spazi liturgici (santuari/cori e navate) e all’esegesi lo studioso ha pubblicato un volume metodologicamente esemplare: Les chapiteaux romans de Bourgogne. Thèmes et programmes, Turnhout 2003. 18 Cfr. P. PIVA, Lo spazio liturgico, in L’arte medievale nel contesto, Milano 2006, pp. 140-180. 19 Cfr. ora gli studi sui «cori liturgici» raccolti in Cinquante années d’études médiévales à la confluence de nos disciplines, Actes du Colloque CESCM (Poitiers 1-4 sept. 2003), Turnhout 2005, per esempio: C. ANDRAULT-SCHMITT, Rupture archéologique, rupture liturgique: des indices concordantes, pp. 275-283. 20 BOERNER ha già edito un’importante ricerca sui portali «del Giudizio», in questo caso centrata sui presupposti teologico/filosofici: Par caritas, par meritum. Studien zur Theologie des gotischen Weltgerichtsportals in Frankreich, Freiburg 1998. 21 In questo senso era già prima orientata la ricerca di W. SAUERLÄNDER, Reliquien, Altäre und Portale, in Kunst und Liturgie im Mittelalter, Akten des internationalen Kongresses der Bibliotheca Hertziana und des Nederlands Instituut te Rome, München 2000, pp. 121-134. 22 Per i percorsi orazionali agli altari e alle imagines di età carolingia vale ovviamente il caso documentato del Saint-Riquier a Centula (dalla ricca ma contrastante bibliografia). Per la processionetipo festiva dei monasteri il riferimento esemplare è Cluny: la processione toccava il coro minore di Santa Maria, il chiostro, la galilea (vestibolo) e l’altare della Croce, prima di rientrare in coro. Per le relazioni simboliche e funzionali fra processioni e galilea cluniacense si veda ora K. KRÜGER, Die romanische Westbauten in Burgund und Cluny, Berlin 2002. 23 M.A. LAVIN, The Place of Narrative. Mural Decoration in Italian Churches, 431-1600, ChicagoLondon 1990. Cfr. ora anche il saggio pieno di suggestioni di H.L. KESSLER, Storie sacre e spazi consacrati…, in L’arte medievale nel contesto, Milano 2006, pp. 435-462.

IN VISTA DELLA LUCE UN PRINCIPIO DIMENTICATO NELL’ORIENTAMENTO DELL’EDIFICIO DI CULTO PALEOCRISTIANO

Sible de Blaauw 1

Il presente contributo si basa sulla prolusione tenuta dal sottoscritto nel 1997 presso la RadboudUniversiteit di Nijmegen, in forma estesa apparsa con il titolo Met het oog op het licht: Een vergeten principe in de oriëntatie van het vroegchristelijk kerkgebouw, «Nijmeegse Kunsthistorische Cahiers», 2, Nijmegen 2000. Per la presentazione in lingua italiana il testo è stato aggiornato e provvisto, ove necessario, di rimandi a letteratura più recente. In particolare, la sezione riguardante il tardo Medioevo e il Rinascimento appare qui in forma sintetica rispetto alla versione originale, giacché un adattamento di questa è stato frattanto pubblicato

nell’ambito di un articolo dedicato all’argomento: DE BLAAUW 2006. 2 DÖLGER 1925 e WALLRAFF 2001. 3 WALLRAFF 2000. 4 Una panoramica delle tradizioni antiche e cristiane in materia di orientamento nel culto e nell’architettura: PODOSSINOV 1991, con rimandi alla letteratura precedente. 5 WALLRAFF 2001; LANG 2003; Spazio liturgico 2007. 6 NUSSBAUM 1965. 7 Critiche a Nussbaum figurano in: METZGER 1971; GAMBER 1972 e GAMBER 1976, pp. 7-27. Si veda più di recente GERHARDS 2001. 8 BRAUN 1924, I, pp. 412-416; cfr. pp. 540-541. 9 NUSSBAUM 1965, pp. 408-421. 10 ANDRIEU 1931-1961, II, p. 55. 11 ANDRIEU 1931-1961, II, p. 144. 12 Per esempio DUVAL 1993, p. 25 («L’orientation de l’église n’entre en rien dans ces préférences...»); DUVAL 1994, pp. 170, 177, 203. Si veda CAILLET 2005, p. 145. 13 HERBERT 1984, pp. 31-34. 14 VITRUVIUS, De architectura 4.5 e 4.9, ed. Fensterbusch 1964, pp. 188-190, p. 200. 15 LANDSBERGER 1957, 181-203; WILKINSON 1984; LEVINE 2000, in particolare pp. 302-306. 16 DE BLAAUW 2007, pp. 256-261. 17 Per esempio, per le città dell’Italia settentrionale: GEROLA 1936 e ROMANO 1985. Per la teoria cosmologica dell’orientamento e le sue premesse storico-culturali si veda NISSEN 1906-1910. Cfr. ECKSTEIN 1990. 18 I dati di seguito citati riguardo ai monumenti di Roma sono tratti da KRAUTHEIMER 1937-1977. 19 Le piante (figg. 7-8-9-11-12-13) fanno riferimento sotto il profilo topografico a REEKMANS 1989. Non sono state riportate le chiese risalenti ai periodi in questione quando non sia nota la direzione dell’asse. 20 FILIPPI-DE BLAAUW 2000, pp. 7-8. 21 DE BLAAUW 1994 (Pantheon); MATHEWS 1971, p. 64 (senza l’aspetto dell’orientamento). 22 Per esempio DUVAL 1989, pp. 2755-2757. 23 JACOBSEN 1992, pp. 243-258. 24 TOSCO 1991-1992, p. 232; PIVA (in corso di stampa). 25 Vita Gebehardi Constantiensis, si veda JACOBSEN 1992, p. 247. 26 VIEILLARD, TROIEKOUROFF ET AL. 1960, p. 81; per la cattedrale di Nevers del primo Medioevo: DUVAL 1996, p. 154. 27 Concisa e puntuale introduzione all’orientamento nell’interazione tra edificio di culto e liturgia: VOGEL 1960; cfr. VOGEL 1962 e 1964. Per gli aspetti liturgici anche: SUNTRUP 1976, pp. 130-187 e MAURMANN 1976. Nuova sintesi: LANG 2003. 28 VOGEL 1960, p. 454. 29 VOGEL 1960. 30 Si veda HEITZ 1987, pp. 611-617. 31 AMALARIUS SYMPHOSIUS, Liber officialis 3.9, ed. Hanssens 1948-1950, II, pp. 288-290. 32 DURANDUS, Rationale 5. 2. 57, ed. Davril-Thibodeau 1995-2000, II, pp. 42-45. 33 DE BLAAUW 1994, Cultus et decor, pp. 530-534; EMERICK 2000. 34 SUNTRUP 1978, p. 238. 35 CECCHELLI 1995 (con correzione della vecchia ipotesi di Krautheimer, secondo la quale la chiesa venne ‘ri-orientata’ due volte).


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36 Liber Pontificalis 103 c. 32, ed. Duchesne II, p. 80. 37

DE BLAAUW 2005. 38 Per il Cerimoniale della curia del 1400 circa: DYKMANS 1977-1985 III, pp. 158-159. 39 Per il Cerimoniale di Stefaneschi: DYKMANS 1977-1985 II, p. 470. 40 DUVAL 1981, pp. 185-186. 41 DUVAL 1971-1973 II, pp. 350-351. 42 MAZZOTTI 1956, p. 213. 43 Per esempio DONCEEL-VOÛTE 1988, p. 508; CHEVALIER 2005, p. 76. Si confrontino pure le rappresentazioni del sacramentarium di Drogone (figg. 20-21). 44 ANDRIEU 1931-1961 II, p. 145. 45 PAULINUS NOLANUS, Epistola 32 c. 13. 46 PEETERS 1969, pp. 218-219; LEHMANN 1996, p. 351; LEHMANN 2004, pp. 175-178. 47 LANDSBERGER 1957, p. 184, parte dal presupposto che in questi casi solo l’officiante si volgesse verso Gerusalemme. 48 A proposito di Agostino: DUVAL 1998, 1989; KLÖCKENER 1998, pp. 153-154. 49 LEO MAGNUS, Sermo 27.4, ed. Chavasse, pp. 135-136. 50 Per esempio WEIGAND 1922; VOELKL 1949, pp. 169-170; WALLRAFF 2004, p. 123. 51 TERTULLIANUS, Adversus Valentinianos 3.1, ed. Fredouille, Paris 1980, pp. 82-84. 52 EUSEBIUS PAMPHILI, Historia ecclesiastica 10.4.38/41, ed. Bardy 1967, pp. 92-96. 53 DE BLAAUW 2007, pp. 256-261. 54 PIVA (in corso di stampa). 55 PIVA 2000; PIVA 2001. 56 Per esempio nelle iscrizioni architettoniche: AGNELLUS 50, 1996, p. 242 (Sant’Andrea in Ravenna, ca. 500); DE ROSSI 1857-1888 II, p. 53 (San Pietro a Roma, 500-514). Per il simbolismo bizantino della luce: ONASCH 1993. Per la liturgia della consacrazione di una chiesa: SPEER 1997. 57 GÜNTER 1968; KÖHLER 1990; EDER 1990. 58 WALLRAFF 2001, pp. 156-157. 59 Per esempio DE ROSSI 1857-1888 II, pp. 53, 78, 123, 144-145. 60 PRUDENTIUS, Peristefanon 12.45-54, Turnhout 1966. 61 PAULUS SILENTIARIUS, Ekphrasis naou 398-410, ed. Veh 1977, p. 327. 62 ONASCH 1993; FAENSEN 1985, pp. 87-88. 63 WALAHFRIDUS, De exordiis 4, ed. Harting-Correa 1994, p. 58. 64 Si veda la tradizione ebraica secondo Daniele 6, 11; LANDSBERGER 1957, pp. 182-183. 65 ORIGENES, De oratione 32, ed. Koetschau 18991941 II, p. 400. Si veda DÖLGER 1925, pp. 120-121. 66 GÜNTER 1968, pp. 60-61. 67 WALAHFRIDUS, De exordiis 6, ed. Harting-Correa 1994, p. 66. 68 Onasch definisce l’abside una mistica «cavità di luce»: FAENSEN 1985, p. 97 n. 3. 69 DURANDUS, Rationale 5. 2. 57, Turnhout 19952000, II, pp. 42-45. 70 ADAMNANUS, De locis 1. 1. 4, ed. Bieler 1965. 71 WALAHFRIDUS, De exordiis 4, ed. Harting-Correa 1994, p. 60. 72 Rassegna della letteratura recente: FUCHSS 1999. 73 DE BLAAUW 2006, Innovazioni, p. 34. 74 Per esempio il maestro delle cerimonie Johannes Burckard nella sua Ordo Missae (1501), in J. WICKHAM LEGG 1904, p. 142. 75 Per esempio LUDOVICUS CICONIOLANUS, Directorium divinorum officiorum iuxta Romanae Curiae ritum 1539 in: J. WICHKAM LEGG 1904, p. 202; LE VERT 1709-1713, IV, pp. 68-77. Si veda NUSSBAUM 1971, pp. 161-162.

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BILLI, ed. Benedettucci 1991, pp. 135-136. BARILI 1938, pp. 23-27; DALLAJ 1990. 78 BURCKARDT, ed. Celani 1907-1913 II, p. 504; DE BLAAUW 1999-2000, pp. 279-283; si veda su Pio V DE BLAAUW 2006 (Pio V), pp. 96-97. 79 LARA 1994, p. 219. 80 SERLIO 1584, V, p. 202; Palladio, a cura di MAGAGNATO/MARINI 1980, IV, 1. 81 TAFT 2007. 82 Pontificale Romanum sec. XII-XVII, 18-20, ed. Andrieu 1938-1941, I, p. 180. 83 Pontificale Romanum 1595-1596, ed. Sodi/Triacca 1997, pp. 313-315 (formulazione tratta dal pontificale di Patrizi e Burckardt del 1488, edizione 1510). 84 ROETTGEN 1996-1997, II, pp. 398-399. 85 MÂLE 1942, pp. 65-67. 86 ONASCH 1993, p. 47. 87 DE BLAAUW 1999-2000, pp. 283-286. 88 DE BLAAUW 2000, pp. 49-50. 89 Vita di Giovanni Severano inedita, autore Paolo Aringhi [?]: «...volendo far trasferire l’altar maggiore nel muro della tribuna (come si costuma) fù da lui persuaso à lasciarlo nella positura, che stà, rivolto all’oriente». La trascrizione, destinata ad una futura pubblicazione, è del professor Ingo Herklotz, che ringrazio sentitamente per l’informazione. 90 Per esempio Castiglione Olona, Chiesa di Villa nel 1747: altare maggiore «more basilicarum almae Urbis» negli Atti della visita pastorale del Cardinal Pozzobonelli, in DALLAJ 1990, p. 584 n. 20. 91 Per questo aspetto rinvio al testo originario: DE BLAAUW 2000, pp. 55-58. 77

EDILIZIA CULTUALE DELL’ALTO MEDIOEVO CONTESTI STORICI E PERCORSI LITURGICI

Werner Jacobsen 1 Hans Erich Kubach (1972) si è occupato di tali ramificazioni regionali, e in particolare dell’architettura romanica. 2 Questi edifici, compresa l’Italia, oggi sono registrati abbastanza bene nei cataloghi, e precisamente per i paesi di lingua tedesca: Vorromanische Kirchenbauten ed. 1966-1971, con appendice 1991; di recente completato da H.R. SENNHAUSER (ed.): Frühe Kirchen im östlichen Alpengebiet 2003; per la Francia: Les premiers monuments chrétiens de la France 1995-1998, edito da Noël Duval e altri; per la Spagna e il Portogallo: SCHLUNK, HAUSCHILD 1978; ARBEITER, NOACK-HALEY 1999; per le isole britanniche: H.M. TAYLOR, J. TAYLOR 1965/1978. Per l’Italia, fino ad ora soltanto il superato corpus di Verzone 1942. 3 L’esigenza qui espressa di una riflessione «nei confini storici» è stata fino ad ora avvertita solo nel catalogo Vorromanische Kirchenbauten, non nelle compilazioni parallele italiane e francesi. In futuro essa dovrebbe, tuttavia, rappresentare l’obiettivo di tutti gli studiosi. 4 KRAUTHEIMER 1937-1977 (Corpus basilicarum christianarum Romae, 5 voll.). 5 Come chiese di questo periodo sono note finora solo: Sant’Agata dei Goti (piccola costruzione ariana sotto Flavio Ricimero, 470 ca.), Sant’Andrea in Cata Barbara (chiesa, sotto Simplicio, 468483, costruita dentro il palazzo urbano di Giunio Basso), San Giovanni a Porta Latina (piccola costruzione, probabilmente ariana, sotto Teodorico, 495-526: timbro su mattone), Santa Maria Antiqua (ricavata in una sala profana del Palatino all’inizio del VI secolo), Santi Cosma e Damiano

(sotto papa Felice IV, nel 527 inclusa in uno spazio profano del forum), Santi Quirico e Giulitta (sotto papa Vigilio, 537-555, inserita nel foro di Nerva), Santa Maria Rotonda (trasformazione del Pantheon in una chiesa nel 608), Sant’Adriano (Curia del Forum Romanum ricostruita come chiesa, intorno al 630). Si veda tra l’altra letteratura: KRAUTHEIMER 1937-1977, I, pp. 1-12, 62s., pp. 137-143, 304319, II, pp. 249-268, IV, pp. 37-50; BRANDENBURG 2004, pp. 218-234. 6 Esplorazioni sotto la confessione di San Pietro 1951, I, pp. 173-193. 7 DUCHESNE (ed.), Le Liber Pontificalis, 3 voll., Paris 1886-1892-1957 (ried. Paris 1981), I, p. 312. 8 Si veda, riguardo ai «tipici» allestimenti liturgici, l’articolo di MATHEWS 1962. Nel presente volume si veda anche il contributo di DE BLAAUW. 9 TOLOTTI 1983; FILIPPI, DE BLAAUW 2000. 10 Questo era stato già il risultato dello studio comparato archeologico e storico-liturgico di Nussbaum, rilevante soprattutto per l’Italia: NUSSBAUM 1965. 11 Letteratura specializzata: KRAUTHEIMER 19371977, I, pp. 14-38; II, 1-144; BRANDENBURG 2004, pp. 236-248. 12 Nessuna ricostruzione simile seguì per San Sebastiano e Santi Marcellino e Pietro; lì continuarono ad esistere le originali strutture del IV secolo: KRAUTHEIMER 1937-1977, II, pp. 191-204, IV, pp. 99-147. 13 Ordo I: ANDRIEU (ed.), Les ordines Romani du Haut Moyen Age, 5 voll., Löwen 1931-1961 (ried. Löwen 1965), II, pp. 67-108; gli altri Ordines sono pubblicati di seguito. 14 Si vedano inoltre i saggi di MATHEWS 1962; GUIDOBALDI 2001a, 2003. Di questi dispositivi liturgici, con la corrispondente posizione del presbiterio dietro l’altare, ne conosciamo in gran quantità nell’edilizia cultuale orientale paleocristiana; così ci immaginiamo anche i primi edifici di culto a Roma, e a questo ‘quadro ideale’ l’attuale chiesa cattolica ha conformato il suo concetto del dispositivo delle chiese a partire dal Concilio Vaticano II. 15 Il venir meno di misure architettoniche a Roma è stato illustrato in modo efficace da Federico Guidobaldi basandosi su studi statistici: 2001b. 16 PIVA 1990; CANTINO WATAGHIN 1996. 17 MIRABELLA ROBERTI 1950; BRAVAR 1961/62; CUSCITO 1967, 1995. 18 Come postulò per primo DUCHESNE 19255 (18891), pp. 93-99. 19 CECCHELLI 1959, II; CECCHELLI, BERTELLI 1989; BUDRIESI 1990. 20 Riguardo a Santo Spirito si veda FARIOLI 1961, pp. 61-66; DEICHMANN 1969-1989, I (1969), pp. 207-212, 320-324; II/1 (1974), pp. 241-255, 307; BOVINI 1970, pp. 1-40; per Sant’Apollinare Nuovo si veda FARIOLI 1961, pp. 52-61; DEICHMANN 1969-1989, I (1969), pp. 171-200, 303-317; II/1 (1974), pp. 125-189; BOVINI 1970, pp. 55-145. 21 Secondo la più tarda indicazione della cronaca vescovile di Eichstätt (XI secolo): in basilica sanctae Mariae, ad similitudinem Romanae Pantheon formata (ANONYMUS HASERENSIS, De episcopis Eichstetensibus, MGH SS 7, c. 41, 266). 22 Per Santa Maria Maggiore si veda FARIOLI 1961, pp. 71-74; DEICHMANN 1969-1989, II/2 (1976), pp. 343-348; BOVINI 1970, pp. 183-186; Per San Vitale si veda FARIOLI 1961, pp. 5-14; DEICHMANN 1969-1989, I (1969), pp. 226-256/325-338; II/2 (1976), pp. 47-230; BOVINI 1970, pp. 213-262; per Sant’Apollinare in Classe si veda MAZZOTTI 1954; BOVINI 1969, pp. 51-92; DEICHMANN 1969-1989, II/2 (1976), pp. 257-277/338-344.

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23 AGNELLO DI RAVENNA, Liber Pontificalis–Bischofsbuch, 2 voll., Freiburg i. Br. 1996, cap. 39, I, pp. 202-204. 24 Ibid., cap. 85-86, I, pp. 338-344. 25 MIRABELLA ROBERTI 1962; RUSSO 1983; JÄGGI 1998; RUSCONI 1967a. 26 PANTONI 1980, in particolare pp. 123-135. 27 Riguardo ai primi monasteri di Roma si veda ANTONELLI 1928; FERRARI 1957. Per San Saba si veda: KRAUTHEIMER 1937-1977, IV (1970), pp. 5171; PREUSSKER 2000. 28 PAOLO DIACONO, Hist. Langob., IV/42, MGH SS rer. Merov., 197. 29 Fino ad ora l’edilizia cultuale longobarda è stata analizzata in modo piuttosto incompleto; essa compare negli importanti lavori preliminari di Mario Salmi, e in seguito, solo in tempi recentissimi, è stata posta al centro della ricerca soprattutto da Adriano Peroni e Mario Rotili. Come sintesi attuale può servire il catalogo della mostra: I Longobardi (catalogo mostra, Cividale 1990), edito da Gian Carlo Menis, Milano 1990 (ristampa 1992): all’interno, il contributo di G. PAVAN, Architettura del periodo longobardo (con catalogo degli edifici più importanti), pp. 236-298; Il Futuro dei Longobardi 2000. 30 Questa osservazione ha valore indipendentemente dal problema di datazione che ancora oggi abbiamo con Castelseprio. Ancora fondamentali le ricerche architettoniche di BOGNETTI, CHIERICI, DE CAPITANI D’ARZAGO 1948. Per la datazione, il più recente LEVETO-JABR 1987. 31 Riguardo a Trezzo d’Adda: LUSUARDI SIENA 1997; sul monastero di Garbagnate: SANNAZARO 1994. Tuttavia, negli edifici di culto di allora, difficilmente si rinunciava ad altari separati, come si nota spesso a nord delle Alpi durante il periodo merovingico. 32 Per la cattedrale di Aosta sono documentati archeologicamente particolarmente bene, in più fasi di costruzione, i cambiamenti dell’arredo liturgico e la posizione dell’altare: BONNET 1989, II, pp. 1418-1426, in particolare p. 1422. 33 PAOLO DIACONO, Hist. Langob. IV/42, MGH SS rer. Merov., 197. 34 Per Milano: DE CAPITANI D’ARZAGO 1944; per San Michele: PERONI 1972; per Brescia, San Salvatore, oggi come ieri si rivela fondamentale lo studio di Panazza e Peroni: PANAZZA 1962; PERONI 1962. 35 SENNHAUSER 2003a, pp. 9-42, in particolare pp. 18ss., con fig. 8, e con il catalogo allegato pp. 43-221. 36 Si veda SENNHAUSER 2003b, pp. 919-980, in particolare alle pp. 943-945. 37 KRÜGER 1971, pp. 346-365. Per la datazione si veda BULLOUGH 1966, pp. 82-130, in particolare pp. 123ss. 38 VERZONE 1942, pp. 105-107; ALBERTINI OTTOLENGHI 1968/69; TOLOMELLI, La chiesa di Santa Maria alle Pertiche, in Il Futuro dei Longobardi 2000, I, pp. 240-242, 248. 39 Riguardo a Santa Sofia si veda in particolare: RUSCONI 1967b; BELTING 1968, pp. 42-53. La chiesa era già costruita nel 768, quando le reliquie di san Mercurio furono traslate a Benevento e vennero deposte davanti all’altare della nuova chiesa: ante sanctorum aram duodecim fratrum et ceterorum (Translatio sancti Mercurii, MGH SS rer. Langob., cap. 4, 578). 40 Chronica Sancti Benedicti Casinensis: Arechis ... fecit duo palatia, unum in Benevento et alium in Salerno, et Sanctam Sofiam edificavit in Benevento (MGH SS rer. Langob., 487). 41 Si veda sopra. 42 Per l’istituzione del collegio canonicale a Bene-

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vento si veda BELTING 1962, pp. 175-193, in particolare 185ss.; per la fondazione canonicale ad Aquisgrana si veda FALKENSTEIN 1981. 43 Si veda BELTING 1962, pp. 180-182; 1968, p. 42. 44 Ho già preso in esame e mostrato in dettaglio questa circostanza alcuni anni fa in JACOBSEN 2003. 45 Così racconta PAOLO DIACONO, IV/19, MGH SS rer. Langob., 123. 46 Ricordato già da FILLITZ 1973. In questa direzione procedono soprattutto le più recenti pubblicazioni, in particolare: Il Futuro dei Longobardi 2000. Riguardo all’arte nel ducato di Benevento, John Mitchell cita soprattutto la basilica di Gisulfo a San Vincenzo al Volturno, accanto alla quale serve tuttavia anche il rimando all’iscrizione un tempo relativa alla cappella del palazzo di Arechi a Salerno, con lettere di bronzo placcate in oro, in capitalis antiqua, incisa su lastre di marmo: PEDUTO ET AL. 1988. Riguardo ad Arechi in generale: MITCHELL 1995. 47 Complessivamente, il gruppo cattedrale di Treviri, come insieme di edifici, è analogo ad Aquileia, solo che è molto più grande (Aquileia: ampiezza della navata centrale della chiesa nord 4,80 m, della chiesa a sud 6,50 m; Treviri: chiesa nord 17,50 m, chiesa sud 11,60 m). Lo stesso discorso vale per una doppia cattedrale costituita da una basilica orientale e da una occidentale (questa più tarda), disposte assialmente e con un atrio di collegamento: Gerasa. 48 Gli archeologi di Treviri mettono in relazione queste aggiunte con il documentato restauro della cattedrale dell’arcivescovo Nicetius (525-566). Nello stesso periodo fu costruita una solea identica anche in St. Maximin a Treviri. Ulteriori soleae di questo tipo sono anche a Colonia, Boppard, Ginevra e Vienna. Si veda in sintesi ultimamente RISTOW 2004. Resta del tutto incerto se le fondamenta poste più tardi davanti al lato occidentale possano aver indicato un’aggiunta successiva di gradini; potrebbe essersi trattato anche di sostruzioni per dei lettorini, quindi non di una posteriore possibilità di accesso nel senso delle soleae italiane ma, al contrario, di un’accentuazione della chiusura. 49 Una rassegna complessiva dei materiali in JACOBSEN 1997; per San Martino, in particolare pp. 1108ss. 50 Riguardo al Duomo di Worms (612/640?) e alla chiesa dell’abbazia di Nivelles (tra il 640 e il 652) si veda Vorromanische Kirchenbauten, I, 238/378ss.; per la cattedrale di Santo Stefano a Parigi (VI sec.?) si veda, ultimamente, in sintesi, Les premiers monuments chrétiens III, pp. 151-158 (Patrick Périn). La basilica a colonne, molto simile, di Saint-Denis probabilmente era già stata edificata sotto Genoveffa, intorno al 475; qui Dagoberto fondò verso il 630 un monastero regolare (da ultimo, in sintesi, PÉRIN in ibid., III, pp. 209-218: «Deuxième église»). 51 Riguardo a Reichenau si veda Vorromanische Kirchenbauten, I, pp. 278-282; riguardo a Eichstätt ibid., I, p. 67; II, pp. 107-110; per Fulda ibid., I, pp. 84-87; II, pp. 132ss. 52 KLAUSER 1933; VOGEL 1965-1968. 53 Gli esiti degli scavi sono pubblicati da CROSBY 1987, pp. 51-83. 54 Si veda in sintesi Vorromanische Kirchenbauten, con la letteratura specifica. 55 Grazie alle misurazioni che si erano fatte effettuare a Roma e si erano trasmesse per lettera, come era in grado di evidenziare già KRAUTHEIMER 1942, p. 11, nota 83. 56 Fonti raccolte in RICHTER 1905. Per le fonti del mos Romanus carolingio si veda HEITZ 1976; JACOBSEN 1992, pp. 247-258.

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FISCHER, OSWALD 1968. Vorromanische Kirchenbauten, II, pp. 81-84, 323ss.; LOBBEDEY 1977; Die Ausgrabungen im Dom zu Paderborn 1978/80 und 1983, 4 voll., Bonn 1986. 59 Vorromanische Kirchenbauten, I, pp. 309-311, 320-322; II, pp. 382ss., 399. Un tentativo di spiegazione di queste circostanze sorprendenti in JACOBSEN 1988. 60 Primi esempi ad Hildesheim (cattedrale, 852872), Colonia (cattedrale, periodo VII, probabilmente 857-870), Zurigo (Fraumünster, consacrata nell’874), Vreden (Chiesa collegiata, seconda metà del IX secolo) e Wetzlar (cattedrale, consacrata nell’897). Tuttavia, per questo gruppo di edifici non vi è ancora uno studio specifico. 61 È stato Carol Heitz a richiamare l’attenzione su questo argomento e in particolare: HEITZ 1968, p. 107; 1976, p. 29. 62 Riguardo a San Crisogono, Krautheimer sostiene che la cripta semianulare (scavata) potrebbe essere stata costruita al tempo della documentata riparazione della copertura da parte di Gregorio III (731-741): KRAUTHEIMER 1937-1977, I (1937), pp. 144-163. I pochi edifici nuovi di questo periodo restano del tutto problematici: Stefano II (752757) fece edificare nel Porticus Octaviae la sua mal riuscita chiesa di Sant’Angelo in Pescheria; Paolo I (757-767), il monastero di San Silvestro in Capite nella casa dei suoi genitori. Si veda, riguardo a Sant’Angelo in Pescheria, KRAUTHEIMER 19371977, I (1937), pp. 64-74; riguardo a San Silvestro in Capite ibid., IV (1970), pp. 148-162. Di Sant’Angelo in Pescheria è stata scavata solo la terminazione a tre absidi e la sottostante cripta a due sostegni; i ritrovamenti di scavo di San Silvestro mostrano una sostanza muraria evoluta, che difficilmente può essere situata nell’VIII secolo. 63 Ibid., II (1959/62), pp. 277-307. 64 BELTING 1978; riguardo all’Aula Regia di Carlo ad Aquisgrana: HUGOT 1965, 1965-1968; si veda anche BINDING 1996, pp. 89-92. 65 KRAUTHEIMER 1937-1977, IV (1970), pp. 178198. Per la datazione attribuita si veda GEERTMAN 1975, pp. 7-80. 66 Riguardo a Santa Susanna si veda KRAUTHEIMER 1937-1977, IV (1970), pp. 254-278; per i Santi Nereo e Achilleo ibid., III (1967), pp. 135-152. 67 Ibid., III (1967), pp. 232-259. 68 Per Santa Cecilia e Santa Maria in Domnica ibid., I (1937), pp. 94-111; II (1959/62), pp. 269s. 69 Per San Marco (833 circa) ibid., II (1959/62), pp. 216-247. 70 Per San Martino ai Monti (iniziata intorno al 845, conclusa sotto Leone IV) ibid., III (1967), pp. 87-124. 71 Riguardo a Santa Maria Nova (oggi Santa Francesca Romana) e ai Santi Quattro Coronati ibid., I (1937), 220-243; IV (1970), pp. 1-36. 72 Ad eccezione di San Bartolomeo all’Isola (fondazione dell’imperatore Ottone III, verso il 1000), che tuttavia è poco studiata, ma forse la cripta a sala risale ancora all’edificio originario: REICHE 2002, pp. 351-384, in part. p. 381. 73 SCHNITZLER 1964; GRABAR 1954. Probabilmente erano all’opera gli stessi mosaicisti. 74 FERRUA ET AL. 1951; PANTONI 1973. Le pareti laterali furono completamente demolite e utilizzate come fondazioni per la nuova costruzione. 75 La tomba non era tuttavia più intatta dopo che i monaci franchi, verso il 653, avevano sottratto le ossa di san Benedetto sul monte abbandonato (intorno al 577 i monaci erano fuggiti dai Longobardi che sopraggiungevano e avevano lasciato l’abbazia 58


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come campo di saccheggio), portandole a Fleury (Saint-Bênoit-sur-Loire): P. DIACONO, Historia Langobardorum, VI/2, MGH SS rer. Langob., 165. 76 Ad esempio a Saint-Denis o a St. Emmeram a Regensburg, ma naturalmente non dovunque allo stesso modo, come nel caso di San Martino di Tours. Uno spostamento simile della chiesa abbaziale sulla tomba del santo locale, come a Montecassino, lo riscontriamo anche nell’abbazia di Santa Gertrude a Nivelles, nell’VIII secolo. 77 HODGES, MITCHELL 1996. 78 MCCLENDON 1987. Cfr. però ora la diversa interpretazione: GILKES, MITCHELL 1995. 79 PANAZZA 1962; PERONI 1962. 80 ANDERSON 1976; PERONI 1983; in questa direzione va anche l’amichevole comunicazione di M. EXNER, München. 81 JACOBSEN 1985. Ultimamente Brogiolo, con argomentazioni archeologiche, ha sostenuto di nuovo una datazione precoce della basilica (edificio II), nel periodo della fondazione del monastero, intorno al 760: BROGIOLO 1999; STRADIOTTI (ed.) 2001. Riguardo agli argomenti per una datazione alla metà del IX secolo si veda JACOBSEN 2003, pp. 260-264. 82 BECHER 1983, pp. 299-392, in particolare pp. 308, 310ss., 318. 83 Dopo Müstair, Reichenau, Sandau, addirittura fino a Werden (St. Clemens), per citare solo alcuni esempi. Si veda Vorromanische Kirchenbauten, I, 227ss. (Müstair), I, 278 (Reichenau-Mittelzell); II, 360 (Sandau); II, 455 (Werden St. Clemens). 84 A Luni, probabilmente dopo l’incursione dei Saraceni, nell’849, a Ravenna con la traslazione delle ossa di sant’Apollinare da Classe, intorno all’856, a Santa Maria di Vescovio con il restauro dopo l’incursione saracena dell’876-881; la cripta semianulare in Classe è stata eretta probabilmente già nell’VIII secolo (BOVINI 1970, p. 66). 85 Questi edifici sono al meglio raccolti in VENDITTI 1969. 86 Tra le numerose pubblicazioni riguardo a questo edificio è da evidenziare lo studio di BERTELLI 1994. 87 In sintesi: GABRIELI 1936; DELL’AQUILA, MESSINA 1998. 88 In ultimo: JACOBSEN 2004b. 89 SIMI VARANELLI 1992. 90 Riguardo alle cripte italiane è sempre essenziale lo studio di MAGNI 1979. 91 Come primi esempi sono qui da evidenziare: Speyer am Oberrhein (Spira; dal 1025), Tournus in Borgogna (secondo nuovi riscontri iniziata negli anni venti dell’XI secolo) e Cardona in Spagna. In generale si veda ora lo studio di HOHMANN 1999. 92 Le Pontifical romano-germanique du dixième siècle, 1963-1972. 93 BRAUN 1924, II, pp. 540-542.

L’AMBULACRO E I «TRAGITTI» DI PELLEGRINAGGIO NELLE CHIESE D’OCCIDENTE SECOLI X-XII Paolo Piva 1 Mi sono servito delle seguenti edizioni e/o traduzioni: VIELLIARD 1984, CAUCCI VON SAUCKEN 1989, The Pilgrim’s Guide 1998 (ed. P. Gerson). 2 BRENK stesso (2002, p. 135, nota 38) menziona un testo del 1214 relativo al deambulatorio della cattedrale (gotica) di Bourges: «cum cantatur majore missa in choro, nullomodo celebretur in circuitu» («quando si celebra la messa maggiore nel

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santuario, in nessun modo si celebri nel deambulatorio», cioè agli altari delle cappelle radiali). 3 HUBERT 1959, p. 45, scrisse: «On n’a point découvert de texte ou de chronique attestant que l’on ait construit en France des routes ou des chemins pour le seul usage des pèlerins». 4 Cfr. ad esempio MORALEJO ALVAREZ 1985, pp. 45-47. 5 Cfr. VOGEL 1964. La penitenza era impartita privatamente, oppure pubblicamente – per gravi delitti ‘pubblici’ –, e quest’ultima in forma solenne, presso la cattedrale, o non solenne, come nel caso del pellegrinaggio. 6 Cfr. BANGO TORVISO 1994. 7 Si veda il saggio illuminante di SCHENKLUHN 2006. 8 LAMBERT 1956. 9 Cfr. WILLIAMS 1984, p. 272, il quale crede plausibile solo a Santiago l’accesso dei pellegrini alle tribune, ma per ragioni logistiche (di alloggiamento) e non certo cultuali, vista la poca funzionalità. 10 KLUKAS 1978. 11 LYMAN 1977. 12 PIVA 2006a. 13 LYMAN 1971. 14 Cfr. già BRENK 2002. 15 SAUERLÄNDER 2000. 16 Cfr. BRENK 2002. 17 Cfr. FRUGONI 1999, PIVA 2007b. 18 BRENK 2002, p. 128. 19 CORBO 1981. 20 BRENK 2005, pp. 132-133. 21 Cfr. BIDDLE 1999 e 2000. 22 Sulle cosiddette ‘copie’ del Santo Sepolcro: KRAUTHEIMER 1942, BRESC-BAUTIER 1974, OUSTERHOUT 1990, PIVA 2000, TOSCO 2005 (con ampia bibl.). 23 Le cappelle radiali dei deambulatori romanici (anche quando in numero di tre) non sono esattamente quelle assiali dell’Anastasis. Tuttavia non si può escludere che il numero di tre cappelle possa dipendere in qualche caso dalla Rotonda di Gerusalemme. 24 Cfr. BRESC-BAUTIER 1974; OUSTERHOUT 1990, pp. 118-119. 25 Si vedano ad esempio i casi novaresi di San Lorenzo di Gozzano e San Vittore di Sizzano (PEJRANI BARICCO, in PANTÒ, PEJRANI BARICCO 2001, pp. 40-48; PEJRANI BARICCO 2003), senza citare quelli ben noti delle Alpi orientali (Frühe Kirchen 2003; NOTHDURFTER 2003). La CANTINO WATAGHIN (2006, p. 327) ritiene che, dal punto di vista funzionale, il confine fra ambulacro «strutturale» e ambulacro «di fatto» sia «assai esiguo». In realtà, ove esiste un banco presbiteriale concentrico ma non addossato all’unica abside «strutturale», difficilmente si può pensare a un ambulacro «di pellegrinaggio», ma forse solo «di servizio», oppure «funerario». 26 LEHMANN 2003; Ecclesiae Urbis 2002, pp. 12511262; HOLLOWAY 2004, p. 114; BRANDENBURG 2004, p. 90. 27 Cfr. Ecclesiae Urbis 2002, pp. 1251-1262. 28 La scoperta di un triconco al di sotto del ‘mausoleo di Costantina’ ha fatto supporre allo STANLEY (1993, 1996) che il triconco fosse una «memoria» dedicata a sant’Agnese, mentre il sacello absidato centrale fosse il mausoleo di Costantina. Queste ipotesi non sembrano molto plausibili (cfr. MACKIE 1997; HOLLOWAY 2004, pp. 93-104; RASCH, ARBEITER 2007). 29 KRAUTHEIMER 1960 (1969, p. 52). 30 BRANDENBURG 2004, p. 90. 31 HOLLOWAY 2004, pp. 114-115.

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Cfr. DE BLAAUW 2007, coll. 311-315: lo studioso considera questo gruppo di edifici come chiese «cimiteriali» e non «martiriali». 33 KRAUTHEIMER 1960 (1969, p. 52). 34 Su Siagu cfr. DUVAL 1985; CANTINO WATAGHIN 2006, pp. 316-319. 35 A torto si è pensato che il luogo di conservazione delle reliquie fosse il deambulatorio stesso: ad es. PIUSSI 1978, BERTACCHI 1980, p. 261. Giuste invece le considerazioni di CANTINO WATAGHIN 1989, p. 79; 2006, p. 315. 36 Erano a favore di tale identificazione il Paschini, la Bertacchi, la Forlati Tamaro, il Mirabella Roberti, il Tavano e il Piussi. Cfr. BERTACCHI 1980, pp. 245-261. 37 La datazione alla seconda metà del IV secolo dei pannelli musivi dell’ambulacro è stata avanzata dalla Bertacchi (1980) e ribadita anche recentemente da J.-P. CAILLET (1993, p. 157; 2006, pp. 522-525). Lo spostamento alla metà del V secolo riproposto dalla CANTINO WATAGHIN (1989; 2006, p. 314), basato su ragioni stilistiche, non convince fino in fondo, e va di pari passo con la prospettiva di far cadere l’identificazione con la basilica Apostolorum. 38 La proposta, della CANTINO WATAGHIN (1989), è oggi dalla stessa studiosa ritenuta una semplice ipotesi (2006, pp. 315-316). È dunque singolare che il VILLA (2003, p. 513) la definisca «convincente». 39 GLASER 1997, p. 67. GLASER 2003, p. 878, parla invece ormai solo di «finestre», concepite non per il pellegrinaggio, ma per mettere in ‘relazione’ lo spazio della chiesa con la tomba del martire. 40 Cfr. HELLENKEMPER 1994, pp. 231-237; HILL 1996, pp. 68, 85-88; MIETKE 1999. 41 Una situazione non del tutto analoga si registra nella più tarda Santa Maria delle Grazie a Grado (BERTACCHI 1980, pp. 295-298) ove in prima fase (fine V-inizi VI secolo) il vano retrostante l’abside, a chiusura rettilinea, era in comunicazione visiva tramite una bifora con l’interno dell’abside stessa (cui furono addossati in seguito un banco e una cattedra vescovile). Si veda l’ottimo contributo di CORTELLETTI 2006. 42 CANTINO WATAGHIN 2006, p. 308. 43 Cfr. ANTONINI 2002; BONNET, PERINETTI 2004, p. 194; CANTINO WATAGHIN 2006, pp. 321-322. 44 BONNET, PERINETTI 2004, pp. 169, 182-187, 194. La cattedrale di Luni, infine, è stata dotata presuntivamente di un ambulacro nel VI secolo, aggiungendo un muro semicircolare all’interno dell’abside (LUSUARDI SIENA 1987, pp. 300-301). 45 DE BLAAUW 1994, pp. 530-566. Cfr. anche PIVA 2000b, 2006a. 46 È stato tuttavia proposto che già in età costantiniana, a San Lorenzo fuori le mura, un’aula di culto fosse dotata di una cripta anulare ante litteram, con scale descensionis et ascensionis (cfr. GEERTMAN 1995). 47 BRENK 1995 (2005, pp. 122-125). Cfr. anche DE BLAAUW 1994, pp. 493-495. 48 BRENK 1994 (2005) e 2002, pp. 128-129. 49 BRENK 1994 e 1996, p. 35. 50 Mi sembra molto dubbio che si tratti di un personaggio santo, come vuole HODGES 1993, p. 180. 51 HODGES 1993, p. 181. 52 HODGES 1993, p. 183. 53 BELTING (1968, pp. 64-65) data la struttura al IX secolo, sulla base di un lacerto pittorico con testa d’angelo. 54 HODGES 1993, p. 181. 55 PAVAN 1990, pp. 291-294 (con bibl.). 56 JACOBSEN 1997, pp. 1109-1110, 1126. 57 Si potrebbe cogliere un’eco di questa soluzione

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in quella adottata in Santa Gertrude a Nivelles nel X secolo (JACOBSEN 1997, p. 1141 e fig. 39), ma qui ormai il vano per i pellegrini dietro l’altare conteneva la stessa tomba santa. 58 JACOBSEN 1997. 59 Cfr. TAYLOR 1968; CROOK 2000. 60 A Steinbach e a Werden esistono ingressi alla cripta non solo all’interno della chiesa ma anche all’esterno: cfr. TAYLOR 1968. 61 L’ipotesi è di TOLOTTI 1983, ma cfr. DOCCI 2006, p. 70. 62 Cfr. CROOK 2000. 63 Cfr. HEITZ 1980, pp. 161-165; CAILLET 2005, pp. 61-67; Vorromanische Kirchenbauten II (1991), pp. 81-84, 160-163. 64 JACOBSEN 1997, p. 1141, avverte che il percorso era troppo spazioso per essere un corridoio di cripta, ma poteva avere copertura piana o essere anche scoperto. 65 Cfr. SAPIN 1986; SAPIN (a cura di) 2000. 66 Cfr. Vorromanische Kirchenbauten 1990-1991; ROSNER 1991; LEOPOLD 1998; LOBBEDEY 1998. Per le cripte a sala meridionali: RUTISHAUSER 1993. 67 Cfr. LOBBEDEY 1998, pp. 100-101. 68 Va citata anche la cripta (975?) della cattedrale di Ravenna, per l’evidente analogia con quella di Santo Stefano a Verona (cfr. VERZONE 1942, p. 146), ma l’incerta documentazione consiglia cautela: cfr. NOVARA 1997, pp. 82-90. Anche in questo caso sopravvivono due fenestellae nell’abside interna. 69 Cfr. VERZONE 1942, pp. 20-24 (fase paleocristiana) e 137-145 (fase ottoniana). 70 VERZONE 1942, p. 140. 71 Cfr. LECLERCQ-MARX 2007, p. 460. 72 CAILLET 2001, pl. 43. 73 VERZONE 1942, p. 142. 74 Scrive giustamente VALENZANO (2004, p. 242): «La presenza da secoli della cattedra episcopale si può forse spiegare con il fatto che l’antica pieve era stazione liturgica del vescovo nei riti officiati durante la settimana santa, secondo un uso documentato a partire dal XV secolo». L’ipotesi del ‘coro alto’ è stata formulata da Fulvio Zuliani (comunicazione orale). 75 Cfr. PEJRANI BARICCO 2002. 76 Cfr. PERONI 1991, p. 268. Sulla figura di Warmondo si veda ora: MARIAUX 2002. 77 Cfr. VERGNOLLE 1994, pp. 52-81. Di altra natura sono le cripte delle cattedrali di Chartres e Rouen, che si riducono agli ambulacri, ma le cui cappelle radiali diventano quasi aule di culto a sé stanti. 78 SAPIN 1995, p. 224, ha dubbi sulla precocità del chevet (ante 1019), voluta da Henriet, e afferma che più prudentemente occorre non includere entro date troppo precise questa campagna di lavori; accetta invece l’esistenza di un originario transetto, terminato prima del 1028. Il transetto fu rifatto a all’inizio del XII secolo, e il santuario è il prodotto del restauro del Questel nel 1845/46. 79 Seguo le cronologie di J. HENRIET 1990, 1992. 80 SAPIN 2006, pp. 40-47 (42). 81 SAPIN 1995, p. 217. 82 HENRIET 1990, p. 244; JACOBSEN 2000, p. 283, fig. 50. 83 SAPIN 1995, p. 219. 84 JACOBSEN 2000, pp. 72-73. 85 CHEVALIER 2001. Cfr. la cronologia già proposta da SAPIN 1995, p. 221. 86 CHEVALIER 2001, p. 133. 87 CHEVALIER 2001, p. 145. 88 VERGNOLLE 1985, pp. 141-149; MARTIN 1999, p. 57. 89 Le quattro colonne orientali della ‘sala’ vennero

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inglobate in pilastri per problemi statici, probabilmente già in corso di costruzione. Cfr. ROUSSEAU 1975, p. 459. 90 Cfr. BERLAND 1980, pp. 170-171. 91 MARTIN 2001, pp. 45, 55, sospetta che il portale servisse ai sacrestani per prelevare le reliquie o i reliquiari in occasione di processioni o nei giorni delle solennità. 92 VERGNOLLE 1985, p. 171; MARTIN 2001, p. 46. 93 VERGNOLLE 1985, pp. 141-149 (142), e nota 429 a p. 303. 94 MARTIN 1999, p. 69. 95 MARTIN 2001 collocherebbe invece ambedue gli altari di saint-Aignan nella chiesa superiore. Tutto dipende dalla lettura del testo di HELGAUD DE FLEURY (ed. 1965, pp. 108-109), il quale dichiara che l’altar maggiore era dedicato ai santi Pietro e Paolo, mentre due erano gli altari intitolati a saint-Aignan: ad caput, sancti Aniani, unum, ad pedes, aliud. 96 VERGNOLLE 1994, pp. 80-81. 97 STEGEMAN 1993, p. 6. 98 Nel terrapieno è ricavata la c.d. «cripta SaintLubin», che si ritiene di origine carolingia. Per il problema delle preesistenze nella cripta attuale: STEGEMAN 1993 e 1997; MARTIN 2001, pp. 186188, dubita che la cripta Saint-Lubin sia carolingia, per i pilastri in moyen appareil (età di Fulberto?). 99 ERLANDE-BRANDENBURG 1989, pp. 137-140; 1996. 100 STEGEMAN 1993, pp. 24-29. 101 ERLANDE-BRANDENBURG 1989, pp. 137-140. 102 BUGSLAG 2005, pp. 151 e 166, nota 114. 103 BUGSLAG 2005, p. 154. 104 BUGSLAG 2005, pp. 143, 182. 105 RIOU 1992 offre le vedute est e ovest della cripta (p. 23) e tutti gli affreschi relativi (pp. 61-64). 106 RIOU, CAMUS 1999, pp. 49-50; DANGAS 1999, p. 166. 107 FAVREAU 1976, p. 22, avverte giustamente che non ne abbiamo la prova. 108 LABANDE-MAILFERT 1974. Cfr. anche KOMM 1990, pp. 18-19. 109 FAVREAU 1976, p. 25. 110 Mi riferirò in primo luogo alla trascrizione di fonti e all’indagine esemplare di VERGNOLLE 1985. 111 Cfr. BERLAND 1980, p. 138. 112 BERLAND 1975, p. 389. 113 Per il rapporto fra la cripta di Fleury e la cripta semianulare romana cfr. VINKEN 1997, pp. 175177, il quale collocherebbe un altare nella campata fra il pilastro/reliquiario centrale e la parete ovest della cripta. 114 Cfr. VINKEN 1997, p. 175. 115 VERGNOLLE 1985, p. 220. 116 BERLAND 1980, p. 138, reputa che l’accesso nord alla cripta fosse per i pellegrini, quello sud per i monaci. 117 ERLANDE-BRANDENBURG 1999, p. 157 (e fig. 31, pp. 163-164); 2005. 118 Cfr. SAUERLÄNDER 1972, p. 102. La cronologia di Sauerländer è più plausibile (per ragioni stilistiche) di quella alla metà del XII (ERLANDE-BRANDENBURG 1999, p. 157) oppure al 1170-1180, dopo Senlis (PECHEUR 1997, p. 129). Anche VERDIER 1977, pp. 151-153, propone la datazione di fine XII (il portale è legato col perimetrale nord, costruito nella fase successiva a un incendio: 1179 o 1184). 119 VERGNOLLE 1985, p. 204; la finestra fu distrutta nel 1865: fig. 210 a p. 209. 120 GARLAND 1998. 121 Le trésor de Conques 2001, pp. 18-29. 122 FRICKE 2007, pp. 46-54, propone che la statua fosse un busto-reliquiario, e fosse trasformata in una figura intera verso l’anno 1000. 123 Cfr. SIRE 2000, p. 404.

124 Cfr. FAU 1981, pp. 20, 22; FAU 1990, pp. 133134, 141-142; DURLIAT 1990, p. 51. 125 FRICKE 2007, pp. 55-56. 126 Cfr. LELONG 1986, 1988. Grandi incertezze regnano ancora sulla datazione del santuario martiniano ad ambulacro, anche dopo le essenziali precisazioni di Lelong (che pure ha ondeggiato fra post 1096 e 1070-1080). Cfr. MARTIN 2001. È significativo comunque che il ‘concetto’ del deambulatorio fosse stato anticipato dall’atrio ‘notturno’ della chiesa del 471 (con probabile fenestella verso la tomba): JACOBSEN 1997 e 2000, pp. 67-73 e fig. 3. 127 Incerte sono le notizie su Limoges, ma nel Plan Legros (1784) la «cripta saint-Martial» si trova proprio dietro il santuario, a chiudere l’abside interna (la situazione è tarda). Cfr. ANDRAULT-SCHMITT 2007. 128 HEARN 1994, fig. 38, p. 46. 129 Cfr. JACOBSEN 2002. 130 Cfr. SCHENKLUHN 2003, pp. 71-81. 131 Cfr. DURLIAT 1986, p. 73. 132 LYMAN 1971, p. 22, vede invece i due leoni come riferibili alle vicine tombe reali e anche al martyrium del Santo: sarebbero i leoni apotropaici, araldici e funerari di portici, troni e tombe (divoratori di carne=sarco-fagi), ma anche simboli di resurrezione, come nel Physiologus, visto che sono in opera in una chiesa cimiteriale e di pellegrinaggio. 133 Papa Urbano II (1088-1099) nel 1096 consacrò l’altare e dedicò la chiesa, che dunque doveva essere a uno stato avanzato di costruzione. Il testo per la verità dice: Consecravit ecclesiam ... et altare (CABAU 1998, pp. 52-53), ma per CABAU ciò corrisponde di fatto a una dedicazione (p. 32). Due documenti del 1083 circa rivelano che la opera ecclesiae era avviata, oppure solo imminente: il secondo documento parla di ecclesia construenda. Il corpo delle cinque navate fu poi comunque continuato per tutto il XII secolo. 134 ROCACHER 1993, p. 40, l’attribuisce tuttavia al XIV secolo avanzato. 135 ROCACHER 1990, p. 89; 1993, pp. 37, 119. 136 DURLIAT 1982, p. 56, obiettava che la fenestella avrebbe dovuto forare un doppio strato absidale, dubitando giustamente della funzione proposta. Riteneva poi che le aperture più grandi servissero per vedere l’altare sopraelevato: anche la sua ricostruzione suscita tuttavia molte perplessità. 137 DURLIAT 1986, p. 127. 138 VIELLIARD 1984, pp. 94-95. 139 È piuttosto interessante che l’aula preromanica demolita dal vescovo Gelmirez verso il 1105 evidenziasse corridoi angolari attorno alla cappella/mausoleo (cfr. HAUSCHILD 1992, che la data fine IX o fine X secolo): ciò fa pensare a una ‘continuità’ funzionale del deambulatorio, come luogo di scorrimento e visita. Hauschild, in effetti, scrive che la tomba non fu situata all’incrocio, ma fu racchiusa dal ‘coro’ (p. 90). È probabile che nella parete est ci fosse un’apertura che consentisse di vedere la camera funeraria (p. 93). 140 VIELLIARD 1984, p. 109. 141 CARRERO SANTAMARIA 2007. 142 CASTIÑEIRAS GONZÁLEZ 2003, pp. 33-34; 2005, p. 217. Ringrazio lo studioso per le precisazioni che mi ha fornito. Altri studiosi negano invece l’esistenza di una camera sotto l’altare (fino a CARRERO SANTAMARIA 2007). 143 CASTIÑEIRAS GONZÁLEZ 2003, pp. 28-29; CARRERO SANTAMARIA 2007, p. 303. 144 Cfr. PERONI 1967. 145 Cfr. VALENZANO 1991. 146 Cfr. PIVA 2000c.


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Cfr. SEGAGNI MALACART 2004. PIVA 2007a. 149 La campata-baldacchino per le reliquie deve essere ritenuta uno sviluppo della Ziboriencrypta. Cfr. il caso delle chiese dell’Auvergne: VINKEN 1997, pp. 179-187. 150 Questa soluzione consentiva di sopralzare l’intero chevet della chiesa, permettendo così a monaci e canonici di accedere al coro dall’esterno, restando alla quota alta. 151 TREVISAN 2004a, 2004b, 2008a. Cfr. anche SCHALLER 1994. 152 Cfr. CODEN 1997; TREVISAN 2008b. 153 CAMUS 1996, pp. 119-133. Il testo fondamentale su Charroux resta: SCHWERING-ILLERT 1963. 154 Per queste conclusioni si veda CAMUS 1996. 155 Cfr. CABANOT 1981, pp. 103-123. 156 FAVREAU, CAMUS 1989, p. 18. 157 UNTERMANN 1989, pp. 72-77. Si possono menzionare anche i casi di Montmorillon e Tomar. L’oratorio di San Michele nel cimitero dell’abbazia carolingia di Fulda (una rotonda sovrapposta a una cripta) – ristrutturato in età romanica – è da considerare un «presupposto» di età carolingia di questa categoria di edifici. 158 DÉCRÉAUX 1985. 159 Cfr. anche Le Tombeau 1985. 160 SEREXHE 1991; BERRY 2000, 2003, 2004; ROLLIER 2000, 2003; SAPIN 2006, pp. 203-204. 161 La fondazione del sacello ha incorporato la substruttura del probabile altare originario (quello della consacrazione del 1130). Inoltre, i dati stratigrafici indicano il mausoleo eretto dopo la traslazione delle reliquie (1146). Dunque sarebbe stata prodotta in seguito una versione più clamorosa di un monumento anteriore (altare-reliquiario?). 162 MAURICE-CHABARD 2003, p. 78. 163 TRAVIS (2005, pp. 205-208) ha osservato che diverse figure nei capitelli del santuario alludono al viaggio e muovono da sinistra a destra (Magi, Fuga in Egitto, Viaggio a Emmaus): «le figure viaggiano, e noi siamo invitati a muoverci con loro» (p. 205). È plausibile che si riferiscano ai pellegrini alla tomba di Lazzaro (cfr. già, ma con meno efficacia, SEIDEL 1999, pp. 33-61, 117). 164 JACOBSEN 1997, p. 1137 e figg. 29-30. 165 Per la documentazione degli scavi: MARINO MALONE 1980 e 2008. 166 MALONE 2002, p. 429. 167 SAPIN, MARINO MALONE 2004. 168 MARINO MALONE 2008, p. 47. 169 MARINO MALONE 2008, pp. 57-58. 170 CHEVALIER 2004; CHEVALIER, MAQUET 2004. 171 MAQUET 2004. 172 GAUTIER 2004a e b. 173 EYGUN 1979, p. 45. 174 VERGNOLLE 1994, pp. 174-176. 175 Si veda la sezione longitudinale restituita in EYGUN 1979, pp. 42-43. 176 Dietro l’altare fu trovato un sarcofago con l’iscrizione Eutropius: cfr. VINKEN 1997, p. 159, nota 565. 177 Cfr. VINKEN 1997, pp. 159ss. (per la Francia). In Italia si possono ricordare i casi di San Miniato a Firenze e San Geminiano a Modena (cattedrale, in cui però il prospetto della cripta è di restauro). 178 Cfr. LORENZONI, VALENZANO 2000. 179 Cfr. ERLANDE-BRANDENBURG 1989, pp. 134135, 141-143. 180 VERGNOLLE 1994, pp. 311-312, e planimetria a p. 148, fig. 183. 181 BARRAL i ALTET 2000, pp. 165, 182-184. 182 PIVA 2001 (2006b). 183 PIVA 2006c. 148

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PIVA 2003. Tornerò sul problema in altra sede, con alcune ipotesi. 186 Cfr. BRENK 2005, pp. 126-128. 187 La basilica degli Apostoli 1969, pp. 81-95 (85-87). 188 Ibid., p. 85; Ambrogio 1986, p. 271. 189 Cfr. CATTANEO 1984, RIGHETTI TOSTI-CROCE 1984. 190 ARSLAN 1954, pp. 449-450, aveva già negato due fasi. 191 MCKINNE 1985, pp. 308-319. 192 SPREAFICO 1976, p. 125; MATALON 1984, pp. 126-128. 193 L’uso di connotare la posizione delle reliquie con un capitello scolpito con la figura del santo è registrato anche altrove: come a Saint-Hilaire-leGrand a Poitiers (MALLET, PERRY 1998, p. 117). 194 Per l’analisi delle numerose fonti (e per posizioni diverse di fronte ad esse) si vedano: GEARY 1988, SZABÓ 2004. Robert de Torigni (morto nel 1186) scrive che, poco dopo il 1158, le reliquie dei Magi erano state trovate in quidam veteri capella presso la città di Milano, e portate in città per timore del Barbarossa. 195 È Robert de Torigni a raccontare l’aneddoto di Eustorgio che trasferisce a Milano i corpi in quodam vehiculo parvo, quod duo vaccae divina virtute et voluntate trahebant. Cfr. GEARY 1988, il quale tende a considerare la leggenda un’invenzione di Rainaldo di Dassel (cfr. infra), che solo più tardi avrebbe attecchito a Milano: la teoria tuttavia non appare convincente, e sarebbe smentita dallo stesso capitello scolpito. 196 Ringrazio il prof. Fabrizio Slavazzi, dell’Università degli Studi di Milano, per queste indicazioni. 197 CATTANEO 1984, p. 22, scrive che Landolfo Seniore, verso il 1085, non fa cenno al culto dei Magi e parlando dell’arca la considera il sepolcro di sant’Eustorgio. L’autore milanese delle Gesta Frederici I afferma invece che tre corpi furono trovati in un’arca della chiesa di Sant’Eustorgio (SZABÓ 2004, p. 167) e che dicebantur esse Magorum trium. 198 LASKO 1994, pp. 263-266. 199 KOSCH 2000, pp. 14-15. 200 Cfr. ALCE 1972 (tav. 15). 201 Cfr. BROOKE 2006, pp. 70-73. 202 PIVA 2001 (2006b). 203 Si veda ora: FILIPPI-DE BLAAUW 2000. 204 ERLANDE-BRANDENBURG 2004, pp. 129-130. 205 BRENK 1995 (2005), pp. 125-126. 206 ERLANDE-BRANDENBURG 2004, pp. 126, 129130. Cfr. anche DOCCI 2006, p. 70. 207 BAUD 2003, pp. 174-177. 208 PIVA 1980, p. 112; 2007c, p. 64. Il passo delle Consuetudini polironiane (ms. 959 della Biblioteca Universitaria di Padova, f. 43r) è desunto dalle Consuetudini di Cluny (testo di Bernardo, edito in HERRGOTT, Vetus disciplina monastica, Parigi 1726, p. 317, e di cui è imminente una riedizione critica). 209 Cfr. GOUGAUD 1925. A questo proposito, la lettura dei testi editi (ad esempio nel Corpus Consuetudinum Monasticarum iniziato da dom Kassius Hallinger) delle consuetudini liturgiche europee fornirebbe molti dati. 185

SCULTURA ROMANICA E LITURGIA Marcello Angheben 1 La scultura gotica si è diffusa in periodi diversi a seconda delle regioni, per cui la scultura definita romanica, nella sua straordinaria diversità, si è sviluppata fin verso la metà del XIII secolo. A ciò si aggiunga che i rapporti tra scultura e liturgia non hanno

conosciuto un cambiamento radicale e immediato con l’arrivo del gotico. Per questi motivi il presente saggio comprende anche l’intero XII secolo. 2 VERGNOLLE 1985, pp. 62-138. 3 Alle sorgenti, pp. 36-43, 58-63, 80-86. 4 I portali occidentali di Jaca e Charlieu possono essere datati tra il 1090 e il 1100 (MORALEJO 1979, pp. 79-85; HAMANN 2000, II, p. 97). La Porta Miégeville di Saint-Sernin di Tolosa e la Porta degli Orefici di Santiago di Compostela si situano probabilmente verso il 1110 (DURLIAT 1990, pp. 352, 401; PRADALIER 2002, p. 279, ha invece proposto per la Porta Miégeville una datazione di poco precedente la consacrazione del 1096). Occorre ancora precisare che la figurazione è apparsa prima sul portale del transetto occidentale di Sankt Emmeram di Regensburg (verso il 1050 secondo DURLIAT 1990, p. 102; e KENDALL 1998, p. 54) e sulla Porta dei Conti di Saint-Sernin a Tolosa (verso il 1080 per DURLIAT 1990, p. 100; verso il 1065-1070 per PRADALIER 2002, p. 274). La cronologia dei portali di Modena e Bari è stata ampiamente dibattuta e qui mi limito a qualche riferimento: GANDOLFO 1978, p. 76; SCHETTINI 1967, p. 72; BELLI D’ELIA 1984, p. 26. Per i rapporti tra Modena e Bari, mi permetto di rimandare ad ANGHEBEN 2002a, pp. 97-98. 5 L’uso del termine «profano» è molto delicato, perché alcune rappresentazioni apparentemente profane sono investite di un senso religioso. Si noterà altresì che temi ‘profani’ possono apparire anche nella pittura monumentale, occupandone però solitamente i margini. 6 In particolare per le «lotte ad armi pari», cfr. BESSON 1987. 7 L’ideazione è presumibilmente il risultato degli apporti di tutti coloro che sono stati coinvolti nell’opera: quando penso agli «ideatori» considero ogni persona che abbia preso parte alla concezione o alla fase ideativa – il committente, lo stesso scultore, un membro dell’istituzione per la quale l’opera è stata realizzata, o anche una persona ad essa estranea. 8 Definisco approccio «sintattico» uno studio che prenda in considerazione tutte le diverse componenti di un’insieme, la loro posizione all’interno dell’edificio e gli eventuali rapporti reciproci: simmetria, opposizione, complementarità, ecc. Lo studio più approfondito sui rapporti tra Eucaristia e arte romanica è quello di SAXON 2006, che però riguarda la sola Francia. L’autore, tuttavia, ha privilegiato la dimensione teologica dei temi eucaristici a scapito del loro valore liturgico, e soprattutto ha applicato il senso primo dei testi trascurando spesso la polisemia dei temi e i programmi iconografici nei quali si inseriscono. In una simile analisi le immagini diventano semplici illustrazioni dei testi teologici e conseguentemente non di rado sono sovrainterpretate. 9 Per quel che riguarda i chiostri, la ricchezza dell’attuale ricerca si riflette relativamente bene negli atti del colloquio organizzato nel 1999 da KLEIN (Der Mittelalterliche Kreuzgang). A questi bisogna senz’altro aggiungere i notevoli studi di Immaculada Lorés i Otzet sui chiostri catalani (in particolare LORÉS 2002). 10 PIVA 2006, pp. 150-160. 11 ANGHEBEN 2003, p. 21. 12 Ringrazio vivamente Claude Andrault-Schmitt per avermi segnalato svariati esempi da lei studiati: l’abbaziale di Tulle, le collegiali di Lesterps e di Chinon, la chiesa parrocchiale di Saint-Germain sur Vienne e Notre-Dame-la-Grande di Poitiers (Notre-Dame-la-Grande de Poitiers, pp. 159-186).

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13 SALET 1995, pp. 18-23; DURLIAT 1990, pp. 352353, 393-397; PRADALIER 2002, pp. 282-283. 14 ANGHEBEN 2003, pp. 403-404. 15 WERNER 1979; LACOSTE 1998, pp. 73-85. 16 Per la questione delle botteghe, cfr. VWIECHOWSKI 1973, pp. 341-378. Per i programmi, cfr. VWIECHOWSKI 1973, pp. 35-153; BERTOLINO 2006. 17 Per l’attribuzione delle sculture della chiesa a una sola bottega, cfr. BARBIER 1990, pp. 36-37. 18 HONORIUS AUGUSTODUNENSIS, Gemma animae, I, 140; PL 172, 588 A: Cancelli in quibus [duo chori] stant, multa mansiones in domo Patris designant; SICARDO DI CREMONA, Mitrale, I, 4; PL 213, 21 C. Si veda anche ANGHEBEN 2003, pp. 21-28. 19 IHM 1960, pp. 130-132; CHRISTE 1996, pp. 87-88. 20 Der vergrabene Engel 1995. 21 A Bari, i due angeli di destra tengono un libro aperto e quelli di sinistra un disco crucisignato, presumibilmente un pane eucaristico, cfr. SCHETTINI 1967, pp. 75-76. Per Ripoll, si veda BARRAL i ALTET 1973, pp. 321 e 326-329. A Compostela, quattro angeli suonavano la tromba e altri quattro erano seduti alla sommità del ciborio, cfr. MORALEJO 1980, pp. 210-221. 22 Il fregio con gli angeli si trova sul pilastro settentrionale del rond-point mentre, sulla mensa d’altare, gli angeli occupano la parte anteriore, dove compongono un altro fregio. 23 A Orcival, due angeli armati stanno all’ingresso del presbiterio, cfr. VWIECHOWSKI 1973, p. 34. A Santiago de Compostela, due coppie di angeli si trovano all’ingresso della cappella assiale (n. 168 e n. 176). Affiancano rispettivamente il re Alfonso VI e il vescovo Diego Peláez, e srotolano un filatterio che richiama l’attività costruttiva di questi personaggi storici. La dimensione celeste che questi angeli sembrano introdurre è tuttavia perturbata dalla presenza al loro fianco di una sirena e di una specie di «maestro degli animali» (n. 175 e n. 171), cfr. DURLIAT 1990, pp. 209-210. 24 ANGHEBEN 2003, pp. 39-45. 25 I fiumi del Paradiso si trovano anche a Damery, nell’incrocio del transetto, ma non si iscrivono in quel caso in un contesto altrettanto esplicito, cfr. ANGHEBEN 2003, p. 41, nota 57. A L’Île-Bouchard, il tema potrebbe essere stato affrontato su un capitello del deambulatorio ma l’identificazione resta incerta. 26 Le transenne sono databili all’XI secolo ma si troverebbero nella posizione attuale solo dal XV secolo, cfr. POLACCO 1984, pp. 30-31. 27 DURLIAT 1957; GRABAR 1978; CHATEL 1982; MEZOUGHI 1982; DOURTHE 1995. 28 ANGHEBEN 2003, pp. 79-95. 29 ANGHEBEN 2003. 30 Tra le eccezioni, possiamo ricordare gli amboni di Moscufo, Rosciolo e Cugnoli di cui si parlerà più oltre (cfr. AVENTIN 2003) e un capitello dell’antica collegiata Saint-Maurice de Saint-Dié (attualmente cattedrale) sui quali un grande calice è rappresentato davanti al petto di un sacerdote orante affiancato da un diacono turiferario. 31 GLASS 1991, pp. 220-221. È possibile che su alcuni capitelli della navata di Saint-Germain-desPrés fossero rappresentate scene liturgiche, ma le mutilazioni che hanno subìto ne rendono l’interpretazione estremamente difficile, cfr. SANDRON 1995. 32 MEYER 1952; CLOSE-DEHIN 1983; SCILLIA 1988; ANGHEBEN 2003, pp. 33-38. 33 Per le teofanie orientali, si veda VAN DER MEER 1938, pp. 255-271; JOLIVET-LÉVY 1993, pp. 335340; IACOBINI 2000. Per le teofanie occidentali, si veda SINDING-LARSEN 1984; NILGEN 2000; SKUBISZEWSKI 2005.

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CHRISTE 1996. Vere dignum et iustum est aequum et salutare, nos tibi semper et ubique gratias agere, domine sancte pater omnipotens aeternae deus per christum dominum nostrum. Per quem maiestatem tuam laudant angeli, adorant dominationes, tremunt potestates, caeli caelorumque virtutes ac beata seraphin socia exultatione concelebrant. Sacramentario gregoriano, Ordo, I, 3. 36 ANGHEBEN 2008. 37 Cfr. per esempio TAGLIAFERRI 1990, p. 362. 38 GABORIT-CHOPIN 1991, pp. 49-50. 39 BUDDE 1998; FAVREAU 2003, pp. 334-335. 40 PIJOÁN, GUDIOL RICART 1948, pp. 140-141; SUREDA 1989, pp. 276-277. 41 SKUBISZEWSKI 1982. 42 Hessisches Landesmuseum: Colonia, seconda metà dell’XI secolo, cfr. BUDDE 1998, I, pp. 120-125. 43 Bamberga o Fulda, prima del 1024/1025, cfr. BUDDE 1998, I, pp. 79-84. 44 Domschatzkammer und Diözesanmuseum, osso di balena della seconda metà dell’XI secolo, altare del 1220-1225, cfr. BUDDE 1998, I, pp. 139-142. 45 Staatliche Museen Preußischer Kulturbesitz, Kunstgewerbemuseum, terzo quarto del XII secolo, cfr. BUDDE 1998, I, pp. 243-247. 46 Propstei und Münsterkirche, Sankt Vitus, Münsterschatzkammer, verso il 1160, cfr. BUDDE 1998, II, pp. 12-22. 47 Schnütgen-Museum, (proveniente da St. Maria im Kapitol, Colonia), verso 1160-1180, cfr. BUDDE 1998, II, pp. 44-51. 48 Diözesanmuseum, terzo quarto del XII secolo, cfr. BUDDE 1998, II, pp. 81-87. 49 Bruxelles, Musées Royaux d’Art et d’Histoire, verso 1140-1165, cfr. BUDDE 1998, II, pp. 127-143. 50 Quando la composizione comporta i quattro Viventi senza Cristo, ciò significa molto probabilmente che Gesù è evocato dalla pietra dell’altare, cfr. BUDDE 1998, particolarmente I, p. 244. 51 Dom und Diözesanmuseum, terzo quarto del XII secolo, cfr. BUDDE 1998, I, pp. 236-239. 52 IACOBINI 2000, p. 57. 53 JOLIVET-LÉVY 1993, pp. 335-340; SKUBISZEWSKI 2005, pp. 326-329. 54 NEUSS 1912, pp. 169-170. Per l’insieme dei dipinti, cfr. Santa Maria Antiqua 2004. 55 Pitture eseguite sotto il pontificato di Giovanni VIII (872-882), cfr. LAFONTAINE 1959, pp. 48-49, pp. 77-79. 56 L’elenco che segue è tutt’altro che esaustivo: la cattedrale Saint-Pierre a Nevers, Saint-Nicolas a Tavant (Indre-et-Loire), Saint-Silvain a ChalivoyMilon (Cher), Notre-Dame a Charly (Cher), SaintPierre a Méobecq (Indre), Saint-Laurent a Primelle (Cher), Saint-Martin a Vicq (Indre), Notre-Dame a Broc (Maine-et-Loire), Maderuelo (Segovia), San Juan Bautista de Ruesta (Saragozza), San Vicente Mártir de Vió (Huesca), San Clemente di Segovia e San Pietro ad Oratorium a Capestrano (L’Aquila). 57 BOUSQUET 1974. 58 I diversi incensamenti hanno luogo durante i riti d’ingresso, ma solo per le messe solenni, alla proclamazione del Vangelo – sul libro, prima e dopo la lettura, così come sull’officiante e i fedeli, – all’offertorio – sulle oblate, l’altare e i fedeli –, e durante il canone eucaristico, ma solo in alcune chiese, cfr. JUNGMANN 1956-1958, II, p. 69, II, pp. 221-223, II, pp. 347-353, III, p. 50. 59 Sacramentario gregoriano, Ordo, I, 12 e 13. Quest’ipotesi è stata magistralmente argomentata da FRANZÉ 2007, pp. 484-485. Per il tema dell’angelo del sacrificio, cfr. BOTTE 1929. 35

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Un legame con il dogma della presenza reale è stato postulato per i dipinti della sala capitolare di Vendôme (TOUBERT 1990, pp. 365-402), le pitture del catino absidale di Saint-Nicolas di Tavant (FRANZÉ 2007, pp. 484-485) e per numerose sculture romaniche (SAXON 2006). 61 POILPRÉ 2005 ha sistematicamente proposto questa interpretazione sebbene né i programmi né i testi forniscano argomenti decisivi. 62 BYNUM 2006 ha ben mostrato che, ove si volesse stabilire una relazione con il dogma della transustanziazione, particolarmente nelle rappresentazioni della messa di san Gregorio, le immagini dovrebbero presentare caratteristiche iconografiche molto precise, come la figura di Cristo in un calice, il che è estremamente raro. Se ci si basa sui criteri giustamente adottati dall’autore, si può dedurre che per le immagini romaniche molto meno esplicite l’ipotesi è ancora più difficile da convalidare. 63 LYMAN 1982. L’ipotesi di Lyman è stata ripresa da PRADALIER 2002, p. 276; SKUBISZEWSKI 2005, pp. 343-344. 64 JUNGMANN 1956-1958, II, p. 123. 65 CARRERO 2008. 66 PONSICH 1985; 1987. 67 Per la sistemazione di questo rilievo e della Deposizione scolpita da Benedetto Antelami, cfr. in particolare SAUERLÄNDER 1995, pp. 9-21; CALZONA 2000. 68 Si vedano a questo proposito gli esempi citati più oltre a proposito della liturgia della parola. All’elenco si può senz’altro aggiungere l’esempio del duomo di Fidenza dove i grandi rilievi rappresentano Cristo, i Viventi e due angeli, inseriti nelle volte a ogiva dell’abside, che sembrano provenire da un ambone distrutto nel XVI secolo, cfr. TASSI 1973, pp. 126-127; KOJIMA 2006, pp. 34-36. 69 Nelle Bibbie e negli Evangeliari le teofanie non sembrano rivestite di un particolare significato eucaristico. Per il ciborio di Civate, cfr. in particolare GATTI 1980, pp. 32-37; PIVA 2001, pp. 78-81. 70 A Vigeois il tema si trova nella parte settentrionale del coro, di fronte a un capitello dedicato alla parabola del buon Samaritano, cfr. PROUST 2004, pp. 342-343. Troviamo anche una teofania – probabilmente un’Ascensione – a Saint-Sernin di Toulouse, ma si trova nella tribuna del braccio sud del transetto (n. 236), cfr. DURLIAT 1990, p. 113. 71 Esempi sono stati studiati da SAXON 2006, pp. 180-192. 72 Sacramentario gregoriano, Ordo, I, 12. Per uno studio di questa orazione, cfr. JUNGMANN 19561958, II, pp. 145-151. Per un approccio più completo di testi e rappresentazioni relativi a questi sacrifici biblici, si veda SUNTRUP 1984. 73 BRENK 1975, pp. 53-61. 74 DEICHMANN 1969, pp. 234-256. 75 Si ritrova il tema anche a Genneteil (Maine-etLoire), ma sull’arco che collega la campata antistante l’abside alla cappella nord, cfr. DAVY 1999, pp. 208-214. 76 GRAU LOBO 1996, pp. 131-134, 145. 77 A Conques i capitelli del rond-point sono perduti, ma i superstiti capitelli del coro non contengono alcun tema in contraddizione con la dimensione eucaristica del sacrificio di Abramo (n. 83, secondo pilastro meridionale del coro, lato deambulatorio), cfr. DURLIAT 1990, pp. 62-63. Lo stesso vale per Saint-Benoît-sur-Loire dove l’episodio fronteggia il Peccato Originale, anche se questo confronto può essere interpretato in vari modi, cfr. VERGNOLLE 1985, pp. 253-254. 78 ROUX 2004, p. 281; RICO CAMPS 2002, p. 96. 79 ANGHEBEN 2003, p. 191.


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DOBERER 1982, p. 393. SUNTRUP 1984, pp. 470-472. 82 HARTOG 1999 ha proposto una lettura molto diversa di questo programma. Tra gli episodi raffigurati sul capitello di Giacobbe, quello della visione della scala può essere collegato alla liturgia perché costituisce il paradigma della fondazione dell’altare cristiano. Questo tema potenzialmente eucaristico resta tuttavia isolato in un ciclo narrativo relativamente ‘classico’. 83 Su un capitello di Aulnay compaiono sia il sacrificio di Abele che la sua uccisione, ma esso si trova nel braccio sud del transetto, e soprattutto vi sono, all’ingresso del coro, temi che contraddicono la valenza paradisiaca dello spazio della liturgia – teste di animali che divorano uomini e grifoni opposti a demoni. 84 Per le interpretazioni dogmatiche delle rappresentazioni degli episodi della Passione, cfr. SAXON 2006, pp. 212-217. 85 Nelle sale capitolari, la Crocifissione si collega al tema penitenziale e quando si trova nell’incrocio del transetto si può supporre che faccia riferimento alla forma dell’edificio, alla presenza molto diffusa di un altare dedicato alla Santa Croce, o anche all’Eucaristia. In particolare, NILSÉN 2003, pp. 141-230. 86 DEICHMANN 1969, pp. 177, 183, 190. Esattamente di fronte si trovava un altro episodio «eucaristico», il miracolo di Cana, reso irriconoscibile da errati restauri ottocenteschi (N.D.T.). 87 NILGEN 2004. 88 DAVY, JUHEL, PAOLETTI 1997, pp. 148-162. 89 KUPFER 1993, pp. 136-137; FAVREAU 1999, pp. 109-116 (contributo di Yves Christe); LAINÉ, DAVY 2002, pp. 47; MUNTEANU 1977 (che ha proposto un’interpretazione molto diversa della Deposizione). 90 NAGATSUKA 1979. 91 TRIVELLONE 2002, pp. 156-157. 92 DOBERER 1982. 93 PIVA 2006, p. 158. 94 CALZONA 2000 ha richiamato le differenti interpretazioni proposte per quest’opera e proposto una lettura legata agli eventi politici che sconvolsero l’Italia del Nord negli anni che precedettero il 1178. DOBERER 1982, pp. 395-396, ha supposto che i cicli della Passione di Saint-Gilles-du-Gard e di Beaucaire appartenessero inizialmente al parapetto di un pulpitum. 95 Questa ipotetica dimensione eucaristica è rafforzata dalla presenza di un Agnello dipinto al centro della cupola. 96 VWIECHOWSKI 1973, pp. 38-75. 97 VWIECHOWSKI 1973, pp. 75-109. 98 PROUST 2004, p. 287; SAXON 2006, pp. 215-216. 99 La Crocifissione compare anche sulle arcate cieche del coro di Saint-Benoît-sur-Loire, dove si affianca ad altri temi che possono essere interpretati in senso eucaristico o per lo meno essere correlati al tema della Passione (le Marie al sepolcro, Sansone e il leone, Sansone che scardina le porte di Gaza), ma l’insieme resta molto disparato, cfr. VERGNOLLE 1985, p. 254. 100 ÉTIENNE DE BÂGÉ, Tractatus de sacramento altaris; PL 172, 1273-1308, e in particolare 1303 A, per il riferimento ai discepoli di Emmaus. ANGHEBEN 2003, p. 110. 101 SAXON 2006, pp. 87-92, 165-170, ha letto diverse rappresentazioni del ciclo dell’Infanzia in senso eucaristico, trascurando però spesso il contesto o le altre possibili interpretazioni. 102 BARBIER 1990, p. 24. 103 Potrebbe sembrare azzardato tradurre queste 81

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immagini in termini tanto precisi, ma il loro significato non deve probabilmente essere tanto diverso. 104 A Compostela, due grifoni affrontati a un calice si trovano alla ricaduta meridionale dell’arco absidale della cappella d’asse (n. 172) e fronteggiano un personaggio che tiene due uccelli per il collo (n. 171), cfr. DURLIAT 1990, p. 212. 105 Questo soggetto è particolarmente ricorrente in Alvernia ma occorrerebbe censire sistematicamente la posizione e il contesto nel quale si integra: Biozat, Montfermy, Ennezat, Saint-Myon, Bulhon, Plauzat, Saint-Saturnin, Mailhat, Chambron-sur-Lac, Brousse, Courpière, cfr. VWIECHOWSKI 1973, p. 325. A Mozac, comunque, il tema compare nella navata (n. 10), cfr. VWIECHOWSKI 1973, p. 325. Anche nel Pantheon dei re di León il tema occupa un luogo che apparentemente non sembra essere legato alla presenza di un altare. 106 Per le coppie e in particolare le coppie simmetriche, si veda ANGHEBEN 2003, pp. 47-58. Nell’absidiola assiale di Notre-Dame-la-Grande (Poitiers) non si è applicato il principio delle coppie simmetriche, contrariamente a quanto si è fatto nella navata centrale del coro. 107 SAINT-JEAN 1975, p. 164; BASCHET 1991, pp. 20. 108 Per Modena e Lincoln, cfr. FRUGONI 1993. 109 VERZÀR BORNSTEIN 1988, p. 148. 110 Degli atlanti figurano in effetti sulle mensole che sostengono l’architrave del portale e sui capitelli posti alla ricaduta dell’arco absidale, cfr. ANGHEBEN 2003, pp. 68-78. 111 Per i dipinti scomparsi di Saint-Loup-deNaud, cfr. ROBLOT-DELONDRE 1913, pp. 127-135. 112 BONNE 1984, p. 63. 113 PIVA 2001, pp. 78-81. 114 SCHETTINI 1967, p 74-77. 115 VERDIER 1970. 116 Si vedano a questo proposito le sintesi o studi d’insieme proposti da KENDALL 1998; VERZÀR BORNSTEIN 2004; GANDOLFO 2006. 117 FAVREAU 1991. 118 Si veda il portale di Vandeins di cui si parlerà più avanti e anche quello di Bourg-Argental (Forez) la cui iscrizione è più ambigua, ma la cui dimensione eucaristica sembra confermata dalla presenza di due angeli turiferari. Si veda BASCHET 2008, pp. 230-247. 119 GREGORIO MAGNO, Homilia XXIX. 120 Gli angeli che circondano Cristo possiedono con ogni evidenza solo cinque ali, ma si può supporre che siano stati concepiti come serafini a sei ali, o come serafino accompagnato da un cherubino come nelle absidi catalane e sui rilievi scultorei di Saint-Sernin. Per l’iconografia della teofania di Moissac, cfr. in particolare MEZOUGHI 1978. 121 A Charlieu, il cherubino e il serafino sono identificabili solo grazie alle iscrizioni, cfr. Corpus des inscriptions 18, pp. 60-61. 122 VWIECHOWSKI 1973, pp. 111-123. 123 Il tema, prima di svilupparsi sui portali di questa regione, era comparso sul portale de l’Abbayeaux-Dames di Saintes. 124 A Pont-l’Abbé-d’Arnoult, gli angeli portano un turibolo, un calice e un candelabro, cfr. TCHERIKOVER 1997, p. 154, che giustamente attribuisce una valenza liturgica all’Agnello dei portali di questa serie. A Fenioux gli angeli sul terzo archivolto agitano un turibolo. 125 WILLIAMS 1977. 126 Per i portali francesi, si veda in particolare HAMANN 1956, pp. 372-376. La Crocifissione compare anche sull’architrave di San Giovanni in Tumba di Monte Sant’Angelo, ma si tratta con ogni evidenza di un reimpiego. Cfr. PIVA 2006b,

per il quale i rilievi del portale verrebbero da un monumento posto all’interno dell’edificio che commemorava il Sepulchrum Christi della chiesa dell’Anastasis a Gerusalemme. Trivellone 2002, ha proposto riguardo a questo rilievo un’interpretazione eucaristica fondata sui commentari di Amalarius di Metz e su argomenti visuali sostanziali. 127 MÂLE 1922, pp. 420-424; COLISH 1972; IOGNAPRAT 1998, pp. 119-120. SAXON 2006, pp. 233235, ha rimesso in discussione quest’ipotesi, ritenendo che il programma avesse come bersaglio gli ebrei e i musulmani piuttosto dei petrobrusiani. 128 MÂLE 1922, pp. 422-424. L’idea è stata ripresa in particolare da VERGNOLLE 1994, pp. 331-333. 129 A questo proposito si vedano le riserve espresse da HARTMANN-VIRNICH, HANSEN 2000, p. 286. La Crocifissione è stata richiamata attraverso la Deposizione sulla Porta del Perdono di León databile verso il 1125 (DURLIAT 1990, p. 398) ovvero ben prima che Pietro di Bruis fosse arso a SaintGilles-du-Gard. Anche la Crocefissione di SaintPons-de-Thomières potrebbe essere anteriore all’accadimento, ma le datazioni sono contrastanti: inizi del XII secolo (DURLIAT 1951, p. 285), dopo Saint-Gilles-du-Gard (HAMANN 1956, p. 346). 130 Émile Mâle prese logicamente in considerazione l’interpretazione sacramentale prima di sviluppare l’ipotesi di una correlazione con l’eresia petrobrusiana (MÂLE 1922, p. 420). 131 «Quando il peccatore si accosta alla tavola del Signore, è d’uopo che ripudi i suoi errori con tutto il cuore», cfr. Corpus des inscriptions 17, pp. 2122. L’interpretazione sacramentale è stata formulata da MÂLE 1922, p. 420; e SAXON 2006, p. 70. 132 ZINK 1983. 133 BEAUDEQUIN 1960; GARLAND 1994. 134 KATZENELLENBOGEN 1959, pp. 7-15. 135 Per l’ambone di Cagliari e gli altri esempi toscani, cfr. TIGLER 1999, pp. 93-94. 136 Cristo e i quattro Viventi compaiono sugli amboni di Modena, Moscufo, Rosciolo, Cugnoli, Pianella, e di Fidenza se i rilievi dell’abside appartengono effettivamente a un ambone; l’Agnello e i Viventi figurano a Bazzano, e i soli Viventi sull’ambone di Cagliari. A Salerno, i simboli dei soli evangelisti Matteo e Giovanni appaiono nei ‘pennacchi’ d’angolo. 137 TIGLER 1999, pp. 91-93, ha così interpretato le aquile degli amboni toscani. 138 GLASS 1991, p. 97; PACE 2007, pp. 187-188, 201-202, e figg. 247, 251, 273. L’ambone di Cava dei Tirreni presenta lo stesso tema ma si tratta di un manufatto del XIX secolo, cfr. GLASS 1991, p. 75. 139 A questa scena se ne aggiungono altre due: un turiferario che agita il turibolo e un diacono che porta un calice. Per Aventin 2003, pp. 309-312, queste scene evocano la lettura del vangelo, con il turiferario che accompagna il diacono all’ambone prima della lettura e poi l’offertorio. 140 TCHERIKOVER 1999. 141 GLASS 1991, pp. 211-220. 142 I testi indicano che il corpo era posto nel coro, senza ulteriori precisioni, e a volte che era deposto temporaneamente nel vestibolo. 143 ANGHEBEN 2003, pp. 146-164. 144 KRÜGER 2003, pp. 116-118, 126. 145 Si possono citare gli esempi di San Lorenzo fuori le mura, Saint-Benoît-sur-Loire, Ébreuil, Arles-sur-Tech e Saint-Chef-en-Dauphiné. 146 VOGEL 1966. 147 Più precisamente, il tema compare sui fregi delle facciate occidentali del duomo di Modena e

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della cattedrale di Lincoln, su una colonna del portico del duomo di Lucca, su un capitello del portale occidentale di Lescure, del portale meridionale della cattedrale di Bourges e del portale occidentale di Santa Maria di Tudela, sull’architrave dei portali di Neuilly-en-Donjon e di Andlau, e sulla lunetta del portale sud di Anzy-le-Duc. 148 WERCKMEISTER 1972. 149 Le tombeau de saint Lazare, pp. 11-14 (capitolo a cura di N. STRATFORD). 150 WERCKMEISTER 1982. 151 Per alcuni capitelli di Vézelay è stata proposta un’interpretazione penitenziale da SAZAMA 1995, e da SAXON 2006, pp. 79-86, per il portale di Besse, nel quale l’autore crede di riconoscere la purificazione delle labbra di Isaia e la resurrezione di Lazzaro, anche se difficilmente queste due scene possono essere identificate in questo modo. 152 Per l’interpretazione trinitaria del chrismon, cfr. MORALEJO 1979, p. 93; FAVREAU 1996. 153 MORALEJO 1979, pp. 94-97. Si veda anche CALDWELL 1980; e FAVREAU 1996, p. 537. 154 Ne tradas bestiis animam confitentem tibi, cfr. Ordo romanus, L, XVIII, 20; a cura di ANDRIEU 1931-1961, V, p. 118. Si veda anche ANGHEBEN 2002a, p. 103. 155 MORALEJO 1979, p. 95; FAVREAU 1996, p. 545. 156 L’iconografia di Jaca ha ispirato quella del portale aragonese di San Martin Uncastillo. Per DURLIAT 1990, pp. 228-229, il tema ha conservato il suo significato ma l’uomo dal serpente afferra una delle zampe del leone che lo ha atterrato, lasciando perciò contemplare l’ipotesi di uno scostamento semantico. 157 ANGHEBEN 2002a, pp. 103-104. 158 Per l’iconografia di questi portali, cfr. in particolare CAHN 1965, e ALLARD 1996. 159 MÖBIUS 1979. 160 ANGHEBEN 2003. 161 Per il portale centrale di Vézelay ho preso in analisi con molta circospezione questa possibilità, supponendo che vi si applicassero le consuetudini cluniacensi (ANGHEBEN 2002b). Si tratta comunque di un’ipotesi estremamente fragile e non conosco nessun programma scultoreo per il quale sia certo un legame con le processioni. 162 Ad esempio, per stabilire una corrispondenza con i tropi cantati a Chartres, l’autrice ha interpretato la decorazione sul portale nord come una rappresentazione della venuta di Cristo annunciata dai profeti e non come un’Ascensione, cfr. FASSLER 1993. 163 VERDIER 1977. 164 FAU 2000. 165 Le tombeau de saint Lazare. 166 CHRISTE 1996, p. 149; RICO CAMPS 2002, pp. 291-329. 167 L. BOUSQUET 1948, p. 77; J. BOUSQUET 1971, p. 144; BONNE 1984, pp. 243-251; GARLAND 1998, p. 166. 168 MÂLE 1922, pp. 121-150. 169 MÂLE 1922, p. 149. 170 THOMAS 1951, pp. 41-42. 171 Corpus des inscriptions 1, pp. 22-25; PROUST 2002, pp. 270-272. 172 GLASS 2001. 173 FRUGONI 1996, pp. 34-47. 174 Lo si ritrova su uno degli avori di Salerno, e nei dipinti di Galliano, Muralto, Agliate e Carugo, cfr. ALFANI 2000, pp. 81-83. 175 BOUSQUET 1980. 176 CAO IV, 6537, cfr. HESBERT 1963-1979, p. 136. 177 FORSYTH 1968. 178 MÂLE 1922, pp. 140-141.

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IL DECORO DIPINTO DEGLI EDIFICI ROMANICI PERCORSI NARRATIVI E DINAMICA ASSIALE DELLA CHIESA

Jérôme Baschet 1

FOSSIER 1982. In merito alla «spazializzazione» dei rapporti sociali, cfr. GUERREAU 2002, BASCHET 2005b e MORSEL 2007. 2 GUERREAU 1996, pp. 85-101. 3 LAUWERS 2005. 4 Si vedano in particolare HUBERT 1977; KLUKAS 1984; CREISSEN 1999; ERLANDE-BRANDENBURG 1999; PIVA 2006; così come JUNG 2000. 5 È ciò che precisa una delle precoci attestazioni testuali di tale separazione (PIVA 2006, p. 155). Si vedano inoltre l’imponente muro di coro rimesso in luce per l’antica cattedrale di Nizza, databile verso il 1049 (Thirion 1967), e i dispositivi liturgici restituiti da KLUKAS 1984. 6 BASCHET 2005b, cap. III. 7 HONORIUS AUGUSTODUNENSIS, De gemma animae, PL 172, coll. 583-597; SICARDO DI CREMONA, Mitrale, PL 213, coll. 13-56. 8 Rationale divinorum officiorum, I, 1, 14, ed. A. Davril, T.M. Thibodeau, CC, CM, 140, Turnhoult 1995, p. 17. 9 Nitida sintesi in CAILLET 2001. 10 SICARDO DI CREMONA, Mitrale, PL 213, col. 20. 11 Singolare versione di tale simbolismo, il De cursu spirituali di Otloh di Sankt Emmeram assimila la vita umana a una corsa in uno stadio, intenso movimento suscitato dalla paura del male e dal desiderio di Dio; cfr. LESIEUR 2003, pp. 290-292. 12 GUERREAU 1997: nella Vita Maioli, i due termini più impiegati nel campo semantico relativo allo spazio sono iter e via. 13 Gn 28,17: LAUWERS 2005, p. 67. Le iscrizioni del portale della chiesa riprendono sovente questa formula, talvolta con variazioni significative, come a Saint-Pé de Bigorre: «Est domus hic domini, via caeli»; cfr. FAVREAU 1991, pp. 269-270. 14 Per l’«avant-nef», SAPIN 2002; analisi delle pitture romaniche delle cripte in DALE 1997 e KUPFER 2003. 15 Per tutto ciò che segue, mi permetto di rinviare a BASCHET 1997. 16 Si veda principalmente LABANDE-MAILFERT 1974; FAVREAU 1999 (in particolare YVES CHRISTE, Les peintures murales, pp. 99-145), così come MÉRIMÉE 1845; HENDERSON 1963; MAUPÉOU-CHRISTEN 1976; RIOU 1992. 17 A Saint-Savin bisogna tener conto del polo occidentale, costituito dalla torre-portico e sottolineato dalla ricchezza del suo decoro (in particolare neotestamentario). 18 MÉRIMÉE 1845, p. 22; LABANDE-MAILFERT 1974, p. 382; FAVREAU 1999, p. 139 (in cui è ipotizzata una Maiestas Domini nella campata presbiteriale e una rappresentazione mariana nella conca absidale). 19 De Christen, in FAVREAU 1999, pp. 159-160. Aggiungiamo che a Sant’Angelo in Formis l’Antico Testamento occupa le navatelle e il Nuovo la navata centrale (infra). Infine, ricordiamo la presenza, a Saint-Savin, del Ciclo della Passione nella tribuna occidentale. 20 LABANDE-MAILFERT 1974, pp. 383-384; CHRISTE 1985, p. 227. 21 GRABAR 1949; DEUCHLER 1981. 22 Sorprende leggere GRABAR (1949) affermare che la storia di Noè «va letta in senso bustrofedico». Parimenti, FAVREAU 1999, p. 124. 23 È la combinazione del dispositivo circolare e di

quello parallelo a obbligare, per ottenere un legame ottimale, alla «virata» bustrofedica compiuta dal Ciclo di Abramo. 24 Già sottolineata in LABANDE-MAILFERT 1974; in FAVREAU 1999. 25 HENDERSON 1963, pp. 22-23. 26 LABANDE-MAILFERT 1974, pp. 389-390. 27 LABANDE-MAILFERT 1974, p. 391; FAVREAU 1999, p. 133, contesta tale ipotesi e suggerisce l’episodio della Manna. 28 I dieci profeti (fra cui Giona e Zaccaria) che occupano i pennacchi sopra le colonne forniscono un indice rilevante dell’adeguamento delle pitture all’orientamento della navata. In effetti, i profeti della parte nord dispiegano i loro filatteri dalla mano destra, mentre quelli che hanno di fronte, simmetricamente, dalla mano sinistra: così il messaggio divino è sempre orientato in direzione di chi si trova nella navata. 29 THIBOUT 1945; MAUPÉOU-CHRISTEN 1976; de Christen, in FAVREAU 1999, pp. 160-161. 30 MAUPÉOU-CHRISTEN 1976, p. 46, menziona un secondo falso arco trasversale. De Christen (in FAVREAU 1999, p. 154) afferma che i restauratori non ne hanno trovato traccia. 31 Ibid. 32 LABANDE-MAILFERT 1974, p. 384. 33 KLUKAS 1984; DAVY 1999. 34 Pianta riprodotta in FAVREAU 1999, p. 90. 35 Secondo l’ipotesi di CAMUS 2002, p. 272, le prime tre campate della navata formerebbero una sorta di nartece, sola parte accessibile ai laici, mentre il falso arco trasversale corrisponderebbe alla separazione fra lo spazio dei monaci e quello dei novizi (quanto al portale sud della quarta campata, si tratterebbe di un rimaneggiamento di XVII secolo). 36 «Latitudo charitas est quae dilatato sinu mentis amicos in Deo et inimicos diligit propter Deum», SICARDO DI CREMONA, Mitrale, I, 4, col. 20. 37 KUPFER 1993. L’esempio più prossimo è senza dubbio il dispositivo ornamentale cruciforme del soffitto di Zillis: secondo l’analisi di KEMP 1993, è questa figura della Croce che articola lo schema spaziale del mundus (circondato dall’Oceano) e il tempo lineare del saeculum, che conduce dall’Incarnazione alla Passione (da ovest a est). 38 Cfr. PALAZZO 2001; IOGNA-PRAT 2006; MÉHU 2008. 39 In particolare, HONORIUS AUGUSTODUNENSIS, De gemma animae, PL, 172, c. 592. 40 Sulla concezione della persona messa in gioco in tale rappresentazione, BASCHET 2005a. 41 Sermo II de sancta cruce, PL 210, coll. 223-225. 42 In particolare, HONORIUS AUGUSTODUNENSIS, De gemma animae, I, 145, col. 589; SICARDO DI CREMONA, Mitrale, VI, 8, col. 279; cfr. BASCHET 1991, pp. 184-187. 43 Per un approccio di insieme del decoro delle chiese e delle sue funzioni, cfr. KESSLER 2004, cap. 5; KESSLER 2006. 44 L’utile sintesi di LAVIN 1990 presenta certe lacune metodologiche che ho tentato di mettere in evidenza in BASCHET 1993b. 45 Riguardo a San Pietro in Vaticano, TRONZO 1985; KESSLER 2002. 46 KESSLER 2002. 47 TAMANTI 2003; ALFANI 2000. 48 TOUBERT 1990, pp. 156-159. 49 KUPFER 1993. 50 Questa lettura si applica bene al caso di San Pellegrino a Bominaco, in cui i ‘percorsi circolari’ narrativi della navata hanno per referente il calendario liturgico dipinto nel santuario (BASCHET 1991). 51 KEMP 1993. 52 ROUX 2004.


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53 SAPIN 2002 (in particolare, per la galilea di Vézelay come spazio di transizione, M. ANGHEBEN, Le programme iconographique du rez-de-chaussée de Vézelay: chapiteaux et portails). 54 FAVREAU 1991; ROUX 2004. 55 BASCHET 1991. 56 ANGHEBEN 2001. 57 PIVA 2001 e 2003. 58 KLEIN 1993 e 2002. 59 HONORIUS AUGUSTODUNENSIS, De gemma animae, I, 95 e 129, col. 575 e 586; SICARDO DA CREMONA, Mitrale, I, 2, col. 17; JACOPO DA VARAGINE, Legenda aurea, cap. La dedicazione delle chiese. 60 KLEIN 2002. 61 BASCHET 1993a. 62 HONORIUS AUGUSTODUNENSIS (De Gemma animae, I, 129, col. 587) associa la porta a Cristo, che si pone da ostacolo ai nemici e lascia entrare gli amici: la formula rende efficacemente conto della relazione fra il Giudizio finale e il portale della chiesa. 63 BASCHET 1991, pp. 184-187. 64 Circa l’opposizione fra teofanie parusiache a ovest e teofanie atemporali a est, cfr. KLEIN 2001. 65 BASCHET 1990. 66 KUPFER 1993. Pare che inizialmente sussistesse la medesima situazione in Saint-Jean-Baptiste de Château-Gontier (DAVY 1999). 67 BASCHET 1991, pp. 156-162; 167-169. 68 La distribuzione dei capitelli può produrre una differenziazione (tendenziale, mai assoluta) fra la navata, votata a paradigma della lotta spirituale, e il santuario, dove dominano i valori di pace e armonia paradisiaca; cfr. ANGHEBEN 2003. 69 KUPFER 1993 (ugualmente a Saint-Martin de Vic). 70 OTTAWAY 1994. 71 BONNE 1999, al pari di PALAZZO 1988; RUSSO 2000. 72 BASCHET 1991, pp. 169-184. 73 CAMUS-ANDRAULT-SCHMITT 2002. 74 Da ultimo, FRANZÉ 2007. 75 SUGER, De administratione, II, 13, Paris 1996, p. 134.

CATTEDRALI GOTICHE E PORTALI SCOLPITI LE CONNESSIONI CONTESTUALI DEL CULTO DELLE RELIQUIE

Bruno Boerner 1 NICOLA D’ORESME 1970, p. 2 Cfr. BRÜCKLE 2005, p. 188.

303.

3 Sul rapporto tra l’iconografia della cattedrale e la liturgia cfr. PIVA 2006. 4 Riguardo ai portali di Amiens cfr. MURRAY 1996; SANDRON 2004; SAUERLÄNDER 1970, p. 142. 5 Sul programma del Giudizio finale cfr. BOERNER 2006. 6 Sull’incoronazione di Maria cfr. THEREL 1984; VERDIER 1980. 7 Cfr. THEREL 1984; VERDIER 1980. 8 SAUERLÄNDER 1970, pp. 90, 91; THEREL 1984, pp. 247ss. 9 Cfr. inoltre BOERNER 2004; SCHMIDT 2006. 10 MURRAY 1996, p. 108. 11 Murray vede nel baldacchino con figure soprattutto un rimando allo scrigno del santo, MURRAY 1996, p. 108. 12 DURAND 1901. 13 Probabilmente si potevano vedere nello zoccolo rilievi con immagini del martirio, che a dire il vero sono mal conservate e da identificare. Cfr. SAUERLÄNDER 1970, p. 146. 14 In seguito, espressamente: ANGENENT 1994.

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Lo scrigno è stato distrutto durante la Rivoluzione francese. 16 Già Willibald Sauerländer e Stephen Murray hanno richiamato l’attenzione sul rapporto fra il programma del portale e lo scrigno delle reliquie. SAUERLÄNDER 2000, p. 130; MURRAY 1996, p. 109. 17 Willibald Sauerländer ha anche sottolineato con insistenza il rapporto tra la scultura del portale di Amiens e la liturgia. SAUERLÄNDER 2000, p. 130-131. 18 Più puntuali riferimenti alla liturgia si trovano in KNIPPING 2001, p. 67s. Qui la liturgia è messa in relazione soprattutto con i rilievi della recinzione del coro. 19 Liber ordinarius 1934, p. 108, da KNIPPING 2001, p. 73: «Non discooperitur capsula beati Firmini martyris donec incipiatur responsorium Dum aperiretur, tamen tabula altaris er corpora sanctorum discooperiuntur in principio vesperorurn. (…) Discooperitur capsula beati Firmini martyris a duobus canonicis presbyteris capis sericis indutis, quancito incipitur R. Dum aperiretur...». 20 Liber ordinarius, 1934, p. 109, da KNIPPING 2001, p. 73: «exuuntur cape nigre in choro, spargitur edera per sacrarium er chorum, (...) quancito incipitur R. Dum aperiretur: versus dicitur cum Gloria a duobus archidiaconis in capa albis; similiter et choriste capis candidis induuntur; interim fit fumus de incenso post altare». 21 Liber ordinarius, 1934, p. 356, da KNIPPING 2001, p. 68: «Post matutinos a canonicis et clericis chori defertur capsula beati Firmini martyris jam in vespere parata extra chorum in medio ecclesie et ibi ponitur […]». 22 Liber ordinarius, 1934, p. 309, da KNIPPING 2001, p. 74: «Et defertur capsula predicta a militibus extra ecclesiam, per civitatem vero a civibus». 23 Per il portale di Onorato cfr. KIMPEL, SUCKALE 1973; SAUERLÄNDER 1970, pp. 174, 175; MURRAY 1996, pp. 118s. 24 MURRAY 1996, p. 119. 25 SAUERLÄNDER 2000, p. 132. 26 «Se toto corpore inclinavit in partem, qua corpus Sanctissimi ferebatur». Cit. in SAUERLÄNDER 2000, p. 132. 27 Su ciò, più estesamente cfr. MANHES-DEREMBLE 1993. 28 LAUTIER 2003. 29 Atti degli Apostoli 6,12-7,57. 30 Item de lapidibus quibus beatus Stephanus protomartir fuit lapidatus. Inventaire des reliques et joyaux de l’église de Chartres, sans les saintes châsses (1322). Un tempo nella Bibliothèque municipale de Chartres (ms 1008, fol. 84-84v), distrutto nel 1944; cit. in LAUTIER 2003, p. 75. 31 KURMANN-SCHWARZ, KURMANN 2001, pp. 272, 273. 32 LAUTIER 2003, p. 45. 33 LAUTIER 2003, p. 50. 34 LAUTIER 2003, p. 51. 35 Per quanto segue: KURMANN 2001, pp. 246ss.; SAUERLÄNDER 1970, p. 117; HALFEN 2003, pp. 364, 365. 36 HALFEN 2003, p. 365; LAUTIER 2003, p. 45. 37 Ibid. 38 LAUTIER 2003, p. 45. 39 Di Legerius la cattedrale possedeva reliquie, che si trovavano nello scrigno donato da Enrico IV. In ogni caso, tuttavia, non è sicuro che esse si trovassero a Chartres già dall’inizio del XIII secolo. LAUTIER 2003, p. 63. 40 LAUTIER 2003, p. 48. 41 Ibid., pp. 66-67. 42 Per il portale dei Confessori cfr. SAUERLÄNDER 1970, p. 116; HALFEN 2003, pp. 369ss.

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LAUTIER 2003, p. 41. 2000, p. 130. 45 Stranamente, Nicola è uno dei pochi santi rappresentati nei rilievi di cui, per quanto ne so, non è documentata alcuna reliquia a Chartres. A lui sono dedicate anche numerose finestre. Nell’XI secolo, a causa dell’invasione turca, le reliquie di Nicola vennero trasportate in nave da Myra, in Asia Minore, a Bari, sulla costa adriatica. Dal momento che, come si mostra nel rilievo, dalle reliquie del santo colava dell’olio miracoloso, queste divennero presto meta di pellegrinaggi. I pellegrini raggiungevano Bari soprattutto dal nord della Francia. Una delle finestre del ‘coro’ di Chartres mostra i pellegrini davanti alla cattedrale di Bari, che vengono benedetti da Nicola. Il rilievo nel portale dei Confessori può essere inteso come esortazione al pellegrinaggio. D’altra parte esso configura in modo generale la virtù prodigiosa delle reliquie, naturalmente anche di quelle della cattedrale di Chartres. 46 Per i portali occidentali cfr. VAN DEN BOSSCHE 1997; VAN DEN BOSSCHE 2002; BOERNER 2006. 47 In genere, la madre che si lamenta viene messa in relazione tipologicamente con la Rachele dell’Antico Testamento. In Ambrogio, Rachele, in quanto figura della Chiesa, compiange i peccati di chi le è affidato: «Rachel plorans filios suos et noluit consolari, quia non sunt. Rachel ecclesia est, in qua benedicitur plebs dei. Ipsa pro te fleat, ipsa tua peccata deploret […]». AMBROSIUS MEDIOLANENSIS, Explanatio psalmorum XII, CSEL 64, psalmus 37, cap. 10, p. 143. 48 Magi: «Nos sumus quos cernitis reges Tharsis et Arabum et Saba dona offerentes Christo regi nato domino quam stella deducente adorare venimus. Obstetrices: Ecce puer adest quem quaeritis iam properate adorate quia ipse est redemptio mundi. Tunc cantet unus magorum: Salve princeps seculorum. Suscipe rex aurum. Secundus: Tolle thus tu vere deus. Tertius: Myrrham signum sepulturae». Cfr. WALTER 1929. 49 WALTER 1929, p. 47. 50 GREGORIUS MAGNUS, XI homiliarum in euangelia libri duo, cap. 6: «Magi uero aurum, thus et myrrham deferunt. Aurum quippe regi congruit, thus uero in dei sacrificium ponebatur, myrrha autem mortuorum corpora condiuntur. Eum ergo magi quem adorant etiam mysticis muneribus praedicant, auro regem, thure deum, myrrha mortalem. Sunt uero nonnulli haeretici qui hunc deum credunt, sed ubique regnare nequaquam credunt. Hi profecto ei thus offerunt, sed offerre etiam aurum nolunt. Et sunt nonnulli qui hunc regem existimant, sed deum negant». 51 ISACCO DE STELLA, Sermones, Sources Chretiennes 339, fr. 1, par. 6: «Obtulerunt ei munera: aurum, thus et myrrham. Aurum regi convenit, thus in sacrificio Deo offertur, myrrha mortuorum corpora condiuntur. Omnia haec veraciter Christo offerre non desinit qui unum eundem que verum Deum, verum regem verum que hominem credit, et vere pro nobis mortuum veraciter recognoscit. Offeramus regi nostro aurum, ut eum ubique regnantem credamus. Offeramus thus, ut eum verum Deum et creatorem omnium sine initio inexistentem confiteamur. Offeramus myrrham, ut propter nostram salutem mortale corpus eum assumpsisse non dubitemus». 52 ISIDORO HISPALENSIS, Allegoriae quaedam sanctae Scripturae uel De nominibus legis et euangelii, PL 83, pp. 97-130. 53 Cfr. VAUCHEZ 1993, p. 81; SCHREINER 1984, p. 289. 44 SAUERLÄNDER

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54 Anche Gregorio Magno era a conoscenza di tali significati: «Nato ergo regi aurum offerimus, si in conspectu illius claritate supernae sapientiae resplendemus. Thus offerimus, si cogitationes carnis per sancta orationum studia in ara cordis incendimus, ut suave aliquid deo per caeleste desiderium redolere ualeamus. Myrrham offerimus, si carnis vitia per abstinentiam mortificamus. Per myrrham namque, ut diximus, agitur ne mortua caro putrefiat. Mortuam uero carnem putrescere est hoc mortale corpus fluxui luxuriae deservire, sicut de quibusdam per prophetam dicitur: computruerunt iumenta in stercore suo». Cfr. GREGORIUS MAGNUS, XI homiliarum in euangelia libri duo, hom. 10, cap. 6. 55 Enchiridion symbolorum, 802; cit. in SCHMIDT 1982, p. 614. 56 SCHILLER II, p. 180. 57 BERGMANN 1986, M 12, M 8; SATZINGER, ZIEGELER 1993, p. 258. 58 Qui citato da WALTER 1932, p. 31: «Convenientibus autem omnibus in paradysum imponat cantor ex sua parte Cum rex glorie usque preciperet et altera pars prosequatur Sanctorum populus usque De claustris. Tunc progredientes eadem distinc-

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tione, redeant per medium ecclesie usque in chorum simul canentes Te nostra vocabant». Cfr. anche il commento di WALTER, ibid., p. 21. 59 KRÖLL 1994, p. 241. 60 WARNING 1974, p. 110. 61 Ibid., p. 113. 62 Riguardo al collegamento tra la raffigurazione delle vergini sagge e stolte e il ‘gioco recitato’ delle stesse si veda KÖRKEL-HINKFOTH 1994. 63 Willibald Sauerländer ritiene che questa processione avrebbe potuto attraversare il portale di Firmino. Cfr. SAUERLÄNDER 2000, p. 131. 64 WALTER 1932, pp. 20ss. 65 «In parasceve autem, officio peracto et cruce salutata sit sepulchrum paratum, et dum vadunt cum cruce ad locum sepulchri imponat cantor Sicut ovis ad occisionem ductus est cum versu. Imposita autem cruce imponat cantor In pace in idipsum et Caro mea, et presbytero nectente fila prosequatur Sepulto domino cum vespera». Cfr. WALTER 1932, p. 30. 66 «In dominico pasche antequam signum detur ad matutinas, fratres excitati a mansionario veniant ad ecclesiam et elevato pallio quod est supra sepulchrum, dimisso ibi sudario, crucem restituunt

in locum suum cantantes antiphonanam Ego dormivi cum psalmo. Deinde det presbyter orationem. Tunc dato signo ad matutinas preparent se duo diaconi, qui a cantore in locum angelorum deputati sunt et tres presbyteri qui in locum mulierum. Antequam campane simul pulsentur, conveniant fratres ad locum sepulchri. Residentibus autem diaconis in soliis suis, illi tres presbyteri accedant cum turibulis et incensu, duobus acolitis precedentibus cum cereis ineundo cantantes responsorium Cum transisset sabbatum cum versu. Astantibus autem eis coram sepulchro, imponant diaconi Quem quaeritis illis econtra respondentibus Jesum Nazarenum; prosequantur diaconi Non est hic, cum antiphona Venite et videte, usque in finem, et abeant. Illi autem ascendentes thurificato sepulchro expandant sudarium inter manus, et venientes ante altare versis vultibus ad populum pronunciant Surrexit Dominus, choro respondente Surrexit Christus, illis iterum respondentibus Surrexit enim usque in finem. Incipiant duo ex clero Alleluia, Christus resurgens. Qua finita dicatur Domine labia mea et sic peragatur matutinale officium». Cfr. WALTER 1932, p. 30.


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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI Abacuc, 148 Abele, 12, 140, 148, 149, 149, 177-8, 193 Abramo, 7, 9, 12, 140, 148-9, 163, 164, 189-90, 189-90, 203 Acceptus, 131, 132, 171 Aceolus, santo, 232 Acius, santo, 232 Adalwald, 61 Adamo, 12, 172, 188, 189, 258 Adriano I, 67, 70 Agaune, Saint-Maurice, 89 Agen, Saint-Caprais, 81 Agia, santa, 97 Agilulfo, 61 Agnello di Ravenna, 54 Agnese, santa, 50 Agricola, santo, 97 Aignan, vescovo, 97 Ain, Saint-André-de-Bâgé, 148 Akören, basilica nord, 87 Alano di Lilla, 205 Alce V., 127 Alvignano, Santa Maria di Compulteria, 54 Amalario di Metz, 29 Amalfi, 58 Ambrogio, santo, 52, 114, 123-4 Amiens, cattedrale, 13, 221, 221, 222, 222, 223-4, 226, 226, 228, 228, 232-6, 232, 235-8, 239-40, 250-1, 259-61; chiesa dei Santi Pietro e Paolo, 236 Anastasio, vescovo, 61 Anazarbos, basilica, 87 Ancona, 58 Andlau, 172 Andrault-Schmitt C., 81 Andrea, santo, 82, 118, 260 Andrieu M., 18 Angheben M., 9, 12-3 Angilberga, 77 Angoulême, cattedrale, 159 Anna, santa, 240 Annone vescovo, 115 Anselmo di Canterbury (o d’Aosta), 104 Anselperga, badessa, 77 Antelami B., 150 Antonino, martire, 112, 113 Antonio abate, eremita, 11 Anzy-le-Duc, 136, 138, 157, 157, 168, 172 Aosta, Sant’Eustachio, 60, 206; Santo Stefano, 87 Aquileia, 52, 58, 64, 79; basilica del Fondo Tullio alla Beligna, 86-7, 87, 129; basilica di Monastero, 87; duomo, 114 Aquisgrana, Cappella Palatina di Carlo Magno, 62, 72, 75 Arata, architetto, 112 Ardain, abate, 95 Arechi I, 62 Arechi II, 78 Arezzo, cattedrale; pieve Santa Maria; badia Sante Fiora e Lucilla; Santa Maria in Gradi; San Michele; San Domenico; San Francesco: 41 Ariberto d’Intimiano, 79 Arles, Saint-Césaire; Saint-Honorat; Saint-Trophime: 81 Arpone, vescovo di Feltre, 115 Assisi, San Francesco, 9, 115, 126-7, 206 Atene, Partenone, 19 Augsburg, Santo Sepolcro, 117 Aulnay, 135, 163, 168-9, 177; Aulnay-de Saintonge, collegiata di Saint-Pierre, 135 Autun, 174; Musée Rolin, 118, 173, 177; SaintLazare, 82, 113, 117-8, 117, 120, 127, 136, 152, 159, 172-4, 173, 176; Saint-Nazaire, 117-8, 173 Auxerre, Saint-Germain, 89, 91, 96, 119, 129, 204 Avallon, 168 Avignone, 41 Ávila, San Vicente, 148, 176 Avito, santo, 248 Azay-le-Rideau, 131 Babele, 12, 190, 200 Bagües, San Julián, 206 Baiasca, Sant Serní, 142 Baldolf, 258, 260 Bamberga, 140 Bango Torviso I.G., 81-2 Barbarossa, 125 Bari, San Nicola, 82, 114, 131, 136, 136, 158 Barral i Altet X., 122, 122 Barré H., 258 Baschet J., 10-13, 215 Baudelius, santo, 97 Baugulf, abate, 68, 119 Bawit, 140 Beaulieu, 159 Beauvais, 232 Becket Thomas, v. Thomas Becket Bédier L., 82 Bellenaves (Allier), 164 Belli d’Elia P., 76 Belting H., 61 Benedetto da Norcia, santo, 12, 54, 102-3, 103 Benevento, 58, 78, 88; Santa Sofia, 61, 62

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Bénigne, santo, 119 Berceto (Parma), 165 Berengario di Tours, 217 Berengario I, 77 Berlino, 140 Bernardo, santo, 258 Bernardo, tesoriere di Santiago, 108 Bernier, abate, 95 Bernoulli C., 104 Bernward, vescovo, 90 Berta, figlia di Berengario I, 77 Berteli G., 113 Berzé-la-Ville, 136, 138, 214 Besse, 172 Besso, santo, 93 Betlemme, 30, 58, 83, 253 Biagio, santo, 244, 244 Bisanzio, 58 Bizantini, 53-4 Bobbio, monastero, 61 Boerner B., 9, 13 Bologna, San Domenico, 126-7, 127; San Petronio, 17; San Pietro, 17; Santo Sepolcro, 84 Bominaco, San Pellegrino, 11, 153, 208, 210, 212, 214, 215-7 Bonifacio, monaco, 66, 70 Bonnet C., 60 Bordeaux, 81 Borghese Scipione, cardinale, 45 Borromeo C., 124 Bourges, 172 Branda Castiglioni, cardinale, 42 Brandenburg H., 85, 127 Braun J., 18, 79 Breda A., 113 Brenk B., 9, 82-4, 84, 88, 88, 127 Brescia, Rotonda di Santa Maria, 113-4, 113; San Salvatore, 61, 75, 76-7 Brinay, 206 Brioude, Saint-Julien, 82, 89 Brunelleschi F., 42 Bugslag J., 98 Burckhardt J., 42 Burgos, 81 Burgundi, 53 Burgusio (Burgeis, Bolzano), 148 Cagliari, cattedrale, 170-1 Caino, 12, 177-8, 193 Cambrai, 84, 232 Camus M.-Th., 100, 116 Canaan, 190, 200, 201 Canosa, San Sabino, 132 Cantal, Jou-sous-Moujon, 148 Canterbury, 244; cattedrale, 96, 104-5, 105, 107, 127, 183, 201 Capua, 139 Carlo il Calvo, 140 Carlo Magno, 62, 67-8, 70, 72, 75-9, 240, 240, 2501 Carlo Martello, 66 Carolingi, 67, 75, 77 Carrero E., 146 Carrero Santamaria E., 109-10 Cartagine, 25 Carugo, San Martino, 206 Castelseprio, Santa Maria foris portas, 58, 60; San Giovanni, 54 Castiglione Olona, collegiata, 42 Castiñeiras González M.A., 109-10 Celje (Celeia), basilica, 87 Centula, Saint-Riquier, 9, 184 Chalivoy-Milon, 204, 204, 214 Chalon-sur-Saône, 152 Champagne (Ardèche), 164-5 Charlieu, 131, 161-2, 168 Charroux, Saint-Sauveur, 82, 116-7, 116 Chartres, cattedrale, 13, 82, 97-8, 127, 129, 164, 168, 169, 174, 221, 239-41, 239-40, 2424, 244, 245, 247, 250, 260-1 Chauvigny, 152 Cheron, santo, 244, 245, 248 Chevalier P., 96-7, 95, 119, 120 Chinon, Saint-Mexme, 131 Christe Y., 139 Chur (Coira), 61 Cimitile, Basilica Vetus, 34 Cipriano, martire, 99-100 Civate, San Pietro al Monte, 8, 36, 36, 82, 119, 122-4, 122, 126-8, 147, 147, 150, 158, 208 Cividale del Friuli, 140, 146 Cividate Camuno, 60 Clairvaux, 258 Clemente, santo, 241 Clermont-Ferrand, Notre-Dame-du-Port, 135, 153, 160, 161-2, 168, 178; Santi Maria, Vitale e Agricola, 96 Closener F., 260 Cluniacensi, 79 Cluny, 82, 136-9, 138, 157, 168, 170-2; abbazia di San Pietro e San Paolo (Cluny III), 118, 129, 134, 136; Museo del Farinier, 136 Coira, San Lucio, 89 Colombano, santo, 61 Colonia, 125, 140; duomo, 9, 27, 106, 124, 127; Saint-Denis, 40, 43; San Pantaleone, 78 Conant K.J., 81, 109

Condrieu (Rhône), 165 Conques, Sainte-Foy, 81-3, 103, 104-5, 148, 158-9, 174, 176, 178, 178; Trésor de l’Église abbaziale, 104 Corbo V.C., 84 Corvey, abbazia, 68, 68-9 Costantina (figlia di Costantino), 85 Costantino, 25, 40, 68, 85, 124 Costantinopoli, 23, 62, 241; basilica Apostolorum, 86; Sant’Eufemia, 24, 25; Santa Sofia, 37, 39, 62; Santi Sergio e Bacco, 53 Cremona, cattedrale, 177 Cristoforo, santo, 98 Cromazio d’Aquileia, 86 Cruas, 153 Cugnoli, Pescara, 171 Cuxa, Saint-Michel, 146-8, 160, 163 Dagoberto, 66 Dalmazzo, santo, 93, 114 Dangas I., 100 Daniele, 12, 174 Darmstadt, 140 Davide, 8, 12 Daziano, governatore, 244 De Blaauw S., 10, 13, 48, 90, 127 De Capitani d’Arzago A., 60 De Dartein F., 90 Demetrio, santo, 9, 88 Denis, santo, 98, 228, 241, 245 Desiderio, abate, 10, 12, 77 Deuchler F., 189 Dijon, Saint-Bénigne, 82, 114, 118, 119, 121, 127 Diocleziano, 228, 244 Docci M., 129 Dom Plancher, 119 Domenico, santo, 126, 127 Domicius, santo, 232 Donnino, santo, 114, 122 Drogone di Metz, 28-9, 28-9, 32, 140, 148 Durand G., 232 Durando G., 183 Durandus, 29, 40 Durliat M., 81, 104, 108 Duval N., 18, 33, 33 Egidio, santo, 247, 250-1 Eginardo, 68 Eichstätt, 66 Emmaus, 152, 152, 165, 168, 216, 217 Ennodio, protovescovo, 111 Erlande-Brandenburg A., 98, 122 Ermacora, santo, 87 Erode, 226, 243, 253, 257 Eshtemoa, sinagoga, 19, 19 Estaon, Santa Eulàlia, 142 Estella (Navarra), 168 Esterri de Cardós (Lérida), Sant Pau, 142, 178 Étampes, cattedrale, 164 Étienne de Bâgé, 117, 152 Étienne II, vescovo, 96 Eusebio di Cesarea, santo, 35 Euspice, santo, 97 Eustorgio, santo, 124-5 Eutrope, santo, 120 Eva, 12, 172, 173, 178, 188, 258 Evesham, abbaziale, 201 Ezechiele, 12, 34 Farfa, 77-8, 89; Santa Maria, 74, 76 Fasano, tempietto di Seppannibale, 76, 78 Fassler M., 174 Favreau R., 159, 185, 202 Fede, santa, 104, 104, 176, 223 Felice, beato, 34 Feltre, 118; Santi Corona e Vittore, 115, 115 Feltre, santo, 127 Ferentillo, San Pietro in Valle, 8, 206, 209 Fermo, santo, 115 Ferrara, cattedrale, 162, 168, 176-7 Ferrua A., 74 Fiamma G., 124 Fidenza, 114, 159 Filastrio, santo, 113 Filippi G., 127 Fiocchi Nicolai V., 85 Firenze, Santo Spirito, 42 Firmino, santo, 13, 228, 232-5, 232-3, 239, 25860 Flavigny, Saint-Pierre, 89, 129 Flée (Sarthe), Sainte-Cécile, 148 Fleury, 102-3 Flosculus, santo, 97 Fluvià, Sant Tomàs, 142 Fonte Avellana, 79 Forsyth I., 178 Fossier R., 181 Foussais, 174 Francesco, santo, 9, 126 Franchi, 18, 53, 67, 75, 78-9, 89 Fricke B., 104 Fritsche C., 260 Frugoni C., 178 Fruttuaria, 79 Fulbert, vescovo, 98 Fulda, abbazia, 9, 66, 66-7, 68, 70, 72, 75-6, 78, 119,

127 Fulrad, abate, 67 Furlan I., 52 Fuscianus, santo, 232 Gabriele, arcangelo, 12, 142, 148 Gaeta, 58 Galliano, San Vincenzo, 8 Gallina D., 113 Garbagnate, monastero, 60 Gautier M.-E., 120 Gedeone, giudice, 12 Gelmirez D., 109 Geminiano, santo, 176 Genova, 58 Gerasa, 64 Geremia, 12 Germigny-des-Prés, 72, 75 Gernrode, San Ciriaco, 78 Gerson P., 81 Gerusalemme, 9, 15, 19, 30, 34, 64, 168, 208, 232; Santo Sepolcro e Anastasis, 9, 40, 83-4, 84, 116; Tempio, 19, 37, 162, 169; cripta, 83 Gervase of Canterbury, 104 Gesù Bambino, 178, 253-4 Gesù Cristo, 8, 11-2, 15, 30, 116, 118, 122, 124, 139-40, 142, 144, 146, 148-9, 152, 159, 161-2, 168, 170, 174, 178, 181, 182, 184, 204, 208, 210, 212, 214, 215, 216, 222, 224, 239, 243, 248, 250, 253, 257-8 Giacomo, apostolo, 82, 109-10, 176 Gilduin B., 137, 146 Giona, 171 Giorgio, santo, 176, 241 Giovanni, santo, evangelista, 82, 118, 122, 159 Giovanni battista, santo 82, 122, 162, 221, 234 Giovanni da Vidor, 116 Giovanni di Salisbury, vescovo, 244 Girolamo, santo, 248 Gisla, figlia di Irmingard e Lotario I, 77 Gisulfo, abate, 76 Giuda, 258 Giuditta, 8 Giuseppe d’Arimatea, 150, 258 Giuseppe, 190, 193, 200, 253 Giustiniano, 37, 53-4 Glaine-Montaigut (Puy-de-Dôme), 153 Glaser F., 87 Glass D., 178 Goti, 58 Grado, 58, 86 Grandlieu, Saint-Philibert, 89 Graziano, monaco, 183 Gregorio di Tours, 50 Gregorio IV, 30, 74 Gregorio Magno, 10, 49-50, 76, 82, 87, 89, 90, 102, 123, 127, 173, 248, 254 Grissiano (Grissian, Bolzano), 148 Guerreau A., 182 Guglielmo da Volpiano, 79, 119, 127 Guglielmo di Sens, 105 Guglielmo inglese, 105 Guglielmo, maestro, 170 Guillaume, abate, 102 Haïdra, basilica, 32, 33 Halberstadt, cattedrale, 89, 147 Hamann R.H.L., 118 Hammamet, cattedrale Siagu, 86 Hearn M.F., 105, 107 Heitz C., 99 Helgaud de Fleury, 96-8 Hildesheim, 140; cattedrale, 8, 11, 136; San Michele, 78, 90, 184, 206 Hodges R., 88, 89 Holloway R.R., 85 Huy, 84 Ilario, santo, 76 Île-Bouchard (Indre-et-Loire), 152 Iogna-Prat D., 182 Irmingard, imperatrice, 77 Isacco de Stella, 254 Isacco, 12, 189 Isaia, 12, 162 Isidoro di Siviglia, 254, 257 Ismaele, 189 Issoire, Saint-Austremoine, 135, 150, 152, 153 Ivrea, cattedrale, 90, 91, 92-4, 129 Jaca, 131, 163, 173-4, 178 Jacobsen W., 10, 13, 88-9, 90 Joshua, abate, 76, 78 Junien, santo, 176 Kizil Cukur, Hach Kilise, 142 Klein P., 208, 210 Klukas A.W., 183 Koblenz, Sankt Kastor, 89 Kosch C., 125, 127 Krautheimer R., 70, 85-6 Krüger K., 172 Kuback H.E., 77 Kurmann P., 242 La Rocca C., 86


262-288_NOTE_BIBLIO.qxp:092_149_Spirito delle Pietre

Labande-Mailfert Y., 100, 188 La-Charité-sur-Loire, 168 Laizy, Saint-Julien, 152, 152 Lambert E., 81 Lanfranco di Canterbury, 104, 201 Laudomarus (Laumer), san, 248 Lautier C., 240-1, 244, 248 Lavin M.A., 7-8, 11, 13 Lazare d’Aix, vescovo, 118 Lazzaro, santo, 117, 118, 172-3, 177 Le Puy, 81-3, 122, 122, 127-8; capsa di san Donnino, 122 Lebrun, abate, 99 Legerius, santo, 244 Lehmann T., 85, 86 Lelong Ch., 109 León, 81, 163-5; Sant’Isidoro, 176 Leone I, 127 Leone III, 70, 72, 127 Leone IV, 74 Leone Magno, papa, 35, 248 Lérida, Santa Maria de Mur, 148 Lérin, 54 Lescure, 172 Liget, Saint-Jean, 150 Limburg an der Haardt, 78 Limoges, Saint-Martial, 81-82, 104 Lincoln, 157, 172 Lippi Filippo, 45 Lobbedey U., 68 Longobardi, 48, 53, 58, 61, 67, 77, 79 Lorenzo, santo, 241, 244 Lorsch, basilica, 67 Lot, 203 Lotario I, 77 Lubersac (Corrèze), Saint-Étienne, 152 Lucca, 172 Ludovico II, 77 Ludovico il Pio, 68 Luni, 77 Luxor, santo, 232 Lyman T.W., 107, 107 Maastricht, Notre-Dame, 148-9, 149 Macario, abate, 103 Mâcon, 159 Maderuelo (Segovia), 142, 148 Magdeburgo, duomo di Ottone I, 78 Magi, 106, 124-5, 125, 127, 153, 162, 168, 177, 214, 218, 226, 253-4, 257 Mainz, duomo di Willigis, 78; Sankt Alban, 67 Mâle É., 45, 81-2, 176-7 Malone Marino C., 119, 118 Marazzi F., 74 Marcello, papa, 82, 123 Marco, santo, 114 Margherita, 8 Maria di Betania, 118 Maria Maddalena, 82, 108-9, 118, 174 Maria, madre di Gesù, 8, 10, 12, 90, 92, 98, 102, 116, 122, 127, 131, 152, 168, 178, 184, 214, 217, 221, 224, 225, 228, 232, 234, 239, 253, 258 Marin, santo, 99, 99 Marsiglia, 118 Marta, 118 Martin P., 9 Martino, santo, 82, 214, 217, 247, 248-51 Matera, duomo, 174, 174 Matteo, santo, evangelista, 12 Maurice-Chabard B., 118 Mayeul, abate, 119, 120 McClendon C.B., 74 McKinne J.E., 124 Melchisedech, 9, 12, 140, 148-9 Mérimée, 186 Merovingi, 62, 64 Meschede, Santa Walburga, 89 Metz, 139-40, 148, 140 Michele, arcangelo, 10, 12, 82, 84, 90, 111, 142, 148, 184 Miégeville, 178 Milano, 24, 48-9, 52-3, 58, 64, 79, 114, 124; duomo, 25; basilica Apostolorum, 86-7, 123, 127; San Nazaro, 124, 127; Sant’Ambrogio, 114, 171; Sant’Eustorgio, 124, 125, 126-7; Santa Maria di Aurona, 60, 61; Santo Sepolcro, 84 Milson D., 19 Mitchell J., 89 Modena, cattedrale, 12, 83, 131, 148, 150, 150, 153, 162, 172, 172, 176, 178 Moissac, 81; Sainte-Pierre, 158, 159, 161 Molfetta, 16 Monaco, Bayerische Staatsbibliotheck, 205 Mönchengladbach, 140 Monitor, santo, 97 Monte Sant’Angelo sul Gargano, Museo Lapidario, 132; San Michele arcangelo, 82, 84, 132 Montecassino, 10, 54, 58, 74, 76-77, 183; chiesa sepolcrale di san Benedetto, 76; San Martino, 76 Montgauch, Saint-Pierre, 140 Montmorillon, 163 Montpellier, 81 Mont-Saint-Michel, 84 Moralejo Alvarez S., 173

25-05-2010

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Morgex, Santa Maria, 87 Moscufo, Santa Maria del Lago, 170, 171 Mosè, 12, 190, 193, 201, 225 Mozac, cattedrale, 135 Murray S., 232, 236 Müstair, San Giovanni, 8, 11-2 Nabuchodonosor, 177 Nantua (Ain), 164 Napoli, 48, 52, 58 Naud, Saint-Loup, 158, 176 Nazaro (Nazario), santo, 123 Neuilly-en-Donjon, 168, 172, 174 Neuvy-Saint-Sépulcre, 84 Nevers, 120 Nicasio, santo, 248 Nicodemo, 150, 258 Nicola d’Oresme, 221, 259 Nicola da Verdun, 125, 127 Nicola, santo, 82, 111, 114, 247, 248, 250-1 Nivelles, Santa Maria, 64, 66 Noè, 12, 190, 192, 192-3, 200-01 Nohant-Vicq, Saint-Martin, 181 Nonantola, San Silvestro, 114, 168, 176 Noyon, 232 Nussbaum O., 17-8, 33 Odilon, abate, 120 Odolric, abate, 104 Oglerio di Trino, 258 Olimpia, tempio di Zeus, 18 Oloron-Sainte-Marie (Pyrénées Atlantiques), 165 Onasch K., 45 Onorato (Honoratus), santo, 108, 232, 235-6, 235-8, 238-9, 250 Onorio I, 50 Orcival, 136, 153 Origene, 37-38 Orléans, 81; Saint-Aignan, 96-8, 96, 114, 129; Sainte-Croix, 81-2, 127 Osnabrück, 140 Ostia, 22 Ostrogoti, 49, 53, 58 Otranto, cattedrale, 206 Ottone il Grande, 78 Paderborn, duomo, 68, 78, 89 Padova, Sant’Antonio, 106 Palladio A., 43 Panvinio O., 127 Paolino di Nola, 34 Paolo Diacono, 58 Paolo di Tarso, santo, 8, 12, 122, 127, 129, 140, 188 Paolo egiziano, 11 Parigi, Bibliothèque Nationale, 28-9, 140; Musée National du Moyen Âge, 140; Notre-Dame, 228, 228; San Benedetto mal orientato, Sanctus Benedictus male versus, 28 Parma, duomo, 147, 150, 159, 168 Pasquale I, 72 Patrizio, santo, 54 Pavia, 58; palazzo reale, 62; San Michele presso Santa Maria Teodote, 61; San Michele Maggiore, 110-1, 111-2, 114; Sant’Eusebio, 60; Santa Maria delle Pertiche, 60, 61-2 Pedona, 114 Pedret (Barcellona), 148 Pejrani Baricco L., 93-4 Pelagio II, 50, 87 Pellegrino, santo, 212, 215, 216 Perctarit, re, 61 Pere de Terrassa, 140 Périgueux, Saint-Front, 81 Peroni A., 110 Perpetuus, 90 Perrecy-les-Forges, 161 Petershausen (Costanza), abbazia, 27, 36 Philibert, santo, 95-6 Piacenza, 84; cattedrale, 162, 162; Sant’Antonino, 111-2, 113 Piatus, santo, 241 Pienza, 43 Pier Damiani, 120 Pierre de Bruis, 165 Pietro, santo, 12, 27, 49, 82, 118, 122, 124, 127, 140 Pipino il Breve, 66-7 Pirmino, santo, 66 Pisa, duomo, 170 Pistoia, San Francesco, 42; San Giovanni Fuoricivitas, 164 Piva P., 183 Poitiers, Notre-Dame-la-Grande, 137-8, 148, 153, 153, 157, 163, 168-9, 172, 177-8, 217; Saint-Hilaire, 81 Pont-l’Abbé-d’Arnoult, 162 Poppo di Aquileia, 79 Porter A.K., 81-2 Prata, Santa Maria Annunziata, 88 Prudenzio, 37 Prüfening, 205, 205 Pseudo Girolamo, 225 Puente-la-Reina, 81 Quedlinburg, San Wiperto, 90

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Quodvultdeus, 171, 177-8 Raffaele, arcangelo, 12 Ramnulfe, vescovo, 120 Ratchis, re, 144 Ratgar, abate, 68, 119, 127 Ravello, San Giovanni del Toro, 139, 171 Ravenna, 23, 48-9, 52-4, 58, 60, 64; Chiesa di Santo Spirito, 53; Galla Placidia, 46, 53; San Vitale, 53, 53-4, 62, 146, 148-9; Sant’Apollinare in Classe, 32-3, 33, 53, 53-4, 77; Sant’Apollinare Nuovo, 7-8, 53, 53, 149, 174 Raymond du Falga, 107 Regensburg, Sankt Emmeram, 67, 89 Regina di Saba, 226 Reiche J., 78 Reichenau, monastero, 66 Reims, Saint-Remi, 83 Remigio di Auxerre, 30 Resafa, 37; martyrium di San Sergio, 83 Rimini, 58 Ripoll, 136, 157; Santa Maria, 159 Roberto il Pio, 96-7 Rocamadour, santuario, 82 Roda, 82 Rodelinda, 61 Rollier G., 117 Roma, 8, 10, 18, 21, 28, 30, 32-3, 45, 47-8, 50, 524, 58, 60, 64, 66-7, 72, 75, 85, 127-8, 140, 183; anonima della via Ardeatina, 85, 85, 21; anonima della via Prenestina, 85, 85; antica basilica di San Pietro in Vaticano, 8, 10-1, 22-3, 20-2, 25, 27, 2930, 30, 32-4, 40, 43, 45, 48-50, 48-9, 52, 67-8, 70, 76, 82, 86-9, 90, 94, 102, 113, 122, 126-9, 206; basilica di Massenzio, 40; basilica di Tor de’ Schiavi, 21; Biblioteca Apostolica Vaticana, 27, 45, 183; Cappella Sistina, 40-1, 79; catacombe di San Ciriaco, 177; Fori Imperiali, tempio della Pace, 18 – tempio di Marte, 18 – tempio di Minerva, 18 – tempio di Traiano, 18 – tempio di Venere, 18; Laterano, basilica, 7, 21-2, 22, 25, 32, 50, 64 – Palazzo, 70, 72; mausoleo dei Giulii, Necropoli Vaticana, 15; mausoleo di Elena, 85; Pantheon, 25, 27, 40; San Clemente, 20-1, 24, 30, 30; San Crisogono, 20-1, 24, 45; San Giorgio in Velabro, 20, 22; San Giovanni a Porta Latina, 20, 22, 23, 49, 49, 53, 206; San Giovanni in Laterano, 20-1; San Lorenzo fuori le mura, 20-2, 32, 50, 85, 85; San Lorenzo in Damaso, 20-1; San Lorenzo in Lucina, 20-1, 21; San Marcello, 20; San Marco, 20-2, 21, 30, 32, 74, 78; San Martino ai Monti, 20, 22, 74; San Pancrazio, 20, 22; San Paolo fuori le mura, 8, 20-1, 22, 32-3, 33, 37, 42, 45, 50, 76, 89, 126-8, 127, 129, 136, 206; San Pietro in Vincoli, 20, 22; San Saba, 54; San Sebastiano, basilica Apostolorum, 20-1, 85-7, 85-6; San Sisto vecchio, 20-1; San Teodoro, 20, 22; San Valentino, 21; San Vitale, 20, 22; Sant’Adriano, 20, 22; Sant’Agata in Suburra/dei Goti, 20, 22, 23, 49, 53; Sant’Agnese fuori le mura, 20-2, 50, 51, 85, 85-6; Sant’Angelo in Pescheria, 20, 22; Sant’Apollinare, 20, 22; Santa Anastasia, 20-1; Santa Balbina, 20-1; Santa Cecilia, 20, 22, 72; Santa Croce in Gerusalemme, 20-1; Santa Maria ad Martyres, 20, 22; Santa Maria Antiqua, 20, 22, 49, 140, 149; Santa Maria de Gradellis o in Secundicerio, 140; Santa Maria in Cosmedin, 20, 22, 68, 70; Santa Maria in Domnica, 20, 22, 72; Santa Maria in Trastevere, 20, 24, 32; Santa Maria Maggiore, 7, 9, 10, 20, 22, 32, 53, 148-9; Santa Maria Nova, 20, 74; Santa Prassede, 20, 22, 70, 72, 72, 75-6, 78; Santa Pudenziana, 201, 135, 136; Santa Sabina, 20, 22, 23, 30, 37-8, 39, 45, 45; Santa Susanna, 20, 22, 72; Santi Apostoli, 20, 22; Santi Cosma e Damiano, 20, 22; Santi Giovanni e Paolo, 20, 22, 37-8, 39; Santi Nereo e Achilleo, 20-2, 72; Santi Pietro e Marcellino, 21, 50, 85, 85; Santi Quattro Coronati, 20-2, 74; Santo Stefano degli Abissini, 70, 70, 78; Santo Stefano in via Latina, 21; Santo Stefano Maggiore, 20, 22; Santo Stefano Rotondo, 20, 22, 46, 49, 62 Romano, papa, 241 Romolo Augustolo, 48 Romualdo di Camaldoli, 79 Rosciolo, Santa Maria in Porclaneta, 171, 171 Rotari, re, 58, 61 Rouen, santo, 129 Rousseau P., 96 Rustico, santo, 115 Rutishauser S., 113 Saint-Benoît-sur Loire, Saint-Benoît, 82, 100, 102, 103, 106, 114, 130-1, 131, 148, 174 Saint-Denis, 66-7, 70, 82, 89, 106, 129, 140, 158, 244 Sainte-Colombe (Charente), 136 Saintes, 81, 127; Abbaye-aux-Dames, 168; Saint-Eutrope, 81, 120 Saint-Genis-des-Fontaines, 160 Saint-Gilles-du-Gard, 81, 164-5, 165 Saint-Jacques-des-Guérêts, 149 Saint-Jean (Baptiste) d’Angély, 81-2 Saint-Junien, 176 Saint-Laurent-en-Brionnais, 138 Saint-Léonard-de-Noblat, 81-2 Saint-Lizier, 214 Saint-Nectaire, 135, 152-3

Saint-Pons-des Thomières (Hérault), 164 Saint-Savin-sur-Gartempe, 7, 10-2, 98-100, 127, 149, 163, 181, 185, 185-6, 188, 188-90, 192-3, 193, 200-1, 200-4, 204-6; cripta SaintMarin, 99, 99; cripta Saint-Savin, 99 Saint-Vincent de Mâcon, 208 Salerno, 62 Salii, 48 Salomone, 12, 226 Salonicco, San Demetrio, 9, 50, 88, 88, 94 Salvatore, santo, 82 Salvius, santo, 232 Salzburg, basilica, 67 San Benedetto in Polirone, 129 San Gallo, 9-10, 13, 64, 65, 66, 70, 89, 94, 184 San Vincenzo al Volturno, 76-8, 88-9, 89; San Vincenzo Maggiore, 74, 77 San Vittore del Lazio, 171 Sandau, 61 Sant’Angelo in Formis, 7-8, 10-1, 7, 206, 210 Santa Maria in Vescovio, 77, 206 Santarcangelo di Romagna, 54; San Michele, 58 Santiago de Compostela, 81-3, 104, 106, 10811, 127, 129, 131, 134, 136, 153, 159, 165, 168, 174, 176, 176 Saône-et-Loire, chiesa d’Issy-l’Évêque, 134; Saint-Julien-de-Jonzy, 164 Sapin Ch., 95, 91 Saraceni, 79 Saturnino, santo, 106-8 Sauerländer W., 103, 132, 236, 250 Savigny (Rhône), 164 Savina, martire, 100 Savino, martire, 93, 99-100, 185 Schwarz B., 242 Scubilius, santo, 97 Sebaste, 244 Sebastiano, governatore, 228 Segovia, Santo Sepolcro (Vera Cruz), 117; v. anche Maderuelo Seligenstadt, 68 Semur-en-Brionnais, 161-2 Sergio II, 74 Serlio S., 43 Serrabone, chiesa priorale, 146-8, 146, 160, 163 Severano Giovanni, 45 Sibilla, 12 Sicardo di Cremona, 184, 200, 203, 205 Sicardo di Farfa, 76 Sigifredo, vescovo, 112 Silenziario Paolo, 37 Silvestro, santo, 114, 176 Simeone, 253 Sion, Saint-Théodule, 89; Sous-le-Scex, 87 Siracusa, 52 Sisto v, 129 Sorède, Saint-André, 160, 160-1 Souillac, Sainte-Marie, 163, 164 Souvigny, Saint-Pierre, 119, 120, 127 Spigno Monferrato, abbazia, 78, 79 Spira, cattedrale, 77, 78-9 Spoleto, 58; duomo, 43; San Salvatore, 54 Spreafico P., 125 Stavelot, 140 Stefaneschi, cardinale, 32 Stefano II, 67 Stefano, santo, 92, 241-2, 242-3, 250 Stegeman Ch., 98 Steinbach, 68, 89 Strabone Valafrido, 37, 40 Stralsund, Sankt Nikolai, 40 Strasburgo, 13, 253, 257-60; cattedrale, 221, 248, 251, 251, 254, 253-4, 257 Suger, 158, 219 Summer L., 113 Tarn-et-Garonne, Saint-Michel de Lescure, 163 Taüll, San Clemente, 140-2, 142; Santa Maria, 140, 148, 217, 218 Tavant (Indre-et-Loire), Saint-Nicolas, 144, 148-50, 217, 219 Taylor H.M., 90, 184 Tcherikover A., 171 Tebei, martiri, 87 Tegolo, santo, 93 Teodolinda, 61 Teodorico, 53-4 Teodoro I, 50 Teodulfo, 75 Tertulliano, 35 Thérouanne, 232 Thines (Ardèche), 164 Tiro, chiesa vescovile, 35 Tolosa, v. Toulouse Tolotti F., 33, 129 Thomas Becket, santo, vescovo di Canterbury, 104-5, 107, 243-4, 243, 248 Torcello, cattedrale, 137 Toubert H., 10 Toulouse, martyrium di Saint-Sylve e SaintExupère, 107; Saint-Guilhem-le-Désert, 81; Saint-Sernin, 81-3, 104, 106-9, 111, 127, 131, 134, 136-7, 144, 146, 160, 172, 178

287


262-288_NOTE_BIBLIO.qxp:092_149_Spirito delle Pietre

Tournai, Bibliotèque de la ville, 110; ospedale di Saint-Jacques, 109, 110 Tournus, Saint-Philibert, 82, 94, 94-5, 96, 114, 129 Tours, Saint-Martin, 66, 81-2, 89, 90, 104, 109; Sant’Andrea, 82 Toynbee, 30, 49 Trani, San Nicola Pellegrino, 82 Treviri, cattedrale, 40, 63, 64; San Massimino, 78 Trevisan G., 114, 115 Trezzo d’Adda, San Martino, 60 Trino Vercellese, Santa Maria di Lucedio, 258 Tudela, 172 Ulphia, santo, 232 Umberto di Silva Candida, 183 Umm al-Rasas, sito archeologico: castrum; chiesa della Tabula Ansata; chiesa del Prete Wa’il; chiesa dei Leoni; cappella dei Pavoni;

18-06-2010

10:12

complesso di Santo Stefano: 27 Ungari, 78-9 Urbano II, 120 Valencia, 244 Valentino, santo, 76 Vallery-Radot J., 81 Vals (Ariège), Sainte-Marie, 140 Vandeins, Saint-Pierre, 164, 164-5 Varaize, chiesa, 135 Venezia, 58, 114; complesso di Concordia Sagittaria, 52, 148; San Marco, 113 Vergnolle E., 94, 97, 100, 102-3, 103, 109, 120, 190 Verona, San Fermo Maggiore, 114-5, 115; San Zeno, 122, 127, 129, 157, 157, 162, 168, 176, 176-7; Santo Stefano, 90, 92-3, 94 Verzone P., 90, 92, 93 Vézelay, 81, 136, 159, 168, 172, 174; Sainte-

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Marie Madeleine, 81-82, 118, 165 Vic (Vicq), Saint-Martin, 149, 212, 212, 215 Vicini D., 60 Vielliard J., 109 Vienne, Saint-Pierre de Chauvigny, 135 Vigeois (Corrèze), Notre-Dame-la-Grande, 148 Vilanova de la Muga (Girona), Santa Eulàlia, 142 Vincenzo, santo, 176, 241, 244-5, 244 Virtù, 222; Carità, 222, 223, 247; Fede, 223 Vitale, santo, 97 Vitruvio, 19 Vittore, vescovo di Piacenza, 112 Vizille (Isère), 164 Von Dassel Rainald, 125 Vonderau, 66-7 Walter J., 254

Wamba, re visigoto, 250 Ward-Perkins B., 30, 49 Warlus, san, 232 Warmondo d’Ivrea, 93 Warning R., 259 Werckmeister O.K., 172 Werden, Sankt Liudger, 89 Wernher, vescovo di Strasburgo, 78 Williams J., 81 Willibald, vescovo di Eichstätt, 66 Willibrord, santo, 66 Worms, basilica, 66 Wyss M., 66 Zaccaria, 50 Zenone, santo, 176 Zillis, Saint-Martin, 207 Zink J., 63

Crediti fotografici I numeri si riferiscono alle immagini Le immagini non menzionate appartengono all’Archivio Jaca Book

LE VIE DELLO SPAZIO LITURGICO Archivio Jaca Book/Arnaldo Vescovo: 2, 3. IN VISTA DELLA LUCE UN PRINCIPIO DIMENTICATO NELL’ORIENTAMENTO DELL’EDIFICIO DI CULTO PALEOCRISTIANO Archivio Jaca Book/BAMS-photo Rodella: 25, 29, 30, 37. Archivio Jaca Book/Arnaldo Vescovo: 31, 32, 33. BAMS-photo Rodella: 2, 3. Biblioteca Apostolica Vaticana: 16, 38. Bibliothèque Nationale, Parigi: 19, 20. Valeria Castrataro: 36. Daniela Blandino ha realizzato le piante: 7, 8, 9, 11, 12, 13, 14, 35.

EDILIZIA CULTUALE DELL’ALTO MEDIOEVO CONTESTI STORICI E PERCORSI LITURGICI

Archivio Jaca Book/BAMS-photo Rodella: 14, 21, 32, 34, 38. Archivio Jaca Book/Arnaldo Vescovo: 1, 2, 5, 6, 8, 9, 10, 30, 33. Werner Jacobsen: 16. Paolo Piva: 11. L’AMBULACRO E I «TRAGITTI» DI PELLEGRINAGGIO NELLE CHIESE D’OCCIDENTE SECOLI X-XII Archivio Jaca Book/ BAMS-photo Rodella: 1, 12, 13, 16, 17, 22, 26, 29, 30, 31, 33, 36, 40, 41, 43, 44, 49, 50, 52, 53, 54, 56, 58, 59, 61, 62, 65, 71, 72, 74, 75, 77, 78, 79. Archivio Jaca Book/Arnaldo Vescovo: 84. SCULTURA ROMANICA E LITURGIA Archivio Jaca Book/BAMS-photo Rodella: 3, 4, 7, 8, 16, 17, 18, 20, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 47, 48, 49, 50, 52, 53, 54, 55. Archivio Jaca Book/Arnaldo Vescovo: 6. Marcello Angheben: 21, 24, 25. Giovanni Lattanzi, Giulianova: 45, 46. Bibliothèque Nationale, Parigi: 13. IL DECORO DIPINTO DEGLI EDIFICI ROMANICI PERCORSI NARRATIVI E DINAMICA ASSIALE DELLA CHIESA

Archivio Jaca Book/BAMS-photo Rodella: 1, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 24, 26, 27, 28, 43. Giovanni Lattanzi, Giulianova: 39, 40, 41. Bayerische Staatsbibliothek, Monaco: 29. CATTEDRALI GOTICHE E PORTALI SCOLPITI LE CONNESSIONI CONTESTUALI DEL CULTO DELLE RELIQUIE

Archivio Jaca Book/BAMS-photo Rodella: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 31, 32, 37, 39, 41, 42. Bruno Boerner: 24, 25, 26, 27, 28, 29, 33, 34, 35, 36, 38, 40.


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