«Si afferma in primo luogo con forza l’esistenza innegabile di un rapporto tra l’arte e la televisione italiana: un legame forte, intrecciato da nodi che chiamano in causa aspetti legati alla storia e all’evoluzione del medium ma anche alla storia sociale dell’arte e a quella dei consumi culturali nel nostro paese.»
Arte in tv. Forme di divulgazione
Vincenzo Trione insegna Storia dell’arte contemporanea e Arte e nuovi media all’Università iulm di Milano. Collabora con il Corriere della Sera. Ha curato diverse mostre d’arte contemporanea in Italia e all’estero. Tra i suoi libri: Il poeta e le arti. Apollinaire e il tempo delle avanguardie, 1999; Dentro le cose. Ardengo Soffici critico d’arte, 2001; Atlanti metafisici. Giorgio de Chirico: arte, architettura, città, 2005; Le città del silenzio. Giorgio de Chirico: arte, architettura, profezia, 2009.
Aldo Grasso – Vincenzo Trione
Aldo Grasso è professore ordinario di Storia della radio e della televisione all’Università Cattolica di Milano e dal 2008 è direttore scientifico del certa – Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi. Dal 1990 è critico televisivo e editorialista del Corriere della Sera. Tra le sue pubblicazioni: Storia della televisione italiana, 1992; Prima lezione sulla televisione, 2011; Storie e culture della televisione italiana (a c. di), 2013.
In copertina: Mario Schifano, Paesaggio tv, 1974-75. Smalto su tela emulsionata, perspex, 55 x 75 cm. © Archivio Mario Schifano.
Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948 2. Clement Greenberg L’avventura del modernismo. Antologia critica 3. Ai Weiwei Il blog. Scritti, interviste, invettive 2006-2009 4. Brian O’Doherty Inside the White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo 5. Marco Meneguzzo Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze) 6. Frederic Spotts Hitler e il potere dell’estetica 7. Pierre Schneider Louvre, mon amour. Undici grandi artisti in visita al museo più famoso del mondo 8. Miriam Bratu Hansen Cinema & Experience. Le teorie di Kracauer, Benjamin e Adorno ISBN 978-88-6010-116-7
Arte in tv
Forme di divulgazione A cura di Aldo Grasso e Vincenzo Trione
Nell’ormai lunga storia della tv italiana l’arte ha avuto fin da subito uno spazio preciso, se si pensa che il 3 gennaio 1954 non solo segna il debutto delle trasmissioni rai ma anche la messa in onda del primo approfondimento culturale, Le avventure dell’arte. E di avventura si è trattato: le estreme potenzialità comunicative del nuovo mezzo, che portava letteralmente nelle case degli italiani per la prima volta argomenti elitari, si scontravano presto con la diffidenza, per non dire l’ostracismo, di una parte consistente di critici e intellettuali, ma anche con le difficoltà e le ambiguità insite in ogni traduzione da un medium a un altro. A distanza di sessant’anni lo scenario e i protagonisti di questo racconto sono decisamente cambiati, con la presenza delle emittenti private prima e della pay tv poi – e quindi con il deciso ampliarsi dell’offerta –, tra il passaggio al digitale e l’evoluzione naturale del linguaggio televisivo e dei suoi interpreti, artisti e critici compresi. Ma se il contesto muta, le questioni attorno a cui il rapporto arte-tv si gioca rimangono le stesse, in primis quella della legittimità di un medium a vocazione popolare a veicolare un contenuto alto, e soprattutto quella riguardante le funzioni che il piccolo schermo svolge nei confronti dell’arte, a partire dalla divulgazione che, pur nelle sue varie tipologie, è considerata storicamente la principale e più ovvia declinazione del mezzo. Proprio a quest’ultimo aspetto in particolare è dedicata la serie di saggi raccolti nel presente volume, sia che si muovano dal campo specifico della comunicazione televisiva sia che scelgano di privilegiare l’ambito artistico. Pur nella varietà di metodo, a risaltare è la stretta relazione tra i due mezzi che più hanno influenzato lo scenario visivo della seconda metà del Novecento.
I S B N 9 7 8 8 8 6 0
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Saggi d’arte 9
© 2014 Johan & Levi Editore Coordinamento editoriale Anna Luigia De Simone, Veronica Gaia di Orio, Cecilia Penati Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di maggio 2014 isbn 978-88-6010-116-7 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore
STAMPATO SU CARTA
Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.
Arte in tv Forme di divulgazione
A cura di Aldo Grasso e Vincenzo Trione
Sommario
Introduzione
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Aldo Grasso e Vincenzo Trione prima parte – Intermedialità: tra arte e televisione La strategia dell’assimilazione. Televisione contro arte
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Vincenzo Trione L’arte in quiz
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Martina Corgnati e Giuliana Caterina Galvagno Arte e tv: un gioco a due
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Mario Abis seconda parte – Momenti di una storia Piccolo schermo e arte, tra divulgazione e good story
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Aldo Grasso L’ossimoro perfetto. I destini dell’arte nella tv commerciale italiana
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Massimo Scaglioni Art entertainment e oltre. Nuovi linguaggi e problemi dell’arte nella tv digitale 65 Cecilia Penati terza parte – Figure di una storia Critici d’arte in tv. Origine, ricerca e divulgazione di nuovi linguaggi
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Tommaso Casini Dentro l’immagine. Come si guarda un quadro in televisione
85
Anna Luigia De Simone quarta parte – Artisti in scena Il critico d’arte dentro il tubo catodico. Fenomenologia e costruzione di una neoicona pop Massimiliano Panarari
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Lo sguardo della critica. Il documentario d’arte nella televisione italiana
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Veronica Gaia di Orio Gli artisti e la televisione. Una “relazione pericolosa”
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Rachele Ferrario Apparati Teleschermi d’arte. Per una storia dei programmi sull’arte nella tv italiana 129 Cecilia Penati Note
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Teleschermi d’arte – Infografiche
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Profili biografici
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Bibliografia selezionata
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Indice dei nomi
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Divulgazione. In partic., con riferimento a certa produzione artistica e letteraria: esposizione, facile, chiara, e formulata in un linguaggio largamente comprensibile, di nozioni scientifiche e tecniche, di dottrine, di ideologie che divengono in tal modo accessibili a un pubblico assai piÚ vasto della cerchia intellettuale che le ha elaborate (e può essere implicita, nel termine, una connotazione spregiativa, in relazione alla mancanza di originalità di tali opere e, soprattutto, a certa superficialità e approssimazione che a volte vi si riscontra).
Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana
Introduzione Aldo Grasso e Vincenzo Trione
Molti storici dell’arte italiani, spesso, hanno rifiutato la televisione, addirittura l’hanno demonizzata. Trincerandosi dietro un forte snobismo, talvolta l’hanno guardata con diffidenza. Vittime di una sorta di “adornismo di ritorno”, ne hanno parlato come di una fonte di massificazione e di volgarità. Ricorrendo ad atteggiamenti elitari e conservatori, l’hanno descritta essenzialmente come un dispositivo pervasivo e diseducativo. L’hanno giudicata un linguaggio minore rispetto alla fotografia e al cinema. Si tratta di un’insofferenza analoga a quella mostrata da larga parte dei nostri intellettuali: è rimasta celebre la battuta di Moravia, secondo il quale «il pubblico della televisione è un pubblico di serie b». Dagli anni ottanta in poi, abbiamo assistito a un fenomeno piuttosto inatteso. Personalità molto lontane – da Federico Zeri a Vittorio Sgarbi, da Achille Bonito Oliva a Francesco Bonami, da Flavio Caroli a Philippe Daverio – si sono lasciate affascinare dal piccolo schermo. Non si sono limitate a frequentarlo in maniera episodica (come avevano fatto studiosi quali Emilio Garroni, Giulio Carlo Argan e Giuliano Briganti), ma se ne sono servite con disinvoltura. L’hanno utilizzato soprattutto come strumento di autopromozione, come specchio in cui riflettere il proprio narcisismo. Come occasione per entrare dentro la “società dello spettacolo”, e per sfruttarne i benefici. Come contenitore potente, in cui sovente l’arte entra solo come curiosità, come distrazione, come intrattenimento, come argomento da banalizzare. Dunque, da un lato gli “adorniani”, dall’altro gli “integrati”. Davvero pochi storici dell’arte, invece, si sono dedicati con critica attenzione allo studio in chiave “estetica” di questo medium. Che custodisce rilevanti specificità sintattico-grammaticali e possiede una significativa funzione formativa e informativa. La televisione, infatti, non è solo effimero entertainment ma, in alcuni casi, può essere anche strumento di straordinario rilievo didattico. In tal senso – come aveva lucidamente compreso Zeri – decisivo è il “saper divulgare”, inteso non solo quale pratica della riduzione culturale, ma soprattutto come esercizio del rinvio, del rimando: si “assume”
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una determinata opera, la si spiega, evocando piani e problemi che, per essere davvero conosciuti, attendono ulteriori approfondimenti. Tra i pochi ad aver intuito queste potenzialità linguistiche e pedagogiche Carlo Ludovico Ragghianti, il quale, in un saggio del 1955, “La televisione come fatto artistico”, aveva scritto: «Fatte salve […] le ragioni della televisione come mezzo di informazione, di svago audiovisivo, di didattica e quant’altro si voglia, credo che anche ai fini del suo pratico successo, per eliminare convenzioni e monotonia, e per costituirle un patrimonio di risorse che potranno anche essere impiegate per arricchire lo spettacolo ordinario, la televisione avrebbe tutto da guadagnare […] dal prendere più sicura e precisa coscienza di sé e delle proprie capacità autonome di espressione. Auspico perciò la costituzione di un laboratorio sperimentale di televisione, che con un programma ben concreto di ricerca e con limiti di attuazione responsabilmente cauti, e infine, va da sé, con un personale ben scelto e di sicuro affidamento, possa saggiare e sviluppare il mezzo televisivo come tale». Forse, per tornare a interrogarci sul dialogo tra arte e tv e sulle pratiche della divulgazione, potremmo partire proprio dalla lezione di Ragghianti, e chiederci qual è la cifra del rapporto tra i due sistemi espressivi. È davvero quella dell’impossibilità, dell’irrimediabile perdita d’aura? Il piccolo schermo 12
è stato, in fondo, un positivo amplificatore dei contenuti dell’arte per un pubblico popolare o non ha rappresentato altro che l’irreparabile degradazione alle sue logiche ibride e commiste di un oggetto culturale nobile ed elevato? I saggi di questo volume, partendo da una prospettiva storica, affermano in primo luogo con forza l’esistenza innegabile di un rapporto tra l’arte e la televisione italiana: un legame forte, intrecciato da nodi che chiamano in causa aspetti legati alla storia e all’evoluzione del medium ma anche alla storia sociale dell’arte e a quella dei consumi culturali nel nostro paese. In modi diversi, tutti i saggi costruiscono poi il racconto di una graduale ma inesorabile inversione dei rapporti di forza tra il sistema delle arti (figurative, plastiche, addirittura applicate) e la televisione. Il piccolo schermo nasce come un medium senza contenuto, assorbe convenzioni, linguaggi, temi da altri ambienti, mediali e non. È un fenomeno che avviene attraverso l’intrattenimento (dove la tv vampirizza i modelli dell’avanspettacolo, del cinema, soprattutto della radio) ma anche attraverso la divulgazione. Per almeno un ventennio le regole del gioco vengono stabilite altrove: la tv si incarica principalmente di una descrizione illustrata di un testo, gli esperti a cui si affida vengono dall’accademia, la divulgazione pedagogica pura rappresenta il principale taglio di racconto dell’arte, mimesi di un modello di sapere scritto, tipografico. L’arte è usata dalla rai anche come forma di legittimazione, come uno strumento di istituzionalizzazione di un medium che stava sperimentando le proprie possibilità espressive e comuni-
· Introduzione ·
cative. Poi, mentre la televisione scopre e afferma la sua identità mediale, mentre il sistema televisivo diventa più complesso grazie all’avvento delle reti commerciali e allo sgretolamento del monopolio rai, il piccolo schermo inizia ad assumere un ruolo sempre più cruciale nell’industria culturale nazionale, piegando alle sue logiche ogni prodotto culturale (tra cui anche l’arte e i libri) che lo incrocia. Il cambiamento avviene su diversi livelli. In primo luogo sul piano dei linguaggi, con l’arte che inizia a esondare dai rigidi confini della lezione accademica filmata e si ibrida con le formule dell’intrattenimento, fino a sfociare nel genere monstrum della neotelevisione, il talk show, diventando un tema tra i tanti di quella che è stata definita ordinary television, una televisione quotidiana, che eleva la dimensione della banalità a strumento principe di comunicazione e contatto empatico e fatico con il suo pubblico. Da subito, il binomio arte e televisione commerciale non costituisce una contraddizione in termini, semplicemente cambiano le regole del gioco: nella “società dello spettacolo” la tv diventa essa stessa produttrice di un immaginario sull’arte che si modella soprattutto attraverso la figura del critico. Non più un divulgatore accademico ma un personaggio segnatamente televisivo, un’icona, un brand in grado, proprio grazie alla sua costruzione televisiva, di influire sulle logiche dei mercati dell’arte e di partecipazione di un largo pubblico agli eventi espositivi. La rivoluzione è compiuta, l’emancipazione della tv dalla “soggezione culturale” del sapere accademico è ormai un processo definitivo. Di più, inizia anche la vendita degli oggetti d’arte, grazie a emittenti come Telemarket. Si tratta dello sviluppo naturale di un processo iniziato nell’Ottocento e che ha visto affermarsi il concetto di opera come merce. A chi storceva il naso, affermando che l’arte non si può vendere, almeno in tv, quelli di Telemarket rispondevano che loro si limitavano a “popolarizzare” i capolavori e che il cliente prenotava la possibilità di visionare l’opera e solo successivamente decideva se acquistarla o meno. Ma il cambiamento avviene anche sul piano delle logiche industriali, con una lunga fase in cui, per ottemperare alle nuove leggi dell’Auditel, si assiste a una progressiva marginalizzazione del racconto dell’arte dalle fasce più pregiate del palinsesto dei canali generalisti dedicati al grande pubblico. Una fase, appunto, destinata a terminare e assumere nuove caratteristiche nello scenario televisivo contemporaneo, in cui la rappresentazione dell’arte sul piccolo schermo non è certo espressione di un’assenza ma di una nuova fioritura. Non solo marginalizzazione, ma anche riqualificazione della programmazione dedicata, che grazie alla transizione al digitale torna in parte a separarsi dal flusso indistinto dei temi della tv generalista e si eleva a contenuto pregiato dell’offerta, spesso anche a pagamento, rivolgendosi a un pubblico più ristretto ma più motivato e forse competente, che può essere
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avvicinato anche attraverso un modello di racconto più indiretto e obliquo, capace di sfuggire alla rigida gabbia della pedagogia illustrata per sperimentare nuove forme espressive. La complessità del fenomeno, che è al contempo strutturalmente legato alla natura e all’evoluzione del medium, chiama allora in causa la necessità di coltivare, come questo volume ha fatto, due direzioni di ricerca, con uno scavo storico sulle forme di rappresentazione che proceda di pari passo con le ipotesi teoriche sulle relazioni tra i due sistemi espressivi. Questo volume approfondisce le tematiche affrontate in una ricerca dedicata alle forme della divulgazione artistica nella televisione italiana, coordinata dalle cattedre di Storia e critica della televisione dell’Università Cattolica e di Arte dei nuovi media dell’Università iulm di Milano, i cui esiti sono stati presentati in una prima occasione durante il convegno Modi di vedere. Forme della divulgazione nella televisione italiana, tenutosi l’11 marzo 2014 presso la Triennale di Milano, a cura di Aldo Grasso e Vincenzo Trione.
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PRIMA PARTE IntermedialitĂ : tra arte e televisione
La strategia dell’assimilazione. Televisione contro arte Vincenzo Trione
Odio la televisione, la odio come le noccioline. Ma non riesco a smettere di mangiare le noccioline. Orson Welles
Ragghianti e la televisione In occasione del convegno dedicato alla rai come servizio pubblico (tenutosi a Roma nel 1963), Carlo Ludovico Ragghianti si interroga sui rapporti tra arte e tv. Rivelando una straordinaria apertura culturale, egli muove da una convinzione precisa: «La Televisione […] può offrire nel campo dell’educazione e della informazione artistica immense possibilità, data la coerenza tra contenuto e mezzo di comunicazione». Ci si deve difendere, però, da alcuni rischi. Innanzitutto, «la banalizzazione, la cloroformizzazione, la discriminazione, la […] gerarchia imposta e inevitabile di interessi e di valori». E, ancora: l’attitudine a «coltivare l’inerzia mentale della gente, [ad] avvalorare i suoi gusti meno sviluppati, [a] ribadire pregiudizi e forme ottuse di vita, […] [a] distrarre, [ad] alleggerire, [a] sopire e moderare». E, infine: la predilezione per gli slogan facili, per lo «standard intellettuale ed estetico». Insomma, la tendenza ad assecondare la pigrizia e la “passività” del pubblico. Solo se saprà sottrarsi alle insidiose secche del conformismo, la televisione potrà diventare «un’azienda di pubblica utilità senza profitti e con scopi di informazione rigorosamente obiettiva e di formazione etica […] e civile». E riuscirà a favorire la maturazione degli spettatori, aiutandoli a «superare condizioni di inferiorità». Ragghianti non auspica il ricorso a una divulgazione noiosa, «professorale, pedante». La tv, a suo parere, deve aprirsi a una «pluralità di voci, di spiriti, […] di interessi e di temi». Deve soprattutto imparare a mediare: solo così potrà avvicinare a questioni e a temi alti. «Ammettiamo pure l’esigenza di una mediazione per molti problemi o argomenti che siano di meno frequente pratica nel pubblico. Ma altro è studiare soluzioni adeguate per la comunicazione […],
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· Arte in tv ·
e altro è farsi un precetto invariabile di obbedire alla pigrizia o alla passività di certa gente. […] Perché non provare a mediare, a saper mediare, con le forme da sperimentare e da accogliere come le più redditizie, contenuti più validi, attivi, stimolanti, capaci di concorrere all’elevazione degli individui?»1
Mediazione Potremmo muovere dalle parole di Ragghianti per riflettere, in una prospettiva contemporanea, sulle forme del dialogo tra arte e televisione, concentrandoci sul contesto italiano.2 Cosa accade quando questi due “dispositivi” entrano in contatto? Cosa cede l’uno all’altro? Come si “parlano”? In che maniera si arricchiscono oppure si indeboliscono reciprocamente? Come le diverse identità si trasformano? In che modo ciascun linguaggio riesce a rimanere se stesso e, insieme, a diventare altro da sé? Una volta, per incontrare l’arte, bisognava viaggiare tra cattedrali, chiese e musei. Poi, ci sono state gallerie, fiere, biennali. Dopo, è arrivata la televisione. Che ha reso tutto più agevole. Possiamo rimanere nelle nostre case, accendere la tv e vedere tanti programmi (spesso di taglio monografico). Tutto più comodo e meno faticoso. Siamo nel tempo dell’arte a portata di telecomando.3 18
Ma, quando pittura, scultura, architettura, design e moda entrano nel piccolo schermo, si determina un processo complesso, che potremmo articolare in due momenti. In una fase iniziale – come sostiene Ragghianti – c’è la mediazione. Poi, l’assimilazione. Dunque, la mediazione. Che è feedback, scambio, confronto. Sforzo per definire un’area comune, per costruire un punto di convergenza, per indicare interazioni e intese, per suggerire negoziazioni e patteggiamenti. All’inizio, ci sono due spazi diversi e disgiunti. Al termine, assistiamo all’affiorare di un territorio unico, all’interno del quale confluiscono due discipline autonome. Una specifica esperienza – quella artistica – trasmigra dai suoi consueti ambiti (musei, gallerie) verso un’altra geografia: la tv, appunto. Si tratta di una ri-locazione. Ovvero, di uno spostamento teso a ri-situare alcuni eventi dentro una costellazione fisica e tecnologica differente. Quando sono spostati al di fuori dei loro recinti, quegli eventi vengono ri-semantizzati, ri-simbolizzati. Acquisiscono ulteriori possibilità espressive, inesplorate dimensioni, inattese funzioni. Ma perdono anche qualcosa di se stessi. Si genera un gioco di permanenze e di rimodulazioni: l’arte viene riproposta “quasi” alla stessa maniera. Alcuni aspetti restano, altri svaniscono, altri ancora emergono. «La rilocazione […] comporta […] uno spostamento che nel cercare di salvaguardare il vecchio, dandogli un’ulteriore opportunità, inaugura nuovi scenari, nuovi rituali, […] nuove avventure del corpo e dello spirito.»4
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In tal senso, stimolanti alcuni rilievi di due sociologi della comunicazione statunitensi, Jay David Botler e Richard Grusin, i quali hanno descritto la mediazione (anche se preferiscono parlare di remediation) come una pratica della presa in prestito, del rimodellamento, del riposizionamento, della ridefinizione. «Il nuovo medium può rimediare cercando di assorbire completamente il medium più vecchio, così da minimizzare le discontinuità tra i due. Lo stesso atto di rimediazione […] assicura che il vecchio medium non possa scomparire del tutto; il nuovo medium rimane dipendente dal vecchio sia consapevolmente che inconsapevolmente.»5
Riduzione culturale Siamo dinanzi a una disinvolta strategia di trasformazione. Si assume una determinata materia prima (l’arte), la si lavora, la si rende piana e senza spigoli, e la si confeziona in «eleganti prêt-à-porter […] per lo svago».6 A tal fine, bisogna innanzitutto effettuare una sorta di riduzione culturale. Evitare i trucchi del «difficilese».7 Non ricorrere agli imbrogli delle discussioni criptiche, oscure, specialistiche, solo per iniziati o per addetti ai lavori. Né indulgere in una «volgarizzazione acritica e livellatrice a uno stadio medio o addirittura basso del sapere». E neanche edulcorare le difficoltà che esistono nel penetrare tra i simboli e i misteri celati nelle pieghe di un quadro, di una scultura o di un’installazione. Ma smantellare un intero edificio di giochi retorici, parlare delle opere d’arte con un linguaggio chiaro, diretto, fruibile da tutti. Tradurre, riassumere, fare perifrasi, porsi in ascolto delle «indicazioni […] offerte dai valori-interessi del grande pubblico, di cui tutti facciamo parte».8 Semplificare. Riportare i fenomeni artistici alla loro struttura: provare a «far entrare il mare in un bicchiere» (Italo Calvino).9 Per disegnare così un circuito virtuoso: «Una situazione in cui il meglio della cultura tradizionale qualifichi quella di massa e reciprocamente la vitalità di questa, da accogliere senza preconcetti, conferisca nuove spinte, innesti, […] una nuova linfa alla prima».10
Tra divulgazione e pubblicità Talvolta, è nobile il fine della mediazione. Si tratta di un momento che tende a soddisfare un sempre più diffuso bisogno di conoscenza e di comprensione: mira ad appagare la crescente domanda di partecipazione e di acculturazione da parte del pubblico. E, pur se in maniera spesso implicita, indica il bisogno di sottrarsi a certe consuetudini care ad ampie regioni della critica d’arte di oggi, la quale sembra aver smarrito la sua funzione di accompagnamento: non aspira più a rispondere alla decisiva domanda del pubblico che, di fronte a tante
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installazioni contemporanee, si chiede “cosa significano?”, ma si smarrisce tra slogan vuoti e iperconcettualismi effimeri. Nel dialogo con pittura e scultura, la televisione sembra riscoprire la sua antica vocazione pedagogica: offre strumenti per aiutare a capire meglio la lingua cifrata dell’arte – i suoi enigmi, i suoi anfratti. Aspira a farsi «buona maestra»:11 vuole insegnare. Oscillando, però, sempre tra divulgazione e pubblicità. Mentre la divulgazione è un rito di formazione che richiede durata e approfondimento e si alimenta nel tempo, serve a incrementare la crescita morale, civile e politica del pubblico e ne promuove lo sviluppo dello spirito critico, la pubblicità è stratagemma antieducativo e propagandistico, perché mira esclusivamente all’affermazione di figure impegnate a consolidare la loro ascesa con l’ars retorica, ed è «manifestazione dell’infotainment massmediatico, il cui scopo è di aumentare il capitale di visibilità di chi partecipa ai talk show a scapito […] del sapere».12
Assimilazione Sulla soglia tra divulgazione e pubblicità, la tv compie una sottile violenza. È costretta a prescindere dal proprio della pittura – che è fitta drammaturgia di punti e di linee su una superficie – per fare della pittura stessa un’occasione 20
letteraria. Ricorre a una traduzione degli oggetti visivi, che subito ne modifica l’identità. Nell’attingere ad alcuni espedienti in fase di post-produzione – montaggio, sonoro – narrativizza i contenuti, cercando di renderli accessibili a tutti. Tratta l’arte come traccia da cui partire per modellare esercizi affabulatori. Ne trae fabulae segnate da personaggi, da ruoli, da mitologie, da motivi e da trame, con forti connessioni con le forme e i modelli storici e psicologici di una determinata società.13 Infine, la televisione si fa pratica dell’assimilazione. Tende a ricondurre ogni esperienza dentro la griglia della sua discorsività. Si appropria di tutto quel che incontra, e lo attrae a sé – trasformandolo in un suo prodotto. Parla sostanzialmente solo di se stessa – e mostra esclusivamente se stessa. Riprende ciò che è fuori di sé, e se ne impossessa: per enfatizzarlo a dismisura e riproiettarlo sulla communitas che si specchia nel piccolo schermo, in un processo infinito. «Non importa cosa dica e di cosa parli (anche perché il pubblico con il telecomando decide quando lasciarla parlare e quando passare a un altro canale). Essa per sopravvivere a questo potere di commutazione cerca di trattenere lo spettatore: dice io sono qui, io sono qui e io sono con te.»14 Lungi dal farsi piegare alle esigenze di altri dispositivi, infatti, la tv non è solo un deposito di immagini e di parole. Certo, è un mezzo di comunicazione totale, inserito in un sistema mediale complesso, capace di assorbire spunti dall’esterno e di influenzare in maniera decisiva la nostra quotidianità. Uno
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strumento che, nell’assumere artifici propri di altri linguaggi (letteratura e cinema) – narrazione e rappresentazione audiovisiva –, combina e distribuisce immagini, suoni, prodotti, eventi, situazioni. Un fenomeno sociologico, prodigioso nell’istituire bisogni e tendenze, gusti e propensioni, schemi di reazione e modalità di apprezzamento, «determinanti ai fini dell’evoluzione culturale, anche in campo estetico».15 Ma la tv ha anche proprie regole, una sua sostanza grammaticale, una sua “vocazione”. In possesso di una struttura e di una scrittura autonome, custodisce specifiche modalità formali. Sono «suggestioni neglette che aspettano solo di essere colte, come un grumo che per sciogliersi ha bisogno di collegamenti, di effrazioni, di vorticose combinazioni».16 Ingranaggio che tende a ricondurre ogni materia dentro la sua sintassi, la televisione parcellizza argomenti, dando voce a un desiderio diffuso di spettacolarizzazione e assecondando le esigenze della società dei consumi. Con l’intento di catturare l’attenzione, adotta opzioni comunicative e stratagemmi testuali nei quali mescola buona fede e vanità, intenti didattici e mercantili.17 Ci appare, perciò, come un medium ambiguo. Per un verso, si china sull’oggetto che si propone di mediare: sembra limitarsi a “riferire”, a “dire qualcosa” a proposito di un quadro, di una scultura o di un’esposizione. Per un altro, «si ispira a logiche e a normative che fanno parte del sistema comunicante, che godono di una loro autonomia e che, quindi, possono anche prescindere dall’organizzazione […] sostanziale del referente al quale il discorso rinvia».18 Immersa in quell’immenso blob che è la programmazione televisiva, l’arte smarrisce la sua aura; viene inglobata; entra a far parte della quotidianità degli spettatori. Evapora in una sorta di impero dei segni privo di ordini e di gerarchie. Si dissolve in un flusso indistinguibile e continuo: sempre acceso, a disposizione di tutti.
Oltre accademismo e banalizzazione Nel momento in cui si fa esercizio dell’assimilazione, la tv deve proteggersi da alcuni rischi. Da un lato, l’accademismo: lo specialismo eccessivo. La tendenza a riproporre i modelli della paleotelevisione: da L’Approdo (ideato da Adriano Seroni e da Leone Piccioni e andato in onda in radio dal 1944 alla metà degli anni cinquanta) ad alcuni classici della bbc degli anni settanta (come The Shock of the New di Robert Hughes e Ways of Seeing di John Berger). Evidenti, in alcuni episodi attuali, anche i richiami alla rete franco-tedesca arte. A questi exempla si riferiscono molte trasmissioni sull’arte andate in onda in Italia.19 Nella maggior parte dei casi, l’impressione che se ne ricava è quella di buone operazioni di cornice, spesso prive di originalità linguistica. Si tratta di programmi che affrontano le
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problematiche culturali con un certo sussiego, ricorrendo a strategie addirittura antitelevisive: sembrano quasi declinazioni ulteriori delle lezioni universitarie. Aspetti distintivi: documentarismo oggettivo, assenza di ritmo, montaggi tradizionali, narrazioni molto rispettose. Dall’altro lato, le banalizzazioni: le semplificazioni grossolane. Il desiderio di rendere tutto semplice, lineare, comprensibile, favorendo il trionfo di un’insostenibile, sfacciata e “amicale” divulgazione. Le ragioni principali di questo degrado erano già state colte da Ragghianti, secondo il quale, sin dalla nascita della tv, si è insinuata un po’ ovunque «una convinzione tanto ferma, sicura e irremovibile quant’è assolutamente e dolorosamente infondata, che d’arte si intendono tutti e che non c’è bisogno perciò di una preparazione o di una competenza, come per le scienze».20 Sempre più spesso, assistiamo al trionfo di un pervasivo “facilese”. Siamo vittime di un eccessivo “riduttivismo culturale”, che porta a trattare l’arte come mero pretesto per dar vita ad altre pratiche retoriche, governate dalla logica dell’intrattenimento e della spettacolarizzazione. Del resto, come è stato scritto da Perniola, la comunicazione in sé è l’opposto della conoscenza: «È nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti». Tende a adeguarsi ai riti della fatuità, della frivolezza, della superficialità. Insomma, tende a nau22
fragare nell’entertainment effimero.21
Presenze corsare Per non farsi contagiare da accademismi e da banalizzazioni, bisogna inventare una sintassi televisiva capace di raccontare la cultura in maniera innovativa. A questa necessità aveva alluso Pier Paolo Pasolini, il quale, in un articolo sulla tv del 1973, invitava ad abbandonare la logica sottesa alla maggior parte dei programmi culturali: «Gli italiani se mai li hanno scoperti, possono oggi riscoprire i libri. Io […] sfido i dirigenti della televisione a dimostrare la loro buona fede e la loro buona volontà, attraverso un lancio della lettura: da non relegare ai programmi culturali, alle trasmissioni privilegiate: ma da organizzare mettendo ogni sera Carosello e le altre trasmissioni analoghe […] abbondantemente a disposizione di questo nuovo compito».22 Potremmo convenientemente partire dalla provocazione pasoliniana per riflettere sulle diverse strategie possibili per far entrare l’arte in televisione. Mentre risultano poco efficaci le trasmissioni monograficamente dedicate alla pittura, più stimolanti sono i contesti nei quali la pittura stessa penetra in maniera quasi corsara, senza rivolgersi solo a un pubblico specialistico. Si fa presenza inattesa e trasversale all’interno dei palinsesti delle reti generaliste: «Non un contenuto ma un modo di fare».23 È quel che è accaduto con le incursioni di Federico Zeri, il quale, negli anni novanta, a Mixer, spiegava l’arte classica
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con maestria e ironica cattiveria; e con le lectures di Vittorio Sgarbi che, al Maurizio Costanzo Show, dava parola a quadri e sculture, saldando rigore filologico e capacità scenica, passione e finezza interpretativa.24 Episodi diversi. Accomunati, però, dalla scelta di portare i discorsi sull’arte dentro contenitori più ampi. Assecondando un orientamento sempre più diffuso nella neotelevisione, nella quale si eliminano le scansioni tematiche tradizionali; sfumano le nette suddivisioni tra i generi; si dissolvono i confini tra alto e basso (cronaca, attualità, cultura); si sommano contenuti diversi; si impone una continuità dove tutto si mescola, un flusso comunicativo che tende a omogeneizzare ogni singola parte.25
Il caso Zeri Tra i primi ad aver compreso questo indirizzo è stato Federico Zeri, uno dei migliori “mediatori” dell’arte in tv. Tra le personalità più controverse e contraddittorie della storia dell’arte italiana del secondo Novecento, Zeri è stato tanti personaggi insieme. Erudito e polemista, difensore del nostro patrimonio artistico e culturale. Esperto di botanica e provocatore televisivo. Epigrafista e appassionato di filatelia. Severo studioso e ironico conversatore. Intellettuale generoso e narcisista. Curatore di rigorosi cataloghi ragionati e autore di gialli (Uno sguardo indiscreto, con Carmen Iarrera) e di libri di divagazioni (Sbucciando piselli, con Roberto d’Agostino). Silenzioso esegeta di eventi dimenticati e consigliere di potenti. Monacale e istrionico. Imperatore della monumentale villa di Mentana e frequentatore della nobiltà. Erede della tradizione dei “conoscitori” (da Cavalcaselle a Morelli, da Toesca a Berenson), è stato un outsider, il cui itinerario si è svolto lontano dai luoghi istituzionali: fuori dalle università, dalle soprintendenze, dai musei. Un isolato, per scelta. Un ribelle, per necessità. Che ha ritagliato per sé una posizione «non conformista, non legata al potere politico, e non vincolata da intrighi».26 Per Zeri parlare di un quadro non è un esercizio letterario (alla Longhi), né uno spunto per elaborare teorie (alla Venturi o alla Argan). È disciplina dell’osservare, restituzione della (presunta) verità del testo pittorico. Rivelazione dell’inesplorato, maestria attributiva, austera frequentazione degli archivi. In questa prospettiva, lo storico dell’arte deve essere innanzitutto un connoisseur. Come un detective, rintracciare piste, saldare densità filologica e improvvisi cortocircuiti. Investigare su cosa si nasconde dietro l’immagine: decodificare il sottotesto dell’opera. Ordire puzzle indiziari dove si incrocino elementi diversi, affidandosi a una prosa asciutta, di tipo anglosassone, decisamente antilonghiana. Questo è solo il grado zero, perché non esiste un’autonoma vita delle forme, ma arte e società vanno poste in dialogo. L’obiettivo è quello di ricondurre le invenzioni pittoriche e plastiche nell’ordito di una determinata epoca, studiando
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anche gli oggetti di uso quotidiano. Zeri dirà di sé: «Mi considero più uno storico mancato che uno storico dell’arte».27 Siamo dinanzi a un irregolare anticonformista, che è stato costretto a un doloroso esilio. Le sue ricerche sono state guardate spesso con diffidenza. Nessuna cattedra (solo nel 1998 ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università di Bologna), nessun incarico pubblico (dal 1994 al 1998 è stato vicepresidente del Consiglio nazionale dei Beni Culturali). Senza dimenticare le polemiche, segnate da acredine e da invidia: nel 1957 Longhi lo “privò” del premio Viareggio (per Pittura e Controriforma). Dalla metà degli anni settanta Zeri scopre la tv. Molto sfaccettata la sua presenza sul piccolo schermo. Dalla prima uscita nel dicembre del 1974 (In difesa di…), un reportage sulla via Appia, a una serie di documentari e di talk successivi, nei quali spiega opere d’arte, parla del patrimonio italiano, denuncia il degrado in cui versano chiese, monumenti, affreschi (A tu per tu con l’opera d’arte, Arte negata, Tenera è la notte, a come arte, Monumenti terminali: intervallo tragico, Bellitalia, Mixer), per arrivare alle trasmissioni di Piero Chiambretti e di Gianni Ippoliti, dove interpreta il ruolo dell’ospite straordinario (Il laureato, q come cultura, Spazio Ippoliti).28 Frequenti le apparizioni soprattutto sin dai primi anni ottanta. È un periodo in cui Zeri avverte l’esigenza di reagire ai violenti attacchi subiti sulla stam24
pa italiana. È il 1979. L’autore di Pittura e Controriforma “assegna” al Maestro di Hartford/Caravaggio due nature morte della Galleria Borghese (esposte in una mostra romana): un’attribuzione che avrebbe inciso in maniera decisiva sulla conoscenza della formazione di Caravaggio. Sulla questione interviene, sull’Espresso, Maurizio Calvesi, il quale parla di due “quadracci” sgrammaticati. Imprevisto l’epilogo. Dopo questo articolo, il soprintendente di Roma decide di ritirare i quadri incriminati. Zeri si dichiara vittima di un attentato alla libertà d’espressione e d’informazione. E descrive un clima di intolleranza, alludendo alla sua emarginazione, determinata da “una ben nota cricca”. Sente di essere detestato per il suo essere «non conformista, non [legato] al potere politico, e non [vincolato] da intrighi». E, con toni da antitaliano, aggiunge con dispiacere misto ad arroganza: «L’Italia non mi interessa dal punto di vista culturale, tutto al contrario. Mi preme invece essere riconosciuto negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia, nelle due Germanie e in Unione Sovietica, tutti paesi nei quali la mia posizione di studioso è solida, talvolta solidissima».29 Anche per rispondere a questi attacchi, Zeri sceglie di andare in tv. La sua sfida: non farsi ingabbiare dal sistema televisivo, ma servirsene per affrontare argomenti seri, senza mai indulgere in toni paludati. Egli vuole difendere la sua identità di storico dell’arte. E, insieme, accetta di misurarsi con le regole della tv: senza alcuna supponenza. Le sue presenze rivelano indomita curiosità, finezza di sguardo, vasta cultura, conoscenze da erudito, acume attribuzionistico, spiccato senso dell’ironia e dello sberleffo, implacabile sarcasmo,
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sagace cattiveria, gusto per gli aneddoti e per le microstorie. E, al tempo stesso, abilità nell’adeguarsi ai princìpi su cui si fonda la comunicazione televisiva: chiarezza, immediatezza, sintesi. Sapiente nello sfruttare la funzione “bardica” e affabulatoria della televisione,30 Zeri ricorre a un linguaggio preciso e tagliente, asciutto e “trasversale”, facilmente comprensibile: vuole offrire il più ampio numero di informazioni possibile nel modo più piano e diretto. Dirà: «È terribile quel modo di parlare del letterato italiano! Del resto io sono del parere che l’oscurità del pensiero si riflette nell’oscurità del linguaggio».31 In tv Zeri ritorna sui temi che gli sono maggiormente cari. Vuole sensibilizzare il pubblico sul degrado in cui versano l’arte e i monumenti in Italia. Affermerà: «Mi fu proposto di apparire in tv (quella italiana è una delle più volgari e delle più demagogiche del mondo) e sono stato sedotto dall’idea di lottare contro la società dello spettacolo utilizzando le sue stesse armi. Ho nostalgia (forse ingenua) di una televisione fondata su basi culturali e intellettuali vere e solide, sul modello di ciò che sanno fare gli inglesi (anche se non vedo alcuna probabilità del genere)».32 E poi: «Perché oggi conta […] l’immagine, e la televisione ha una carica di persuasione che non hanno altri mezzi espressivi. Perché mi sono accorto che in Italia rispettano soltanto colui che è noto. Non guardano al valore della gente ma soltanto alla loro notorietà. […] All’inizio degli anni ottanta, ho dovuto farmi conoscere».33 Zeri considera la televisione non come un divertissement, ma quasi come un approdo (provvisorio). Rappresenta il luogo dove dare sfogo al suo irrefrenabile narcisismo. Ma è anche l’agorà nella quale è possibile insegnare a guardare un edificio, un affresco o un reperto. È uno spazio dove si può far capire la differenza tra un’opera vera e una falsa, con modalità da spy story. Ed è come la protesi pop dell’appassionato discorso sui beni culturali affrontato negli articoli pubblicati sulla Stampa. Per catturare l’attenzione su questioni serie e drammatiche, Zeri ricorre a una strategia straniante. Ispirandosi a un personaggio eccentrico e bizzarro come Liberace,34 indossa maschere da clown, palandrane orientali e camicioni hawaiani. Truccato da buffone, discetta di siti archeologici misteriosi, di mali culturali, di capolavori e di falsi: e lo fa in trasmissioni “serie” così come in show popolari. Dirà: «Ho sfidato il perbenismo della classe media italiana parlando alla televisione di cose serie o presunte tali mettendo abiti non ortodossi. Questa è una società conformista, per la quale il cambiamento d’abito è un delitto di lesa maestà. L’ho fatto perché volevo sondare quello che è il conformismo e la stupidità della classe media italiana. […] Volevo provocare solo curiosità».35 La sua ambizione sta nel docere delectando. Essere autorevoli, rigorosi, ma affabili, brillanti. Non ridurre mai un contenuto alto a vuota chiacchiera. Ma imparare a trasmettere tematiche complesse in maniera concisa, vivace.
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Proprio a Zeri si deve un episodio entrato a far parte della storia della televisione: la prima volta che l’arte fa audience. 1984: lo scandalo delle teste di Modigliani. Autentiche, per Argan. «A me paiono dei paracarri», replicherà Zeri. Qualcuno addirittura ipotizzò che, tra gli ispiratori di quell’affaire, vi fosse lo stesso professore. A settembre di quell’anno, il tg1 manda in onda uno speciale condotto da Alberto La Volpe. Un misto di improvvisazione e di varietà. Di fronte alle telecamere, ecco i giovani falsari intenti a replicare una nuova testa di Modì. In studio, autorevoli storici dell’arte (come Argan). Collegato dalla sua casa-regno di Mentana, Zeri, seduto in poltrona, smonta illazioni e congetture. Ma, soprattutto, riesce a trasformare una vicenda strettamente legata al mondo dell’arte in uno scandalo nazionale. Poi, verrà il tempo della disillusione. Negli ultimi anni, Zeri si allontanerà dalla televisione. Rinnegherà le sue clowneries. Dirà: «Il tempo delle buffonate è finito. È finito il tempo delle palandrane, di Ippoliti, di Chiambretti: mi ero illuso di poter denunciare qualche verità rispondendo alla degradazione e alle volgarità della scena artistica con le mascherate. Oggi deploro quella scelta. Lentamente la situazione italiana ha finito con il provocare in me una specie di paralisi, non mi sento più capace di lavorare».36
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Intraducibilità dell’arte La decisione finale di Zeri – allontanarsi dalla televisione – rivela inquietudine personale, delusione intima, desiderio di solitudine, rifiuto della società dello spettacolo. Ma sembra alludere anche a una consapevolezza più profonda: tv e arte sono destinati a rimanere due universi inconciliabili. Da una parte, la televisione. Che tende a divorare ogni contenuto. Dall’altra parte, l’arte. Che non si fa mai tradurre compiutamente. Resta “infrangibile”, indicibile, impenetrabile, impronunciabile, come “la lingua dell’Angelo”. È una sfinge che non può essere dominata, né scalfita, ma solo interrogata, ammirata. Ci sovrasta con il suo rimanere irrappresentabile. Solco del nulla, parola senza voce, costringe all’“impossibile dire”. Abita una dimensione che non accetta di farsi ridurre alla logica della fruizione televisiva, «spazialmente distratta e temporalmente puntuale». Mentre, infatti, chi guarda la tv può fare tante cose contemporaneamente – voltare la testa dall’altra parte, alzarsi, discutere, cambiare canale –, chi guarda un dipinto deve procedere diversamente. Per essere capito, quello scrigno di colori, di immagini e di figure ci impone pazienza, calma: «Un’attenzione spazialmente concentrata e temporalmente dilatata».37 Il significato di questa distanza era già stato colto con lucidità da un fine semiologo ed estetologo come Emilio Garroni, tra i primi studiosi “prestati” al piccolo schermo (Piazze d’Italia, Avventure di capolavori): «L’immagine televisiva non
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ha mai il grado di icasticità dell’immagine d’arte. Paradossalmente, la televisione è fatta più per parlare che per far vedere».38 Questo giudizio potrebbe essere collegato a quel che aveva scritto Ragghianti nell’intervento su radiotelevisione e cultura. Secondo Ragghianti, la tv, in molti casi, non agisce come un’«arte della visione»; presta attenzione quasi esclusivamente all’aspetto sonoro, «auricolare»; mentre non rivolge la dovuta importanza al potere simbolico, pervasivo, associativo e relazionale delle immagini fisse o in movimento, «adeguatamente costruite o composte». Un’osservazione che potrebbe agevolmente essere riportata anche al contesto attuale, segnato dal prevalere di trasmissioni nelle quali si discute di arte, ma si mostrano poco quadri e sculture.39 Osservava ancora Ragghianti: «Alla Televisione si parla molto di più di quel che non si veda, in fatto d’arti, e la documentazione visiva offerta o è povera, generica, monotonamente presentata, o addirittura è fatta in tal modo, da preferire niente». È come se non si riuscisse a comprendere fino in fondo la «capacità intrinseca del linguaggio visivo di realizzare pienamente molte attività della coscienza, di realizzarle esaurientemente senza necessari interventi verbali o auditivi».40
Mediatizzazione Dunque, arte non versus ma contra televisione? Per rispondere, potremmo ritornare ancora alla lezione di Zeri, il quale è stato tra i pochi ad aver compreso che l’unico modo per parlare di arte in tv consiste nel pervenire alla sintesi tra mediazione e assimilazione: ovvero, alla mediatizzazione.41 Intanto, occorre non parlare mai della pittura in sé, ma descriverla come una “cosa” che intrattiene strette relazioni con altre “cose”, con persone, con eventi, con contesti. Raccontarla non come elemento di curiosità turistica, ma come “momento” estratto da un’epoca, da una società. Suggerire il mood nel quale è stato concepito un determinato quadro. E ripercorrere la vita del pittore e dello scultore: le sue frequentazioni, il suo gusto, la sua posizione. Inutile dedicarsi a spiegazioni troppo particolareggiate. Non bisogna entrare nei dettagli, che richiedono un’ampia rete di approfondimenti e di conoscenze. Ci si deve limitare a offrire alcune informazioni indispensabili e pochi concetti essenziali. Non pretendere di risolvere per intero il senso dell’opera di un artista. Ma, soprattutto, alludere ad altri universi: a piani ulteriori. Lasciar intravedere dimensioni e problemi. Dare stimoli. Indicare ordini di grandezze. È come se si volesse mostrare la meraviglia di un paesaggio, colto nel suo insieme. Poi, se vorrà, ognuno potrà andare a studiare alberi, piante, foglie. Bisogna affidarsi all’artificio dell’evocazione: produrre “equivalenti verbali” per farsi capire meglio. Spiegare con parole facili costruzioni immaginarie
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articolate, lasciando però intuire la presenza di piani e di livelli che richiedono interpretazioni più sofisticate. Alimentare rimandi, connessioni possibili. Dischiudere sentieri. Insinuare dubbi, suggestioni. Lasciare intravedere problemi, senza mai pretendere di risolverli, «sapendo che al nocciolo […] si arriva per ben altre e più difficili strade».42 In tal senso, illuminante un rilievo di Beniamino Placido, secondo il quale ogni divulgazione è innanzitutto una forma di traduzione imperfetta. E, insieme, è un modo per rinviare ad altro: per alimentare emozioni, meraviglie, stupori. Non per saziare, ma per affamare. Non per spegnere, ma per accendere l’interesse.43 E per suscitare stimoli, che conducano il telespettatore al cospetto dell’opera “vera”. Perché, certo, la tv può dare l’illusione di sapere qualcosa in più su un affresco di Michelangelo, su un dipinto di Picasso o su un’installazione di Hirst o di Cattelan. Ma assolve alla sua funzione solo se si fa strumento “mediale”. Se arriva, cioè, a disegnare una dinamica rete di relazioni e di opportunità. E se riesce a sollecitare gli spettatori a “incontrare” davvero quell’affresco di Michelangelo, quel dipinto di Picasso o quell’installazione di Hirst o di Cattelan. La televisione non deve mai privarci del piacere che possiamo trarre solo dalla visione dal vivo dell’arte. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che la 28
scoperta di un quadro non potrà mai essere sostituita da nessuna replica: per capire i rapporti tra le figure, le sfumature dei colori e la modellazione della materia, non è sufficiente alcuna riproduzione. Nessun supporto tecnologico potrà mai appagare quella che resta la nostra felicità più intensa. Stare di fronte all’opera. Guardarla con calma. Da soli. In silenzio. E, poi, tornare a osservarla. Solo così si riveleranno a noi particolari cifrati, dettagli enigmatici. E potremo provare a sfiorare quell’insondabile “mutismo loquace” dentro cui è avvolta ogni autentica creazione artistica.
L’arte in quiz Martina Corgnati e Giuliana Caterina Galvagno
Il telequiz rappresenta sicuramente uno dei generi – se non “il” genere più rappresentativo – del linguaggio e della testualità televisiva. A partire dal 26 novembre 1955, l’Italia trova la sua via peculiare al telequiz con Lascia o raddoppia?, che consegnerà all’immaginario popolare una serie di personaggi, “caratteri” ed eroi, fra cui spicca, più di tutti gli altri, Mike Bongiorno, vero signore del genere, padrone di casa e cerimoniere, orchestratore degli elaborati riti che investono vallette, notai e concorrenti. Nella programmazione della televisione ai suoi esordi, volta da un lato a educare il pubblico e dall’altro a giustificare se stessa come mezzo di comunicazione autorevole, anche un programma leggero o di evasione come il telequiz non mancava di rivolgere al pubblico nazionale un invito ad acculturarsi, almeno in senso scolastico e nozionistico. Agli occhi dei telespettatori, l’istruzione diventava qualcosa che poteva dare frutti non solo negli ambienti accademici, ma anche nell’immaginario quotidiano alla portata di tutti, garantendo ai migliori denaro e fama. La televisione “maestra” non solo insegnava e voleva contribuire a costruire un’identità e una lingua nazionale, ma per fare questo elevava a modello per gli spettatori i “primi della classe” attribuendo loro premi invidiabili e creandone l’immagine da veri e propri “divi” del teleschermo. La storia dell’arte veniva a rientrare così in quella vasta e democratica enciclopedia di soggetti con cui i concorrenti di tutti i quiz dovevano confrontarsi, sia nella forma di semplici domande di cultura generale, sia in quella specialistica della conoscenza approfondita di un singolo argomento, dalla vastità a tratti addirittura vertiginosa agli occhi del pubblico. Veniva così infranto il muro che fino a quel momento aveva costretto l’arte esclusivamente all’interno della divulgazione culturale, per anni presente nella programmazione sotto forma di qualche volenteroso, e spesso noioso, documentario, pur affiancato da eccellenti rubriche culturali. Arte e paesaggio del 1959, per esempio, a cura di Giorgio Ponti e Sandra Orienti, consisteva in un’indagine sui paesaggi immortalati da quadri celebri, come le vedute veneziane di Canaletto o la via Toscanella di Ottone Rosai. I momenti dedicati all’arte in Arti
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e scienze, a cura di Carlo Mazzarella, sempre a partire dal 1959, ospitavano anteprime sulle mostre e interviste ai pittori. Fra tutti il più celebre, L’Approdo, andato in onda dal 1963 al 1972, riproponeva sullo schermo una cultura da salotto, posata e gradevole, o in ultimo, Le tre arti, rassegna di pittura, scultura e architettura, andata in onda dall’autunno del 1955, che dava spazio anche alle novità che apparivano sulla scena dell’arte contemporanea italiana. La struttura di Lascia o raddoppia?, ispirata all’americano The $64,000 Question, riveduta tuttavia nell’adattamento francese Quitte ou double? di cui assumeva il titolo, trovò in Italia una lettura particolare e autonoma. La specificità della versione italiana, accanto all’aspetto strettamente ludico, risiedeva nell’ampio spazio concesso in ogni puntata alla “messa in scena” dei concorrenti, che diventarono ben presto veri e propri divi, personaggi in cui il pubblico era incoraggiato a riconoscersi, scoprendone anche voyeuristicamente mestiere, vita privata, famiglia, passioni. Alcuni erano resi celebri dalla loro preparazione, altri dal loro aspetto, come il dandy torinese Marianini, che rispondeva in un italiano forbito e desueto a domande sulla moda. Inizialmente il regolamento del quiz prevedeva che i concorrenti scegliessero la materia di competenza in una rosa limitata ma varia di argomenti: fila30
telia e numismatica, moda, gastronomia, atletica, scienze fisiche e naturali, teatro di posa, teatro di rivista e varietà, letteratura italiana, storia d’Italia, ciclismo, musica lirica, musica sinfonica e da camera, musica leggera e jazz, cinema, calcio e arti figurative. Un mix che effettivamente non faceva distinzioni tra cultura alta e cultura bassa, che equiparava la preparazione sulla cucina regionale abruzzese a quella sul cinema espressionista tedesco, il ciclismo alle belle arti. Bernini e Borromini come Coppi e Bartali, insomma. In seguito però, anche per andare incontro alla necessità sempre più marcata di spettacolarizzazione, la scelta fu lasciata libera, permettendo ai concorrenti di presentarsi sulle materie più disparate, dalla fisica nucleare all’erpetologia,1 e aprendo così la strada a partecipazioni inattese o improbabili, come quella del musicista John Cage, che, presentatosi a rispondere a domande sulla micologia, si ritrovò a eseguire una delle sue composizioni di musica concreta di fronte all’attonito Mike Bongiorno, mettendo insieme, nelle parole del Radiocorriere dell’epoca «un complesso formato da un pianoforte, due radio, un frullatore, un innaffiatoio, un fischio, un gong, un bollitore».2 Anche la struttura delle domande si fece sempre più complessa: prevalgono le domande aperte che richiedevano al concorrente di fornire molte informazioni in un’unica risposta. Nel meccanismo del gioco, le risposte esatte permettevano, a partire da una base di duemilacinquecento lire, di raddoppiare di volta in volta la vincita, rispondendo a otto domande nella prima puntata che si riducevano nelle puntate
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successive a un solo quesito, con cui il concorrente doveva cimentarsi nella cabina insonorizzata, mantenendo così più a lungo tesa e concentrata l’attenzione del pubblico. Ai premi in denaro, o meglio, in gettoni d’oro, si affiancavano anche beni di consumo: automobili, come la mitica 600, o la 1400 destinata ai concorrenti che fossero “caduti” proprio l’ultima sera, quando, rispondendo correttamente a tre domande, potevano aggiudicarsi il premio massimo di 5.120.000 lire. Le arti figurative, tuttavia, sembra non incontrassero il favore del pubblico e degli aspiranti concorrenti italiani: infatti, nelle prime quaranta puntate, andate in onda dal novembre 1955 al 30 agosto 1956, a dimostrazione di questo apparente disinteresse, solo sette dei novanta concorrenti a Lascia o raddoppia? si presentarono sull’arte nelle sue possibili declinazioni di pittura, scultura o architettura. Uno di questi, tuttavia, l’impiegato Luciano Zeppegno, fu il primo ad arrivare alla prova finale il 1° marzo 1956, rispondendo a domande sull’architettura italiana dal Trecento al Settecento. A dimostrazione ulteriore di come i protagonisti di Lascia o raddoppia? godessero di un’ampia fama televisiva, è il fatto che lo stesso Zeppegno sarebbe divenuto in seguito, a partire dal 1961, conduttore e autore con Anna Ottavi di alcuni programmi televisivi di divulgazione artistica come Visita di dovere o Passeggiate europee. Tra gli ospiti del programma, accanto a volti noti del cinema, della televisione o della musica, era possibile trovare anche celebri pittori come Enrico Paulucci o Felice Casorati, quest’ultimo grande rappresentante soprattutto della Metafisica e di Novecento italiano, mentre il primo era stato un esponente del Gruppo dei Sei e fra i più apprezzati pittori torinesi del secondo dopoguerra. Costoro nel settembre del 1957 presentarono i propri quadri all’improvvisata critica di Filiberto Menna, medico chirurgo di Roma, esperto conoscitore della pittura contemporanea. La formula fortunata di Lascia o raddoppia?, andato in onda fino al 1959, non venne ripetuta negli anni successivi, quando nei quiz incominciò a essere prediletta una conoscenza piuttosto “massmediatica” rispetto a quella accademica, innestando le domande di cultura generale su una struttura che comprendeva varie prove, anche fisiche. È il caso di Telematch, andato in onda dal 6 gennaio 1957 al luglio 1958, condotto da Enzo Tortora con Silvio Noto e Renato Tagliani. Oltre al gioco dei mimi e al celebre “oggetto misterioso”, tra le domande a cui doveva rispondere la “mente” della coppia in gioco, capitava di passare di settimana in settimana dalla musica sinfonica e lirica alla pittura italiana del Quattrocento.3 Ma l’approccio didattico al telequiz trovava in questi anni la sua espressione più esplicita nel quiz rivolto ai ragazzi, offerto come integrazione e complemento “leggero” alla programmazione di Telescuola. Nel celebre Chissà chi lo sa, ideato da Cino Tortorella e condotto da Febo Conti, in onda dal luglio 1961 al giugno
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1972, al grido di “Squillino le trombe, entrino le squadre” prendeva il via una gara tra gli allievi di diverse scuole su varie materie, che lasciava ampio spazio anche al varietà con ospiti in studio. Uno dei primi tentativi di costruire un quiz monotematico, incentrato esclusivamente sull’arte e le bellezze architettoniche del paese, risale invece al 10 dicembre 1961, giorno in cui debuttò alle 19.35 Itinerario quiz. Viaggio a premi attraverso l’Italia condotto da Edoardo Vergara Caffarelli, per la regia dello specialista Piero Turchetti e con testi di Renzo Nissim. In questo caso, il concorrente non doveva dare sfoggio di competenza su uno specifico tema, bensì dimostrare di conoscere a fondo il territorio di una regione. A partire dalla prima puntata dedicata all’Umbria, il giocatore doveva rispondere alle domande che il conduttore, seduto con lui in un’automobile ferma in studio, gli avrebbe rivolto sulle regioni facenti parte di un viaggio virtuale, trasmesso su alcuni schermi. Il telequiz A che gioco giochiamo?, condotto da Corrado con l’attrice Valeria Fabrizi a partire dal 27 febbraio 1969, riportava invece l’arte figurativa in prima serata, questa volta sul Secondo programma. Nel gioco, due coppie di concorrenti dovevano ricomporre un quadro famoso come fosse un puzzle indovinandone poi l’autore e svelando così la presenza di una cassaforte che, se aperta, avrebbe fatto vincere ai partecipanti il premio finale. Le coppie in gara cambiavano di settimana in settimana, perché solo i concorrenti più bravi di ogni coppia ve32
nivano confermati andando a formarne una nuova. L’aspetto più interessante del format, tuttavia, è che al duo vincente della prima fase di gioco veniva dato in premio non solo un milione in gettoni d’oro ma anche un’opera d’arte, spesso una litografia, di un autore contemporaneo. L’arte passava in questo caso da oggetto di conoscenza a oggetto di valore da attribuire come premio. Sul finire degli anni sessanta, però, il quiz sembrava aver perso la sua attrattiva nei confronti del pubblico e il genere iniziava a esprimersi in forme sempre più ibride in cui prevalevano la conoscenza generica e il varietà. I pochi esempi di quiz tematici si concentrano su argomenti leggeri quali il ciclismo, con Ciao mamma (1968), condotto dal campione Vittorio Adorni, o addirittura il codice della strada con Chi ti ha dato la patente? (1967). La struttura di Lascia o raddoppia?, in cui la competenza specifica su una materia si sposava alla personalità del concorrente, ritornò alla ribalta a partire dal 5 febbraio 1970 nel Rischiatutto sempre sul Secondo programma. Nel quiz, condotto nuovamente dall’insostituibile Mike Bongiorno, i concorrenti conquistavano un patrimonio iniziale rispondendo a una serie di dieci domande su una materia a scelta, per poi “rischiare” quanto accumulato rispondendo alle domande di un tabellone diviso per aree: storia, letteratura, sport, musica classica e leggera, attualità e cinema, fino alla domanda finale, di nuovo attinente alla materia prescelta su cui era puntato tutto il montepremi. Il quiz, di impostazione sicuramente più moderna e dinamica rispetto a Lascia o raddoppia?, si
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avvaleva anche di contributi sonori e visivi proiettati su uno schermo; ma, anche in questo caso, tra le materie dominava la musica e l’arte era scelta da pochi concorrenti. Il più fortunato fra questi, lo studente di Correggio Gian Paolo Lusetti, che si presentava sulla pittura italiana del xv e xvi secolo, fu però colui che sconfisse il medico Massimo Inardi, il concorrente che fino ad allora aveva vinto di più nella storia del telequiz, aggiudicandosi ben trentasette milioni e cinquecentomila lire. Un capitolo a parte sembra occupare in questa breve rassegna il quiz Scommettiamo?, sempre di Mike Bongiorno e Piero Turchetti, andato in onda a partire dal 16 dicembre 1976. In esso, accanto alla gara tra i concorrenti ispirata alle scommesse ippiche, era prevista la partecipazione del pubblico da casa, che era sollecitato a dare un pronostico sulla vittoria del campione della serata attraverso l’invio di una cartolina (ne furono spedite oltre due milioni). Il meccanismo di gara era costruito in turni progressivi, in cui i sei campioni selezionati nelle singole puntate si contendevano i tre posti della finale. All’interno della terza stagione del programma, terminata bruscamente4 il 21 dicembre 1978, il passaggio alle trasmissioni a colori avvenuto nel gennaio di quell’anno permise di inserire un momento dedicato a un “concorso di pittura” riservato ai telespettatori, invitati di settimana in settimana a indovinare e ritrarre un ospite misterioso e inviare le proprie opere in trasmissione. Un artista di fama avrebbe scelto il vincitore a cui sarebbe andato in premio un televisore, ovviamente a colori. Tra i giudici erano così passati artisti come il popolare pittore Salvatore Fiume che, in occasione della sua partecipazione al quiz, oltre a giudicare il migliore fra i ritratti del calciatore Sandro Mazzola, presentò anche il suo progetto di una basilica della Resurrezione, da realizzarsi a Roma nella zona dell’eur.5 Scommettiamo? aveva visto all’opera anche illustratori di fama come Giaci Mondaini, chiamato a giudicare tre ritratti della figlia Sandra, o persino Gina Lollobrigida, non in veste di attrice bensì di fotografa, che valutò tre ritratti della cantante Iva Zanicchi. In Scommettiamo?, l’arte, seppur relegata ad argomento di cultura generale, conquistava così uno spazio particolare grazie proprio alla partecipazione del pubblico, che aveva l’occasione di vedere le proprie “opere”, frutto spesso di un semplice hobby, giudicate da artisti veri e propri. Negli anni settanta il gusto del telequiz, che apparentemente aveva perso posizioni nei palinsesti della rai, ritrovò però nuova forza grazie alle televisioni commerciali, che attribuirono al genere un ruolo centrale, seppur di solito limitato a giochi brevi e veloci, basati su domande molto semplici. Tuttavia, a partire dal 1° ottobre 1987 su Canale 5 con Telemike, Bongiorno tornò alla formula fortunata del quiz specialistico affiancato a domande di cultura generale e giochi con collegamenti in esterna. Le materie scelte dai concorrenti però, lontane da quelle istituzionali di trent’anni prima, vertevano su argo-
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menti più leggeri ma certamente più stuzzicanti per il pubblico, come la letteratura erotica o il gioco d’azzardo. Significativo il fatto che, come riferiva Beniamino Placido sulla Repubblica, la sera del debutto Telemike andò a scontrarsi, vincendo ampiamente il confronto degli indici d’ascolto, con Immagina, una trasmissione di Brando Giordani e Paolo Giaccio con la consulenza di Omar Calabrese, in onda su rai1, che voleva esplorare «i segni e i sogni del nostro tempo, dominato dall’immagine»,6 mostrando al pubblico del giovedì sera le sculture viventi di Fabrizio Plessi. Gli anni ottanta si chiudevano così con il trionfo e il declino definitivo del quiz in prima serata. Negli anni successivi si assisteva al disperdersi e frammentarsi del genere all’interno dei programmi più disparati, che coltivavano il contatto con il pubblico a casa proprio attraverso il gioco a premi, spesso finanziato dal generoso sponsor, nuovo protagonista della tv. Il quiz televisivo oltrepassava quotidianamente lo schermo e permetteva a chiunque di essere protagonista, senza sublimare più la propria partecipazione nelle gesta del concorrente preferito, ma venendo direttamente interpellato grazie al telefono. A partire dagli anni novanta, infine, il quiz trova la sua definitiva collocazione nella fascia preserale, diventando anche cruciale elemento di traino per l’audience del telegiornale a seguire. Il moderno quiz rispecchia la sua formu34
lazione universale nel format di maggiore successo internazionale, ovvero Chi vuol essere milionario? (2000), e non lascia spazio a una conoscenza specialistica. La difficoltà crescente delle domande a cui è chiamato a rispondere il concorrente in un test a risposta multipla determina un mix di ragionamento, fortuna o caso che non rispecchia necessariamente una competenza diversa dal fatto di conoscere a fondo le regole del gioco.
Artecittà: indovina il patrimonio culturale italiano Nel passare in rassegna alcuni dei momenti più importanti in cui arte e quiz hanno incrociato il loro percorso all’interno della programmazione televisiva italiana, abbiamo sin qui tralasciato il primo e finora unico quiz dedicato esclusivamente alla valorizzazione del patrimonio artistico del paese. Andato in onda per la prima volta il 24 ottobre 1979, Artecittà – Gioco come cultura era di nuovo «un gioco a premi che intendeva proporre il ritratto di alcune città italiane attraverso i momenti più importanti e caratteristici della loro storia artistica, e intendeva altresì introdurre il pubblico, per mezzo delle domande poste ai concorrenti, alla lettura e all’interpretazione di un quadro».7 Ideato e diretto da Maurizio Corgnati, grande amatore e appassionato d’arte, il quiz andava in onda alle 13.00 sulla Rete 1, subito prima delle notizie meteorologiche e del telegiornale, rivolgendosi quindi a una fascia di pubblico familiare e popolare, fra cui, considerato l’orario, una larga componente femmi-
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nile. Dopo una prima stagione di diciotto puntate, in onda tra il 1979 e il 1980, la trasmissione raggiunse un discreto indice d’ascolto che si aggirava intorno al milione e quattrocentomila telespettatori, cifra ragguardevole considerata la collocazione poco felice, «quando metà degli italiani è a mensa e l’altra metà immersa nel telegiornale»,8 e venne quindi riconfermata per una seconda stagione di ben ventiquattro puntate a partire dal 15 ottobre 1980. Il format della trasmissione recuperava l’impostazione tradizionale del telequiz con la presenza di un conduttore, di tre concorrenti, del premio finale e per il fatto che il vincitore di una puntata diventato “campione” potesse ripresentarsi a quella successiva fino a un massimo di cinque volte. La sua componente originale stava appunto nel contenuto, esclusivamente concentrato sull’arte. Nel panorama dei quiz televisivi, dunque, Artecittà andava ben oltre l’intento divulgativo, utilizzando il patrimonio artistico italiano come tema fisso dell’interrogazione che i concorrenti dovevano sostenere, mentre la pittura contemporanea era chiamata in causa attraverso il premio, un’opera grafica o un multiplo di un artista vivente, consegnato dall’autore stesso al vincitore della puntata. Nella struttura del programma, secondo l’autore Corgnati, «il quiz rimane un pretesto per fare un discorso sull’arte italiana»:9 infatti in studio brillavano per la loro assenza tutte le strutture tipiche del telequiz, come le cabine o le postazioni per i concorrenti – seduti invece su poltroncine ai lati del conduttore –, i pulsanti, e anche il tabellone del punteggio, aggiornato dalla regia, appariva come qualcosa di arbitrario e quasi esterno al programma. I partecipanti erano sì molto preparati, ma nessuno di loro aveva la potenzialità di “personaggio” televisivo. Lo stesso conduttore Flavio Caroli, critico d’arte bolognese di formazione e milanese di residenza, che in quel momento era professore al Politecnico di Milano e una delle firme del Corriere della Sera, non aveva la stoffa dell’eroe televisivo, simpatico e gigione, ma assicurava invece la relazione fra antico e moderno attraverso un’indiscutibile preparazione accademica ma anche un forte interesse per le vicende dell’arte più attuale. Proprio in quegli anni, infatti, Caroli aveva coordinato una specie di eterogeneo movimento artistico battezzato Magico Primario, che era stato proposto in un paio di rassegne a Ferrara (Palazzo dei Diamanti, novembre-dicembre 1980) e più tardi, in versione ampliata, alla Galleria Civica di Modena (marzo-maggio 1981). Nato sulla scia e sulle grandi speranze accese in Italia dal successo della Transavanguardia, lanciata da Achille Bonito Oliva, il Magico Primario, così come il gruppo dei Nuovi-nuovi raccolto nella stessa fase da un altro critico, il bolognese Renato Barilli, cercava di conquistarsi spazi di attenzione e di consenso commerciale. Non sorprende quindi che fra gli autori dei premi assegnati ai vincitori delle puntate figurassero innanzitutto loro, gli esponenti del Magico Primario, e altri emergenti di quegli anni attivi soprattutto fra Milano, Torino e Bologna. Fra
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i più noti, Ugo Nespolo, Aldo Spoldi, Luigi Mainolfi, Adriano Altamira, Marco Gastini, Gianfranco Notargiacomo, Marcello Jori e Diego Esposito. Gli artisti erano invitati in studio e brevemente intervistati da Caroli stesso, negli ultimi due o tre minuti dei complessivi venticinque occupati dall’intera trasmissione. La loro presenza in studio costituiva forse la novità maggiore di Artecittà: era, infatti, probabilmente una delle prime volte che arte e artisti dell’oggi finivano sul piccolo schermo, seppure nella rassicurante cornice costituita dagli antichi maestri e dal patrimonio culturale, anticipando così una presenza mediatica che si sarebbe data solo molto più tardi su canali e reti dedicati come arte (nata nel 1992), rai Educational, la recente rai5, o in inchieste e speciali quali Passepartout o il neonato Fuori quadro. La parte del leone era comunque costituita dalla ricognizione del classico, con la pittura italiana distinta in diverse scuole cittadine e regionali: una suddivisione che giustifica il titolo del programma, appunto Artecittà. Nella prima stagione venivano dedicate a sei città tre puntate ciascuna in cui il pubblico veniva anche accompagnato da una guida o padrone di casa: a Milano il poeta Luciano Erba, a Venezia Luigi Nono, a Firenze Carlo Ludovico Ragghianti, a Roma Toti Scialoja, a Napoli Domenico Rea e a Palermo Renato Guttuso.10 Nella 36
seconda stagione invece ogni puntata si proponeva come numero monografico dedicato a un secolo compreso fra il Due e il Novecento, che aveva visto la fioritura di un particolare centro urbano e della sua cultura. Siena, per esempio, era raccontata attraverso lo splendore della pittura del primo Trecento, da Duccio da Boninsegna a Simone Martini e i Lorenzetti; Napoli era fotografata nella fase del caravaggismo, all’inizio del Seicento; Firenze, cui erano state dedicate diverse puntate, era indagata nel momento e attraverso gli autori responsabili dell’invenzione della prospettiva, da Masaccio a Paolo Uccello, e poi, nella puntata successiva, nell’epoca dei manieristi dominata dalla signoria dei Medici. Gli autori si erano concessi anche alcune, relativamente timide, incursioni verso la modernità: a Parigi per gli impressionisti, a Milano per i futuristi e ancora a Firenze per i macchiaioli. Tuttavia, la struttura della puntata era più quella di un talk show che di un quiz. I concorrenti erano chiamati a turno a descrivere un quadro appartenente alla scuola e al periodo preso in esame nella puntata, sottolineandone le caratteristiche principali in relazione all’autore o allo stile, ma venivano spesso interrotti e le risposte integrate da interventi del conduttore Caroli che, come un bonario professore, si lasciava andare a spiegazioni di impronta prettamente didattica, la cui durata a volte superava la stessa risposta del concorrente. Il suo ruolo di docente ricordava quello ricoperto da altri studiosi in programmi a quiz che, come Artecittà, non offrivano premi in denaro ma in “cultura”, come, per esempio, Parola mia con Luciano Rispoli (1985), dove i temi dei concorrenti, che
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dovevano mostrare la loro eloquenza e conoscenza della lingua italiana, erano corretti dal professor Gian Luigi Beccaria che attribuiva al migliore una cassa di libri; o ancora come la sfida tra classi scolastiche giudicata da Piero Dorfles in Per un pugno di libri (1998). Interessante in Artecittà è il modo in cui venivano poste le domande finali: ai concorrenti, infatti, venivano mostrati particolari di quadri relativamente o molto celebri, ma in dimensioni talmente ridotte da renderne assai difficile l’identificazione. Lo stesso Maurizio Corgnati era stato l’ideatore di questo “metodo”, alla Giovanni Morelli, insieme allo scrittore Franco Lucentini, che infatti era stato invitato in studio in occasione della prima puntata della seconda stagione. Per loro si trattava di un gioco condotto, la domenica pomeriggio per anni interi, con l’aiuto di un episcopio e di alcune migliaia di cartoline, un indovinello fatto per allenare l’occhio a destreggiarsi fra le innumerevoli varianti di un panneggio, un paesaggio, una natura morta, le sfumature di un colore, i capricci della linea, le vibrazioni del chiaroscuro. Maurizio Corgnati aveva trasformato un colto e divertente passatempo domestico, quasi un rituale privato, in una proposta culturale adatta all’intrattenimento del grande pubblico. E appunto si trattava di un elegante e colto momento di intrattenimento, quasi un divertissement sul motivo del quiz, dove la struttura del gioco diventava, come nelle intenzioni degli autori, un semplice pretesto per rendere più adatta alla sua collocazione oraria una pagina di divulgazione culturale. In un momento storico in cui la televisione trasformava sempre più la cultura in semplice informazione, mancava però ad Artecittà lo stupore che Mike Bongiorno riusciva a mostrare per la preparazione dei concorrenti, la quale permetteva al pubblico di considerare questi ultimi dei modelli da imitare e la loro competenza qualcosa a cui aspirare.
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