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Roma e le missioni

8. Ritratto di Matilde di Canossa dalla Vita di Matilde scritta dal monaco Donizone all’inizio del XII secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana. ritti che l’autorizzavano a farlo. Era nata nel 1046 dalle nozze tra Bonifacio, marchese (o, come i toscani amavano dire secondo la tradizione longobarda, «duca») di Toscana e di Beatrice di Lorena. In seguito alla morte dei suoi tre fratelli, Matilde rimase erede non solo delle terre sulle quali il padre aveva esercitato per delega il potere pubblico, cioè «feudale» (la marca di Toscana), ma anche di una quantità di beni «allodiali» (cioè privati) che, misti a quelli feudali, si estendevano per i comitati di Bergamo, Brescia, Mantova, il medio corso del Po e la Toscana meridionale. A ciò andavano aggiunti i vasti possessi lorenesi della madre. Morto nel 1052 il marchese Bonifacio, Beatrice aveva sposato in seconde nozze Goffredo III il Barbuto, duca dell’Alta e della Bassa Lorena, il fratello del quale, divenuto papa Stefano IX, gli aveva affi dato lo stesso ducato di Spoleto. Poiché Matilde era erede di un patrimonio immenso, il patrigno cercò di procedere a un’irreversibile unione dei casati di Toscana e di Lorena attraverso le nozze della fi gliastra con il fi glio Goffredo IV, detto «il Gobbo». Ma l’unione tra Goffredo e Matilde non aveva tenuto: e il duca era tornato nelle sue terre transalpine. Nel 1076, Matilde si trovò ormai priva, a sua volta, della madre e del consorte, mentre si stava profi lando la fase più dura del confl itto tra Gregorio VII ed Enrico. Matilde prese con energia le redini dei suoi domini, legandosi alla causa del papa che le pose accanto, come accorto consigliere, Anselmo vescovo di Lucca. E fu proprio alla rocca avìta del suo casato, a Canossa, che nel gennaio del 1077 avvenne l’incontro – il merito del quale la tradizione attribuisce alla mediazione di Matilde – tra papa Gregorio ed Enrico IV di Franconia, che, riconoscendosi vinto, aveva implorato nella neve il perdono del pontefi ce. Ma la guerra riprese quasi subito, e l’imperatore poté addirittura insediarsi, nel 1081, in quella Lucca ch’era la principale città della marca. Fu proprio da lì che il sovrano la decretò deposta e bandita dall’impero in quanto rea di lesa maestà. La sorte si era rovesciata, e tutto sembrava ormai perduto: Gregorio VII, assediato in Roma, fu liberato solo dall’intervento dei suoi turbolenti vassalli normanni dell’Italia meridionale, ma fi nì i suoi giorni in amaro esilio. Matilde però, che aveva resistito, riuscì il 2 luglio del 1085 a battere a Sorbaia presso Modena i fautori dell’imperatore: dopo tale vittoria si ristabilì un equilibrio di forze, che permise alla magna comitissa (come la si defi niva) di divenire il principale sostegno del partito della riforma, che aveva riacquistato lena sotto la guida di papa Urbano II. Nel 1089 l’ormai quarantatreenne marchesa accettò il consiglio papale di sposare Guelfo V, erede della corona ducale di Baviera e d’un quarto di secolo più giovane di lei. Si trattava di una solida alleanza antimperiale, che comportò comunque per Matilde un nuovo infelice legame nuziale: un solo fi glio, nato da quell’unione, morì tuttavia in tenera età. Ormai divenuta la prima e irremissibile nemica dell’imperatore, Matilde fomentò e appoggiò le successive rivolte dei suoi fi gli contro di lui. La morte di Enrico IV e l’ascesa al trono, nel 1111, del fi glio Enrico V modifi carono di poco l’atteggiamento della marchesa nei confronti della casa imperiale di Franconia. Al punto che quando morì, il 24 luglio del 1115, essendo priva d’eredi ella lasciò tutti i suoi beni alla sede pontifi cia, sia quelli feudali – che in quanto tali avrebbero dovuto tornare all’impero – sia quelli allodiali – sui quali pesava l’ipoteca dei diritti ereditari, che a loro volta riconducevano all’impero. Ciò fu causa di un’annosa questione, appunto detta «matildina», che turbò per secoli i rapporti fra Chiesa e impero. Al di là di questo, il suo era stato un coraggioso e lungimirante tentativo di costruire,

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9. Matilde di Canossa incontra le autorità ecclesiastiche modenesi e procede personalmente alla ricognizione delle reliquie di san Geminiano insieme all’architetto Lanfranco, al vescovo di Reggio Emilia e a tutta la popolazione nel 1106. Miniatura dalla Relatio de innovatione ecclesie sancti Geminiani. Archivio Capitolare, Modena.

10. Papa Gregorio VII e Matilde di Canossa ricevono l’imperatore Enrico IV, miniatura dalla Cronaca di Giovanni Villani, XIV secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana.

11. Ildegarda di Bingen scrive su tavoletta di cera, particolare di una miniatura dello Scivias. Landesbibliothek, Wiesbaden. sulla base di terre provenutele da differenti linee di dipendenza, un organico principato feudale analogo a quelli che si andavano nello stesso periodo di tempo costruendo in Francia e in Germania.

ILDEGARDA Ildegarda di Bingen (1098-1179) venne educata nel monastero di Disibodenberg, del quale divenne badessa nel 1136. Personaggio di elevata cultura, compose numerose opere di mistica, trattati morali, una settantina di poesie e un ricco epistolario. Anche se viene ricordata principalmente come mistica e profetessa, non si deve dimenticare il fatto che Ildegarda fu una donna tutt’altro che estranea alla realtà dei suoi tempi; le lettere testimoniano anzi un forte impegno a favore della riforma della Chiesa e della moralizzazione del clero. L’affl ato mistico e lo spiccato profetismo non le impedirono di dedicarsi pure alle discipline naturali e alla medicina, campi in cui la conoscenza teorica appare sostenuta da interessi empirici, legati alla tradizione popolare. I suoi scritti raccolti nei trattati sulla Fisica e sulle Cause e cure, dedicati alla medicina e alle scienze naturali, rivelano un sapere che era fi glio dell’esperienza e della tradizione germaniche, appena toccate dall’infl uenza cristiana o dalla lezione degli antichi. Ildegarda sosteneva che le sostanze naturali sono detentrici di virtù magiche che è necessario conoscere; stabiliva quindi una morfologia sacrale delle piante e delle loro virtù legata alle aree di provenienza: quelle orientali sono buone e ricche di poteri medicamentosi, quelle occidentali hanno rilievo nell’arte magica, ma non contribuiscono molto a mantenere o a ristabilire la salute del corpo, specchio evidente (in tale contesto) della salute spirituale. Molte piante e in special modo gli alberi, giungono al massimo della loro pericolosità magica quando fanno foglie e fi ori, cioè in primavera: è allora – nel «tempo chiaro», in passato sacro agli antichi dei – che gli spiriti dell’aria sono più attivi. Ma vi sono modi di «disinnescare» il potere magico delle piante, salvaguardandone e valorizzandone invece quello medicinale. La mandragora, ad esempio, sosteneva Ildegarda, è calda e umida, creata dalla stessa terra dalla quale fu creato Adamo: proprio perché somiglia tanto all’uomo è, al pari di lui, sottoposta agli assalti del demonio. Per questo essa è molto utile nella magia: ma, per farle perdere i suoi poteri negativi, è suffi ciente un bagno in una fonte d’acqua pura per il giorno e la notte immediatamente seguenti a quello nel quale la radice è stata estratta dal terreno. Si ha l’impressione che questo bagno della radice antropomorfa nell’acqua pura e limpida sia un simbolo del battesimo, e che la pianta si liberi dalle sue virtù negative in analogia con il lavacro battesimale che libera l’uomo dal peccato originale. Un rimedio all’incontinenza maschile, sia naturale sia indotta con mezzi magici, consisteva nel prendere una radice di mandragora femmina purifi cata in una fonte e legarsela per tre notti fra petto e ombelico, quindi prendere il frutto, dividerlo in due e tenerne le due parti legate per tre giorni e tre notti sull’inguine. La parte sinistra della radice antropomorfa, polverizzata, doveva esser mangiata mischiata insieme a un po’ di canfora. Se invece era una donna a esser colpita, doveva ripetere la stessa procedura usando però una mandragora maschio, e polverizzandone la parte destra. La mandragora, ancora, è utile per qualunque tipo di dolore: basta mangiare della radice antropomorfa la parte corrispondente a quella nella quale si avverte il disturbo. A chi si sentiva minacciato da forti perturbazioni e sbalzi nell’umore era consigliato di prendere la mandragora, purifi cata nella solita fontana per un giorno, di portarla a letto, scaldarla con il proprio sudore e rivolgere una pre-

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12. Miniatura del XIII secolo conservata nella Biblioteca di Lucca e ispirata alla visione mistica di Ildegarda di Bingen. Qui il cosmo è abbracciato da Cristo stesso, mediatore tra il Padre e l’intero creato, sintetizzato dall’uomo e alimentato dai soffi provenienti dal fuoco e dalle sfere risonanti: salute e salvezza convergono.

13. Fructus mandragorae, dal Remedium sanitatis. Biblioteca Casanatense, Roma.

ghiera al Signore. Se non si riusciva a trovare una mandragora, un cespo fronzuto di faggio l’avrebbe sostituita: la procedura rimaneva la stessa. Nonostante la preghiera rivolta a Dio, non è facile negare qui di essere dinanzi a procedimenti di magia terapeutica, piuttosto che di vera e propria medicina. Le pagine di Ildegarda, originale pensatrice e personaggio di spicco del suo tempo, ci scoprono di colpo, in pieno XII secolo, un mondo magico al quale non si può in linea di principio escludere che si fossero aggiunte le novità che cominciavano a giungere proprio allora per la via orientale o per quella spagnola, ma che almeno in parte sembra in realtà quello di permanenze magiche a lungo negate o nascoste nei trattati di medicina e di botanica, mentre gli evangelizzatori del mondo celtico e germanico cercavano di eliminarle o di obliterarle.

ELEONORA Quando, intorno al 1137 Guglielmo X, duca di Aquitania, morì durante un pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, lasciò in eredità alla fi glia Eleonora Aquitania e Guascogna. Lo stesso anno, secondo un accordo stipulato col re di Francia Luigi VI, Eleonora andò in sposa all’erede al trono Luigi VII. L’ingresso di Eleonora a corte non fu tra i più felici: l’Aquitania era la patria dei trovatori e dell’amor cortese, la ragazza era stata allevata in questa cultura, e i suoi comportamenti a corte facevano scandalo. Il trovatore Bernard di Ventadour, per esempio, non esitava a paragonarsi a Tristano nella sua dedizione amorosa per Eleonora d’Aquitania. Alla morte del re, inoltre, l’erede mise in atto alcune azioni politico-militari dissennate, che vennero imputate all’infl uenza di Eleonora e che condussero alla scomunica papale sulla coppia. Eleonora visitò allora Bernardo di Clairvaux, personaggio di spicco nella scena politica del tempo, il quale consigliò la riappacifi cazione dei confl itti; Eleonora e Luigi accettarono e la scomunica fu ritirata. Nel 1145 la coppia reale ebbe una fi glia, Maria, che sarebbe stata una importante protagonista del mecenatismo letterario del tempo. Chrétien de Troyes si dichiara infatti tributario di Maria di Champagne per l’ideazione del soggetto del suo Lancillotto o il cavaliere della carretta. Eleonora decise quindi, sempre per far penitenza degli errori commessi, di accompagnare il marito nella crociata del 1147. Durante la spedizione, tuttavia, forti dissapori separarono la coppia. L’episodio più grave si verifi cò nel 1148, quando l’avanguardia, con la regina, comandata da un vassallo aquitano di questa, contravvenendo agli ordini non attese la retroguardia, che includeva il re e i pellegrini, che venne massacrata dai turchi; lo stesso Luigi si salvò per miracolo. Al ritorno in patria, era ormai evidente che il matrimonio andava sciolto. Fu infatti dichiarato nullo nel 1152, durante il sinodo di Beaugency, per un problema (ovviamente si trattava di una scusa) di consanguineità. Poche settimane più tardi, Eleonora chiedeva al conte d’Angiò e duca di Normandia, Enrico, di undici anni più giovane, di raggiungerla e unirsi

14. Sigillo di Eleonora d’Aquitania.

15. Tomba di Eleonora d’Aquitania e di Enrico II d’Inghilterra nel monastero di Fontevrault.

16. Luigi VII, Corrado III e Baldovino III alla crociata del 1147. Particolare di una miniatura dalla Histoire de Guillaume de Tyr, 1097. Bibliothèque Municipale, Lione.

17. Enrico II, particolare di una miniatura. British Library, Londra.

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in matrimonio con lei. Quando questi, nel 1154, fu incoronato re d’Inghilterra, Eleonora divenne per la seconda volta regina. Sino ai primi anni dell’XI secolo i re capetingi erano stati in grado di regnare veramente soltanto sui diretti possessi della corona, vale a dire su una ristretta porzione della Francia centro-settentrionale (la cosiddetta «Île-de-France», fra Senna e Loira). Il resto del regno era diviso in potenti ducati (Normandia, Bretagna, Aquitania) e in grandi contee (Fiandra, Lorena, Champagne, Borgogna, Tolosa), qualcuna delle quali più vasta e ricca dei possessi regi medesimi. Inoltre nel 1066 un vassallo del sovrano, Guglielmo duca di Normandia, era divenuto re d’Inghilterra. Con ciò si era creata una situazione paradossale: feudalmente soggetto al re di Francia per i suoi territori al di qua della Manica, quello d’Inghilterra era suo parigrado al di là del canale. Con l’unione fra Enrico ed Eleonora, Normandia, Aquitania, Angiò e altri importanti territori del regno di Francia venivano in un modo o nell’altro a dipendere dal re d’Inghilterra, che tuttavia ne aveva la signoria in quanto vassallo del sovrano francese. Ne derivò una lunga guerra che, con battute d’arresto e alterne vicende, si sarebbe esaurita soltanto a metà del XV secolo e avrebbe lasciato la traccia in una tradizionale rivalità tra Francia e Inghilterra.

1 Capitolo VII L’IMPERATORE

CARLOMAGNO E LEONE III Dopo la deposizione di Romolo Augustolo nel 476, l’impero d’Oriente, in quanto diretta prosecuzione dell’impero romano, restava l’unica fonte riconosciuta di autorità, di legge e di diritto. In Occidente, tanto il papa quanto i re romanobarbarici conoscevano e accettavano questa realtà, indiscutibile per quei tempi. Solo con la creazione di una nuova corona imperiale, quella attribuita a Carlomagno, la situazione cambia. Ma il percorso che portò a questa innovazione è tutt’altro che lineare. Difatti, affacciandosi alla penisola italica, Carlo aveva compiuto un passo sostanziale verso Oriente. In Italia v’era Ravenna, l’antica capitale dell’esarcato, e Roma, a sua volta allora città in parte almeno bizantina; l’intera Italia meridionale, inoltre, era soggetta a Bisanzio e, culturalmente parlando, molto grecizzata. Aver occupato l’Italia signifi cava, per Carlo come per i longobardi, entrare in contatto con Bisanzio, divenire confi nanti. D’altro canto l’impero bizantino del tempo era in crisi: lo scisma iconoclastico aveva creato seri problemi al suo interno, e soltanto alla fi ne dell’VIII secolo l’imperatrice Irene lo aveva denunziato. Tuttavia, pesanti accuse pesavano sulla vita privata e sul comportamento politico della sovrana. Carlo aveva interesse, da un lato, a entrare in rapporti diplomatici e insomma a essere accettato come interlocutore dalla corte costantinopolitana, e ciò gli riuscì al punto che impostò le trattative per un matrimonio fra un suo fi glio e una fi glia dell’imperatrice; il sovrano franco comprendeva però come si dovesse ad ogni costo evitare un troppo stretto riavvicinamento fra corte imperiale e curia papale, e a tale scopo accettò perfi no di misurarsi in questioni teologiche, facendo redigere quei Libri Carolini che, nelle sue intenzioni almeno, avrebbero dovuto condurre a una revisione del problema delle immagini in un senso molto diverso da come era avvenuto a Costantinopoli e a Roma. Dietro atteggiamenti del genere, v’era una minaccia indirizzata al pontefi ce. La potente Costantinopoli era lontana; egli era per contro vicino, e sarebbe stato amico prezioso ma anche, al bisogno, nemico implacabile. Papa Leone III comprese tale messaggio: elevato al soglio pontifi cio nel 795, chiese immediata protezione a Carlo contro l’aristocrazia romana che minacciava le sue prerogative; ma, siccome i romani persistevano nel loro atteggiamento d’inimicizia nei suoi confronti, nel 799 si recò in Francia per chiedere un più diretto ed energico sostegno. Carlo scese a Roma, in apparenza come mediatore; tuttavia, nella notte di Natale dell’800 assunse un equivoco titolo imperiale. Il papa lo incoronò, mentre la folla raccolta in San Pietro lo acclamava (l’acclamazione era un elemento giuridico importante nell’incoronazione imperiale fi n dai tempi di Roma). Il gesto del Natale 800 resta un enigma. Papa Leone aveva forse inteso ricompensare così chi lo aveva sostenuto; ma, con questo gesto, egli intendeva anche dichiararsi libero dalla tutela dell’imperatore bizantino? O addirittura rivendicare il suo diritto a disporre della corona imperiale, quindi a incoronare, ma

1. Interno della basilica di San Vitale, Ravenna.

2. L’imperatrice Irene raffi gurata nel mosaico della tribuna sud di Santa Sofi a, Istanbul.

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