Storia dell’Arte alla Columbia University, è uno degli esperti più autorevoli di Arte Concettuale. Curatore di mostre, giornalista e autore di numerosi saggi, insieme a Blake Stimson ha pubblicato Conceptual Art: A Critical Anthology (MIT Press, 2000) considerata dagli addetti ai lavori
«L’aspetto economico dell’Arte Concettuale è forse il più interessante. Dal momento che il possesso di un’opera non dava al suo proprietario il grande vantaggio del controllo su di essa, questa forma d’arte comportava un ritorno alla domanda sul valore della sua appropriazione privata. Come può un collezionista possedere un’idea?» Seth Siegelaub
la bibbia dell’Arte Concettuale. Attualmente, sta completando uno studio inedito sulla nascita e lo sviluppo dell’arte astratta in America
«La ricostruzione più scrupolosa che sia mai stata pubblicata sull’Arte Concettuale, e un
Latina.
nuovo, fondamentale tassello nel panorama artistico del secondo dopoguerra.» Pamela Lee, Stanford University «Un libro che traccia un affascinante parallelismo tra il mondo dell’arte e quello del capitalismo post-industriale e delle telecomunicazioni.» Michael Dashkin, Literary Journal «Coraggioso e suggestivo, in moltissimi sensi.» Peter Osborne, Artforum
Alexander Alberro Arte Concettuale e strategie pubblicitarie
Alexander Alberro, professore associato di
L’Arte Concettuale è stato uno dei movimenti artistici più importanti della seconda metà del xx secolo. Ripartendo dalle sue origini negli anni sessanta e dai princìpi enunciati da Dan Graham, Joseph Kosuth, Sol LeWitt e Lawrence Weiner, Alberro ne ripercorre la parabola specificatamente newyorkese attraverso le vi-
Arte Concettuale e strategie pubblicitarie
cende del suo protagonista indiscusso, Seth Siegelaub. Gallerista sui generis eccentrico e poliedrico, Siegelaub sostenne gli artisti che sembravano «creare opere dal nulla» con metodi di promozione assolutamente eterodossi, li sponsorizzò attraverso un business oculato e diplomatico e preparò l’entrata in scena nel mondo dell’arte di un nuovo tipo di attore: il curatore freelance. Alberro offre un’inedita carrellata dei materiali e delle recensioni relative alle opere più importanti, inserendo l’Arte Concettuale nel contesto sociale della ribellione alle istituzioni culturali tradizionali, della commercializ-
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zazione e degli albori del mondo globalizzato. Dalla sua scrupolosa ricostruzione, però, emerge una nuova prospettiva: questo movimento in realtà non intendeva affatto rifiutare il mercato, ma conquistarlo rivoluzionandolo. In questa ottica Siegelaub fondò, per esempio, la Image Art Programs for Industry Inc., una società che grazie all’arte contemporanea conferiva un valore aggiunto alle aziende in cerca di visibilità sociale, e redasse l’Artist’s Reserved Rights Transfer and Sales Agreement, un nuovo tipo
Nella stessa collana:
di contratto con cui si cercava di limitare lo
1. Karine Lisbonne – Bernard Zürcher,
strapotere di collezionisti, gallerie e musei a
Arte contemporanea: costo o investimento?
favore di un incremento dei diritti dell’artista e che involontariamente finì per sancire la so-
Una prospettiva europea 2. Olav Velthuis, Imaginary economics
€ 24.00
vrapposizione tra arte e capitalismo.
Quando l’arte sfida il capitalismo 3. Paul Werner Museo S.p.a. La globalizzazione della cultura
Esec-a-e-Alberro.indd 1
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Alexander Alberro
Arte Concettuale e strategie pubblicitarie Traduzione di Simone Menegoi e Cristina Travaglini
Parte prima Le contraddizioni dell’Arte Concettuale
L’aspetto economico dell’Arte Concettuale è forse il più interessante. Dal momento che il possesso di un’opera non dava al suo proprietario il grande vantaggio del controllo su di essa, questa forma d’arte comportava un ritorno alla domanda sul valore della sua appropriazione privata. Come può un collezionista possedere un’idea? Seth Siegelaub, 19731
La figura dell’artista si modificò in modo impressionante nel corso degli anni sessanta. La fantasia hollywoodiana del personaggio tragico che trasforma eroicamente la materia bruta in arte era già stata contestata negli anni cinquanta, il momento della sua ascesa, e apertamente ripensata, a vari livelli, all’inizio del decennio successivo. Ma nel corso degli anni sessanta, una nuova generazione di artisti si spinse ben oltre la demolizione del concetto di espressione soggettiva in arte, dedicandosi a una sperimentazione continua di metodi e materiali nuovi associata a un carrierismo senza precedenti. In questo processo, gli artisti incominciarono ad assomigliare sempre più ai professionisti di altri campi di specializzazione, nei quali il successo premia coloro che amministrano e promuovono il loro lavoro con le strategie migliori. Che lo spirito dei giovani artisti, molti dei quali con un elevato grado di istruzione e aspirazioni da ceto medio, sembrasse seguire gli sviluppi del mondo degli affari e della classe manageriale emergente, era un fatto sempre più riconosciuto. In un saggio del 1964, Allan Kaprow dichiarò: «Se gli artisti nel 1946 erano all’inferno, ora sono in affari». Gli artisti di oggi, continuava Kaprow, per i quali la vita sociale è sempre più vantaggiosa, «non possono lasciare le loro carriere interamente al caso, altrimenti si troveranno tagliati fuori da altri, che delle loro carriere si prendono cura».2 Il critico Barbara Rose espresse un sentimento affine l’anno seguente, lamentandosi del fatto che «fra gli studenti d’arte si percepisce una mentalità del tipo “voglio riuscire”», e nel 1967 Alan Solomon notò che «è diventato sempre più difficile distinguere
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gli artisti dai collezionisti».3 Ma ciò che riassume meglio il nuovo fenomeno della sovrapposizione fra affari e arte, è la dichiarazione della società che nel 1969 sponsorizzò la mostra di Arte Concettuale “When Attitudes Become Form”. Il presidente della Philip Morris dichiarò: Alla Philip Morris crediamo sia appropriato contribuire a portare queste opere all’attenzione del pubblico, perché c’è un elemento cruciale nella “nuova arte” che trova il suo equivalente nel mondo degli affari. Questo elemento è l’innovazione, senza la quale il progresso in ogni comparto della società sarebbe impossibile. Proprio come l’artista si sforza di migliorare la sua interpretazione e i suoi concetti attraverso l’innovazione, così un’entità commerciale si sforza di migliorare il suo prodotto finale o i suoi servizi attraverso la sperimentazione di nuovi metodi e materiali. La nostra costante ricerca di modi nuovi e migliori di lavorare e produrre è simile all’indagine degli artisti le cui opere sono qui presentate.4
Allo stesso modo, molti, nel mondo delle società multinazionali degli anni sessanta, pensavano a un’arte ambiziosa non come a un nemico da far cadere o una minaccia alla cultura dei consumi, ma come a un alleato simbolico. Da16
vano il benvenuto alla nuova arte perché percepivano in essa un equivalente della loro stessa ricerca di nuovi prodotti e nuovi mercati. Questo spostamento non era un evento isolato. Era invece analogo al nuovo genere di società che stava emergendo nelle parti del globo più soggette all’influsso dei campi di forza del capitalismo multinazionale. Descritta in vario modo – come post-industriale, dell’informazione, dei consumi – era una società caratterizzata, fra le altre cose, da nuove modalità di comunicazione e diffusione dell’informazione, nuovi tipi di consumo, un ritmo sempre crescente nel mutamento di mode e stili, e la proliferazione senza precedenti della pubblicità e dei mezzi di comunicazione. Fornire servizi e manipolare l’informazione divenne il cuore del nuovo paradigma economico, che Michael Hardt e Antonio Negri hanno opportunamente definito “informatizzazione”.5 L’emergere dell’Arte Concettuale è strettamente legato a questo nuovo momento del capitalismo avanzato. Di fatto, le inconsuete caratteristiche formali e le modalità di circolazione del Concettualismo utilizzano e mettono in pratica la logica profonda dell’informatizzazione. E ciò si manifesta con una chiarezza senza paragoni nelle attività espositive e di diffusione pianificate dal mercante d’arte e imprenditore Seth Siegelaub (fig. 1), al quale, alla fine degli anni sessanta, ci si riferiva come al «Kahnweiler dell’ultimo scorcio del xx secolo».6 Prima del suo brusco allontanamento dal mondo dell’arte nel
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1. Duane Michaels, Seth Siegelaub, 1969.
1971, Siegelaub organizzò un gran numero di mostre d’Arte Concettuale, che si rivelarono cruciali ed estremamente influenti. Nel far ciò, giocò un ruolo centrale nella trasformazione delle attività di produzione ed esposizione dell’arte alla fine degli anni sessanta.7 Un’indagine sull’emergere dell’Arte Concettuale attraverso l’ottica del coinvolgimento di Siegelaub in questo movimento artistico permette non solo di comprendere il mutamento della figura pubblica dell’artista e la totale integrazione dell’arte, ma offre anche una visione della relazione che si andava stabilendo fra la nuova economia del valore estetico e la critica della cultura politicamente orientata che eruppe alla fine degli anni sessanta. Una simile ottica accresce la messa a fuoco, ma limita necessariamente la prospettiva su ciò che al principio fu l’Arte Concettuale. La prima limitazione è di carattere geografico: benché uno degli scopi essenziali del Concettualismo fosse precisamente quello di decentrare il “mondo dell’arte”, questo studio ha un taglio newyorkese, poiché New York era non solo il luogo dal quale Siegelaub agiva negli anni sessanta, ma anche il luogo «centrale per la promozione artistica, per le recensioni, i libri, le gallerie, eccetera».8 La seconda limitazione è di genere: tutti gli artisti legati a Siegelaub erano uomini, il che purtroppo suscita l’impressione che le artiste non abbiano avuto parte nella storia del Concettualismo delle origini. E ciò è inesatto: non si deve sottovalutare l’importanza per la storia dell’Arte Concettuale delle origini di Rosemarie Castoro, Hanne Darboven, Christine Kozlov, Lee Lozano e Adrian Piper, per citarne solo alcune.9 Ma poiché Siegelaub non diede loro priorità, l’immagine che ne risulta appare qualcosa di simile a un “club per soli uomini”. La terza limitazione è legata alla prima: gli artisti di cui si parla in questo studio sono tutti statunitensi. Come sopra: ciò non deve sminuire il significativo, importante lavoro degli artisti concettuali europei, latinoamericani,
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australiani, canadesi e asiatici negli anni sessanta.10 Infine, da un punto di vista cronologico, la prospettiva dello studio è limitata al periodo in cui Siegelaub fu attivo nel mondo dell’arte, fra il 1964 e il 1971. Non tratterò perciò né il lavoro di artisti post-concettuali degli anni settanta come Conrad Atkinson, Victor Burgin, Mary Kelly, John Knight, Barbara Kruger e Martha Rosler, né il lavoro dei molti artisti neo-concettuali degli anni ottanta e novanta. Tendenzialmente, i resoconti canonici sostengono che l’Arte Concettuale tentò di negare lo status commerciale dell’arte ma fallì nel suo intento. Lucy Lippard, il critico e difensore più importante dell’Arte Concettuale al suo apparire, preannunciò questo punto di vista già nel 1972, quando lamentò il fatto che il movimento avesse rapidamente capitolato di fronte alle forze del mercato e raggiunto il successo commerciale.11 Tuttavia, l’idea che l’economia politica dell’Arte Concettuale cercasse di eliminare lo status commerciale dell’oggetto d’arte, anche se estremamente stimolante, è un mito. Quando il Concettualismo era al suo inizio, artisti e mercanti d’arte dovettero certamente affrontare il problema di come un collezionista avrebbe potuto acquistare e possedere un’opera, ma non ci fu un solo momento in cui non cercarono di commercializzare l’arte. Come Siegelaub indicò nei primi anni settan18
ta, le domande relative al modo di trasferire la proprietà e di soddisfare il desiderio del collezionista di possedere un oggetto d’arte autentico (perfino in assenza di un oggetto d’arte nel senso tradizionale del termine) divennero presto obsolete, poiché fu trovato il modo di trasferire al mecenate d’arte la “firma” dell’artista, ovvero un “certificato di proprietà” dell’opera.12 Oltre ad affermare il ruolo cruciale di Siegelaub nel creare un packaging all’Arte Concettuale, questo libro esplora la relazione fra le innovative attività espositive e di diffusione che egli sviluppò alla fine degli anni sessanta e il dibattito estetico che si sviluppò nello stesso periodo nel lavoro degli artisti a lui legati. Si deve affrontare la natura contraddittoria del ruolo giocato da Siegelaub in tutta la sua complessità. Questo saggio considera il suo successo nell’organizzare e promuovere un gruppo di giovani artisti come più legato alla preoccupazione di rovesciare lo status quo del mondo dell’arte e di raggiungere un pubblico di massa, che a questioni estetiche. Quell’“esplosione”, come l’ha definita retrospettivamente Daniel Buren, favorita dalla trasformazione radicale dell’oggetto estetico, beneficiò largamente gli artisti che cercavano di opporsi alle gerarchie stabilite e alle economie di valore che regolavano il mondo dell’arte.13 Tuttavia, nel momento esatto in cui le ingegnose attività espositive e di diffusione di Siegelaub resero l’arte largamente accessibile e generarono modalità di consumo artistico sconosciute fino ad allora, emer-
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se un aspetto della sua attività molto più problematico. Questo aspetto fu individuato dal socio di più lungo corso di Siegelaub nel mondo dell’arte, Lawrence Weiner, già nel 1971: willoughby sharp: Potrebbe dire qualcosa sul ruolo di Seth Siegelaub?... lawrence weiner: Be’, mise insieme i lavori, e incoraggiò un racconto compiuto che è diventato vitale all’interno della cultura, e accettato in quanto entità. Confezionò insieme artisti diversi, ma dotati dello stesso spirito nei confronti dell’arte… Fu l’agenzia pubblicitaria, non era coinvolto nella parte artistica. ws: Ma non si può negare che Seth fosse consapevole, in anticipo quasi su chiunque altro, che qualcosa stava accadendo nella cultura. lw: Certamente. Seth fece davvero un buon lavoro. Il modo in cui creò un packaging, il modo in cui vendeva, erano eccezionali. Aveva il miglior detersivo per piatti di tutti.14
Leggere la comparsa dell’Arte Concettuale nella prospettiva delle attività espositive e di diffusione di Siegelaub permette dunque di gettare uno sguardo alla natura intimamente contraddittoria di questo movimento artistico, per il quale la fusione dell’opera con la sua messa in mostra e la sua promozione erano importanti quanto la ricerca egualitaria di una dimensione pubblica e dell’emancipazione dalle forme tradizionali di valore artistico. L’oscillazione fra queste due vie di sviluppo è la questione in gioco, la questione che definisce tanto l’Arte Concettuale quanto le possibilità culturali del presente.
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1 Arte, pubblicità, valore segnico
Come ha detto una volta uno dei miei poeti preferiti, Ezra Pound, lo stufato di manzo che cuoce sulla stufa non ha bisogno di pubblicità. Ce l’ha già. Ha il suo profumo. Si può annusare lo stufato sulla stufa. Ma lo stufato in barattolo dev’essere pubblicizzato. Qualcuno deve vendertelo. Non si vende da solo. Carl Andre, 1968 1 Siamo specializzati nello sviluppo e nell’organizzazione di programmi di pubbliche relazioni legati all’arte. Il programma artistico è il mezzo attraverso il quale raccontate la vostra storia alla comunità… [È] concepito per offrirvi il massimo ritorno su ogni dollaro investito in pubbliche relazioni. Seth Siegelaub e Jack Wendler, 1967 2
Quando Seth Siegelaub aprì la sua galleria a New York, nel giugno del 1964, aveva soltanto ventitré anni. Le circostanze erano favorevoli, poiché gli anni sessanta erano anni di boom economico e il futuro prometteva una crescita illimitata. L’euforia conquistò tutte le aree speculative, compreso il mercato dell’arte. L’arte veniva venduta a cifre record ed emergeva un nuovo tipo mecenatismo, vistosamente diverso da quello dei circoli d’élite che avevano dominato in precedenza il mercato negli Stati Uniti.3 «In un breve lasso di tempo» scrisse un osservatore nel 1966, […] il serio collezionismo d’avanguardia si è trasformato da un poco apprezzato atto di impegno privato nei confronti di idee non verificate, a una consistente attività pubblica che, nella nuova epoca del benessere, attira un numero sempre maggiore di ferventi proseliti. La difesa e il sostegno dell’arte sperimentale ha ormai acquisito una tale presa sull’immaginazione degli americani, che il normale scarto fra l’invenzione artistica e la sua accettazione da parte del pubblico sta scomparendo.4
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L’arte “sperimentale” aveva varie attrattive per i “ferventi proseliti”. Per cominciare, aveva ormai un valore di investimento, un fenomeno che mancava da molto tempo al mercato dell’arte. Se i compratori di arte come investimento nei primi anni del dopoguerra avevano generalmente acquistato opere tradizionali, nei primi anni sessanta la speculazione permeò ogni settore del mercato dell’arte, compresa l’arte contemporanea.5 Scaltri collezionisti e investitori scoprirono che l’arte contemporanea, che poteva essere comprata a prezzi stracciati perché recentissima, aveva un enorme potenziale di investimento. Inoltre, il mecenatismo dell’arte innovativa dava all’attività del collezionare lo stesso senso di avventura e di rischio che esisteva nel mondo degli affari. L’effetto complessivo di queste tendenze, unito ai cambiamenti nel regime fiscale, contribuì a creare un boom nel mercato dell’arte contemporanea, che a sua volta gonfiò il valore di scambio delle opere e attrasse un numero sempre maggiore di mecenati motivati dall’interesse. I giornali finanziari offrivano indicazioni sugli investimenti in arte, individuando il potenziale del lavoro di numerosi artisti e movimenti artistici, mentre i quotidiani recensivano più dettagliatamente le mostre delle gallerie e dei musei nelle loro rubriche sulla società. Nel 1963, un articolo sulla rivista Life annunciava a 22
grandi lettere che «più compratori che mai prendono il largo in un mercato [dell’arte] in espansione». L’articolo includeva riproduzioni delle opere di numerosi giovani artisti, insieme alla forbice di prezzo di ciascuno.6 Due anni dopo, un articolo su Newsweek, “La fiera delle vanità: la scena artistica newyorkese”, si concentrava sul modo in cui il mondo dell’arte in quanto istituzione fosse diventato il centro dell’attenzione, e l’artista un fornitore di merce, in uno scambio di beni alla moda.7 Ma all’ambiziosa arte contemporanea, nei primi anni sessanta, il mercato dell’arte in espansione offriva molto di più. Nella nuova fase del capitalismo centrata sull’immagine, il prestigio che questo genere di mecenatismo poteva dare al collezionista era altrettanto importante del valore monetario. Mentre la scena artistica contemporanea diventava oggetto di interesse per la stampa popolare, i media dedicavano ai collezionisti d’arte sperimentale una parte della stessa attenzione che dedicavano agli artisti.8 Negli articoli comparivano spesso slogan come “Queste immagini sono come azioni ibm, non dimenticatelo, e questo è il momento di comprare”, accanto a fotografie di collezionisti dall’aria à la page di fronte alle loro raccolte d’arte contemporanea.9 Appariva chiaro che i nuovi collezionisti gradivano stare sotto i riflettori, e le loro affermazioni riportate erano, in modo tipicamente americano, tutt’altro che culturalmente pretenziose. Come uno di loro spiegò all’autore di un arti-
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colo apparso nel 1965 sulla rivista Life: «Non guardo nemmeno i quadri. So soltanto che ci sono, e che ho la migliore e la più grande collezione del mondo».10 Per i giovani appassionati d’arte, socialmente in ascesa, molti dei quali con un retroterra di studi universitari e qualche conoscenza di storia dell’arte, l’arte contemporanea non ancora passata al vaglio della storia rappresentava al tempo stesso un mezzo per marcare la distanza rispetto al loro passato, e un modo per distinguersi rispetto ai loro simili più affermati, in gran parte conservatori in materia di estetica. L’arte sperimentale era à la page, e il mondo dell’arte contemporanea, con il suo carattere intrinsecamente rarefatto, offriva agli ambiziosi neoricchi uno spazio per collocarsi sul versante in ascesa della scala sociale. Francis O’Connor commentò questo fenomeno in Notes on Patronage: The 1960’s, scritto durante la recessione dei primi anni settanta, quando la grande prosperità del dopoguerra venne meno e il mercato dell’arte esaurì la sua spinta: «Questo nuovo pubblico era composto di giovani tecnocrati socialmente mobili, benestanti, con un alto grado di istruzione, impazienti di godere dei benefici della loro classe sociale, uno dei quali era l’arte. L’arte combinava in modo magico alcune caratteristiche irresistibili per questi nouveaux riches: era prestigiosa da possedere, vistosa da esibire, e quanto a potenziale di investimento, rivaleggiava con il mercato azionario».11 A differenza degli intenditori d’arte del passato, molti dei quali avevano fatto del collezionismo un passatempo per amatori, il tipico nuovo collezionista restava fortemente legato al suo mondo prosaico, di cui l’arte era una parte, anziché costituire un sollievo o una fuga dai valori e dalla pressione della routine. A conferma di questa prospettiva, l’“arte” compariva sempre più spesso negli edifici e negli uffici di proprietà delle aziende. Nella realtà, questo sottile mutamento, il fatto cioè che l’arte proliferasse ora nei luoghi di lavoro tanto quanto nei musei e nelle collezioni private, significava attribuire una minore importanza all’opinione dei critici e degli studiosi affermati, e fare affidamento, in misura sempre maggiore e più vistosa, sulle gallerie e sui mercanti, la cui consulenza spesso metteva l’accento sul valore di scambio delle opere accanto al loro valore estetico. L’impatto degli schemi di mercato messi in atto dal gruppo dei nuovi collezionisti, insieme all’attenzione quasi estatica dei media per la scena artistica, si combinarono dando luogo a un rovesciamento quasi totale dei processi tradizionali che garantivano riconoscimento agli artisti. Se in precedenza i critici eruditi avevano giocato un ruolo significativo nel consolidamento della reputazione di un artista, negli anni sessanta i nuovi collezionisti d’arte d’avanguardia incominciarono ad acquistare il lavoro di artisti che non erano stati ancora legittimati dalla critica,
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aumentando il loro riconoscimento e le loro opportunità economiche. Così, all’epoca, si espresse a riguardo il critico Harold Rosenberg: Le maglie della collaborazione fra chi vende, chi colleziona e chi espone l’arte sono diventate sempre più fitte, al punto che l’artista si trova di fronte a un solido muro di opinioni e di previsioni di tendenza costruito, in sostanza, con i dati del mercato dell’arte… La presenza di questa potente struttura professionale influisce in modo radicale sulla relazione dell’artista con la società e con il suo stesso prodotto, un tempo regolata in larga parte dal gusto dei mecenati.12
Come suggerisce Rosenberg, in questa drastica riformulazione dell’idea di mecenatismo, il mercante d’arte dallo spirito imprenditoriale, innovativo, spesso sprovveduto dal punto della conoscenza storico-artistica, sostituiva il critico d’arte specializzato nel ruolo di canale principale fra l’artista e il suo pubblico. Il critico, la cui importanza era rimasta intatta per tutta l’era della New York School, non era più il primo arbitro del successo artistico. Malgrado l’abbandono dell’elitarismo, ciò che emergeva era una crescente collusione fra mercanti, collezionisti, curatori e artisti, in cui il valore era determinato 24
dall’essere “di tendenza” e, in ultima analisi, commerciabile. Anche il “potere” di una collezione nel determinare il valore di un’opera, almeno potenzialmente, aumentava. Come Siegelaub notava in un’intervista del 1969, i collezionisti spesso approcciavano gli artisti con «qualche riga di stupidaggini su una collezione importantissima, e dicevano “vendimi l’opera a poco, sarà nella mia collezione”».13 Il valore, in questo nuovo schema, era determinato dalla “collezione” e, per estensione diretta, da un ambizioso collezionista con poca o nessuna cognizione artistica. In una conversazione con Charles Harrison del 1969, Siegelaub dichiarò che la gente viene a conoscenza dell’arte attraverso la stampa e la conversazione, o attraverso la pubblicità e la chiacchiera, due ambiti che Siegelaub stesso avrebbe sfruttato nel corso degli anni sessanta.14 Come notò un osservatore un decennio dopo, Nel 1965, era ormai irrilevante chi avesse scritto un articolo su un determinato artista, dove l’articolo fosse apparso, o quanto fosse favorevole. Poiché viveva al di fuori del mondo dell’arte, un numero sempre maggiore di collezionisti d’arte d’avanguardia non leggeva sempre riviste astruse come Artforum, o almeno non parola per parola. Una fotografia usata per illustrare un articolo su un artista si dimostrava spesso più efficace per il suo lavoro, in termini di marketing, che l’articolo stesso. Per la stessa ragione, un articolo su Time, Life o il New York Times
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era più utile a un mercante che un articolo su una rivista d’arte. Paradossalmente, gli articoli che criticavano il lavoro di un artista incominciarono ad avere lo stesso effetto degli articoli che lo elogiavano: entrambi portavano l’artista all’attenzione, spesso casuale, del pubblico.15
Quest’ultimo commento riecheggia in modo quasi esplicito le conclusioni dello studio del 1965 sul mondo dell’arte francese di Harrison e Cynthia White.16 La tesi dell’autore, è interessante notarlo, non era che la critica positiva fosse ormai indistinguibile dalla negativa, ma che ogni distinzione del genere fosse irrilevante nel fiorente mercato artistico degli anni sessanta. Il passaggio attira l’attenzione sullo spostamento, occorso in quel decennio, dalla seria analisi e dalla critica intellettuale all’importanza cruciale della pubblicità. In questo clima emerse una nuova figura di mercante, che doveva attrarre i collezionisti e allo stesso tempo mantenere le distanze rispetto ad essi.
Seth Siegelaub Contemporary Art La galleria di Siegelaub al 16 di West 56th Street a New York, chiamata Seth Siegelaub Contemporary Art, trattava non solamente arte ma anche tappeti orientali, che talvolta venivano inclusi nelle mostre.17 Quest’accoppiata procurò al gallerista il contesto giusto per offrire l’immagine del collezionista d’arte come un individuo di grande cultura circondato da oggetti raffinati. In più, la combinazione dell’arte “nuova” con i tappeti antichi, “senza tempo”, suggeriva inevitabilmente l’idea che in questo caso il “nuovo” avrebbe vinto la sfida del tempo e sarebbe divenuto “senza prezzo”. Le aggressive strategie promozionali di Siegelaub per la sua galleria erano evidenti nella struttura della sua prima mostra (14 settembre –10 ottobre 1964), in cui dipinti e sculture erano esposti in uno spazio al centro del quale, su un tappeto esotico, erano collocati sedie e divani. Il visitatore era incoraggiato a rilassarsi in quell’angolo facendo esperienza della mostra come di un unico ambiente.18 Gli aspetti avanguardistici della strategia espositiva di Siegelaub si fecero ancora più chiari con la seconda mostra, allestita a fine dicembre 1964 e centrata su una carnevalesca «esperienza di espansione della coscienza» creata dall’artista Arni Hendin. Questo happening della durata di quattro giorni incoraggiava la partecipazione del pubblico attraverso una serie imprevedibile di incontri. «Tra il 22 e il 25 dicembre» scrisse Siegelaub ai collezionisti Robert ed Ethel Scull il 18 novembre,
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Arni Hendin creerà presso la mia galleria un’esperienza chiamata “esplorazione della Reazione Sociale”, ossia la simulazione di un giorno nella vita del Signor e della Signora Persone Importanti. Un’intera giornata sarà ambientata in galleria: creeremo mura, stanze, un vagone della metropolitana, un ufficio, un negozio, una festa e un appartamento privato. Il Signor e la Signora Persone Importanti cominceranno la giornata nella loro casa fittizia e proseguiranno con il party fittizio. Le altre persone nella galleria potranno osservare il Signor e la Signora Persone Importanti nel corso dello svolgimento della loro giornata, mentre interpretano i propri ruoli di impiegati, artisti, anfitrioni, amici, collaboratori, eccetera. Mi aspetto che la mostra venga recensita da due riviste d’arte e un giornale (almeno finora) e penso che stringerò accordi con altri media a mano a mano che il progetto crescerà.19
Va notato che Siegelaub propone un’acuta critica sociale dei collezionisti, o Persone Importanti, mettendo in luce la banalità della loro routine quotidiana e appellandosi al contempo alle fonti che ne legittimano l’esistenza (i mass media) per conferire valore alla mostra. Ma ciò che in particolare vorrei evidenziare, è che fin dall’inizio della sua carriera Siegelaub attribuisce 26
grande importanza alla pubblicità e alla copertura da parte della stampa, coltivandola, plasmandola e facendo in modo di garantirsela.20 Nel corso degli anni a venire, Siegelaub dedicherà allo sviluppo dell’identità artistica, grafica e aziendale e alle strategie promozionali almeno la stessa attenzione dedicata alla produzione delle mostre. Il suo credo era che, con un corretto marketing, qualunque opera d’arte, per quanto anticonvenzionale, può essere venduta.21 Inizialmente Siegelaub cercò di associare l’identità della sua galleria con quelli che allora venivano chiamati happenings, “azioni”, “ambienti”. Avrebbe ospitato non solo i media tradizionali come pittura e scultura, ma anche – secondo il suggerimento di Allan Kaprow, con cui al tempo il termine happening era prevalentemente associato – «oggetti di ogni tipo... vernice, sedie, cibo, luci elettriche e al neon, fumo, acqua, vecchi calzini, un cane, film, e migliaia di altre cose».22 La polemica di Kaprow contro l’oggetto immacolato, fatto apposta per la galleria, venne pubblicata nella rivista “ufficiale” della New York School, Art News, e negli anni immediatamente successivi fu sposata da tutta una nuova generazione di artisti che si ponevano come obiettivo di ricollocare la pratica artistica nella vita quotidiana, distruggendo tutte le tradizionali divisioni non solo tra i generi artistici e i diversi media, ma anche tra l’artista e lo spettatore, il palcoscenico e lo spazio pubbli-
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co, gli oggetti artistici e non.23 E Siegelaub partecipava a questa tendenza nel suo ruolo di mercante d’arte e organizzatore di mostre. A conti fatti, comunque, la galleria Seth Siegelaub Contemporary Art operò soltanto dal 23 giugno 1964 alla fine di aprile del 1966. L’aumento del numero dei collezionisti negli anni sessanta fu accompagnato dall’aumento del numero di artisti e gallerie. Secondo una fonte, soltanto a New York durante questo periodo c’erano quasi mille gallerie.24 Con la proliferazione di spazi per l’arte provvisti di una clientela più solida, la competizione si fece più intensa e Siegelaub non riuscì più a vendere a sufficienza per sostenere le spese della galleria. Ma i giochi erano tutt’altro che chiusi per lui. Non si affiliò più a nessuna galleria in particolare, e tuttavia nei successivi sei anni organizzò numerose mostre di grande rilevanza e dal carattere pionieristico. E in questa veste giocò un ruolo addirittura più importante nella gigantesca trasformazione che ebbe luogo alla fine degli anni sessanta nel modo di produrre ed esporre l’arte.
I nuovi protagonisti del mercato Quando, nella primavera del 1966, la Seth Siegelaub Contemporary Art chiuse i battenti, Siegelaub cambiò strategia. Prese un appartamento di due stanze tra 82nd Street e Madison Avenue e cominciò a vendere direttamente, evitando così di dover sostenere le spese di una galleria. Continuò comunque con la pubblicità per posta e con la forte promozione di un gruppo selezionato e definito di artisti lungimiranti: un gruppo, tuttavia, ben più ristretto di prima.25 Siegelaub esponeva nel suo appartamento dipinti e sculture e riceveva solo su invito. Tramite la sua precedente attività di gallerista, aveva coltivato rapporti con molti appassionati d’arte, giovani uomini d’affari e collezionisti che amavano essere associati con gli artisti e far parte di quel “salotto” del mondo dell’arte. L’altro “ufficio” di Siegelaub in questo periodo era un nightclub di Manhattan, su Park Avenue all’altezza della diciassettesima strada: il Max’s Kansas City, dove artisti, critici, collezionisti e celebrità hollywoodiane si riunivano per bere e cenare. Il “capitale mondano”, quel network di contatti così importante per una carriera di successo, si trovava lì, notte dopo notte. Così Siegelaub trascorreva le sue giornate nell’appartamento di Madison Avenue, scrivendo instancabilmente lettere promozionali e telefonando a potenziali sostenitori, e le sue serate al Max’s Kansas City e in altri luoghi di ritrovo del mondo dell’arte, socializzando e stringendo relazioni. Ogni domenica pomeriggio, Siegelaub ospitava una soirée nel suo appartamento, invitando un sele-
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zionato numero di collezionisti, critici e curatori di museo a incontrare gli artisti da lui rappresentati. Era così, organizzando con accortezza un circolo esclusivo, che ora Siegelaub faceva affari e mostrava il lavoro dei suoi artisti. Ma Siegelaub aveva ben più di un buon occhio e solide capacità manageriali: aveva anche una straordinaria inclinazione per la promozione e la pubblicità. Per avere un assaggio della sua strategia imprenditoriale basta dare un’occhiata alle attività di Image, Art Programs for Industry, Inc., una società di servizi che aveva acquisito insieme al ricco collezionista e uomo d’affari Jack Wendler all’inizio del 1967. Image si presentava al mondo aziendale come “specialista in pubbliche relazioni”. «Siamo specializzati nell’organizzazione e sviluppo di attività promozionali per l’arte» recitava un volantino rivolto ai potenziali clienti. «L’arte è il modo in cui potrete raccontare alla comunità la vostra storia, per ottenere il massimo ritorno d’immagine dal vostro investimento in pubbliche relazioni.»26 Non c’è dubbio che Siegelaub e Wendler avessero ragione: l’arte è capace di conferire personalità anche a una realtà aziendale. Allo stesso tempo è anche chiaro che, sottolineando la componente personale – «la vostra storia» – Image stabiliva un sistema di differenziazione. E quando una gamma di segni particolari viene adattata a uno dei tratti della 28
personalità, l’arte si trova a giocare lo stesso ruolo svolto in precedenza da un ambito di valori diversi.27 L’afflusso di fondi aziendali privati fu uno degli elementi determinanti nell’espansione del mercato dell’arte alla metà degli anni sessanta.28 L’ideologia aziendale in quel decennio era una forza dinamica, poiché il mondo degli affari aveva subito spettacolari trasformazioni sia del modo di operare sia del modo di rappresentarsi. I collezionisti aziendali chiarirono presto la loro preferenza per l’arte contemporanea rispetto a quella più tradizionale: molti, soprattutto nei dipartimenti di pubbliche relazioni, vedevano l’arte sperimentale e innovativa come un alleato simbolico nella ricerca del successo imprenditoriale, un partner nella battaglia per rivitalizzare gli affari e i consumi.29 Inoltre, le tendenze e le innovazioni dell’arte contemporanea offrivano al mecenate aziendale un’immagine progressista nella sfera del business e testimoniavano l’impegno verso le nuove idee. In un testo del 1967 rivolto agli executive e agli azionisti delle compagnie si diceva: Ci sono vantaggi immediati e diretti per il collezionista aziendale. […] Gli executive sono giunti a riconoscere i molti benefici pratici in termini di pubbliche relazioni, tra i quali la reputazione di realtà impegnata e progressista. Questa reputazione è vitale per ogni business moderno. Essa influenza la positiva acco-
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glienza dei prodotti da parte del consumatore; aiuta ad attrarre talenti giovani e dinamici; soddisfa l’interesse dell’azionista per la competitività dell’azienda; contribuisce in modo significativo a ottenere un maggior rispetto da tutti i segmenti della società.30
Di conseguenza il mecenate aziendale poteva condividere il credo di economisti liberisti come Milton Friedman, che sosteneva che l’unica responsabilità di un’azienda è quella di generare profitto, e al tempo stesso giustificare il sostegno alle arti come “interesse illuminato”.31 Siegelaub era evidentemente determinato a trarre beneficio da questa miniera di mecenatismo aziendale. Perfettamente in linea con le delibere del Rockefeller Panel Report del 1965 e la crescente pressione sul mondo degli affari e dell’industria perché si assumessero maggiori responsabilità nel sostegno, nella crescita e nella vitalità della vita artistica del paese, la sua strategia consisteva nell’enfatizzare, presentandola schiettamente, la legittimazione che il mecenatismo poteva portare a un’azienda, a prescindere dal carattere critico e politico dell’opera.32 Ne è un esempio la brochure da lui realizzata nel 1967 per promuovere Image presso potenziali clienti. Il testo, organizzato intorno a una serie di domande retoriche – complete di risposta – poste all’azienda di turno, specifica il valore di un’opera d’arte. «Arte? Perché dovremmo impegnarci nell’arte?» La risposta riecheggia gli inviti al mecenatismo provenienti dall’interno del mondo del business e dell’industria: «Perché l’arte è un buon affare. L’azienda moderna ha molto da guadagnare dall’identificazione con le virtù positive dell’arte.» I benefici erano così declinati: Nello specifico, l’identificazione con l’arte produrrà i seguenti effetti: a) migliorerà l’immagine della vostra società, rendendo il vostro pubblico più consapevole di quello che state facendo nella comunità; b) vi aiuterà a sviluppare una personalità più completa per la vostra azienda, conferendole una dimensione culturale; c) fornirà un elemento audace, unico ed eccitante nella presentazione dei vostri prodotti e servizi; d) promuoverà la positiva accoglienza della vostra società, dei vostri prodotti e servizi da parte del grande pubblico, rendendovi più attraenti e dandovi più visibilità nel mercato.
Un’altra domanda è: «È il momento giusto per impegnarci in un programma artistico?». Senza dubbio: «Come ben sapete, il coinvolgimento dell’azienda moderna nella vita culturale del paese è in forte crescita. Nel giro di pochi an-
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ni, molta dell’eccitazione associata all’arte sarà esaurita, e dunque svuotata del suo potenziale in termini di pubbliche relazioni. È questo il momento giusto per impegnarsi nel sostegno alle arti e capitalizzare la miniera di interesse, emozione e buona reputazione che ne può scaturire». È quasi superfluo sottolineare la centralità dell’idea che l’associazione con l’arte potesse aiutare l’azienda a “muovere beni sul mercato”.33 Ma la strategia di Siegelaub suggeriva più specificatamente che le vendite sarebbero aumentate in seguito al tipo di immagine, di prestigio e di legittimazione che un’azienda avrebbe ricavato dal collezionismo d’arte. Parafrasando Pierre Bourdieu, si può dire che accumulare strategicamente “capitale culturale” permette alle aziende (con grandi quantità di capitale economico ma quantità relativamente scarse di capitale culturale) di riallineare non soltanto il volume, ma anche la struttura del capitale posseduto. A sua volta, il prestigio sociale generato per l’azienda dall’aumento del capitale culturale aveva un doppio vantaggio: le conferiva una certa aura dando rilievo alla sua generosità, alla sua legittimazione e alla ricerca di ideali al di là dell’ordinario mondo del business; inoltre, in un tempo relativamente breve il capitale culturale poteva essere “riconvertito” in ulteriore capitale economico.34 Possiamo qui ricor30
dare ciò che sosteneva Jean Baudrillard in “Segno/valore e logica di classe”, ossia che i valori segnici sono prodotti da un’operazione “suntuaria” connessa all’istruzione e al prestigio sociale: Perciò gli oggetti, la loro sintassi e la loro retorica, rinviano a degli obiettivi sociali e a una logica sociale. Essi non ci parlano tanto del loro uso e delle pratiche tecniche, quanto di ambizioni sociali e di rassegnazione, di mobilità sociale e di inerzia, di acculturazione o di fissità culturale, di stratificazione e di classificazione sociale. Attraverso gli oggetti, ogni individuo, ogni gruppo cerca il suo posto in un ordine, pur tentando di sovvertire quest’ordine secondo la propria carriera personale.35
Secondo Baudrillard, nelle società capitaliste contemporanee sia la forma dell’oggetto (valore d’uso) sia la forma della merce (valore di scambio) sono trasfigurati in valore segnico, un segno che indica la distinzione, la vitalità e la generosità del sostenitore. Con l’emergere del valore segnico, fa capolino un nuovo interesse per i tratti psicologici e “narrativi” degli agenti – in questo caso gli artisti – che mediano fra produttori e consumatori. Questo porta allo sviluppo di nuove forme di percezione sia fisiche sia sociali (nuovi modi di vedere, nuovi tipi di comportamento), nonché alla creazione di condizioni in
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cui diverse forme d’arte sono non solo possibili ma desiderabili, e incoraggiate dal nuovo pubblico. Visto da questa prospettiva, il modello strutturale su cui Siegelaub fondò la sua strategia promozionale è notevolmente simile all’operazione propria della pubblicità, un’industria che negli anni sessanta era sulla cresta dell’onda. Come ha mostrato Thomas Frank, cercando un tratto con il quale identificare l’accelerazione del processo di obsolescenza e l’aumentata disponibilità del consumatore verso il cambiamento che erano gli obiettivi del business, l’industria pubblicitaria a metà del decennio si era assestata sulla hipness.36 Come per la pubblicità, la questione della novità e dell’aggiornamento era cruciale per il messaggio di Siegelaub. Ricordiamo l’ammonimento della brochure di Image: «Nel giro di pochi anni, molta dell’eccitazione associata all’arte sarà esaurita, e dunque svuotata del suo potenziale in termini di pubbliche relazioni. È adesso il momento giusto per impegnarsi nel sostegno alle arti e capitalizzare la miniera di interesse, emozione e buona reputazione che ne può scaturire». Lo spostamento della sede operativa di Siegelaub da 56th Street a Madison Avenue è anche il segnale di uno spostamento d’accento nella sua attività: smessi i panni del gallerista, le sue funzioni erano più vicine a quelle di un pubblicitario. Il suo punto di vista era sempre più calibrato sugli interessi delle aziende. Come annunciava la brochure di Image al potenziale cliente: «Image rappresenta i vostri interessi, e lo fa guardando il mondo dell’arte dalla vostra prospettiva». Siamo dunque di fronte a uno sviluppo nell’arte tale per cui imprenditori come Siegelaub e Wendler comprendono le tendenze disincantate e sempre più accelerate del capitale. Il loro programma di promozione rappresenta un punto cruciale nello sviluppo di una tendenza che porterà negli anni successivi, in modo più o meno tortuoso, all’organizzazione e al controllo “totali” anche degli elementi più innovativi e politicamente progressisti del mondo dell’arte degli anni sessanta. Le ramificazioni di questa svolta saranno notevoli. Ma non bisogna confondere i significati e le motivazioni dell’azione individuale con la logica del sistema. Siegelaub e Wendler credevano nel loro progetto, che era dotato di assoluta razionalità. A conti fatti, la promozione dell’arte sembrava una materia molto più facile da manipolare di quanto lo fossero le vendite ai collezionisti o la delicata transizione verso il mondo consolidato dei musei. E per quanto riguarda le conseguenze sistemiche, siamo ovviamente liberi di supporre che non potessero prevederle o che, se anche potevano, non se ne curassero.
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Non c’è bisogno di una galleria per esporre idee37 Accorto com’era in fatto di pubblicità, Siegelaub era consapevole dell’importanza di organizzare mostre collettive che funzionassero come eventi e occasioni di dibattito. L’identificazione di alcuni artisti con un gruppo e con uno specifico gallerista avrebbe permesso al pubblico di individuarli. Perciò all’inizio del 1968 organizzò due mostre che esponevano il lavoro di tre suoi artisti: Carl Andre, Robert Barry e Lawrence Weiner. Le due mostre non erano soltanto ampiamente pubblicizzate ma anche accompagnate da simposi a cui gli artisti erano presenti. La prima mostra aprì in febbraio presso la Laura Knott Gallery del Bradford Junior College a Bradford, in Massachusetts, e la seconda in aprile al Windham College, una piccola istituzione artistica liberale a Putney, nel Vermont.38 Non era una coincidenza che entrambe le sedi fossero lontane da New York, allora l’epicentro indiscutibile del mondo dell’arte. A differenza delle armoniche sale, praticamente ideali, della Laura Knott Gallery, il Windham College non aveva uno spazio espositivo: così Siegelaub suggerì che gli artisti producessero interventi scultorei temporanei e sitespecific negli spazi all’aperto del campus universitario. Le installazioni, realiz32
zate interamente con materiali caratteristici del luogo, sarebbero state allestite unicamente all’interno del campus e per la sola durata della mostra. Siegelaub pensava che la mostra avrebbe rotto con la tradizione espositiva istituzionale o che l’avrebbe rimpiazzata. In un saggio inedito intitolato “The Enclosure”, che scrisse subito dopo la mostra al Windham College, Siegelaub affermava: L’idea che le convenzioni espositive relative a un’opera d’arte siano assolute era accettata a priori dalla maggior parte della pittura e scultura della fine degli anni cinquanta e dell’inizio dei sessanta. La pittura si occupava del ruolo dell’arte come oggetto e, in quest’accettazione della progressione logica della storia dell’arte, finiva per ignorare le implicazioni dell’oggetto e la sua relazione con il contesto fisico (le mura, il pavimento, il soffitto, la sala nel suo insieme). La scultura, dal canto suo, rivelando la sua intrinseca oggettualità e senza il peso dei problemi dell’illusionismo, sembrava accettare come inevitabile la necessità di essere posizionata o delimitata e che l’alternativa per un oggetto fosse diventare architettonico (ambientale) e dunque non scultoreo.39
Dunque Siegelaub delinea lo sviluppo da un tipo di arte tardomodernista, che accetta le convenzioni espositive senza problematizzarle, a un altro tipo di arte
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in cui le opere prendono in considerazione la sala che andrà a ospitarle e si integrano in un contesto più ampio. Chiaramente, questa idea era legata a quella dello sviluppo dalla pittura alla scultura (o “oggetto tridimensionale”) che Donald Judd aveva espresso nel suo manifesto del 1965 intitolato Specific Objects, così come all’analisi fatta negli stessi anni da Robert Morris della scultura minimalista, descritta come necessariamente dipendente dall’ambiente (“Notes on Sculpture”, 1966).40 Ma le osservazioni di Siegelaub mettono anche in relazione le installazioni esposte al Windham College con il fenomeno emergente della Land Art, cominciato l’anno precedente con i progetti, tra gli altri, di Michael Heizer, Walter de Maria e Dennis Oppenheim. Alla metà del 1968 la mostra al Windham College era già stata identificata come un pilastro nel lento ma costante processo di allontanamento dalle istituzioni che divenne un elemento integrante della riflessione e della produzione scultorea post-minimalista della fine degli anni sessanta. Un critico d’arte firmatosi Arthur R. Rose sostenne in modo categorico la rilevanza della mostra in un saggio inedito scritto nella primavera del 1968 intitolato “Three since Windham”: «In una stagione che conta parecchie mostre di “earth art”, la mostra al Windham è importante perché è stata la prima mostra all’aria aperta».41 Siegelaub organizzò un simposio con i tre artisti in coincidenza con la mostra al Windham College. Invece che moderare il simposio personalmente, come aveva fatto qualche mese prima a Bradford, Siegelaub incaricò Dan Graham.42 Critico e aspirante artista, Graham aveva aperto per un breve periodo, tra il 1964 e il 1965, una galleria chiamata John Daniels Gallery a New York, e in quel periodo era diventato amico di Andre e Weiner; questi, a loro volta, avevano presentato Graham a Siegelaub nel 1966. Influenzato dall’attrazione della Pop Art per la cultura di massa delle riviste commerciali e della musica rock, Graham fu cruciale nell’articolare e definire il corso delle pratiche sitespecific, fortemente legate al contesto, che negli anni successivi vennero riunite sotto il nome di “Arte Concettuale”. Nei suoi commenti introduttivi, Graham parlava della natura effimera delle installazioni in mostra e sottolineava che i lavori non operavano come oggetti compiuti con qualità intrinseche, ma che al contrario, dopo aver portato a termine il loro scopo nel corso dell’esposizione, sarebbero stati riciclati e sarebbero scomparsi. Fece anche appello alla nozione di “luogo”: «La mostra è realizzata per un luogo specifico» dichiarò Graham «e in essa la parola “collocazione” è intesa tanto come nome quanto come azione».43 È importante notare che questa concettualizzazione del processo artistico in una meta-
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fora linguistica sarebbe diventata ricorrente tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, e avrebbe caratterizzato non solo il lavoro degli artisti che Siegelaub rappresentava in quegli anni, ma anche le sue strategie promozionali. Le osservazioni di Graham sulla relazione dell’opera con il luogo si concentravano principalmente sul lavoro di Andre, ma potevano risultare appropriate per ciascuno degli artisti del simposio.44 La scultura Joint di Andre non era sufficientemente solida da trascendere la specificità spaziale e temporale del luogo in cui era stata collocata originariamente. Si trattava di un lavoro fatto con una fila di centottantré moduli quasi identici, della misura di circa 1x1x2 m ciascuno: comunissime balle di fieno posizionate una di fianco all’altra. I moduli di fieno erano disposti in una linea orizzontale, con i lati corti paralleli, a filo ma distinti. Le balle erano simili tra loro, e tuttavia a causa della procedura di compattamento nessuna era identica all’altra. La disposizione di Andre esaltava al contempo la loro unicità e la loro serialità. E soprattutto, a parte la disposizione lineare e il posizionamento, era il materiale a determinare la forma dell’opera.45 È anche importante riconoscere che in Joint ogni unità di fieno, così come 34
ogni unità di zinco nella griglia scultorea esposta alla Laura Knott Gallery, era rimasta allo stato originario: «Non voglio in alcun modo camuffare o contraffare il materiale impiegato» disse al simposio «non voglio farlo diventare qualcos’altro. Voglio il legno in quanto legno, l’acciaio in quanto acciaio, l’alluminio in quanto alluminio, una balla di fieno in quanto balla di fieno».46 Come altri, Andre riteneva che il rifiuto di trasformare gli elementi materiali del lavoro problematizzasse il ruolo dell’artista comunemente inteso, ossia quello di un catalizzatore nella trasformazione della materia grezza in forma artistica. In una perspicace disamina degli sviluppi artistici di quegli anni, pubblicato un mese dopo la mostra al Windham College, Graham sottolineò questo aspetto della pratica artistica di Andre: Andre traduce il sostrato materiale in sostrato valoriale, invertendo letteralmente il valore convenzionale con quello materiale. Mattoni, balle di fieno, lastre di ardesia, alluminio o zinco valgono esattamente quanto definito dal mercato, sulla base del rapporto tra domanda e offerta. Il fatto che vengano venduti come arte aggiunge un valore di commissione per la galleria e per l’artista, valore a sua volta determinato da leggi di mercato. La merce è prodotto, non è prodotta dall’opera dell’artista. Possiede qualità reali, definibili fisicamente, piuttosto che qualità astratte, immaginarie, definibili criticamente. Invece che
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proiettare esperienze passate, proprie o di altri artisti, per l’investimento emotivo dello spettatore, la scultura di Andre è collocata in una situazione presente di confronto aperto con l’esperienza dello spettatore. Non si lascia intendere che la validità di tale esperienza sia permanente, in quanto il “valore” di un Andre (o di un Flavin o Warhol o Christo) è contingente al suo contesto presente.47
Ci sono diversi concetti che è opportuno evidenziare in questo passaggio. Innanzitutto, esso definisce il ruolo di Andre non solo come artista ma come “lavoratore artistico”. Il valore di scambio dei suoi lavori rimane collegato al valore di mercato dei materiali di cui è fatto, e la remunerazione del lavoro avviene sotto forma di una vendita anch’essa determinata da leggi di domanda e offerta. Visto in questa luce, il ruolo dell’artista torna a essere concreto, desacralizzato, e l’assegnazione di valore agli oggetti artistici è attribuita a forze separate dall’artista. Le opere d’arte sono ora concepite come dotate di un valore proprio, separato da ciò che l’artista addebita come “commissione” per il suo lavoro. In secondo luogo, Graham considera lo status di merce di un’opera d’arte e interpreta la scultura di Andre come resistente alla mercificazione. È la prima discussione pubblica di questo genere nel mondo dell’arte newyorkese della fine degli anni sessanta, ma il tema prolifererà negli anni a venire. Infine, c’è l’omologia tracciata da Graham tra il lavoro di Andre e la Pop Art, quando sostiene che il “valore” di un Andre sia simile a quello di un lavoro di Flavin, Warhol o Christo: tutti artisti che al tempo Graham considerava pop. Certamente, la ripetizione strutturale di oggetti readymade, trovati in commercio, modulari, trova un equivalente nell’enfasi posta sull’oggetto seriale nel lavoro di Flavin o Warhol. E, proprio come nei lavori della metà degli anni sessanta di questi due artisti, l’abbandono da parte di Andre della produzione manuale (in favore di una struttura modulare con un sistema trasparente di unità) corrisponde a una negazione dei processi di autenticazione, rendendo impossibile ogni tentativo di identificare o verificare il produttore dell’opera. Inoltre, con l’impiego di un elemento ricavato dall’ambiente rurale del Vermont – una balla di fieno – come materiale principale Joint di Andre sembra fare eco all’annullamento operato dalla Pop Art dei confini tra l’esperienza comune e l’arte “alta”. Con quell’opera, Andre portava uno degli aspetti più rimossi dell’esperienza quotidiana al Windham College: i campi che circondano l’ateneo, da cui l’intera comunità dipende economicamente, punto cieco – e tuttavia centrale – della riflessione culturale.48 Nondimeno, come Graham implicitamente afferma, per più di un verso il lavoro di Andre va al di là dei modelli della Pop Art e del Minimalismo.49 Da
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una parte, l’ambiente in cui l’opera è esposta determina la scelta del materiale; dall’altra, l’opera è continuamente alterata dalla vicenda delle sue superfici, dagli eventi che le modificano, fino alla sua completa distruzione. Dal momento che Joint era esposta agli elementi naturali, nel corso del tempo le intemperie l’avrebbero rovinata fino a disintegrarla e a fonderla con il luogo. Questo aspetto del lavoro di Andre, la sua intrinseca provvisorietà, è connesso con la sua sovversione del mercato dell’arte. «Naturalmente il fieno, poiché le persone ci camminano sopra, è destinato a scomparire», osservò Andre al simposio del Windham College. «Ma visto che non sto facendo una scultura per venderla, […] essa non giunge mai allo status di proprietà.»50 Questo commento tace il fatto che si trattava di un’anomalia nel contesto della produzione di Andre (la stragrande maggioranza della quale era destinata alla vendita), e anzi di un’operazione di rottura rispetto alle procedure di vendita delle sue opere: Andre e Flavin, infatti, erano stati i primi a fornire certificati di autenticità ai collezionisti insieme al lavoro venduto. Il certificato, firmato dall’artista, delineava in termini legali (spesso accompagnati da un disegno schematico su carta millimetrata) le varie componenti del lavoro.51 Dato che i materiali di Andre erano in generale facilmente reperibili, e i suoi metodi di 36
produzione de-qualificati, era essenzialmente questo certificato a garantire l’autenticità dell’opera.52 Ciò che il lavoro degli anni sessanta di Andre – così come quello di Barry e Weiner – segnala, è il graduale smantellamento dell’idea di oggetto pittorico o scultoreo compiuto e definito, fatto per essere esposto in una galleria, in favore di crescenti spazi di interazione con lo spettatore, complesse strategie di partecipazione, una consolidata consapevolezza della relazione tra l’opera e lo spazio architettonico e istituzionale che ne é il set o la cornice. Uno dei passaggi più delicati di questa trasformazione è il modo in cui essa problematizza il concetto di spazio pubblico. Una volta che la partecipazione dello spettatore, teorizzata da questi e altri artisti, diventa parte integrante della struttura concettuale del lavoro, la questione di quale sia la sede giusta per l’esperienza artistica diventa inevitabilmente più pressante. Nel momento in cui si riconoscono tutte le limitazioni istituzionali e discorsive che l’ambiente architettonico impone all’esperienza pittorica o scultorea, il successivo passaggio logico sarà quello di abbandonare l’istituzione della galleria o del museo e con essa le sue restrizioni, in favore di uno spazio esterno che si presume disinibito, libero, aperto e privo di limitazioni. Questo sviluppo nella direzione di una graduale espansione dei luoghi per l’arte divenne un elemento integrante della riflessione e della produzione artistica alla fine degli anni sessanta. E
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più di tutti, perfino più degli stessi artisti, fu Siegelaub colui che mise in discussione i parametri istituzionali e contestuali che fanno cordone intorno all’opera d’arte. L’impegno di Siegelaub nei confronti di questi limiti, scaturito da ragioni diverse da quelle degli artisti, era coerente con le nuove pratiche di marketing che stava cercando di sviluppare. Questa trasformazione era radicale quanto quella in atto nell’ambito della produzione artistica, ed entrambe condividevano l’insofferenza per la gerarchia, le convenzioni e il presunto buon senso. A metà degli anni sessanta, creatività e innovazione erano diventate le parole d’ordine del business e del suo fedele alleato, la pubblicità. Gli ideologi di Madison Avenue proclamavano, contrariamente agli standard del decennio precedente, che il “pubblicitario chic” doveva far propria una sfiducia istintiva per i luoghi comuni.53 Qui, come in molti altri aspetti della cultura degli anni sessanta, le pratiche della pubblicità si riversavano, senza che ciò venisse avvertito come problematico, nei contenuti dell’arte e nella sua promozione. La volontà di abbattere le convenzioni non era soltanto consueta tra gli artisti; divenne comune – e in numerosi casi necessaria – anche presso i mercanti. Per Siegelaub, ciò significava abbracciare non soltanto la creatività, ma anche l’imprevisto. Negli anni seguenti questa divenne per lui più di una strategia; quasi una filosofia, un modo di pensare, l’idea che scelse di usare per promuovere gli artisti che rappresentava.
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