ma fra tutte il MoMa di New York), riusciranno ad eclissare Parigi, facendo dell’America la nuova terra d’elezione dell’arte, il centro pulsante della pittura mondiale che attirerà a sé anche notissimi artisti francesi. L’epopea dei pittori americani raccontata da Annie Cohen-Solal spazia da Parigi a New York, da
Annie Cohen-Solal
tropi e da straordinarie strutture espositive (pri-
Parigi, il 1° luglio 1867, inaugurazione dell’Esposizione Universale: la guerra di Secessione è finita, i paesaggisti statunitensi, esponenti della prima autentica scuola americana, ritornano in Europa convinti di meritare elogi, premi, medaglie. Ma anziché il trionfo preventivato li aspetta una cocente sconfitta: la critica francese distrugge il loro sogno di successo stroncando con frecciate sarcastiche e commenti crudeli le
prodare alla Biennale di Venezia del 1948, dove
grandi tele gremite di cascate maestose, alberi
vengono esposte per la prima volta in Europa
secolari, orizzonti smisurati, insomma tutto
otto tele di un artista ignoto ai più, Jackson Pol-
quanto ha di meglio da offrire una nazione che
lock, che di lì a poco verrà celebrato nel mondo intero come primo e assoluto maestro della pittura americana.
Annie Cohen-Solal, nata in Algeria, è stata consigliere culturale dell’Ambasciata di Francia negli Stati Uniti dal 1989 al 1993. Attualmente titolare del seminario di sociologia dell’arte all’École
Americani per sempre
Giverny a Chicago, da Pont-Aven a Taos, per ap-
smania di affermarsi nel settore artistico come sta facendo in campo economico. L’esposizione americana, dicono i francesi, “è indegna dei fi-
Annie Cohen-Solal
gli di Washington […] giovane e grezza, in mez-
Americani per sempre
zo alle nostre vecchie culture fa l’effetto di un
“Research Fellow” alla Tisch School of Art della
I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 - New York 1948
New York University e professore ordinario di
Traduzione di Manuela Bertone
des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi,
gigante sperduto in una sala da ballo”. L’inattesa umiliazione sfocia anzitutto su un esame di coscienza: perché la patria di Melville e Poe è incapace di generare pittori di forza espressiva pari a quella dei suoi maggiori scrittori? Che cosa devono fare i pittori di una giovane nazione per farsi rispettare dai paesi del vecchio mondo?
studi americani all’Université de Caen, ha inol-
È possibile colmare il divario abissale che li sepa-
tre insegnato alla Freie Universität di Berlino,
ra dall’arte europea? Per il momento, non han-
all’Università ebraica di Gerusalemme, all’Uni-
no scelta: sono costretti ad assecondare il gusto
versité Paris XIII e alla New York University.
dei francesi, perché i maestri francesi sono i
Dopo la biografia Paul Nizan, communiste
padroni indiscussi della pittura e del mercato.
impossible (Grasset, 1980), ha scritto Sartre
In realtà l’insuccesso parigino del 1867 diventa
1905-1980 (Gallimard, 1985), best-seller inter-
lo stimolo che condurrà i “figli di Washington”
nazionale tradotto in una quindicina di lingue.
a trasformare in sfida lo scacco patito. A centi-
Americani per sempre è già stato pubblicato a
naia i pittori americani partono per la Francia,
Parigi (dove ha ricevuto il “Prix Barnier” del-
si stabiliscono a Parigi, dove diventano assidui
l’Académie Française), New York e Amsterdam.
frequentatori dei corsi di maestri famosi come
Da questo libro è stata tratta una serie radiofo-
Gérôme e Cabanel; poi fondano nuove “colonie”
nica in quindici episodi trasmessi su “France Annie Cohen-Solal vive tra Cortona, Parigi e New York.
johan & levi
Culture”.
di artisti, come quella di Pont-Aven, in Breta-
Font: Futura heavy Colori: Pantone
gna, diventata leggendaria. L’affermazione dei più grandi, Whistler, Sargent, la Cassatt, aprirà la strada del successo a una selva di pittori che, nell’arco di due generazioni, sostenuti in patria
johan & l e v i e d i t o r e
Font: Futura heavy Colori: Pantone
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dalle impressionanti risorse di mecenati e filan-
Annie Cohen-Solal
Americani per sempre I pittori di un mondo nuovo Parigi 1867 - New York 1948
Traduzione di Manuela Bertone
1 Un paese senza cattedrali
L’indifferenza e le ristrettezze erano state il pane quotidiano dei pittori americani per lunghi anni. Verso il 1867 la loro posizione sociale stava cambiando e incominciavano a scrollarsi di dosso un passato grigio. Ma fino ad allora la carriera degli artisti si era svolta in ambienti del tutto atoni e a ritmo lentissimo, come dimostra il percorso di Thomas Worthington Whittredge. Nato nel 1820 da una famiglia contadina originaria della zona di Springfield, nell’Ohio, era un ragazzo dotato e, come si dice, dal pennello facile. Molto presto, per sfuggire all’anatema di un padre che considerava gli artisti “anime perse”, diventò apprendista artigiano a Cincinnati e imparò la tecnica dei pittori di alfabeti e dei pittori di insegne. A richiesta, andava da contadini e operai dei dintorni per disegnare e dipingere, a lettere in vari stili, “Smith, Carpenter” oppure “Thompson, Grocery Store” sulle facciate delle case e delle botteghe. Poiché lavorava sodo e con impegno, vide esaurirsi in fretta le gioie di un mestiere tanto limitato. A Indianapolis, dopo un breve apprendistato da un fotografo che gli insegnò la tecnica del dagherrotipo, prese naturalmente la strada del ritratto. Alcuni mesi dopo, cogliendo al volo il dinamismo di Cincinnati, dove si stava sviluppando una locale scuola d’arte, Whittredge vi seguì dei corsi, prima di aprire uno studio da ritrattista a Charleston, nella West Virginia. Grazie alla precisione del suo tratto, riuscì a sbarcare decentemente il lunario. Poi iniziò a dipingere paesaggi, tre suoi quadri furono esposti alla Cincinnati Academy of Fine Arts e altri, una decina, alla National Academy of Arts di New York. Nel 1849, dopo aver evaso le richieste di Joseph Longworth e William Scarborough, mecenati di Cincinnati, si lasciò prendere dalla corrente che trascinava con sé tutti i pittori e si imbarcò alla volta dell’Europa.
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· Americani Painting American per sempre · ·
Sostenuto dai connazionali già arrivati all’estero prima di lui, vagò da un’accademia all’altra. Nell’autunno del 1849, per esempio, trascorse alcuni giorni col gruppo di artisti operanti a Barbizon, nei pressi di Parigi, nella foresta di Fontainebleau. I pittori del posto raccontavano che videro arrivare «un giovane paesaggista di Cincinnati, completamente sconosciuto, che si chiamava Whittredge e stava andando a Düsseldorf». Lui scrisse che a Barbizon incontrò, uniti a Jean-François Millet, un gruppo di francesi che sembravano «molto poveri, ma stavano riesaminando per trasformarle radicalmente tutte le forme d’arte precedenti, in modo davvero autentico». L’atteggiamento gli piacque ma i risultati non gli parvero convincenti.20 Con Emmanuel Leutze, gravitò per cinque anni nell’orbita dei circoli dell’Accademia di Düsseldorf, strinse amicizia con il poeta romantico Friedrich Lessing e affrontò con grande impegno le tecniche del paesaggio. Poi andò in Italia, vicino a Napoli, dove, con gli amici Buchanan, Haseltine, 20
Gifford e Bierstadt, disegnò all’infinito i paesaggi campani prima di partire per Parigi, poi Bruxelles e Londra. Dieci anni dopo tornò negli Stati Uniti e si stabilì a New York, con altri paesaggisti, al numero 15 di West 10th Street, ovvero all’indirizzo “magico” di un bell’edificio pieno di studi di pittori destinato a diventare il fulcro della vita artistica newyorkese negli anni successivi.21 Il ragazzo di Springfield, Ohio, si trovava ormai nel centro pulsante di tutte le cose. Ma fece fatica a imporsi. «Fu il periodo più critico della mia vita» scrisse. «Mi risultava del tutto impossibile scacciarmi dagli occhi le opere dei grandi paesaggisti che avevo visto in Europa. Nel contempo, sapevo perfettamente che, per sfondare, dovevo produrre qualcosa di nuovo ispirandomi al mio mondo americano. Ero disperato.»22 Il soggiorno in Europa aveva determinato uno sconvolgimento culturale profondo, una sfida totale, un’ubriacatura, uno choc. Gli ci vollero cinque anni di lavoro per assestarsi. Allora, con l’aiuto fraterno dei colleghi John Casilear, John Frederick Kensett, Sanford R. Gifford e Jervis McEntee, viaggiò quanto poté, osservò la natura del suo paese attraversandolo dal fiume Mississippi ai deserti del New Mexico, dai Catskill alle montagne Rocciose, dal Rio Grande alle Montagne Shawangunk. Quando gli riuscì di “scacciarsi dagli occhi” le tracce del suo modello Claude Lorrain, poté sviluppare una
· Le cattedrali d’America ·
Worthington Whittredge, uno dei paesaggisti americani di maggior spicco, fu presidente della National Academy of Design dal 1875 al 1877. Quando rientrò negli Stati Uniti dopo un soggiorno di dieci anni in Europa, Whittredge ebbe difficoltà a riadattarsi. «Mi risultava del tutto impossibile» scrisse «scacciarmi dagli occhi le opere dei grandi paesaggisti che avevo visto in Europa.[…] Ero disperato.»
21
sensibilità molto personale per il paesaggio americano. Nel 1864 giunse il suo primo successo post-europeo, con The Old Hunting Grounds. Il quadro rappresentava un boschetto di betulle, scuro ma rischiarato al centro da una macchia di luce; in primo piano, un fiume con una vecchia canoa indiana abbandonata. La tela, esposta alla National Academy of Design, fu subito acquistata dal collezionista James W. Pinchot e, tre anni dopo, presentata a Parigi all’Esposizione Universale. I critici americani scrissero che, presentando la canoa indiana, il pittore aveva dato una lettura storica e politica del paesaggio americano, e considerarono a lungo il quadro come un’icona.23 Nel 1860 Worthington Whittredge fu eletto alla National Academy of Design. Era un quarantenne alto, serio, e colpiva chiunque lo guardasse. Spiccavano su tutto la fronte stempiata, la smisurata barba nera e, sotto le sopracciglia foltissime, gli occhi scuri, tristi e sporgenti. Un volto così andava meritato. Non aveva forse attratto tanti ritrattisti, fra cui il suo amico
· Americani per sempre ·
Leutze, per esempio, che l’aveva bardato di un’uniforme polverosa e convinto a posare come modello del generale Washington per il famoso quadro Washington Crossing the Delaware? Whittredge era amato perché generoso, diligente e ostinato sul lavoro, e benevolo con i compagni, che lo vollero presidente della National Academy of Design dal 1875 al 1877. Proseguì con impegno l’attività di paesaggista, concentrandosi sui panorami della sua terra. Si avventurò in imprese spesso spericolate, alla scoperta di luoghi nuovi, portandosi appresso i revolver, il parasole e la scatola dei colori. Si diede da fare soprattutto per una tela, Crossing the Ford, in cui, pensava, c’era qualcosa che non andava: un boschetto di pioppi della Virginia sulla destra del quadro. Tornò a lavorarci, scartabellò le guide turistiche della zona, ripartì per il Colorado e, fra Denver e Loveland Pass, vagò per mesi alla ricerca di una macchia d’alberi che aveva individuato quattro anni prima sulle rive del fiume Cache-la-Poudre. Ritrovò il posto e lavorò come 22
un pazzo, producendo valanghe di schizzi per trovare la giusta rappresentazione di quel maledetto boschetto di pioppi della Virginia. Dopo due anni di fatiche, si considerò soddisfatto. Nel 1876, all’Esposizione del Centenario degli Stati Uniti a Philadelphia, Crossing the Ford fu decretato “modello paesaggistico per eccellenza”. E, in seguito, venne riconosciuto come “archetipo del paesaggio americano”. È comprensibile, quindi, che il collezionista più fedele delle opere di Whittredge fosse Othniel C. Marsh, professore di paleontologia e direttore del Peabody Museum alla Yale University. La sua mente rigorosa si infiammava per i disegni e i quadri di Whittredge: ne ammirava sia la minuziosità topografica che la fedeltà al genius loci. Nel 1901 Whittredge ottenne una medaglia d’argento all’Esposizione panamericana di Buffalo ed espose centoventicinque paesaggi al Century Club di New York. Finì di scrivere la sua autobiografia nel 1905 e morì nel 1910. La sua fu la carriera di un onesto artigiano, diligente e lavoratore, coronata da vendite e medaglie, dal riconoscimento dei suoi pari. La sua traiettoria sociale fu quella del figlio meritevole di contadini del Middle West stimato dai mecenati locali, che andò a perfezionarsi in Europa e tornò stravolto e sconvolto, tentò la fusione fra le tecniche acquisite nel Vecchio Continente e le realtà naturali del suo paese, produsse un’opera copiosa e popolare, sviluppando una sorta di
· Le cattedrali d’America ·
retorica pittorica personale, ricevette riconoscimenti in patria e persino altrove: questo l’itinerario tipico, lineare e senza fioriture di un pittore americano del suo tempo. Per tutto il periodo coloniale i pittori americani avevano lavorato esattamente come lui. Dipingere era «un talento utile come altri, come quello del falegname, del sarto o del calzolaio, non una delle attività più nobili al mondo».24 I pittori contribuivano anzitutto a documentare il reale, lo immortalavano in una scena, un volto, un luogo. Possedevano una tecnica e la applicavano con la cura che ci si aspetta dai prestatori di servizi. «Le nazioni democratiche» avrebbe poi osservato Tocqueville «coltiveranno le arti che servono a render comoda la vita, di preferenza quelle che si prefiggono di abbellirla; preferiranno generalmente l’utile al bello, e vorranno che il bello sia utile.»25 Già nel 1766 John Singleton Copley si era lagnato di appartenere a un «popolo del tutto privo di idee giuste sull’arte»26 «Mi sento particolarmente sfortunato perché vivo in un posto dove non mi risulta che nessuno abbia mai portato un ritratto che meriti l’appellativo di quadro…» scriveva a Benjamin West.27 E il critico John Neal raccontava così quella che considerava la propria iniziazione all’arte: da bambino, nel villaggio natale del Maine, scoprì «dal calzolaio, sopra una panca, incollata al muro, una testa a inchiostro, che [lo] entusiasmò oltre ogni dire». «Quel disegnino» diceva «benché incompiuto, appena schizzato, lo considerai come un tesoro […] Il calzolaio me lo regalò […] Tornato a casa, andai in solaio e lì, seduto su un vecchio sgabello di cuoio, vicino a una finestrella coperta di polvere e ragnatele, mi misi al lavoro e produssi copie su copie, finché ogni segno d’inchiostro non mi rimase impresso nella memoria.»28 Delle tante attività dei pittori americani soltanto tre generi venivano presi in seria considerazione: il ritratto, il paesaggio e il soggetto storico. L’artigiano ritrattista era quasi sempre un pittore itinerante che, come James Guild e William Dunlap, dipingeva ritratti su commissione. Per lunghi anni, da Portland a Boston, da Boston a Newport, poi a Utica, Saratoga, New York e Philadelphia, Dunlap aprì il cavalletto per vendere i suoi servigi, prima di essere eletto, nel 1826, alla neonata National Academy of Design. Siccome, però, i luoghi di produzione e i luoghi di consumo di opere
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· Americani per sempre ·
d’arte non erano gli stessi, diversi ritrattisti del nord migravano verso città del sud come Baltimora, Charleston, Norfolk, New Orleans, per incontrare altri pittori e cercare nuovi clienti. Molti ritrattisti del sud migravano verso nord, verso centri come Philadelphia, New York, Newport, per vedere mostre e collezioni. C’erano, è vero, ritrattisti celebri, come John Singleton Copley, che riuscivano a riprodurre con talento il livello sociale dei committenti, ma erano un’eccezione. C’era soprattutto il caso estremo di Benjamin West, vero e proprio punto di riferimento per tutti i pittori americani: scoperto da un mecenate di Philadelphia, fu mandato in Italia addirittura nel 1760, poi diventò pittore ufficiale di re Giorgio III alla corte d’Inghilterra e direttore della Royal Academy: fu il primo pittore americano “espatriato”. Intere generazioni di giovani artisti americani andarono in pellegrinaggio a Londra per studiare con lui e produrre grandi tele di argomento storico: uno di loro 24
fu John Singleton Copley.29 La Rivoluzione americana alimentò la pittura storica che, nella gerarchia dei generi, occupava, per ovvi motivi, un rango prestigioso. «Non sarei appagato» scriveva Samuel F.B. Morse ai suoi genitori da Londra «se non mi dedicassi a un filone più cerebrale della mia arte. Il ritratto non lo è affatto, il paesaggio un poco, la scena storica pienamente.»30 Sfortunatamente per lui, quando nel 1833 ultimò l’immenso Salon du Louvre, non riuscì a venderlo. Nel 1826 questo artista deluso e amareggiato, peraltro ingegnere di buon livello, fu tra i fondatori e il primo direttore della National Academy of Design, ma abbandonò la pittura per dedicarsi alla ricerca. La pittura storica tornò brevemente in auge durante la Guerra di Secessione: le scene di battaglia, disegnate dagli illustratori o dai pittori, permisero agli artisti di mettere il talento al servizio di una causa politica. Ma, con l’invenzione della fotografia, quel primo slancio andò in frantumi. I pittori-reporter, come John James Audubon e George Catlin, dando prova di grande perizia documentaria, contribuirono a far conoscere le caratteristiche del paese: caccia al bisonte, abbigliamento indiano, piante e uccelli rari. I paesaggisti, come Whittredge, ebbero miglior fortuna. I pittori americani sospiravano e mugugnavano per l’infausta sorte, individuandone le cause nella storia stessa del paese: «La religione professa-
· Le cattedrali d’America ·
ta dai primi coloni, poi trasmessa alla discendenza» scriveva Tocqueville «semplice nel culto, austera e quasi primitiva nei princìpi, nemica dei segni esteriori e della pompa del cerimoniale, è solitamente piuttosto ostile alle belle arti».31 Certo, fin dal xvii secolo, dai tempi cioè in cui il paese, fondato su piccole comunità contadine, era frammentato e rurale, i pastori del culto tenevano saldamente in pugno le comunità esercitando una forte pressione intellettuale sulla popolazione. Nei sermoni avevano raccontato senza mai demordere la storia dei primi pellegrini, «uomini pressoché senza averi […], tessitori, calzolai, stagnini o mercanti, che vivevano in modeste dimore, quasi sempre casupole o capanne, mai castelli» e, con quella vita fatta di rigore e princìpi, avevano scritto «un’epopea dell’umiltà e dell’eccellenza».32 I pastori avevano anche rammentato la severità della Nuova Inghilterra, «impossibile da immaginare più austera. Eppure» aggiungeva uno di loro «proprio in quella terra venne alla luce il vasto e nobile sistema della Verità».33 I pastori più facondi erano riusciti a tramandare un’immagine forte della democrazia americana, fondata sullo zelo dei missionari: un mondo fatto di princìpi egualitari, in cui l’istruzione era il valore supremo, mentre le apparenze, i piaceri e i divertimenti erano considerati erbacce cattive. I pionieri avevano deciso di lasciare l’Europa appunto per rifiutare, insieme al mondo corrotto e classista delle monarchie opulente, i piaceri che i regnanti gettavano bellamente in pasto al popolo. La cultura dei paesi cattolici, come quella italiana, divorata dall’arroganza dei ricchi e delle chiese, sprovvista di qualsivoglia ideale democratico, era stigmatizzata più di tutte le altre. Il pastore Beecher si scagliò spesso contro la Repubblica veneziana. «In tanta magnificenza e tanta fama» sosteneva «la scuola veneziana, con i suoi pittori, ha dato ben pochi segni di apertura. Forse che questa Repubblica non poteva lasciarci qualche traccia di riconoscimento della dignità umana? Ebbene no: la Repubblica veneziana aveva artisti per i ricchi, aveva artisti per i preti, ma non aveva artisti per il popolo.»34 La cattedrale gotica era senz’altro uno degli oggetti più detestabili prodotti dalle culture latine, da una Chiesa cattolica ricchissima e onnipotente, che per secoli e secoli era stata promotrice delle arti e aveva assoldato innumerevoli artisti. Ma, diceva indignato il pastore, «quale despota rifiu-
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· Americani per sempre ·
terebbe di offrire distrazioni al popolo se, in cambio, il popolo si dichiara soddisfatto di vivere sotto un regime di oppressione? Il despota lasciava ballare in pace il popolo, perché il popolo non pretendeva il diritto di voto. E barattava un trono e uno scettro con un liuto e un piffero. Il puritano viveva in un tempo in cui il prete, il nobile, il re, erano stati per anni e anni corrotti dalle Arti… che nulla avevano dato al popolo, e tanto ai suoi oppressori».35 In sostanza, i primi pastori avevano contrapposto con forza la democrazia americana ai regimi corrotti della vecchia Europa. Ma, nel dichiarare la loro ostilità politica nei confronti delle monarchie europee, avevano anche contribuito a coniare una rappresentazione dogmatica e caricaturale dell’arte, spacciandola per sinonimo di sensualità e accidia. Nei primi dell’Ottocento, grazie al presidente Jefferson, che acquistò la Louisiana alla Francia, gli Stati Uniti estesero ampiamente le loro frontiere. Poco a poco, nell’ambito di mutamenti di vasta portata, prese forma 26
una rappresentazione molto articolata della democrazia americana, dei suoi princìpi etici, della sua storia e del territorio, predominata dall’idea di una Natura onnipotente e pura, da utilizzare come nuovo antidoto contro l’Europa. Nel 1804, la spedizione di Merriwether Lewis e William Clark sulle acque del fiume Missouri fu voluta e organizzata dal presidente Jefferson, che sperava di unire l’Atlantico al Pacifico. La spedizione, vissuta come un’avventura nazionale, infiammò gli animi degli americani, i quali misurarono per la prima volta la vastità, la bellezza e la ricchezza della loro terra. «Tutti gli americani hanno gli occhi puntati su di voi» scriveva il presidente ai due capi della spedizione. «Non credo che esistano, nell’intero universo, paesaggi sontuosi quanto quelli che incontriamo adesso»36 annotava Clark nel suo diario, al colmo dell’esaltazione. In questa democrazia giovanissima, dove la memoria storica era ancora scarsa o non sembrava degna di grande entusiasmo, cominciò a svilupparsi un vero e proprio culto della geografia americana: il territorio custodiva le meraviglie del paese. Le critiche scagliate contro il paesaggio europeo, fasullo perché corrotto dall’uomo, presero il posto di quelle rivolte alle monarchie corrotte: la natura americana si trasformò in metafora della democrazia. Verso la fine degli anni trenta, una nuova ventata di eloquenza si levò dai pulpiti dei templi della Nuova Inghilterra. Alcuni pastori, nell’elabora-
· Le cattedrali d’America ·
re i sermoni, attinsero dai testi del Vecchio Testamento allegorie e racconti metafisici: la nuova alchimia formale condita di fantasia poetica, posta al servizio della cultura di massa, conferì loro un’immensa popolarità. Nel medesimo torno di tempo, l’irrompere delle idee venute dall’Europa modificò ulteriormente il panorama spirituale. I pastori avevano letto Voltaire, i filosofi illuministi, ammiravano i romantici, erano stati in Europa, conoscevano il grande repertorio teatrale e i musei del Vecchio Continente. Si spostavano volentieri e sapevano parlare con eloquenza. Insieme, fungevano da gruppo ideale di latori della buona novella: si fecero apostoli della religione del Bello. A metà Ottocento iniziò la battaglia per il riconoscimento e la legittimazione dei pittori americani, che verso il 1860 diede i primi segni di vittoria. Promossa dai gruppi di pastori più liberali, cioè i congregazionisti, gli unitari, i presbiteriani, si diffuse a macchia d’olio. Il reverendo Samuel Osgood, per esempio, ricordava che «l’arte svolge un ruolo eminente nella formazione del popolo. Solo l’uomo esposto all’arte» diceva «sa capire la Natura. Tutte le forme d’arte educano e sviluppano il senso estetico». Si serviva della Natura per riconciliare arte e religione, quasi volesse garantire all’arte una sorta di redenzione anticipata. E concludeva: «L’arte interpreta la Natura. La Natura interpreta Dio».37 «Oh, se potessimo avere le cattedrali in America» aveva esclamato Hawthorne davanti St. Paul, a Londra, «non foss’altro perché trasudano lusso e sensualità».38 Il suo desiderio era destinato a essere esaudito: proprio in quegli anni si strinse l’alleanza fra arte e religione, fra artista e sacerdote, poi venne il tempo delle opere d’arte commissionate dalla chiesa protestante. Anche i figli dei pastori si dedicarono alla carriera artistica. Il mondo della religione e quello dell’arte, a lungo estranei e ostili in terra americana, cominciarono a parlare la stessa lingua. Infatti, con lo sviluppo dei grandi centri industriali, l’urbanizzazione del paese e l’emergere di una classe dirigente di nuovi promotori delle arti (commercianti, avvocati, banchieri, politici, giornalisti), i pastori erano costretti a modernizzare i sermoni per conservare un certo ascendente intellettuale sulle masse. Nei giri di conferenze, nei testi dati alle stampe, i pastori acclamavano, insieme all’avvento delle cattedrali, la riconciliazione fra arte e religione.
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· Americani per sempre ·
Il pastore della Seconda Chiesa Unitaria di Boston, Ralph Waldo Emerson, lasciò il pulpito: dapprima per farsi pastore-poeta, poi filosofo. Fu senz’altro il rappresentante più radicale della nuova rivoluzione intellettuale.39 La sua prodigiosa abilità oratoria e i suoi scritti lasciarono un segno indelebile nel destino del paese. Una sera, durante un incontro organizzato in onore del poeta William Cullen Bryant al Century Club di New York, Worthington Whittredge incontrò Emerson. Fu l’unica volta che lo sentì parlare in pubblico. «Emerson era al culmine del suo talento» raccontò Whittredge. «Il suo discorso mi colpì per la frequenza delle pause, spesso ai limiti della sofferenza, quando cercava una parola, torceva le labbra in modo strano; però, quando la trovava, sembrava sempre quella giusta, l’unica che, dell’intero vocabolario, potesse dirsi adeguata».40 Nel descrivere la democrazia americana, Emerson sottolineava il primato dei princìpi etici sulla tradizione, dell’anima sulla memoria e delle leggi 28
naturali su quelle sociali. «Che m’importa delle sacrosante tradizioni se la mia vita interiore è assolutamente integra?»,41 diceva, per esempio, nel sermone dedicato alla Natura. «Colui che conosce i tesori della natura, i fiumi, gli alberi, i paradisi naturali, colui che conosce le strade che conducono a questi incanti, è un uomo ricco e leale […] non i re, non i palazzi, ma queste tenere e poetiche stelle […] latrici di promesse segrete».42 Utilizzando magistralmente il paradosso, Emerson rovesciava la rappresentazione del ricco e del povero, del bello e del brutto: abbandonare la città, il villaggio, la politica, i palazzi, per ritrovare la Natura, significava accantonare l’Europa e le sue brutture per costruire la democrazia americana. «Noi amiamo la Natura con i nostri più sani istinti» asseriva. «Noi la amiamo perché essa è la casa di Dio, benché non sia abitata, o meglio: perché non è abitata.»43 Thoreau, dopo Emerson, attuò un’esperienza ancor più radicale di assoluta povertà, scegliendo il contatto integrale con le profondità della natura, che gli procurava «innocenza e benessere indescrivibili […] salute e gioia perfette per sempre».44 Intanto, il pittore Thomas Cole elaborò una concezione metafisica del paesaggio americano, «oasi che custodisce per il futuro le riserve di un sistema ancora più puro».45 A suo dire, la maestosità naturale dell’Hudson River surclassava quella delle rive del Reno, perché «le sue sponde non erano lambite da rovine venerande o palazzi principeschi»;
· Le cattedrali d’America ·
come del resto il Connecticut River, con i dintorni «intatti e incolti».46 Spiegava inoltre ai colleghi che il paesaggio era il solo ambito che prometteva grandezza, e costituiva la chiave del dilemma posto dalla religione, poiché il rapporto stabilito dal pittore con il paesaggio e la natura era sostanzialmente identico a quello che i puritani avevano assegnato all’uomo nel suo legame diretto con Dio. «Il paesaggio» scriveva infatti il critico dell’Illustrated Magazine of Art «è l’unico settore delle arti figurative in cui saremmo in grado di dar vita a una scuola e a cui è stata dedicata un’attenzione particolare. La nostra cultura è troppo schiettamente pratica per generare opere segnate dalla fantasia: il nostro passato è troppo recente per consentire all’artista di prendere le distanze e guardare in prospettiva. Ma il nobile corso dei nostri fiumi, la quiete dei nostri laghi, la roccia spoglia delle nostre colline […] ci offrono una materia prima ricchissima per comporre paesaggi».47 Fu però Nathaniel Hawthorne a ricavare dai suoi viaggi in Francia e in Italia il confronto più lucido tra rappresentazioni americane e tradizioni del Vecchio Continente. Deluso dagli Champs-Elysées, arteria «arida e artificiale in tutte le stagioni, con quegli alberi sottili e scarni […] che non sembrano amati dalla terra», si stupì non trovandovi «nemmeno un filo d’erba verde, [ma] argilla secca e coperta di polvere bianca. Il posto sembra una pura invenzione dell’uomo» proseguiva «di due cose l’una: o la Natura non è stata invitata, o ha declinato l’invito».48 Neppure i giardini delle Tuileries gli strapparono un commento più appassionato: gli alberi dovevano «essere ripiantati a scadenze fisse. Lo stesso dicasi degli uomini» aggiungeva «ci sono famiglie che si estinguono dopo una o due generazioni parigine. Non vi è nulla di rigoglioso, qui: uomini e vegetazione conducono una vita artificiale, come fiori interrati in un vasetto, senza mai mettere radici. Sono stufo di Parigi»49 concludeva. Questo suo richiamo al primato dell’etica sulla tradizione, della natura sulla cultura, non era forse, in estrema sintesi, la riprova concreta dei postulati emersoniani? Thomas Cole, da pittore itinerante, aveva a fatica sbarcato il lunario, ma il giorno in cui espose tre paesaggi di Upstate New York nella vetrina del libraio William Colman la sua carriera giunse a una rapida svolta. I quadri furono acquistati da tre artisti, Trumbull, Durand e Dunlap, che li esposero alla New York Academy of Design. Due influenti mecenati newyorkesi,
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Philip Hone e William Gracie, ne furono colpiti e decisero di dare lavoro a Cole. Così si creò un mercato sorretto da un’autentica passione per i paesaggi americani, che rimasero in voga per diversi anni. Grazie all’attenzione dei nuovi mecenati (Luman Reed, Jonathan Sturges, Philip Hone, Marshall O. Roberts, George Whitney, Samuel P. Avery, Nicholas Longworth e Odgen Haggerty), e grazie soprattutto al lavoro che questi commissionavano, molti paesaggisti si unirono a Cole e, nell’arco di una quarantina d’anni, produssero un numero notevole di tele, simili per fattura e soggetto, personali ma non discoste dalla vena collettiva. Nacque così la prima scuola americana.50 I percorsi esistenziali dei pittori erano molto simili. Provenivano tutti da famiglie rurali: Durand era figlio di un orologiaio-fabbro, Bierstadt di un bottaio, Wyant di un falegname, Whittredge di un contadino. Tutti erano stati apprendisti in botteghe artigiane di incisione o tipografia, oppure, come Wyant, avevano imparato la lavorazione del cuoio per 30
costruire selle e finimenti nel villaggio natale. Con l’appoggio di mecenati locali, erano riusciti a completare il ciclo formativo nelle grandi accademie europee, a Londra, Monaco, Düsseldorf, Parigi o Roma. Si ispiravano a modelli europei: Claude Lorrain, Millet, Rousseau, Daubigny, Corot, Turner, Constable. Spronati dalle richieste dei mecenati, che ormai giungevano con regolarità, i paesaggisti americani fecero come Lewis e Clark, iniziarono cioè a percorrere il paese in lungo e in largo, vivendo per qualche decennio dei frutti di una nuova dinamica: Asher B. Durand iniziò a fare lunghe spedizioni nelle Adirondacks; Albert Bierstadt esplorò il Kansas, il Nebraska, il Colorado e il Wyoming; George Inness il Connecticut, il Massachusetts, la Virginia, la California e la Florida; John Frederick Kensett il fiume Mississipi e la costa di Newport; Worthington Whittredge, come abbiamo visto, partì per spedizioni spericolate nel New Mexico e nel Colorado; Sanford R. Gifford scoprì il Wyoming e tutta la costa dell’Ovest, dall’Alaska alla California; William Trost Richards andò nelle Adirondacks, nei Catskills e nella Hudson River Valley; Alexander Helwig Wyant scelse l’Ohio, la West Virginia, il New Hampshire, l’Arizona e il New Mexico; John William Casilear le zone dei Catskills, delle White Mountains e della Genesee Valley; Alfred Thompson Bricher quelle della Nuova Inghilterra, del Massachusetts e, nel
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Maine, attraversò le terre sublimi di Mount Desert Island e Casco Bay. I quadri eseguiti su ordinazione, come A Storm in the Rocky Mountains di Bierstadt, sfiorarono vette fino ad allora mai raggiunte, intorno agli ottomila dollari. I critici, compiaciuti dal moltiplicarsi delle mostre, manifestavano grande soddisfazione, perché il paesaggio dava spazio e risalto al potenziale, alle «capacità e al talento degli artisti americani»51 e aveva «acquisito una dignità e un carattere che nessun altro ramo delle belle arti possedeva». Gli alberi di Asher B. Durand venivano equiparati ad «autentici patriarchi dei boschi» che sembravano «destinati […] a fungere da modello per gli artisti di oggi e di domani. Consentiranno di costruire» continuava il critico «una scuola artistica americana di fama eguale a quella della nostra industria. Abbiamo artisti all’altezza di questa sfida»52. La fiducia riposta nel loro talento e nelle loro doti si diffondeva tra gli artisti come un felice contagio. «Nel settore paesaggistico» sosteneva Worthington Whittredge «il nostro paese è primo al mondo». George Inness, intervistato da un giornalista, 53
demolì le opere europee che invadevano il paese: «banalità commerciali dipinte da centinaia di artisti europei i cui nomi insultano tutti gli uomini rispettosi della Verità. Le bellezze superficiali di Bouguereau e altri disgustano gli uomini che odiano l’idolatria delle immagini sacre». Seguendo lo stesso tracciato mentale degli scrittori, sottolineava il misticismo del paesaggio americano: «L’arte più nobile» sosteneva «è quella da cui traspare un senso di umanità. Fiumi, corsi d’acqua, colline, cielo, nuvole […] – tutte cose visibili – possono infonderlo in noi solo se viviamo nell’amore di Dio e nel rispetto della Verità. Alcuni ritengono che con il paesaggio non si possa tramandare un senso di umanità. Commettono un grave errore».54 Nessuno dei pittori di questo gruppo raggiunse la notorietà di Frederic E. Church. Nel 1857, Niagara era stato esposto, da solo, perché così voleva la strategia messa a punto dal pittore. Raffinato cultore del pratico, Church seppe infatti organizzare la promozione e la pubblicità delle sue opere come nessun altro. Nel 1859, due anni dopo il successo di Niagara, trionfò esponendo The Heart of the Andes con una sorta di allestimento teatrale, uno show nel vero senso della parola. Il quadro veniva presentato in una sala scura, messo in risalto da un’imponente cornice, molto lavorata, posata diretta-
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mente a terra, a sua volta circondata da un drappeggio nero. Così doveva essere mostrato un paesaggio grandioso, maestoso, schiacciante, puro e selvaggio: in un’ottica da grandangolo. Nell’immenso paesaggio l’occhio riusciva comunque a percepire i dettagli più minuti, per esempio una coccinella posata su una gocciolina d’acqua caduta su una foglia di felce. D’altra parte, gli spettatori erano stati avvertiti: dovevano presentarsi muniti di binocolo da spettacolo; nel prezzo del biglietto, venticinque centesimi, era compreso un libretto di quarantatré pagine, a cura di Theodore Winthrop, che spiegava l’opera. Church venne acclamato come il “Van Eyck della botanica”: Darwin era il suo modello e Humboldt, finché visse, il suo ammiratore più fervido. Il quadro fu acquistato per la somma di diecimila dollari, e Church diventò il pittore americano vivente più quotato al mondo.55 Tra il 1861 e il 1865, la Guerra di Secessione costrinse all’isolamento dal Vecchio Continente. I mecenati americani poterono così dedicarsi alla pro32
duzione locale, mentre i pittori si liberarono dell’influsso inglese, tedesco e francese, come in precedenza Worthington Whittredge si era liberato di Claude Lorrain. Nel 1867, i paesaggisti si erano presentati all’Esposizione Universale di Parigi convinti dell’eccellenza del loro operato, come gruppo omogeneo, con tele che proponevano un’immagine della Natura ereditata in via diretta dalla tradizione emersoniana. Ma la Francia reagì respingendo in blocco tutte quelle esperienze. Le critiche dei francesi rimbalzarono negli Stati Uniti, provocando un’ondata di disaffezione nei confronti del gruppo:56 alcuni collezionisti, come William J. Hoppin, John T. Johnston, William Blodgett, Robert Stuart, William T. Walters e William Wilstach, presero a disfarsi dei paesaggi americani per acquistare tele francesi57.
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«Charles C. Ingram, ritrattista, studio n. 284, Fourth Street» «J.F. Kensett, paesaggista, studio n. 697, Waverley House, Broadway» «A.B. Durand, paesaggista, studio n. 91, Amity Street» «George Fuller, ritrattista, studio n. 159, Atlantic Street, Brooklyn»
Gli artisti cercavano lavoro pubblicando inserzioni su riviste d’arte come The Crayon. Contatto diretto con la clientela tramite i giornali e vendite al58
l’asta: nella seconda metà dell’Ottocento erano queste le uniche vie d’accesso ai circuiti commerciali. La moda del paesaggio aveva procurato ai pittori locali un primo vero mercato, ma volgeva già al declino, e la maggior parte degli artisti si ingegnava a cercare nuove strade. Jervis McEntee, uno dei compagni di Whittredge ai tempi dei peripli del West, osservava con amarezza che «la gente non viene più negli studi dei pittori. Apre con cautela la porta di uno studio, temendo di disturbare l’artista. Più ci penso, più mi persuado che è indispensabile inventare qualcosa per vendere i nostri quadri. Tutto si sta trasformando profondamente».59 «Sta di fatto» scriveva nel 1834 il critico dell’American Monthly Magazine «che in questo paese non ci sono abbastanza pittori di livello per mettere insieme una mostra seria almeno una volta l’anno.» I critici davano la colpa agli artisti, mentre gli artisti lamentavano l’indifferenza dei collezionisti che, dopo l’Esposizione Universale del 1867, preferivano i pittori europei: in dieci anni, le importazioni di opere d’arte europee si moltiplicarono per dieci60. I pittori americani furono perciò costretti a combattere una seconda grande battaglia in patria contro i rivali più diretti, i maestri europei. Paradossalmente, gli artisti americani si sarebbero trovati impri-
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gionati nella trappola escogitata dai loro avi per sfuggire all’Europa delle monarchie corrotte: per riuscire a sopravvivere, avrebbero dovuto piacere ai ricchi e piegarsi ai loro capricci. L’immagine degli artisti era stata utilmente trasformata dal progressivo affermarsi dei predicatori, ma la vittoria non era ancora assicurata: il paese era ancora eterogeneo e frammentato, perché la vita culturale si era formata in modo empirico, grazie all’iniziativa personale di questo o quell’artista, di questo o quel mecenate, in uno Stato piuttosto che in un altro, senza regole precise, dettate dal caso, dalla buona volontà dei singoli o dalla curiosità, creando profondi squilibri nel panorama generale. Philadelphia, detta l’“Atene d’America”, era stata a lungo la capitale culturale del paese, e portava ancora impresso sulle istituzioni e tradizioni cittadine il marchio del suo fondatore, l’inglese William Penn. Aristocratico, amico degli enciclopedisti francesi, Penn aveva rotto con la famiglia in 34
nome dell’ideale radicale dei quaccheri e dell’ostilità che questi votavano a qualsivoglia forma di chiesa. Aveva sopportato anni di persecuzioni prima di attraversare l’oceano e creare nel nuovo mondo un microcosmo di eguaglianza e tolleranza. Aveva fatto della Pennsylvania una terra multirazziale e aperta a vari culti, dove imbastì saldi legami con gli indiani e promosse l’istruzione per tutti, maschi e femmine, ricchi e poveri. Il suo culto dell’umiltà provocava soltanto diffidenza nei puritani di Boston, orgogliosi e settari, e arroganti al punto da firmare con nome e cognome i libri che scrivevano. La sua austerità culturale, poi, non concepiva nemmeno che si mostrassero i ritratti di famiglia se non sotto forma di sagome ritagliate nel cartoncino nero. Tramandava le storie dei martiri, per esempio quella di Mary Dyer, che era stata impiccata vicino a Rhode Island per il solo fatto che predicasse il contatto diretto con Dio. Eppure, dalla tradizione quacchera scaturì il talento di Benjamin West, figlio di modesti contadini della Chester County, vicino a Philadelphia. Con l’aiuto di William Smith, decano della locale università, di John Morgan e William Allen, due mecenati della capitale, andò a lavorare a Londra, dove curò la formazione di ben tre generazioni di artisti venuti dalla madrepatria, diventando così il padre fondatore della pittura americana. Uno degli allievi di West, Charles Willson Peale, tornato dall’Europa nel
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1794, pittore, naturalista e attivista politico, fondò a Philadelphia il Museum of Art, Science and History. Nel 1814 fece costruire un nuovo edificio destinato a ospitare la sua collezione: il primo museo del paese. Frutto di una curiosa miscela tra una galleria d’arte e un museo di storia naturale, dove venivano esposti alla rinfusa ossa di mammuth, quadri di Copley e armi, diede vita poco dopo alla prima scuola d’arte statunitense, la Pennsylvania Academy of Fine Arts. A loro volta, gli artisti della città costituirono la Society of Artists of the United States e allestirono la prima mostra americana. L’accademia era diretta da un consiglio di accademici, era presieduta da un mecenate del posto e, per tutto l’Ottocento, mantenne una posizione preminente. A partire dal 1860 aprì i corsi alle donne. A lezione venivano esaminati i testi di John Ruskin, era praticato il disegno dal vero, a gruppetti, sotto l’occhio vigile di artisti esperti.61 L’accademia promuoveva inoltre mostre di maestri europei, con una media di tredicimila ingressi l’anno. Si pensi per esempio alla “Mostra americana d’arte britannica” del 1858, che consentì al pubblico di scoprire l’arte preraffaellita, e alle mostre d’arte francese degli anni successivi, che presentarono a varie riprese Soldats égyptiens traversant le désert, grande quadro storico di Jean-Léon Gérôme. Vi si poteva inoltre ammirare la collezione privata di Robert Fulton, comprendente una serie di capolavori acquistati in Europa, fra cui spiccavano alcune belle tele di Benjamin West. All’accademia era possibile incontrare i pittori famosi della città, come Thomas Sully e John Wesley Jarvis, che accoglievano i visitatori negli studi e li guidavano nelle sale dove erano esposte le loro opere. Nella vicina Baltimora, un pittore di successo, Jacob Eichholtz, vendeva ritratti a trenta dollari, mentre Rembrandt Peale, figlio di Charles Wilson, riceveva nel suo museo personale dove, secondo John Neal, «si davano elegantemente appuntamento gusto, curiosità e divertimento».62 La città di Washington aveva progetti più grandiosi: nel 1829, un suddito britannico, James Smithson, donò parte dei suoi averi per la costruzione di un centro dedicato alla scienza e all’arte, lo Smithsonian Institute. E, nel 1861, uno dei banchieri più illustri della città, William Wilson Corcoran, fece costruire un museo ispirato al nuovo Louvre, la Corcoran Gallery of Art, sperando di farne un museo nazionale. Dal punto di vista culturale, New York rimase per molto tempo inferio-
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re a Philadelphia. Nel 1805 gli appassionati d’arte potevano scegliere tra le «curiosità sulla natura e l’arte» del Savage Museum, la raccolta di stampe e tele della Shakespeare Gallery e le «rarità prodotte dalla natura» del Delacoste’s Cabinet. I fondatori della città, gli Yankee e i Knickerbocker, si erano sempre occupati di commercio e affari, puntando unicamente alla ricchezza economica. Quando, nel 1823, Samuel Morse tornò dopo un soggiorno in Europa, titubò a lungo prima di decidere se stabilirsi a Philadelphia, Baltimora o New York. Inizialmente, New York non gli piacque. «Questa città si è data interamente al commercio» affermò. «Sono tutti ossessionati da una cosa: il denaro; e solo da guadagnare, mai da spendere.» Due anni dopo, il mecenate Philip Hone gli commissionò un ritratto di La Fayette per il municipio, poi seguito da altre richieste. Nel 1831, Morse poteva dirsi soddisfatto della scelta compiuta: «New York è la capitale del nostro paese» dichiarava «qui a New York devono incontrarsi gli artisti».63 36
A Philadelphia, per ragioni storiche, l’apertura di musei, scuole e accademie era stata promossa dagli artisti, mentre a New York le istituzioni culturali vennero fondate da uomini d’affari e politici appassionati d’arte, che le costituirono basandosi sul modello delle società per azioni. Il nucleo originario della New York Gallery of Fine Arts, per esempio, era la collezione privata del mecenate Luman Reed. L’American Academy of Fine Arts, la New York Historical Society e la Century Association furono costituite nello stesso modo. Ben presto, peraltro, alcuni consiglieri comunali si rivolsero ai titolari di cariche pubbliche per ottenere aiuti da destinare alle istituzioni culturali, appigliandosi alla cattiva reputazione della città, «per troppo tempo bollata come indolente, greve e commerciale».64 E proprio il comune, nel 1824, decise di istituire un Athaeneum, cioè una sorta di centro culturale municipale, simile a quelli di Philadelphia e Boston. Samuel Morse e altri artisti, trovando irrespirabile l’aria intrisa di arroganza che tirava all’American Academy of Fine Arts, preferirono dedicarsi alla New York Drawing Association, che poi diventò la National Academy of Design e rimase per molto tempo il sito espositivo più prestigioso della città e addirittura del paese, anche se, avendo instaurato un regime di monopolio, finì per proporre mostre poco diversificate, incapaci di provocare vero entusiasmo fra gli artisti più giovani. Come a Philadelphia, anche a New
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York gli artisti decisero di organizzarsi da soli, fondando un’associazione gestita autonomamente, l’American Art Union. Pubblicavano un Bulletin mensile e, in una galleria di Broadway, esponevano opere che poi venivano distribuite fra gli aderenti per estrazione a sorte, una volta l’anno. Nell’arco di un quindicennio, le adesioni, provenienti da tutti gli Stati del paese, furono quasi ventimila. «La galleria non è più superflua» scriveva un giornalista nel 1848, «è diventata necessaria e fa parte dei beni pubblici della città alla stessa stregua delle fontane, dei giardini, del municipio. Il pensionato di 5th Avenue, il ricercatore universitario, il giornalaio, le coppiette, l’impiegato con la cartella, frequentano tutti l’Art Union».65 Il testimone fu raccolto dall’Artists’ Reception, un’altra associazione di pittori che organizzava mostre nel Dodworth Building, sulla 5th Avenue, e insieme ai quadri proponeva anche serate musicali. «Un vasto pubblico, i notabili e molti invitati di livello hanno onorato l’evento con la loro presenza»66 scrisse un giornalista di Le Crayon dopo una mostra. L’impegno costante fruttò agli artisti il riconoscimento del pubblico newyorkese. Vennero fondate altre associazioni: si pensi al Salmagundi Sketch Club, alla Water Color Society, alla Decorative Arts Society. I newyorkesi potevano ritenersi soddisfatti: fra il 1840 e il 1850, grazie alla generosità e al dinamismo dei suoi mecenati, New York aveva eclissato Philadelphia come capitale culturale del paese. «Fra qualche anno» affermava Philip Hone «la città sarà nota per il suo gusto raffinato quanto lo è oggi per la sua intraprendenza in affari».67 Un’atmosfera del tutto diversa regnava a Boston, città degli intellettuali e dei puritani fondatori di Harvard, primo college del paese. Il centro della vita culturale era un club, il Boston Athaeneum, e i bostoniani, diversamente dagli abitanti di Philadelphia, erano soprattutto amanti del libro. La prima mostra venne organizzata solo nel 1827, mentre per l’inaugurazione del Museum of Fine Arts bisognerà addirittura attendere il 1876. La Boston Artists’ Association, fondata nel 1842, era presieduta da Washington Allston, vero e proprio idolo locale: era vissuto a lungo in Europa e ormai era considerato il discepolo prediletto dei trascendentalisti. Vent’anni dopo, il pittore William Morris Hunt tornò da Parigi e si stabilì a Boston, dove fondò l’Allston Club. In una delle sue prime mostre, «L’arte moderna
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francese nelle collezioni degli artisti e dei mecenati bostoniani», spiccava La Curée, capolavoro di un francese snobbato in patria: Gustave Courbet.68 Nel 1852, Hunt aveva comprato per trecento franchi Le Semeur di Millet,69 primo quadro della Scuola di Barbizon acquistato da un americano.70 E aveva consigliato di fare altrettanto ai suoi amici di Harvard, i vari Thomas Gold Appleton, Thomas Wentworth Higginson, Quincy Adams Shaw, che comprarono i pittori francesi emergenti senza badare a spese,71 seguiti a ruota dai critici d’arte Martin Brimer e Edward Wheelwright, poi dall’ingegner George Lucas, che comunicò la sua passione per la scuola di Barbizon e i naturalisti francesi a William Walters, magnate delle ferrovie di Baltimora. Così venne lanciata una nuova moda tra i collezionisti americani, fino ad allora attenti soltanto all’estetica inglese, alla natura idealizzata e latrice del Sublime, del Bello, del Pittoresco, non certo al reale, allo sporco, al sordido o al morboso. 38
Per i collezionisti bostoniani, comprare dei Corot e dei Millet, appendere in salotto aratri, mendicanti, vecchi, animali e pastorelle dei dintorni di Parigi, significava prendere una posizione estetica quanto una sorta di impegno politico. Infatti, Higginson, oltre a essere un lettore appassionato di Thoreau e Emerson, militava con tenacia per i diritti delle donne e dei neri. Hunt combatteva senza quartiere contro gli avversari dello «stile morboso, tanto in voga in Francia».72 «Dolersi dell’influenza dell’arte francese [negli Stati Uniti]» scrisse «è un atteggiamento del tutto sterile. Non sarebbe precisamente umiliante se un Millet o un Delacroix nascessero a Boston o nei dintorni. Non è colpa nostra se abbiamo ereditato solo ignoranza crassa in campo artistico, ma nulla ci costringe a gridarlo ai quattro venti».73 Oltre ai collezionisti, Hunt influenzò anche altri pittori americani, come J. Foxcroft Cole e Thomas H. Robinson, che andarono a studiare a Barbizon, incontrarono i maestri francesi, produssero tele gremite di buoi che aravano e paesaggi pastorali normanni, curarono gli acquisti per conto del mercante Seth M. Vose di Providence, Rhode Island, e rifornirono i collezionisti della Nuova Inghilterra di capolavori di Corot, Courbet, Dupré, Daubigny, Millet e Rousseau. Dopo la Guerra di Secessione, gli Stati Uniti si trasformarono radicalmente: il paese rurale e del libero scambio dei tempi di Jefferson, in cui era
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prevalsa un’ideologia antiurbana, si industrializzò rapidamente. Nel 1862, applicando lo Homestead Act, lo Stato federale elargì gratuitamente parti di territorio alla popolazione, favorendo così il trasferimento di un immenso flusso di capitali da Est a Ovest. Con Johnson presidente, gli Stati Uniti divennero il fulcro di un capitalismo selvaggio a economia fortemente protezionista. Lo sfruttamento sistematico delle materie prime, acciaio, petrolio, ferro, carbone, zucchero, tabacco, cotone, ravvivò l’economia e favorì il sorgere di impressionanti imperi industriali e finanziari. Le industrie ferroviarie, tessili e siderurgiche, la telefonia e il telegrafo, si svilupparono con grande rapidità. Tra il Nord e il Middle West, verso Chicago, ricominciò la conquista del West. Città come Pittsburgh, Detroit, Cleveland e Columbus si inserirono nella nuova dinamica trasformandosi in enormi centri urbani, contribuendo anch’esse allo sviluppo sfrenato del mercato immobiliare. I grandi capitani d’industria seppero sfruttare la geografia del continente, estendendo ampiamente i confini delle imprese e accumulando così ricchezze di gran lunga superiori a quelle dei monarchi europei. I Vanderbilt, gli Astor, i Frick, i Rockefeller, gli Havemeyer, i Morgan, i Whitney, gli Stewart, i Carnegie, tanto per citare i più noti, si arricchivano a dismisura. A Kansas City, Cincinnati, Saint Louis, Pittsburgh, Colombus, Cleveland, Detroit, Buffalo, collezioni private e musei vennero aperti grazie ai finanziamenti dei più ricchi, al dinamismo dei benefattori e al sistema delle società per azioni. Molte generazioni di industriali, spronati da “valori” come liquidità e dividendi, imponevano idee e princìpi, inventando nuovi modelli di consumo culturale che l’Europa nemmeno si sognava. Le donne, ancora relegate a ruoli secondari e dimessi, cominciavano a covare desideri di emancipazione. La popolazione di colore, nonostante la recentissima abolizione della schiavitù, continuava a patire, segregata in condizioni vergognose. I soli veri autoctoni, gli indiani, considerati d’impaccio al processo di sfruttamento delle Grandi Pianure, erano ancora vittime di massacri talora sistematici. Gli arbitri del gusto, negli Stati Uniti, erano i baroni della finanza, i re dello zucchero e i magnati dell’acciaio o delle ferrovie. Protagonisti in un mondo culturale dove l’intervento statale era inesistente, i privati godevano di poteri illimitati: aprivano musei, elargivano agli artisti borse di stu-
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dio per l’estero, ammassavano collezioni e “costruivano” il gusto. Le loro scelte estetiche, ampiamente commentate dai quotidiani, erano diventate ovunque il modello da scopiazzare per tutti quelli che volessero procurarsi una collezione. Compravano i maestri francesi? Ecco che tutti compravano i maestri francesi. Compravano i maestri italiani? Ecco che tutti compravano i maestri italiani… I pittori americani non ci misero molto a capire che bisognava a ogni costo attirare e conservare l’attenzione dei mecenati. Jervis McEntee continuava a deplorare i tormenti inflitti alla sua generazione: «In Inghilterra è importante farsi un nome, mentre qui non serve a niente. Negli Stati Uniti, alla gente non importa nulla di un’arte legata al corpo: le opere d’arte sono soltanto capricci. La nostra è una generazione di pionieri e mi auguro davvero che per quelli che verranno dopo di noi, se sono forti quanto originali, sarà tutto più facile».74 Ma questa generazione di pionieri come poteva trovare la strada giusta in un continente che sem40
brava avere occhi soltanto per l’Europa? Il Middle West cresceva come un gigantesco centro commerciale, mentre il Sud, che tanto aveva sofferto con la Guerra di Secessione, progrediva lentamente. Fra tanti poli, era molto difficile trovare un’unità. Nonostante lo sviluppo di determinate aree, il paese era ancora costellato di sacche oscurantiste. «Tra la fine degli anni ottanta e la Grande Guerra, in tutta la valle del Mississippi, dominava il rifiuto più assoluto di qualsivoglia sensibilità estetica mai esistita al mondo… Mio padre provava un autentico disprezzo per gli artisti… Gli unici che aveva incrociato erano damerini di Washington che si nascondevano dietro le gonne delle donne e discorrevano usando una specie di gergo sciocco pieno di leziosaggini mondane sulla grazia e la bellezza.»75 Questa l’accusa inequivocabile di cui è testimone il pittore Thomas Hart Benton. Da bambino e da ragazzo dovette fare i conti con un padre generale, poi senatore, ossessionato dall’idea del progresso del paese, fissato su valori virili, rigorosamente chiuso all’estetica, pronto soltanto a stigmatizzare e liquidare sbrigativamente artisti e intellettuali, definendoli con disprezzo “magnaccia”. Benton aggiunge: «Atteggiamenti del genere venivano messi sul conto delle esigenze e dei bisogni dei pionieri, preparati esclusivamente all’azione. La durezza della loro vita non lasciava nessuno spazio allo sviluppo della sensibilità estetica».
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Mentre i pittori tentavano di aprire gli orizzonti culturali delle alte sfere, i critici si impegnarono a collaborare e a dare manforte. John Neal aveva subito difeso la causa dei pittori americani: «Se pensiamo» scriveva «agli ostacoli che hanno dovuto superare (niente modelli per lavori dal vero, niente sagome in gesso, niente professori di rango, niente musei), possiamo dire che in questo momento ci sono nel paese più pittori di talento che in qualsiasi scuola europea di prestigio».76 Nel 1837, durante la conferenza “The American Scholar”, Emerson si era rivolto agli studenti di Harvard con un monito: «Per troppo tempo ci siamo lasciati sedurre dai musei europei. Dicono che l’americano è timoroso. E allora, dov’è il rimedio? Il rimedio è nello studio e nella trasmissione dei nostri princìpi; dobbiamo lavorare con le nostre braccia; dobbiamo pensare con la nostra intelligenza».77 L’uomo che aveva sempre difeso l’indipendenza culturale prediceva: «L’era della nostra dipendenza, il nostro lungo apprendistato culturale stanno per volgere al termine. Le giovani vite che a milioni nascono intorno a noi non saranno eternamente nutrite dai raccolti dello straniero». Ancora una volta, ricor78
dava che i valori del Bello «appart[enevano] intrinsecamente al Massachusetts come alla Toscana e alle isole greche».79 E Thoreau, ironico, celiava: «Quando a Parigi lo scimmione si mette il cappello da esploratore, in America tutti gli scimmiotti lo imitano».80 Queste parole venivano pronunciate in un periodo estremamente difficile, per lo più caratterizzato da una baldanza mentita, di facciata. Una generazione dopo, sarebbero prevalsi l’ottimismo e la fiducia nella capacità americana di trovar posto nell’agone artistico internazionale. «Concorriamo alla gara con gli altri paesi, facciamo venire da noi i migliori artisti del mondo intero» esclamava Jackson Jarves. «Tiziano non era di Venezia, ma oggi il suo nome sta scritto fra quelli più famosi della scuola veneziana, come quello di Raffaello nella scuola romana e quello di Leonardo nella scuola milanese… E l’America non blocchi questa forte linea politica: più di ogni altro popolo, noi abbiamo molto bisogno di sostegno culturale.»81 Nell’insieme, non ci furono dibattiti dedicati al ruolo degli artisti americani o alla promozione dell’arte in America che, anche solo implicitamente, non si rifacessero al modello europeo. Il riconoscimento ottenuto in una capitale europea conferiva agli artisti un’aura evidente: i vari Benjamin
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West, John Singleton Copley, John Vanderlyn, Washington Allston, Thomas Sully, furono casi esemplari di questo fenomeno. Dopo la Guerra di Secessione, con la generazione di Winslow Homer e Albert Pinkham Ryder, che a tratti riusciva a interessare l’Europa, i pittori americani rimasti in patria iniziarono a darsi coraggio. In Europa, alla fine del Settecento, con Hölderlin, Novalis e Shelley, era nato lo spirito romantico. Schierati contro il conformismo e il gusto dominante, rifiutando gli atteggiamenti retrivi verso l’arte, erano riusciti a inventare una nuova posizione per l’artista in seno alla società. Pittori, scultori, scrittori e poeti si univano contro le istituzioni per dar vita a una solidarietà sempre più tenace e produrre opere sempre più innovative e provocatorie. In Francia, si chiamavano Delacroix, Hugo, Courbet, Baudelaire, Manet, Zola… Lontano, dall’altra parte dell’Atlantico, i pittori americani sentivano rimbalzare, storditi, l’eco della nuova avventura europea. 42