Andy warhol superstar

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Le onde di rifrazione della Factory sono durate per anni, ancora oggi di tanto in tanto è possibile percepirne il riverbero.

Luca Scarlini

Andy Warhol superstar Schermi e specchi di un artista-opera

Luca Scarlini (1966), saggista, drammaturgo, storyteller, Luca Scarlini  Andy Warhol superstar

curatore di mostre sulle relazioni tra arte e spettacolo e sull’illustrazione. Tra i suoi libri: Lustrini per il regno dei cieli (2008), Sacre sfilate (2010), Un paese in ginocchio (2011), La sindrome di Michael Jackson (2011), Il Caravaggio rubato (2012).

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€ 8,90

Nella stessa collana: 1. Marco Belpoliti Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio 2. Clément Chéroux L’immagine come punto interrogativo o il valore estatico del documento surrealista

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3 ISBN 978-88-6010-079-5


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Luca Scarlini

Andy Warhol superstar Schermi e specchi di un artista-opera


Vendere, comprare, celebrare, dimenticare

Sarò il tuo specchio, Rifletterò quello che sei, se tu non lo sai. The Velvet Underground, I’ll be your mirror

Gli anni sessanta amano le due dimensioni, gli effetti di superficie delle raffigurazioni psichedeliche, la magrezza efebica, che per la prima volta si sostituisce alla salute a tutti i costi esibita dalle signorine e dai signori americani anni cinquanta, che scoppiano sempre di vigoria nelle immagini d’epoca. Le preppies e i college boys infatti sono tutto un fulgore di capelli lisci e muscoli, abbronzatura e forma fisica. I modelli sono Sandra Dee e Tab Hunter, morbidi come pupazzi e perfettamente levigati. Senza dubbio sono divinità solari: amano il giorno. L’underground warholiano preferirà la metropoli, la notte, il pallore e l’eroina agli allenamenti e ai picnic. Il look vampiresco, la decadenza, il travestimento avranno la meglio su un’intera retorica della salute, spazzandola via. La pubblicità adora i personaggi famosi, quelli che tutti vorrebbero imitare, per la perfezione del loro lifestyle. Gli spot negli anni cinquanta e sessanta sono lunghi, verbosi e pieni di pause, assai lontani da quelli di oggi. Gli artisti sono presenti, i prodotti più diversi ne hanno bisogno. Salvador Dalí, sempre in prima fila nelle vesti di

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Avida Dollars quando ci siano buone occasioni di guadagno, coglie una serie di risultati surreali, oltre ogni immaginazione, nello spot. In patria è serio e perfino azzimato mentre disegna un’immagine della penisola iberica per vendere il brandy Veterano. Ben diverso è il gioco quando in Francia deve promuovere il cioccolato Lanvin: i suoi baffi, lanciati a tutta velocità in mille figurazioni coreografiche, sono strumento di occulta persuasione, prima di addentare egli stesso con uno scroc una tavoletta. Nel 1968 compare in America al fianco di uno sbalordito Whitey Ford, celebre giocatore di baseball che cerca di arginare il suo debordante monologo, in uno spot per la compagnia aerea Braniff, che i responsabili della campagna vorrebbero vendere come il viaggio dei ricchi e famosi. Il set è quello di un Boeing, con due poltrone di velluto poste accanto a simulare la visione di un volo. Lo stesso anno, in un altro episodio Braniff compare Andy Warhol che, vestito di pelle nera, comunica una lezione sull’arte a uno sbalordito Sonny Liston, campione del mondo dei pesi massimi, che lo fissa tra la meraviglia e il terrore. «C’è una bellezza nella lattina di zuppa Campbell che Michelangelo non avrebbe saputo intuire.» Poi tace e segue una voce off che dichiara, curiosamente: «Andy ama le nostre ragazze, il nostro cibo, il nostro stile» e poi l’artista recita rapidissimo il jingle della compagnia: «When you got it – flaunt it». Perfetto nella sua alienità: come lo sarà tanti anni dopo nel cameo al fianco di Marion Ross (la Marion di Happy Days) in una memorabile puntata di Love Boat.

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L’artista di Pittsburgh era attratto da Dalí, forse anche nei suoi specifici connotati (da molti presi di mira) di artista pubblicizzato e pubblicitario. Nel 1966 lo ritrae in uno screen test, in seguito al grazioso intervento di Ultra Violet, che fa da tramite tra la Factory e il lussuoso Hotel St. Regis dove l’artista spagnolo dimora con la lunatica moglie Gala. A lui dedica anche un mediometraggio intitolato Dalí, in cui il nostro incontra i Velvet, e sui giornali del periodo ricorrono le foto dei due che si baciano durante i vari party. Lou Reed nella deliziosa Smalltown, che apre il requiem Songs for Drella, canta: «I’m no Dali coming from Pittsburgh», quasi a indicare quale sarebbe stato il modello per le tante performance successive. Gli artisti nel dopoguerra compaiono negli spot o li creano. Succede anche in Italia con la ricca storia di Carosello, eppure, come sempre nel paese dell’idealismo crociano, tutto questo ricchissimo filone di “estetica commerciale” è da noi ancora oggi assai poco storicizzato e anzi per solito nascosto e messo tra parentesi. Nel 1957, al debutto del popolare programma, amatissimo per esempio da Jean-Luc Godard, la Distilleria Fabbri propone, per lanciare i propri prodotti, Un pittore alla settimana. I caroselli ospitano nomi noti come Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, Franco Gentilini, Renato Guttuso, Carlo Levi e Anna Salvatore. Sono piccole monografie con gli artisti italiani al lavoro nel loro studio (come in un’aggiornata versione della Bohème) e un commento divulgativo, ma informato, secondo i dettami di una verbosità tramontata, e incentrato sulla rivelazione della forma pittorica a partire dai primi segni di un dipinto.

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Nel finale, sotto il quadro, un gruppo di commensali brinda allegramente con il brandy Senior Fabbri. Dieci anni dopo, Pino Pascali, maestro di deliziose provocazioni visive, associa il suo nome a Carosello, realizzando tra gli altri graziosi numeri per Cirio e Algida. Nel 1972 l’agenzia McCann Erickson realizza un celebre spot per i cracker Saiwa, replicato per anni sui teleschermi con pochi canali. Ninetto Davoli interpreta un garzone di fornaio (Gigetto) che in una Roma all’alba canta a squarciagola (anche stonando) canzoni pop del momento (tra cui la celebre hit di Patty Pravo La bambola) mentre zigzaga in una metropoli deserta trasportando a destinazione la sua mercanzia. Regista di quel fortunato carosello è Giulio Paradisi, ma la suggestione proviene dall’episodio di Amore e rabbia di Pier Paolo Pasolini, di cui Davoli è musa e interprete; molti, per lungo tempo, ne attribuiscono l’ideazione al poeta. Warhol emerge proprio come artista pubblicitario nella New York degli anni cinquanta. I suoi luoghi sono quelli delle riviste di moda, che all’epoca erano in un momento di grande fermento, con un deciso gusto per l’invenzione grafica. L’illustratore si presenta nelle redazioni con abiti sdruciti e un portfolio curatissimo. Il connubio fa colpo: infioretta deliziose miniature, disegnate in un gusto molto francese, aggiungendo un po’ di spezie piccanti, con chiari riferimenti a Aubrey Beardsley (che tornano anche in tutti i suoi celebri disegni di piedi e peni del periodo). Ha un tratto leggero, aereo, quando graffisce un paio di guanti che accompagnano un articolo sul nuovo stile degli accessori a Parigi (e soprattutto questo sarà il suo campo

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per quasi un decennio). Si tratta di una linea che potrebbe ricordare quella dei disegni di Jean Cocteau per la grande Elsa Schiaparelli, ma anche, in Italia, il mondo dorato di Colette Rosselli, matita d’eccezione quando non vestiva i panni di Donna Letizia. Dopo la morte, al momento della vendita della sua collezione, emergerà uno straordinario numero (insieme a oggetti di ogni tipo) di opere tra Art Nouveau e Art Déco, testimonianza precisa delle origini di un gusto. Mentre il nostro si crea una fama per le sue eccentricità e per la convivenza, in puro stile Baby Jane, con la mitica madre Julia Warhola, Harper’s Bazar, Vogue, Glamour accolgono negli anni cinquanta le sue immagini di profumi, rossetti, negligé, abiti per uomo e soprattutto scarpe per signora, di ogni genere, forma e grado: segno di un vero e proprio feticismo che dura tutta la vita. Bonwit Teller, una catena di magazzini, e Israel Miller, celebre creatore calzaturiero, gli commissionano vetrine per le quali vince alcuni premi. La sua fama, quindi, si stabilisce presto nel mondo del commercio, come racconta un curioso libretto di fine anni cinquanta, A Thousand New York Names and Where to Drop Them, in cui veniva citato, orgogliosamente, alla voce “Fashion”. La celebrità e la medaglia d’oro dell’Arts Director’s Club gli arrivarono già nel 1951 per un’immagine pubblicata sul New York Times: un elegante tossico con tanto di siringa nel braccio, ideato per il radiodramma The Nation’s Nightmare. Questi primi successi lo promossero a perfetto illustratore di un successo mondano dell’epoca: il Complete Book of Etiquette di Amy Vanderbilt.

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Nel frattempo, prima di diventare il mito di se stesso alla Factory, aveva un proprio role model: Truman Capote. Lo aveva scelto come proprio alter ego nel momento in cui aveva letto, alla sua uscita, il romanzo-rivelazione Altre voci, altre stanze (1948), cronistoria di una sensibilità troppo acuta per un mondo di provinciali filistei, che si afferma nonostante tutto. Aveva scambiato il giovane scrittore, brillante e scandaloso, con l’idolo della sua infanzia: Shirley Temple. Lo inseguiva come successivamente le aspiranti superstar avrebbero fatto con lui. Nel nome di Capote si svolse la sua prima mostra newyorkese nel 1952, alla galleria Hugo, con disegni ispirati al romanzo, ma era estate e ben pochi si presentarono. La pubblicità era una risorsa ovvia ma controversa. Anche altri in quei tempi a New York vanno in questa direzione per i soldi, ma fingono di farlo “costretti” dal bisogno, per potersi poi dedicare al loro vero “mondo espressivo”. In quegli stessi anni operava per esempio il duo Matson-Jones (pseudonimo sotto il quale si nascondevano Jasper Johns e Robert Rauschenberg), ma con risultati decisamente inferiori a quelli di Warhol. La bella mostra londinese del 1998 al Barbican Centre, proveniente dal Museo Warhol di Pittsburgh, riproponeva, al fianco di molti telefoni con le registrazioni di dialoghi e conversazioni, alcune delle sue più famose creazioni per i negozi. Uno sguardo esatto alla relazione tra quel lavoro e i prototipi dell’invenzione pop. James Harvey dipingeva quadri (abbastanza di routine) nel mondo dell’Espressionismo Astratto, con un colore spesso, messo strato su strato, sempre in una gamma tra

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ocra, rosso, blu e azzurro. Nel segreto del suo conto bancario aveva però assai maggiori crediti per avere inventato la scatola del detersivo Brillo, di cui in fondo non volle mai assumersi la paternità. Warhol, dopo una fama pubblicitaria che non aveva mai celato, diventò celebre nel 1964 esponendo proprio quella fortunata confezione come nello spazio iperordinato di un supermercato nelle sale della Stable Gallery. Harvey morì poco dopo, a trentasei anni, e le scatole Brillo da quel momento appartennero a Warhol che ne fece una propria icona identitaria. La pubblicità e il mondo pop lentamente vincevano sulla retorica dell’artista romantico, alcolizzato, macho e disperato che aveva trionfato nel decennio prima a New York, come dimostrava la vicenda, in chiave «live fast, die young», di Jackson Pollock e dei suoi sodali dell’Espressionismo Astratto. La prima mostra pop di Warhol ebbe luogo lontano da fumose taverne e da rituali di autodistruzioni alcoliche con Peggy Guggenheim sullo sfondo e si svolse invece in un luogo decisamente glamorous, una vetrina: nell’aprile 1961 il display principale di Bonwit Teller esponeva, con i capi della collezione estiva, cinque sue opere. Tra queste compariva anche una delle sue opere seminali, Before and After, reinvenzione dell’immagine pubblicitaria di un chirurgo estetico in cui una donna dal naso adunco e ingombrante trovava la felicità ottenendo una nuova fisionomia decisamente più “alla francese”. Forse il pubblico percepì solo il lavoro di un dotato cartellonista, ma lì, in quello spazio di certo inedito per il contemporaneo, si dava l’inizio di una rivoluzione. Tra le

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opere c’era anche un fumetto di Superman, ma quel territorio, per quanto promettente, verrà presto abbandonato da Warhol dopo la comparsa sul mercato, nello stesso anno, di Roy Lichtenstein, che divenne lo specialista della comic strip dipinta e con il quale in seguito fece parte della prestigiosa scuderia di Leo Castelli. In quella stessa sede, quindici anni prima, Salvador Dalí aveva inscenato un numero memorabile rompendo una vetrina con una vasca in pelliccia realizzata insieme al pubblicitario Larry Vollmer. L’artista spagnolo era finito in prigione, ottenendo subito strepitosa pubblicità per la sua mostra, mentre Vollmer si era trasferito a Pittsburgh, dove sarà il primo a commissionare alcuni lavori a un giovanissimo Warhol, una serie di dipinti per Joseph Horne, il più importante grande magazzino della sua città natale. Era la primavera del 1948, di lì a poco avrebbe spiccato il grande balzo verso le faticose ma promettenti sponde dell’Hudson. Che l’arte fosse merce ormai era chiaro a tutti e bando agli idealismi delle avanguardie storiche. Nel dicembre dello stesso anno Claes Oldenburg aprì profeticamente The Store, il negozio dei negozi, trasformando una boutique dell’East Side di Manhattan in uno spaccio dei suoi oggetti d’arte che rappresentavano una vera e propria replica horror di quelli esposti nelle altre vetrine della zona. Lentamente, ma con sempre maggiore chiarezza, diventava evidente che il prodotto in vendita era l’artista nella sua essenza: il concetto di pop stava per arrivare a maturazione. Le cose si moltiplicano, si riflettono, inseguono fino alla loro dissoluzione. Warhol colleziona ossessivamente

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oggetti di ogni tipo: negli anni settanta i suoi assistenti raccoglievano ogni piccolo dettaglio di una quotidianità fitta di epifanie, paranoie e appuntamenti in scatole di cartone, che l’artista chiamava «capsule del tempo». Al museo di Pittsburgh oggi un’équipe di archivisti esamina questa congerie di materiali, che dovevano dare l’immagine di una vita minuto per minuto. Ognuno dei contenitori ha all’interno circa quattrocento oggetti: cartoline, lettere di fan, note spese, avvertimenti minacciosi, briciole di torte nuziali glassate, biglietti di spettacoli, ricevute per cheeseburger e barattoli di zuppa Campbell (effettivamente consumata dall’artista nel corso di tutta la vita, in specie nella versione, popolarissima, al pomodoro). Il Merzbau quotidiano, la barocca minuzia del nulla replicato nei mille lavori svolti contemporaneamente e nei mille party, implica una specie di requiem per l’oggetto, acquisito e poi dimenticato. L’artista registra ogni sua conversazione, ne trae materiale per romanzi (notevole nella sua prolissità è il progetto-fiume A pubblicato da Grove Press nel 1969), installazioni, serigrafie: il qui e ora si impone. Comprare l’arte permette di manipolarla, acquistare l’artista consente di aggiungere un elemento glamour alla rappresentazione del quotidiano. Warhol usa spesso se stesso come soggetto di scatti e autoscatti e si fa fotografare da altri. Tutto viene catalogato, giorno dopo giorno, per fornire un diario tanto minuzioso quanto inattendibile. Nei suoi anni pubblicitari, frequentava la galleria di Leo Castelli e comprava opere di altri autori tra cui quelle di Jasper Johns, che molto ammirava. Dall’azione di

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acquisire a quella di esporre il passo fu, infine, non molto lungo. Impadronirsi di un pezzo del mondo artistico fu il primo per farne parte.

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Autoritratto in uno specchio convesso

Come fece Parmigianino, la mano destra Più grande della testa, ammicca allo spettatore. John Ashbery, Autoritratto in uno specchio convesso

Il luogo non è la Factory d’argento, impacchettata certosinamente da Billy Name, ma è Fiumicino, rivista dagli occhi di un art director e di un regista, rispettivamente Mario Ceroli e Giuseppe Patroni Griffi. Warhol compare per un minuto, forse meno, in un frammento del film Identikit. Si trova di fronte a uno dei suoi idoli serigrafati: Liz Taylor. La pellicola, magnifica e infine poco nota, del 1974, è tratta da un crudo romanzo di Muriel Spark che in italiano ha lo stesso titolo del film. La storia, ispirata alla cronaca, è quella di una donna che si reca a Roma alla ricerca di un killer che ponga fine alla propria e alla sua vita, diventata per lei ormai solo un peso. Vestita con un vistoso abito a strisce inventato da Gabriella Pescucci, Liz guarda stonatissima la pista, dopo un inseguimento e una sparatoria tra un ladro e i carabinieri. Warhol è vestito di bianco e crema, ton sur ton ossessivi, gli abiti sono solo di qualche sfumatura più colorati del suo volto come al solito cereo. L’artista guarda il suo idolo e le porge un libro da viaggio, un noir, The Walter Syndrome (opera di Richard Neely) che le è caduto di mano. I due si osservano

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senza parlare, si fissano come due fantasmi: il film mette in scena una spettacolare assenza, elemento squisitamente pop. La rappresentazione è quella di un vuoto così pneumatico e assoluto che l’estinzione diviene meta desiderabile. In questo cameo si dà l’idea di una continua presenza in scena di Warhol, in cui la cosa più importante, l’aura o il fascino, sembra però essere altrove, in una dimensione parallela. Il concetto di superstar si applica a lui meglio che a ognuno dei suoi interpreti: la sua immagine è divenuta sintomo della modernità. L’artista è una creatura bianca, levigata, aliena, in altre parole uno schermo su cui si possono proiettare i desideri altrui. Richard Avedon fotografa Warhol all’indomani dell’uscita dall’ospedale in seguito al tentato omicidio ordito ai suoi danni da Valerie Solanas, poetessa, prostituta, attivista di un suo proprio complotto paranoico. Il corpo dell’artista esibisce i suoi segni, quelli delle operazioni chirurgiche, con otto cuciture che si susseguono (cinque in basso e tre in alto). “Party Andy”, colui che molti benpensanti odiavano per il suo stile d’arte e di vita, diventa qui una presenza schiacciante, modello di una body art estrema, che smetteva di praticare la superficie per ritrovarsi costretta a un incontro con le profondità del corpo. Il gesto omicida della “filosofa da strada” aveva fatto collassare la facciata d’argento della glamorous life di cui Warhol, negli anni, era diventato epitome. Aveva rivelato una fragilità sotto la superficie specchiante garantita dalle anfetamine e dallo speed, strappando l’involucro dorato della più perfetta confezione pop. D’altra parte nel suo visionario, magnifico

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manifesto scum miss Solanas, che accusava Warhol di averle smarrito o rubato una sceneggiatura su cui aveva lavorato a lungo, indicava chiaramente per tempo i suoi bersagli: «Ecco qualche esempio dei tipi più detestabili e nocivi: gli stupratori, i politici con tutto il loro seguito […], i cantanti e i musicisti pidocchiosi, i Dispensatori della Pagnotta, gli albergatori, i proprietari di localacci bisunti e di ristoranti dove si suona musica da strapazzo, i “Grandi Artisti”». Nella continua festa mobile della Factory un monito del genere sembrava solo l’ennesima stravaganza, tuttavia lo specchio degli innumerevoli ritratti e screen tests era convesso, distorceva l’immagine più di quanto la riproducesse fedelmente. Alcuni dettagli che sembravano casuali o di minore importanza erano invece il nocciolo della questione. La prima volta che Andy era comparso sul piccolo schermo era stato all’inizio del 1951 nella rubrica Art Directors and Studio News: la sua mano destra aveva disegnato la mappa delle previsioni del tempo. Una visione profetica sulla sua continua tensione tra essere e scomparire nell’immagine. Da tempo lavorava sul suo aspetto, che poco gli piaceva: si dedicava alla palestra, si era fatto ritoccare il naso (senza rimanerne soddisfatto) e aveva iniziato a adottare parrucchini di ogni tonalità per celare la calvizie precoce, scegliendo rapidamente il grigiobianco come suo colore favorito per infiniti giochi sulla propria età. Insieme erano comparsi gli occhiali scuri, adottati anche di notte, come segno di una progressiva separazione dal quotidiano.

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Io è un altro

Quando ero piccola, mia mamma mi ha Detto che da quando nasciamo siamo tutti superstar. Lady Gaga, Born this Way Ad Andy sarebbe piaciuto essere chiunque, salvo Andy Warhol. Truman Capote

Andy Warhol ha sempre rifiutato l’identità nelle sue espressioni prevedibili e ha sempre gradito avere controfigure, replicanti, sosia, imitatori, che gli permettessero di vivere meno la tensione di dire io, di affermare una qualunque dichiarazione categorica di esistenza. Il suo lavoro, dal 1963, mise precocemente in crisi l’autorialità con la scelta di una serializzazione assoluta realizzabile solo nella dimensione di una “fabbrica” collettiva di segni. Le reazioni a questa sua moderna “bottega” furono spesso violente, proprio come accade oggi con Damien Hirst e il suo anonimo stuolo di assistenti. Com’è noto, le opere cinematografiche warholiane, dopo i primi tentativi, non lo vedevano spesso dietro la macchina da presa. Questo soprattutto a partire dalla collaborazione con Paul Morrissey che introduceva elementi di maggiore costruzione narrativa mainstream nelle produzioni della Factory. Nel 1964 Warhol incontra Edie Sedgwick, figlia di uno scultore, proveniente da una famiglia illustre e assai facoltosa. È una society belle, già famosa per le lunghe gambe, il corpo da ragazzo, i capelli corti e la tendenza

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alla smodatezza. La sua vita bruciata, che si concluderà nel 1971, all’età di ventotto anni, sarà sotto il segno della droga e della messinscena, sempre vicina al grande successo come modella per Vogue che finì per sfuggirle. Insieme ad Andy inventò nel 1965 la coppia del momento in una chiave di androginia gemellare. Anche se qualcuno azzardò a un possibile fidanzamento, l’effetto che i due creavano nelle numerose foto dell’epoca era in sostanza quella di fratelli molto cool, distaccati e provocatori a un tempo, due creature truccate e vestite nello stesso modo. Un numero di seduzione doppia che negli anni trenta avevano anticipato i fratelli Mann, Klaus ed Erika, nelle loro performance, ma che in questo caso veniva portato a perfezione. Nel 1965 Edie gira il primo film con Warhol, Vinyl, dove si dedica a scene di tortura con Gerard Malanga, artista della frusta, con cui poi si esibì anche in scena. Malanga era, di fatto, in quegli anni il principale collaboratore di Warhol, sempre più perfezionandosi nell’uso della frusta, come accadde tra l’altro anche nel celeberrimo epi (Exploding Plastic Inevitable) con i Velvet Underground. Durante questo evento si esibì in una famosa danza sadomaso con Mary Woronov, dominatrice da manuale, vestita di latex e dalla mano pesante. I tempi corrono, gli eventi incalzano. Nello stesso anno Vogue dedica a Edie un lungo servizio, intitolato “La ragazza con le calze nere”, con belle fotografie di corredo in cui la it girl del momento veniva paragonata perfino al principe Amleto per il nero di rigore delle sue calzamaglie. Poi, nella frenesia delle apparizioni e delle realizzazioni, giunse anche il momento della prima retrospettiva

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dedicata a Warhol all’Institute of Contemporary Art dell’Università di Philadelphia. L’8 ottobre 1965 segnò la data di un evento mediatico senza precedenti per l’arte contemporanea: “Andy e Edie” divenne l’urlo scandito dai quasi duemila spettatori (in buona parte giovani) che premevano per entrare alla mostra come se si trattasse di un concerto rock. Il curatore, preso dal panico, aveva rimosso buona parte delle opere, lasciando uno spazio praticamente vuoto: Edie e Andy erano ormai il solo oggetto in mostra. I due, anche se non coetanei, erano i perfetti simboli di quelli che i giornali (usando volentieri l’immagine della prima) chiamavano youthquakers, gli araldi di un mondo nuovo in cui la giovinezza era il tema principale mentre il terremoto evocato dal nome era legato a una grande aspettativa di futuro. Uno spazio dove tutti sarebbero stati disposti a tutto pur di essere magri, scattanti, giovanili (grazie alle anfetamine o a qualche altra pillola magica), per stare fuori tutta la notte e ballare fino all’alba. Era quello il tempo in cui, grazie all’esempio warholiano, la relazione tra i jeans, fino a poco prima banditi dal mondo “adulto”, e l’ufficialità diventava stretta. L’artista aggiungeva cravatte e scarpe di grido (delle magnifiche Ferragamo fatte a pezzi e macchiate di vernice) a un look fino ad allora esibito solo da giovani ribelli. La ragazza dai capelli bianchi si era presentata a Philadelphia con un abito di Rudi Gernreich, in sostanza una specie di lunga maglietta arrotolabile e adattabile. In quel clamore aveva realizzato un numero provocatorio, seducendo il pubblico, che fustigava con le sue lunghis-

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sime maniche, sorridendo alle telecamere, facendo inferocire tutti mentre urlava: «Non è vero che Andy Warhol è un artista meraviglioso?». Ormai i due erano la nuova maschera americana: Roy Lichtenstein e sua moglie Dorothy l’anno successivo si travestirono come loro per un party in maschera dato dalla pittrice Adele Weber. L’idillio tra Andy e Edie sarebbe finito di lì a poco, quando Bob Dylan entrò nel quadro e la loro relazione iniziò ad appannarsi fino alla rottura definitiva, con la richiesta da parte di lei di non mostrare più i film fatti insieme. La bellissima bambola gemella era stata rimessa rapidamente sullo scaffale, anche se nel breve arco di un anno i due avevano realizzato la bellezza di quindici film. Nel frattempo era emersa una figura pubblica gemellare in cui perdersi, nascondersi, riflettersi. Nel novembre del 1966 Warhol chiese al poeta René Ricard di impersonarlo davanti alla macchina da presa. Insieme a una Edie ormai distrutta comparve così in un film intitolato The Andy Warhol Story, ultimo incontro tra i due ex gemelli. La performance si basò soprattutto su scene di insulti che Edie rivolgeva a Ricard-Warhol, il quale amava moltissimo scene di masochismo estremo come queste e che si limitò a editare al montaggio i passi più deliranti, anche se i due rulli vennero mostrati solo di rado, tanto che questo resta uno dei film meno visti della Factory. Per Holly Woodlawn come per altri, il gioco tra Andy e Edie alludeva alla figura mitologica di Judy Garland, nel mimare quella sintesi di sfrenatezza e disastro che Warhol adorava nei fasti hollywoodiani e di cui voleva imitare i meccanismi magnifici e perversi, proponendosi come produttore e

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talent scout senza scrupoli di divi dalla fulgida ascesa e dall’altrettanto rapida caduta. Nel 1966, all’apice del successo, l’artista veniva chiamato da tutti i college americani a tenere conferenze, anche in seguito alla richiesta diretta degli studenti attratti dal suo mondo colorato. Warhol aveva poca passione per l’intervento in pubblico e temeva il contradditorio: di fronte alle domande si limitava di solito a rispondere con una serie di monosillabi. La confusione regnava sovrana nel mondo della Factory: il pubblico confondeva Viva per Ultra Violet e Edie per Andy, quindi perché non approfittarne? Allen Midgette, biondissimo ed efebico danzatore, prima di approdare al metafisico West di Lonesome Cowboys era stato in Italia dove aveva lavorato in varie occasioni con Bernardo Bertolucci, che per lui aveva scritto il ruolo di Agostino in Prima della rivoluzione. Fu lui il prescelto per sostituire l’artista in una conferenza a Rochester, quando Andy decise di non voler più fare tournées accademiche. Quindi, con i capelli tinti di bianco, insieme a Paul Morrissey vestito nell’identico modo, prese la via dei college con grande successo, finché qualche mese dopo un funzionario si accorse della differenza tra il suo oratore e la faccia dell’artista nelle foto pubblicate sul Village Voice e si infuriò chiedendo i soldi indietro. Il nostro fu costretto a tornare in alcuni dei campus mentre venne decisamente ritenuto persona non grata, ma rimase categorico: «Per me Allen era un Andy migliore di me […], era di una bellezza straordinaria e aveva quindici o venti anni in meno. Per lo stesso motivo avrei voluto sempre che fosse Tab Hunter a impersonarmi in una storia della mia

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vita: la gente sarebbe molto più contenta di immaginarmi bello come Allen e Tab». La smaterializzazione dell’identità, sempre coltivata in vita, dopo la sua morte ha toccato esiti imprevedibili. A Medzilaborce, in Rutenia, luogo di origine della madre dell’artista, un curatore locale, Michael Bycko, insieme alla famiglia Warhola, ha creato un museo Warhol. Quell’estremo lembo di Slovacchia ha inizialmente accettato assai male l’idea, finché l’ideatore non ha pensato di rivelare ai suoi concittadini i cospicui trascorsi comunisti del nostro per sottrarlo all’aura di “intellettuale decadente e frocio” a molti decisamente sgradita. Il gioco delle apparenze e dei look continuò a lungo alla Factory ma anche in seguito. Leonard Cohen, non ancora celebre chansonnier ma poeta che cominciava dal natìo Canada a farsi notare come performer a New York, ha raccontato di quando seguiva una sera dopo l’altra Nico al Dom, studiando quello stile di canto gotico, quella presenza aliena, di cui ha fatto tesoro. Jerry Malanga ha spesso lamentato, invece, nelle interviste di come Jim Morrison gli avesse scippato l’idea dei completi di pelle nera, che lui ma il cantante portava ovviamente con ben altro carisma, sdoganando il sadomaso come stile di abbigliamento mainstream. Le onde di rifrazione delle invenzioni della Factory sono durate per anni, ancora oggi di tanto in tanto è possibile percepirne il riverbero.

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