Arte contemporanea: costo o investimento?

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«Per uscire dalla crisi servono le idee e la capacità di trasformarle in innovazione […].

dare ai fatti della vita con occhi nuovi. Senza

L’arte è una palestra di pre-innovazione, un contesto esperienziale nel quale le persone

dimenticare che «il mercato dell’arte, a diffe�

imparano a situarsi sulla lunghezza d’onda mentale ed emotiva che porta al manifestarsi

renza di quelli finanziari, tratta opere il cui si�

di una possibilità inattesa, di uno scarto di senso che coglie impreparati e costringe a

gnificato non si esaurisce nei rendimenti che

guardare le cose in un modo nuovo.»

promettono, e che anzi in un momento di mer�

(Dalla prefazione di Pier Luigi Sacco)

cato depresso possono tornare a essere conside� rate prima di tutto come dispositivi di senso,

«Un libro molto ben documentato in cui Lisbonne e Zürcher esaminano le imprese che

come occasioni per capire il mondo in cui vivia�

hanno scommesso sull’arte contemporanea – dalla Fondation Cartier alla Deutsche Bank

mo e persino, in qualche misura, noi stessi».

– e dimostrano che investendo in arte le aziende aumentano le potenzialità dei propri dipendenti e incoraggiano l’iniziativa.»

Karine Lisbonne si è formata all’hec (Hautes

L’Express

Études Commerciales) e alla London School of Economics. Nel 2005 ha vinto il Prix du Mécé� nat culturel (ministero della Cultura francese) per la sua tesi su fondazioni d’impresa e arte contemporanea in Europa. Nel 2000 ha fonda� to l’associazione Talents Avenir. Ha pubblicato inoltre L’Europe vue d’Inde, regards contemporains, Parigi 2006. Bernard Zürcher, storico dell’arte e gallerista (Galerie Zürcher, Parigi / New York), è vicepre� sidente del cipac (Congrès interprofessionnel de l’art contemporain) e membro del comitato della fiac. In passato è stato curatore di mostre al Musée de l’Orangerie e al Palais de Tokyo ed è uno dei fondatori dell’Espace d’art contempo� rain nel campus hec; ha inoltre lanciato “����� L’En� trée” al Bon Marché Rive Gauche, dove cura

Lisbonne  –  Zürcher   Arte contemporanea: costo o investimento?

un salutare cambio di punto di vista, per guar�

Negli ultimi decenni l’arte contemporanea si è fatta largo in numerosi universi produttivi e sono fiorite in Europa le imprese arty sul mo� dello di quelle “etiche”. L’industriale Akzo No� bel (Paesi Bassi) ha creato una fondazione che accoglie artisti in residenza; la banca Neuflize obc (Francia) e il gruppo Lhoist (Belgio), produt�

Arte contemporanea: costo o investimento? Una prospettiva europea

tore mondiale di calce, commissionano opere a fotografi contemporanei; il gruppo teseco (Ita� lia), specializzato nel trattamento ecologico dei detriti, ha istituito un “laboratorio per l’ar� te contemporanea”; il Deutsche Guggenheim, a Berlino, è nato grazie a una joint-venture fra Deutsche Bank e fondazione Guggenheim. Tut� tavia l’interesse per l’arte non tocca solo i gran� di gruppi ma anche le piccole e medie imprese, e raramente si tratta di sponsorizzazioni spot volte a un mero ritorno di immagine. Il model� lo europeo – contrariamente a quello america� no più orientato al consumo – sembra ricono� scere all’arte il valore di investimento il cui

Karine Lisbonne  –  Bernard Zürcher

profitto va ricercato nel contributo allo svilup� po del senso di responsabilità collettiva in ma� teria di ambiente sociale e affermazione delle identità culturali. Un’alleanza, questa, che torna a sua volta a vantaggio dell’arte, specie dell’arte d’oggi. Ne sono convinti Lisbonne e Zürcher che, partendo dal modello francese ma lavorando su scala europea, hanno individua� to, paese per paese, strategie e metodi impren�

una programmazione artistica internaziona�

ditoriali convincenti a sostegno di progetti, di

le. È autore di Braque, vie et oeuvre, Parigi 1988,

commissioni di opere d’arte, di collezioni e fon�

et Les Fauves, Parigi 1999.

dazioni d’impresa. Gli autori evidenziano la ca� pacità dell’arte, all’interno di strutture azien� dali, di facilitare l’espressione delle identità e di

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johan & levi

€ 19.00

veicolare valori culturali che arricchiscono il quotidiano dei dipendenti. Tutti motivi per i quali l’arte contemporanea, come afferma Pier Luigi Sacco nella prefazione, non sta perdendo il suo appeal con la crisi economica ma, al con� trario, offre proprio in frangenti come questo

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arte economia 1 collana a cura di Pier Luigi Sacco


©2009 Johan & Levi Editore Coordinamento editoriale Micaela Acquistapace Redazione Margherita Alverà Traduzione Cristina Cavalli Progetto grafico Paola Lenarduzzi, studiopaola Impaginazione Valerio Vitari, Notabit Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di gennaio 2009 ISBN 978-88-6010-046-7 Titolo originale: L’Art avec pertes ou profits? Copyright ©2007 Flammarion, Paris Tutti i diritti sono riservati. Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.


Karine Lisbonne – Bernard Zßrcher

L'arte contemporanea: costo o investimento? Una prospettiva europea

Traduzione di Cristina Cavalli



Sommario

Ringraziamenti

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Prefazione all’edizione italiana

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Introduzione 17 1. A regola d’arte 21 Breve storia dell’opera d’arte L’artista, persona morale L’arte al servizio del marketing 2. Un incontro improbabile 33 Renault, un modello incompiuto (1967-1976) L’impresa dell’arte Simulazioni d’impresa 3. Poteri pubblici, iniziative private

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Un’eredità senza testamento La tradizione tedesca: la rete dei Kunstvereine La Francia del mecenatismo modesto 4. L’impresa con l’arte L’intesa con l’arte L’arte nell’oggetto sociale: un progetto controverso Gestione patrimoniale o avventura contemporanea? L’impresa e il suo doppio: la scelta della fondazione Collezione e fondazione: una nuova “identità” Per essere “sostenibile e cittadina”

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5. In una dinamica europea 109 La questione dell’identità L’arte tra profitti e perdite Una versione francese Conclusione 127 Testimonianze 131 Glossario 137 Selezione di collezioni e fondazioni d’impresa 149 Repertorio delle grandi imprese europee 161 Note 167 Bibliografia 175 Indice 181


Ringraziamenti

Gli autori ringraziano Sylvie Fenczak per l’attento sostegno e i suggerimenti offerti durante l'intera realizzazione del libro. Ringraziamo inoltre tutti coloro che ci hanno aiutato a diverso titolo, concedendoci un’intervista, trasmettendoci documenti d’archivio, raccontandoci la loro testimonianza o permettendoci, attraverso le loro esperienze e riflessioni, di arricchire in modo decisivo la nostra analisi. Karine Lisbonne desidera esprimere la più viva gratitudine a Christine per la fiducia e il prezioso sostegno e ringraziare in particolare Yves Évrard per i consigli e l’ispirazione. E inoltre: Hesther Alberdingk Thijm, Flavio del Monte, Nicole Ferry-Maccario, Mary Findlay, Marta Gili, Friedhelm Hütte, Paul Loyrette, Heather MacDonald, Patrice Marie, Ilaria Mariotti, Michael Münch, Heike Munder, Olivier Ponsoye, Sveladina Rukanova. Bernard Zürcher ringrazia in particolar modo Anne-Valérie Delval e Daniel Firman per aver condiviso la creazione dell'Espace d'art contemporain hec, nonché i suoi amici e colleghi del cipac, fonte costante di riflessione. La sua gratitudine va inoltre alla moglie Gwendée, per la sua pazienza, e al padre, che negli anni sessanta fu un pioniere della “futurologia”. Grazie inoltre a Friedhelm Hütte, Florence Pierre, Béatrice de Damas, Frédéric Morel, Pierre Pradier, Éric Mézan, Rodica Seward e Marie-Claire Marsan.

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Prefazione all'edizione italiana di Pier Luigi Sacco

Imprese e arte contemporanea: l'improbabilità come necessità In un momento di drammatica crisi economica come quello che incombe sulla fine del primo decennio del Duemila, un libro che si occupa del rapporto tra arte contemporanea e imprese può sembrare a molti clamorosamente inattuale. Dopotutto, a fronte di un angosciante stillicidio di notizie pressoché quotidiane di licenziamenti e chiusure di imprese, alcune delle quali fino a poco fa ritenute solide e affidabili, la reazione più immediata e comprensibile è quella di un forte richiamo alla concretezza e all’austerità, che nel caso delle imprese vuol dire innanzitutto un taglio netto e immediato alle spese inutili. E che cosa ci può essere di più inutile per un’impresa di una collezione di arte contemporanea, o peggio ancora di progetti di arte contemporanea che non permettono nemmeno di iscrivere un bene a patrimonio, per quanto di valore aleatorio (e, aggiungerebbe qualcuno, di dubbio valore estetico)? A complicare ulteriormente le cose è il fatto che il libro è stato originalmente pubblicato in Francia nel 2007, vale a dire in un momento, sebbene vicinissimo nel tempo, caratterizzato da tutt’altra atmosfera. La crisi economica, pur cominciando a essere paventata da alcuni, era per molti un'eventualità remota, i mercati finanziari erano in piena effervescenza e soprattutto l’arte contemporanea esercitava anche sui neofiti un fascino seduttivo senza precedenti. Le fiere d’arte erano strapiene di visitatori e di compratori disposti a spendere cifre ingenti anche per autori non ancora riconosciuti, le grandi mostre d’arte e i musei più importanti attiravano folle mai viste, l’arte contemporanea cominciava a fare capolino sempre più insistentemente anche sui media più popolari e di maggiore diffusione. Una situazione di euforia molto lontana dal clima psicologico di questa nuova fase, destinata nell’opinione di molti a durare a lungo e a lasciare tracce profonde sulle nostre abitudini

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· Karine Lisbonne – Bernard Zürcher ·

di vita e di consumo. Si potrebbe quindi concludere che tutto sommato si tratta di un libro che ha avuto la sfortuna di essere scritto e pubblicato al momento sbagliato: voleva cavalcare l’onda, che però nel frattempo è andata a infrangersi sugli scogli. In realtà, le cose stanno diversamente. La crisi economica certamente sta lasciando e lascerà segni profondi, ma non per questo l’attenzione sociale per l’arte contemporanea sta scemando. Si può anzi dire che di fronte alle difficoltà economiche che stanno portando molti a rivedere le proprie abitudini di spesa e di consumo, sembra emergere una tendenza a sostituire i prodotti con le esperienze: meno shopping e più stimoli per gli occhi, le orecchie e la mente. L’arte contemporanea quindi non sta perdendo il suo appeal con la crisi, ma anzi offre in frangenti come questo un salutare cambio di punto di vista, ci aiuta a guardare ai fatti della vita con altri occhi e da altre prospettive. L’interesse dei media verso l’arte non si affievolisce e nelle fiere e nei musei continuano ad affluire 10

i visitatori. Certamente ci sono meno compratori e sono più attenti ai prezzi, con la stessa maniacalità con la quale nei momenti del boom e dell’euforia non prestavano a essi la dovuta attenzione. Ma a differenza dei mercati finanziari, dove in ultima analisi si scambiano pezzi di carta il cui unico interesse è il loro valore economico, nel mercato dell’arte si trattano opere il cui significato e la cui attrattiva non si esauriscono nei rendimenti che promettono, e che anzi in un momento di mercato depresso possono tornare a essere considerate prima di tutto come dispositivi di senso, come occasioni per capire il mondo in cui viviamo e persino, in qualche misura, noi stessi. Ma tutto questo cosa ha a che fare con l’impresa? Va bene, ammettiamo pure che l’arte susciti ancora interesse malgrado la crisi: ma questo è un fatto che riguarda il pubblico, i collezionisti privati, le istituzioni culturali e al massimo quelle imprese tutte particolari che sono le gallerie d’arte, che saranno anche importanti per qualcuno ma rappresentano una goccia nel mare dal punto di vista dell’intero sistema economico di una nazione. Gli imprenditori, quelli “veri”, quelli che si occupano di beni e servizi meno stravaganti, hanno altro a cui pensare in questo momento, e a maggior ragione nel futuro. E quindi si continui magari a parlare ancora di arte e di mercato dell’arte, ma forse è meglio lasciar perdere il capitolo del rapporto tra arte e impresa per rimandarlo a tempi migliori…


· Prefazione all'edizione italiana ·

Per quanto possa suonare realistico e di buon senso, in realtà questo atteggiamento liquidatorio è fortemente ingenuo. Dalla crisi, come è ovvio, non si esce tagliando i costi. Il contenimento delle spese può essere al massimo una strategia di emergenza, uno spunto per una profonda ristrutturazione organizzativa, un modo di motivare tutti a lavorare con più impegno e maggiore efficienza. Può essere cioè un modo di tamponare le falle, ma non migliora in sé la linea di galleggiamento della nave. Serve a non affondare, non a navigare a velocità di crociera. Per uscire dalla crisi, servono le idee e la capacità di trasformarle in innovazione, in capacità competitiva, in valore aggiunto. Ma le idee, e le loro conseguenze in termini di innovazione, non sono facili da ingegnerizzare, o anche soltanto da pianificare. Le idee richiedono uno stato mentale e psicologico che può essere indotto solo parzialmente e che si nutre di un interesse genuino, spontaneo, nei confronti delle cose, di curiosità e capacità di sorprendersi, di una mente aperta alle possibilità non conosciute e non familiari. Poche esperienze come l’arte sono capaci di produrre queste condizioni, e di integrarle progressivamente nei meccanismi cognitivi e affettivi della propria quotidianità. L’arte, in altre parole, è e soprattutto può essere una palestra di pre-innovazione, un contesto esperienziale nel quale le persone imparano a situarsi sulla lunghezza d’onda mentale ed emotiva che porta al manifestarsi di una possibilità inattesa, di uno scarto di senso che coglie impreparati e costringe a guardare le cose in un modo nuovo. Non soltanto l’arte contemporanea non è inattuale per le imprese che cercano di sopravvivere alla crisi, ma rappresenta un percorso innovativo potenzialmente molto più attraente e carico di connotazioni pragmatiche di quanto poteva esserlo nei momenti in cui tutto andava bene operando secondo le logiche del business as usual. Ed è alla luce di tali considerazioni che si capisce che la pubblicazione di questo libro in edizione italiana in questo 2009 così carico di preoccupazioni sul futuro non potrebbe in realtà essere più tempestiva e pertinente. L’Italia è uno dei paesi che in questi ultimi anni ha dimostrato di credere meno nell’innovazione: abbiamo investito poco, abbiamo penalizzato i nostri giovani di talento costringendoli spesso a emigrare, controvoglia, all’estero, per scoprire che esistono altre società e altre economie che sanno dare un valore economico e sociale alla conoscenza. Più di altri, abbiamo quindi bisogno di uscire da un falso pragmatismo fatto di "testa bassa e pedalare", "rimboccarsi le maniche" e via dicendo: tutte metafore

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fin troppo trasparenti di un fare senza pensare, ovvero l’esatto contrario di ciò che tempi come questi richiedono. E quindi vale la pena di pensare con attenzione e curiosità a un tema apparentemente inattuale ma in realtà sottilmente importante e persino intrigante. Il libro di Lisbonne e Zürcher, tuttavia, è centrato essenzialmente sull’esperienza francese, che avrà anche punti significativi di contatt0 con la nostra ma presenta anche notevoli differenze. Che cosa si può imparare da un libro così? In realtà, moltissimo, perché non c’è modo migliore di vedere la propria realtà con occhi nuovi che confrontandola con una realtà diversa ma anche affine. Occupandosi del rapporto tra arte e impresa, può essere utile far partire il raffronto da una focalizzazione dei sottostanti modelli di capitalismo. Quello francese ha una natura tecnocratica, nella quale prevale il culto della competenza e dell’ingegnerizzazione, che trovano la loro legittimità in una classe dirigente pubblica e privata che proviene essenzialmente dagli stessi canali, quelli delle più 12

prestigiose Écoles delle quali anche in Italia troviamo un riverbero nella gloriosa Scuola Normale di Pisa. Il capitalismo francese si basa su una distinzione quasi di casta tra grande e piccola impresa, tutto a vantaggio della prima che rappresenta il motore di un sistema economico volto a dominare il mercato attraverso una sofisticata razionalità, della quale il pubblico e il privato non sono che manifestazioni parziali e strettamente complementari, spesso compresenti nel curriculum di un manager di successo. Il capitalismo italiano ha invece una natura familista, che diffida delle competenze maturate all’esterno del nucleo familiare e difficilmente delega a esse il pieno governo dell’impresa, che contrappone pubblico e privato come mondi dominati da logiche radicalmente e inconciliabilmente differenti, che considera il mestiere dell’imprenditore una navigazione in mezzo alla tempesta fondata più sull’intuito e sull’esperienza che sulla pianificazione razionale, per quanto con ovvie e significative (ma spesso anche parziali) eccezioni. Nella realtà del capitalismo italiano, la piccola impresa sente sempre meno sudditanza psicologica rispetto alla grande e spesso si sente migliore in quanto capace di affrontare le sfide del mercato senza rete, contando sulle proprie forze, piuttosto che su un sistema opaco di connivenze con il mondo delle istituzioni e della politica. Per queste ragioni, la piccola impresa si sente anche il reale motore del sistema economico, proponendosi di dominare il mercato attraverso la propria capacità di adattamento e la


· Prefazione all'edizione italiana ·

propria "religione" del lavoro come attività totalizzante, come unico vero orizzonte di senso, come risposta reale basata sul saper fare piuttosto che sulla “teoria”. Questi due sistemi di capitalismo producono inevitabilmente una logica molto differente del rapporto tra impresa e arte contemporanea, che pure ha una sua storia e una sua ragione d’essere in ambedue. Nel contesto francese, come il libro spiega con attenzione e acutezza, prevale una cultura di "mecenatismo debole": il rapporto con l’arte contemporanea si configura in modo primario come operazione di sostegno finanziario, e nel migliore dei casi di partnership, con istituzioni culturali di prestigio, i referenti naturali di quella logica meritocratica e tecnocratica che prevale nell’impresa e le dà fondamento morale e competitivo. La debolezza di questo impulso mecenatistico è una conseguenza della labilità della sua associazione con i canali classici attraverso cui si esplica la razionalità organizzativa; è più facile guardare all’arte contemporanea come a un elemento di prestigio, di sofisticata auto-rappresentazione, di diversivo colto e immaginativo (tutti fattori che esercitano un potere di seduzione reale sulla cultura aziendale d’oltralpe), ma quando si tratta di concentrarsi sul business si va su altri registri, e se proprio si deve dare attenzione a elementi estranei alla più classica cultura d’impresa ci si concentra sulla responsabilità sociale o sulla sostenibilità ambientale. La collezione o il progetto d’artista rappresentano dunque un magnifico lusso, una forma di dépense illuminata e visionaria, un'espressione di aristocrazia dello spirito piuttosto che un'opportunità di partecipazione condivisa. È significativo citare a questo proposito un topos cinematografico particolarmente significativo in tal senso: Le goût des autres (Il gusto degli altri), film francese del 2000, in cui Castella, piccolo imprenditore un po’ becero e schiavo della cultura televisiva, si trasforma per amore in un maldestro frequentatore di circoli culturali e si appassiona, tra la derisione dei suoi vecchi amici e dei suoi dipendenti, all’arte contemporanea, vista come una tipica stravaganza pre-senile, come un tentativo patetico (ma al quale la regista e attrice del film, Agnès Jaoui, guarda con simpatia e partecipazione) di approdare a un mondo e a una condizione esistenziale che non gli sono propri. Nel contesto italiano, invece, il sostegno ai progetti di istituzioni culturali importanti è relativamente tipico della grande impresa, mentre la piccola e media impresa (e qualche volta persino la grande) ha invece

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sviluppato nel tempo una propensione abbastanza unica a sviluppare e portare avanti i propri progetti culturali, spesso in stretta interazione e coabitazione con gli spazi e i modi della produzione tout court. La prevalenza della piccola impresa dinamica e intraprendente ha prodotto in Italia uno strano ibrido, relativamente raro nel variegato panorama nazionale, ma significativo e spesso premiato da grande visibilità: quello dell’impresa che si affida all’arte come strumento di innovazione in modo istintivo e volontaristico, a volte ingenuo e culturalmente malaccorto, ma con una dedizione e una passione progettuale quasi impensabile in una cultura aziendale come quella francese. Un significativo topos cinematografico in qualche modo speculare a quello francese è nel caso italiano Tre uomini e una gamba, il popolare film del trio Aldo, Giovanni e Giacomo nel quale i tre protagonisti, vittime inette e rassegnate di un suocero imprenditore arrogante e prevaricatore, sono costrette a trasportare in giro per l’Italia un ridicolo manufatto opera di un famoso 14

artista (che naturalmente «il falegname sotto casa avrebbe saputo fare molto meglio») il cui unico senso e la cui unica dignità sta nel suo (peraltro ingiustificabile) valore economico. Mentre l’ironia francese si concentra sul piccolo imprenditore parvenu culturale, nel caso italiano essa ricade tutta sull’arte contemporanea in quanto tale, in assoluta continuità con la dissacrazione giocosa dell’Alberto Sordi delle Vacanze intelligenti e con il sadismo aziendale di Fantozzi, nel quale il mega-direttore nazistoide costringe i poveri impiegati alla visione della Corazzata Potëmkin, puro atto di arbitrio maniacale nel quale la cultura diviene uno strumento persecutorio di demarcazione classista. Se dunque nel caso francese si può guardare con ammirazione e un pizzico di invidia agli esempi di altri paesi – che non sono tanto quelli italiani, troppo atipici e ai limiti della bizzarria secondo i canoni transalpini, ma piuttosto quelli tedeschi e anglosassoni, basati anch’essi sulla cultura della grande impresa e su un solido rapporto con la promozione dell’identità nazionale piuttosto che come proiezione individualistica e particolaristica come avviene tipicamente da noi – nel caso italiano ci troviamo di fronte a una forma autoctona che darà pure luogo a eccessi al limite del pittoresco ma produce anche una quantità di esperienze di prim’ordine che finiscono per rapportarsi, e a volte quasi da pari a pari, con le grandi istituzioni culturali nazionali e persino globali. Se dunque nel caso francese la perorazione del rapporto tra arte e


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innovazione condotta con passione dagli autori rappresenta una sfida culturale ancora in gran parte da vincere, nel caso italiano, per quanto in situazioni ancora molto di nicchia e sconosciute ai più, essa è, quasi paradossalmente se si pensa al nostro già ricordato rapporto sofferto con l’innovazione, una realtà che alimenta e si alimenta di una cultura aziendale elastica e aperta alle più varie influenze esterne e che ha trovato manifestazioni significative nei settori più diversi. Quello tra arte e impresa sarà anche un rapporto improbabile (come dichiarano provocatoriamente gli autori nelle prime pagine del libro), ma si tratta di una di quelle forme di improbabilità che traggono il loro fondamento nella necessità e non nell’incongruità. È un rapporto improbabile perché le condizioni che permettono a un’impresa di trarre vantaggio da questa connessione sono delicate e selettive, e non tutti sanno o vogliono crearle. È un rapporto improbabile perché, come tutte le buone idee, faticano a essere riconosciute anche se sono sotto gli occhi di tutti. Sentiremo parlare ancora molto di questi temi, anche in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo, anche se ora in molti consigli di amministrazione si vareranno tagli e si sospenderanno programmi. Quando la nave avrà ripreso a galleggiare, dovrà navigare. E allora sarà bene aver capito quale può essere lo spazio possibile dell’arte. Buona lettura, quindi.

Pier Luigi Sacco è professore ordinario di Economia della Cultura presso l’Università iuav di Venezia, dove è anche direttore del Dipartimento delle Arti e del Disegno Industriale (dadi) e pro-rettore alla comunicazione e alle attività editoriali. Collabora a Il Sole 24 Ore ed è membro del comitato scientifico o editoriale delle riviste Etica ed Economia, Mind and Society, Economia della Cultura, La nuova informazione bibliografica. È autore di numerose pubblicazioni su riviste e libri di profilo internazionale. È inoltre consigliere d’amministrazione della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per l’Arte Contemporanea, Torino, ed è consulente di numerose amministrazioni, istituzioni e organizzazioni nei campi delle politiche culturali, dell’economia dei mercati culturali e della responsabilità sociale.

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La prima volta che compare un termine appartenente a un lessico specialistico viene contrassegnato da un asterisco e riportato nel glossario a p. 136.


Introduzione

Che cosa possono avere in comune il mondo dell’arte e quello dell’impresa? Che interesse/i trarre da tale associazione? Il tema ritorna di moda in Francia, dopo essere stato quasi relegato in secondo piano dall’epoca dei trent'anni gloriosi e della “piena occupazione”, culminata con la presidenza di Georges Pompidou. Un presidente di grande cultura che, dobbiamo ricordarlo, riuscì nell’ardua impresa, sfidando le più accese controversie, di trasferire l’intero Musée national d’art moderne – situato dal 1947 al Palais de Tokyo, sulle rive della Senna, nel sedicesimo arrondissement – nel pieno cuore della Parigi popolare, a due passi dalle Halles, in un “centro d’arte e cultura” concepito architettonicamente come una fabbrica. È significativo che questa decisione altamente simbolica abbia coinciso con l’apogeo dell’attività artistica negli stabilimenti Renault, un’iniziativa strategica che resta un importante esempio di incontro tra arte e impresa, un caso oggi diventato storico. Mentre in Francia si moltiplicano i discorsi allarmanti sul declino del paese,1 si cerca in tutti i modi di ritrovare un po’ dello spirito che alimentava il dinamismo dell’epoca. Al punto che il Parlamento si è mobilitato per migliorare la legge su mecenatismo2 e Stato (il cui ruolo essenziale nella cultura francese è tradizionalmente noto) e nel testo di accompagnamento ha affidato al ministero della Cultura e della Comunicazione una missione di inquadramento e sostegno del mecenatismo;3 il ministro ha inoltre affermato a più riprese che non sarà il ministro del disimpegno dello Stato. Il rischio è infatti che questo incentivo al mecenatismo4 privato sia solo un palliativo alla moltiplicazione delle leggi di rettifica finanziaria e l’arte un mero strumento per un “supplemento d’anima”. Nella corsa al mecenate e allo sponsor, infatti, al primo posto ci sono le istituzioni culturali, che devono realizzare al meglio i

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loro obiettivi cercando inoltre di acquisire una maggiore indipendenza dalla tutela amministrativa (e molto spesso anche politica). La nuova legge sul mecenatismo sembra fatta su misura per queste istituzioni, che devono tuttavia riuscire a convincere l’impresa mecenate. E non è cosa da poco. In che modo l’arte potrebbe quindi rappresentare un interesse per l’impresa? Domanda apparentemente inopportuna, tanto il connubio tra arte e impresa sembra a priori contro natura. L’oggetto sociale dell’arte sembra infatti così distante da quello dell’impresa che questa può temere, a ragione, di lanciarsi in un’avventura spesso considerata sul piano fiscale un “abuso di bene sociale”. È anche vero che questo interesse per l’arte non è estraneo a varie forme di strumentalizzazione che mirano a un recupero in termini di immagine. Per esempio, è innegabile che di fronte alla crisi immobiliare della fine degli anni ottanta la fondazione Coprim, sostenendo i giovani artisti, abbia con18

tribuito a dare un’immagine più accattivante del ruolo di promotore che svolgeva. Altro esempio: il premio Altadis, rivolto ai giovani artisti francesi e spagnoli, probabilmente è stato creato dal produttore di sigarette franco-spagnolo perché la legislazione vieta la pubblicità diretta del tabacco. Viceversa, è fuor di dubbio che l’arte, e in particolare l’arte d’oggi, possa trarre vantaggio dal sostegno dell’impresa, che si tratti di mecenatismo o di sponsorizzazione, purché essa sia nelle condizioni di assumere tale ruolo in totale libertà e nella forma che ritiene più appropriata. Il mondo dell’arte contemporanea, i suoi protagonisti e i suoi territori sono recentemente stati oggetto in Francia di diversi studi che dimostrano lo scarso riconoscimento degli artisti francesi sulla scena internazionale, nonostante il forte sostegno delle autorità. Così abbiamo deciso di andare a scoprire altrove la natura dei rapporti arteimpresa e il contesto nel quale si instaurano. Altrove, cioè in Europa, in particolare dai nostri vicini più prossimi, dove abbiamo constatato il divario spesso esistente tra le loro pratiche e le nostre. In altri paesi, per esempio, lo spirito di cittadinanza culturale è notevolmente più sviluppato, poiché segue un principio di “partecipazione” tra i diversi attori sociali, e non è, come in Francia, essenzialmente “delegato” al settore pubblico.


· Introduzione ·

Perché l’Europa, e non gli Stati Uniti, dove i rapporti tra arte e impresa sono tanto stretti quanto antichi? Perché da una parte la comprensione di questi rapporti, sia sul piano economico sia su quello giuridico o fiscale, non solleva oltreoceano alcuna questione che meriti di essere seriamente dibattuta (se non da un punto di vista puramente tecnico) e dall’altra questi rapporti non possono servire come valido paragone con le soluzioni e le pratiche in atto nello spazio europeo. Il modello americano resta strettamente legato al consumo,5 vale a dire al potere divorante del mercato, che usa l’arte soprattutto per “far soldi”, mentre il modello europeo sembra piuttosto conferire all’arte un ruolo in cui il profitto è da ricercarsi principalmente nel contributo allo sviluppo del senso di responsabilità collettiva in materia di ambiente sociale e affermazione delle identità culturali. Vediamo imprese arty posizionarsi sullo stesso modello delle imprese “etiche”. Non è raro del resto che queste due opzioni vengano adottate contemporaneamente dalla stessa impresa. La nostra posizione si inserisce in questa logica: invece di illustrare il modello americano, decisamente inadatto al contesto francese ed europeo, ci è sembrato più utile soffermarci sull’originalità di questo o quell’altro aspetto dei rapporti tra impresa e arte nello spazio europeo che sia direttamente utile (se non trasferibile nell’ambito dell’Unione) al caso della Francia. Questo per rispondere all’urgenza della situazione, sapendo che, anche in Europa, la Francia rappresenta un’eccezione in questo campo. Le osservazioni su scala europea5 dimostrano che i paesi da cui provengono gli artisti più rinomati e dove si producono le opere di maggior valore sul mercato beneficiano di un sostegno statale neanche lontanamente paragonabile a quello francese,6 ma possono contare su investimenti corporate in materia d’arte contemporanea (sostegno di progetti, produzione di opere e collezioni d’impresa) decisamente superiori. Benché sia difficile quantificare esattamente tali investimenti, ci siamo basati su programmi come il Percento culturale Migros della cooperativa Migros in Svizzera, ossia un budget di oltre quindici milioni di euro che finanzia il Migros Museum di Zurigo, dedicato all’arte contemporanea. Questa selezione di esperienze in Europa7 ci ha permesso di tracciare un bilancio della situazione attuale; non si tratta tuttavia (e ne siamo ben consapevoli) di mettere a confronto le tendenze riscontrate ma di cercare di analizzarne le relazioni di causa

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ed effetto. Poiché lo scopo di quest’opera è anche estrapolare un modello, abbiamo individuato, paese per paese, le strategie e i metodi imprenditoriali più convincenti, quelli cioè che ci sono parsi giustificati da un contratto “win-win” tra le parti.

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1 A regola d'arte

Considerare i rapporti tra arte e impresa “a regola d’arte” porta a domandarsi in quale forma e con quale modus operandi l’arte possa suscitare l’interesse delle imprese. Prima constatazione: in tutti i paesi, indistintamente, l’arte cosiddetta “contemporanea”1 è fortemente privilegiata. Così, prima di proseguire, ci è sembrato utile cominciare con una breve storia dell’arte a partire dagli anni sessanta, epoca in cui compaiono le prime collezioni e fondazioni d’impresa e in cui, contemporaneamente, vede la luce anche un certo numero di esperienze originali. Inoltre, nell’ambito del mecenatismo, le imprese sono sollecitate a sostenere non solo la produzione di mostre ma anche quella delle opere stesse. Il concetto di “produzione artistica”, comunemente utilizzato per designare il processo creativo, si traduce nella comparsa di opere nuove nell’atelier dell’artista, autore e imprenditore. Considerare l’opera d’arte sotto questo aspetto, in quanto risultato di un’“impresa artistica”, impone di tener conto del complesso status di questa produzione: simbolica? commerciale? In ogni fase storica si pone inoltre la questione della materialità stessa dell’opera d’arte. Breve storia dell’opera d’arte La fine degli anni sessanta è caratterizzata dalla comparsa di un nuovo tipo di opera d’arte, la cui fama è assicurata dall’esposizione inaugurale “When Attitudes Become Form” (Quando attitudini diventano forma), realizzata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna e tenuta in seguito al Museum Haus Lange di Krefeld e all’Institute of Contemporary Art (ica) di Londra, tre paesi – Svizzera, Germania e Gran Bretagna – che sono ancora oggi, in Europa, i più sensibili all’arte contemporanea. Il sottotitolo della mostra, “Opere, concetti, eventi, situazioni, informazione”, dimostra che l’attenzione principale è rivolta al processo,

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all’attività e all’attitudine interiore dell’artista applicata all’opera d’arte. Per Harald Szeemann l’obiettivo era già introdurre nel quadro istituzionale del museo, senza dispersione di energie, l’intensità del vissuto con gli artisti, grazie al sostegno di un’azienda, Philip Morris, allo scopo di porre la questione dell’appropriazione e spezzare il triangolo formato da atelier, galleria e museo all’interno del quale, fino ad allora, l’arte si manifestava in maniera esclusiva. Alla concezione classica dell’opera d’arte, che prende forma nel silenzio dell’atelier, si sovrappone quella di un’opera inserita in una rete di complesse relazioni che coniugano materia, spazio e ambiente, tre fattori che inducono un cambiamento di percezione del mondo: l’event degli artisti di Fluxus (Filliou, Vostell, Beuys), l’happening degli americani Oldenburg e Kaprow, l’action dei viennesi Nitsch e Mühl o dell’americano Bruce Nauman, dove il corpo gioca un ruolo essenziale in quanto vettore di energia. Quell’arte, figlia diretta della società industriale e 22

del contesto urbano, conquista tanto New York quanto Parigi, Vienna, Tokyo, Krefeld, Milano, Colonia, Bruxelles e Copenaghen… Suscita stupore, curiosità, spesso incomprensione, addirittura ostilità. Allan Kaprow ricorda così il suo primo happening realizzato a Parigi nel 1963: Tramite la galleria Sonnabend avevo conosciuto un collezionista, vicepresidente dei grandi magazzini Le Bon Marché, che mi invitò la sera stessa, dopo la chiusura. Era molto buio e giravamo con l’aiuto di una grossa torcia. Tutto era ricoperto da tendaggi. Nei seminterrati c’erano magnifici interruttori di rame, acqua stagnante, proveniente dalla vicina Senna, e pompe costantemente in funzione. […] Durante l’happening l’atmosfera del negozio aveva un che di allucinatorio, con quelle piccole lampadine da quindici watt al massimo, tutti quei manichini ricoperti di tessuti e i carrelli spinti dalla gente. Non ricordo granché, era come un collage di events.2

Lo stesso anno Andy Warhol fonda a New York la Factory, vera e propria fabbrica della Pop Art, al tempo stesso atelier, officina, studio cinematografico, sala prove e di esibizione, laboratorio e luogo di ricevimenti mondani, ma anche primo squat in anticipo sui tempi. In Francia, Yves Klein realizza all’inizio del 1961 le sue Peintures feu (pitture di fuoco), nelle quali imprime le tracce del fuoco su diversi supporti. Il centro collaudi di Gaz de France della Plaine-Saint-Denis gli mette a disposizione un impianto


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industriale che egli impara a utilizzare. Nelle pitture di fuoco, come nelle Cosmogonies (impronte della pioggia e del vento sulla tela), l’artista fa appello alla forza creatrice degli elementi della natura. Ma poiché il fuoco è all’origine della civiltà, Yves Klein gli riserva un ruolo privilegiato, sottolineandone la natura ambivalente: calore e dolore fanno eco al legame che si instaura tra natura e cultura. All’inizio degli anni settanta compaiono opere che indagano i codici sociali: è il caso dei primi video dell’americano Gary Hill, delle sue sculture sonore che utilizzano il feedback e il suono elettronico, o dei video actions della cineasta austriaca Valie Export (il cui stesso nome è un marchio, preso in prestito dalla marca di sigarette Smart Export). Touch Cinema è a questo proposito un’opera emblematica: l’artista cammina per la strada con il busto chiuso in una scatola munita di tendina sul davanti. Spiega Valie Export: Gli strumenti materiali che sono per me il tempo, il corpo e gli oggetti sono usati per rappresentare delle condizioni immateriali. Cerco di dimostrare che l’uomo sperimenta la realtà mediante strutture di riferimento preconfezionate. […] Per questo mi occupo soprattutto del concetto cruciale di queste strutture di riferimento: l’identità.3

L’arte degli anni novanta, invece, è caratterizzata da un ritorno dell’happening e della performance, prolungamento naturale dell’Azionismo, della Body Art e di Fluxus, così come da un notevole interesse per le immagini del corpo (fotografia e video) con una connotazione politica, sociale o sessuale, rappresentato in particolare da Mike Kelley, Paul McCarthy, Franz West o Martin Kippenberger. L’attività di Martin Kippenberger è quasi frenetica, poiché l’artista vuole coprire tutti i campi e invadere tutti i luoghi possibili: nulla è più o meno significativo, più o meno importante, posto che tutto è possibile e concepibile. La proliferazione di proposte e di oggetti ostacola la valutazione – un tratto comune con la produzione di Broodthaers – e il giudizio. Come comprendere la copia conforme di un soggiorno che vi ricorda quello di vostra zia o che sfoggia un “quadro-copridivano”? E le sue numerose massime al limite dell’assurdo (o di un’assurdità senza limiti) non smettono di disorientarci: “Non capire niente è sempre meglio di niente”, o ancora “Tratta bene il caso poiché non conosce ritorno”. Adottando un atteggiamento

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risoluto, non esita a proclamare, in accordo con i suoi amici William Büttner e Albert Oehlen: “La verità è il lavoro”. La responsabilità dell’arte nella società è un sentimento fortemente rivendicato anche da Michelangelo Pistoletto, per il quale l’artista è un vero e proprio “sponsor del pensiero” in qualsiasi impresa umana. È con questo spirito che nel 1991 crea la Cittadellarte, fondazione con sede in un ex mulino ad acqua in riva al Cervo, a Biella (Piemonte), vasto atelier dove si incrociano tutte le discipline artistiche. Dal 1999 ospita l’Università delle Idee (unidee), il cui scopo è porre l’arte al centro della trasformazione della società e dove si ritrovano regolarmente filosofi, artisti, imprenditori ed esperti di comunicazione. L’università ospita inoltre Love Difference, movimento artistico per una politica intermediterranea, che accoglie iniziative provenienti da fondazioni o gruppi di ricerca nell’area mediterranea. A questa generazione di artisti che aveva conosciuto la performance 24

negli anni settanta si aggiunge una nuova generazione, nata negli anni sessanta, che lavora su un approccio molto più mediatico del corpo. Documenta ix (1992), diretta da Jan Hoet, punta proprio su questo concetto, sottolineando il rifiuto da parte degli artisti di concepire una postmodernità liftata dalla perfezione delle immagini e degli oggetti provenienti dalla pubblicità, contrapponendo loro il corpo come mezzo espressivo. Così, oltre alle installazioni video di Bruce Nauman e di Peter Kogler si potevano ammirare le esibizioni hollywoodiane e acrobatiche di Matthew Barney o il car crash di Cady Noland. A differenza delle performance corporee della prima generazione (a cui Joseph Beuys aveva aperto la strada), la partecipazione diretta del corpo cede il passo alla metafora scenica. Vito Acconci, Bruce Nauman o Chris Burden, dal canto loro, svilupparono una concezione antieroica che si tradusse in un distacco netto dell’artista e del suo corpo, al contrario del processo di identificazione con l’opera degli anni sessanta. Questo approccio “distaccato” era sviluppato per esempio nella mostra “L’Hiver de l’amour” (L’inverno dell’amore) al Musée d’art moderne de la ville de Paris (febbraio-marzo 1994). Qui il corpo vittimizzato nelle forme più diverse di violenza contemporanea si inserisce in una ricostruzione a tratti drammatica della banalità (quella di un letto d’ospedale o, ancora più morbosa, di una cella d’obitorio), dove non si è più in grado di distinguere il vero dal falso e dove ciò che infine è diventato banale, ordinario, è il


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“vero-falso”, la contraffazione che diventa norma, mentre l’originale è considerato totalmente superato. È stata l’arte cosiddetta “contemporanea” a dare al “concetto” una dimensione: arte concettuale la cui origine risale all’opera magistrale di Marcel Duchamp, che è al tempo stesso autore di una misteriosa ed erotica rappresentazione del corpo, Étant donné (1946-1966) – opera che riprende il tema dell’Origine du monde dipinto da Courbet nel 1866 (una donna distesa, nuda, a gambe aperte) – e inventore del readymade, oggetto estratto dal flusso della produzione industriale per essere elevato dall’artista al rango di opera d’arte. Il significato di questo lavoro parallelo nell’opera di Duchamp (la pittura del corpo e lo snaturamento dell’oggetto), fin dal primo quarto del xx secolo, rimanda alla funzione stessa dell’opera d’arte in quanto prodotto dell’ingegno totalmente asservito al proprio significato, all’idea che veicola, e non a una qualsivoglia rappresentazione della realtà. Il readymade, la cui povertà formale è inversamente proporzionale al carattere assoluto della questione posta, ne è la perfetta realizzazione: Che cos’è l’arte? Orinatoio (1917), uno dei readymade più noti, continua a far parlare di sé.4 Dall’Orinatoio di Duchamp alla sedia di Kosuth (1965) il passo è breve. Questo elemento del reale è inglobato dall’arte che rinvia solo all’oggetto-sedia nella sua neutralità, o più precisamente, come afferma lo stesso Kosuth, a un linguaggio artistico, una proposizione non descrittiva ma enunciativa della propria definizione. Questo enunciato potrà assumere semplicemente l’aspetto di un testo: Statements di Lawrence Weiner, descrizione del gruppo Art & Language, ma anche ritrascrizione di una discussione con Ian Wilson che dimostra come tutto sia informazione, comunicazione e si costituisca in documentazione o addirittura in “critica”; è l’artista stesso a rivendicare questo ruolo nei confronti del proprio lavoro. All’alba del xxi secolo si assiste a una nuova trasformazione dell’opera d’arte, con l’affermarsi dell’opera “parassitaria”.5 Caratterizzata dall’onnipresenza del “consumabile”, fa appello al riciclaggio, al recupero, al sampling, alla creazione in tandem6 o alla creazione firmata.7 Avendo abbandonato le modalità significative autoreferenziali per prodursi come traccia o frammento del mondo reale, integra le proprie condizioni di produzione (basate sullo scambio, la relazione sociale) o di postproduzione (montaggio) il cui completamento implica un costante lavoro di ricostru-

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zione e adattamento affidato allo sguardo del pubblico* (mostra). Questa concezione dell’opera d’arte, né feticista né votata all’entertainment, ma che prende coscienza della propria funzione “documentaria”, riqualifica il rapporto con il presente del mondo. Lo scultore Erik Dietman affermava che «è il mondo a essere una scultura e nel mondo ci sono parole inadeguate, che cerco a modo mio di aiutare fabbricando loro degli oggetti».8 L’artista, persona morale L’artista si prende gioco delle contraddizioni apparenti, è al centro della rete come del sistema non commerciale, perseguitato senza tregua dalle imitazioni intermittenti che la nostra società sempre avida di nuovi spettacoli fa di se stessa. Se la visione romantica dell’artista maledetto è ormai superata, come quella dell’avanguardia, si impone allora quella dell’“artista lavoratore”, che per lo svizzero Thomas Hirschhorn significa avere una pratica d’artista. L’artista contemporaneo, che proprio 26

in questo si differenzia dall’artista moderno, riconduce ogni sua azione e ogni oggetto in grado di accedere allo status di opera d’arte alla sua personalità, oscillando tra la consapevolezza della sua persona fisica e quel particolarissimo stato in cui si produce la finzione, ciò che Rosalind Krauss chiama simpaticamente la sua “leggenda” (ricorrendo così a una terminologia propria dei servizi segreti) e che noi chiameremo la sua “persona morale”: l’artista come imprenditore (Fabrice Hyber[t]), come produttore cinematografico (Bernard Joisten, Philippe Hurteau o Philippe Parreno), come regista o attore (Cindy Sherman), come presentatore di programmi televisivi (Jiri Dokoupil), o ancora come curatore di mostre e collezionista. Negli anni settanta e ottanta, ai margini di una corrente pittorica neoespressionista molto importante che imita indistintamente le forme rinascimentali, barocche e kitsch,9 nasce negli Stati Uniti una corrente pittorica “simulazionista” astratta,10 il cui sviluppo porterà al readymade,11 con la produzione di oggetti fabbricati in serie e immagini provenienti dalla cultura di massa. Con l’aspetto meccanico delle loro opere, questi artisti si oppongono al movimento neoespressionista degli anni ottanta. Le immagini di Bickerton riflettono i comportamenti più primitivi dell’uomo, denunciano il consumo eccessivo e il suo impatto catastrofico sull’ambiente. Negli anni novanta alcuni artisti, appassionati di bricolage low-tech, realizzano opere fatte di oggetti smarriti as-


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semblati in installazioni la cui logica resta improbabile (Robert Gober). I manichini di Charles Ray sono simulazioni variabili del corpo, privi di espressione, di cui solo il look è identificabile. Altri esempi si spingono oltre, come il progetto di Hans Haacke sull’idea di un museo depositario di ricerche assistite dall’arte o quello per il bicentenario della Rivoluzione francese, per il quale intendeva incidere su un cono di pietra alto quattro metri e trenta una traduzione in arabo della trilogia repubblicana francese, tanto per ricordare che «la Francia è oggi una società multirazziale e multiculturale» dove «la promessa di libertà, uguaglianza e fratellanza non si è ancora interamente realizzata, specialmente per il terzo stato contemporaneo, che conta tra le sue fila soprattutto la popolazione musulmana della Francia attuale». Altrettanto provocatoria è la presenza al Centre Georges Pompidou di un monumento che rappresenta i legami di Cartier, mecenate di manifestazioni artistiche e creatore dell’omonima fondazione, con il gruppo Rembrandt, uno dei principali trust finanziari e minerari sudafricani. L’opera di Hans Haacke, rifiutando per principio l’autonomia della sfera artistica, di cui riconosce lo stretto legame con quella economica e politica, indaga le condizioni di coinvolgimento di alcuni gruppi industriali nella vita artistica, in particolare quelli che ricorrono al mecenatismo in una maniera che egli ritiene sospetta, poiché introduce l’arte come elemento di autorità sulle coscienze. Ponendosi in una posizione di resistenza permanente, Hans Haacke rischia così il rifiuto, se non addirittura la censura. L’arte al servizio del marketing Il Portrait de l’artiste en travailleur (Ritratto dell’artista come lavoratore), nella descrizione che ne fa il sociologo Pierre Menger, sottolinea come l’innovazione artistica si insinui oggi in numerosi universi produttivi. Questa assoluta attenzione per l’economia in Hirschhorn o Haacke era già negli anni sessanta al centro delle ricerche del gruppo inglese Archigram, che sviluppava un concetto di architettura ibrida, da consumare dopo l’uso, allo scopo di affrancare l’uomo da ogni coercizione, combinando le tesi utopistiche dell’“urbanistica indeterminata” di Yona Friedman e dell’“urbanistica unitaria” dei situazionisti. Il dispositivo di Archigram comprendeva apparecchi di collegamento, cuscini e involucro trasparente gonfiabile, casco dotato di microfono, radiotelevisione e telecamera. Archigram aveva coniato un neologismo ottenuto

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dalla contrazione delle parole cuscino e veicolo, cushicle, per designare la versione definitiva di un ambiente in grado di rivelare all’uomo ciò che lo abita. L’invenzione di strumenti di comprensione e macchine a funzionamento mentale è anche al centro dell’opera di Robert Filliou. La sua produzione di oggetti plastici non è destinata al consumo culturale, sebbene la sua famosa massima “L’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte” suoni come uno slogan pubblicitario. Soddisfazione dei bisogni, valore di un prodotto, la pubblicità che in origine doveva permettere di valutare il rapporto qualità/prezzo è più spesso diventata condizionamento mentale, “psycho-marketing”, rappresentazione della “mancanza” (di amore, di tempo, di comfort…) e promessa di abbondanza a credito. Detersivi, vestiti, bibite, deodoranti e strumenti informatici “cambiano il mondo”,12 ma in realtà mirano innanzitutto a dettare i riferimenti della normalità contemporanea. 28

L’elenco delle immagini pubblicitarie ispirate alle opere d’arte sarebbe lungo. Basta fare la spesa per imbattersi facilmente in immagini che alludono a celebri dipinti: un Vermeer sulle creme dessert, Le stiratrici di Degas sulla candeggina, e così via. In certi casi l’immagine non è neppure necessaria, basta il nome! Uno degli esempi più noti è quello di Picasso, o meglio della sua firma, ripresa con lo slogan “Think different” di Apple (1999) o apposta dal 2000 sulla serie “Xsara” della Citroën. La stampa automobilistica annunciava “l’arrivo della Picasso nello spietato universo del monovolume: Citroën Xsara Picasso, artista quotata”. In questo tipo di contratto si tratta di acquistare dagli aventi diritto l’autorizzazione a trasferire su un marchio un po’ della notorietà di un artista considerato un genio dei nostri tempi. L’esercizio che si fa qui del diritto morale è eticamente discutibile. È evidente che, da vivo, Picasso non avrebbe mai acconsentito, per nessun prezzo, ad apporre la sua firma su un oggetto del tutto estraneo alla sua opera. In una pubblicità Canon, “Così bello che dovrebbe essere proibito”, una serigrafia di Warhol viene replicata dalla fotocopiatrice in maniera così perfetta da poter trarre in inganno. Il marchio, entrando in concorrenza con l’artista, dovrebbe essere denunciato per contraffazione; si pone allora, non senza ironia, la questione del valore della fotocopia equivalente all’originale, con il marchio che eleva il pubblico al rango di artista capace di creare opere d’arte. Oggi il design di un prodotto gli conferisce automaticamente uno sti-


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le, caratteristica propria dell’opera d’arte, tant’è vero che gli studi stilistici si considerano al pari degli atelier dei grandi maestri del Rinascimento. Arte e lusso vanno a braccetto poiché il lusso si è democratizzato, mentre la rivendicazione sociale volta a includere le opere d’arte tra i beni di consumo è in constante crescita. È facile concedersi un prodotto firmato da un creatore, quello che nel gergo del marketing si definisce con il termine masstige (contrazione di mass market e di prestige). I colpi di testa, diventando accessibili, agiscono come una sorta di terapia: ci fanno stare bene a un prezzo ragionevole. Per il pubblicitario, l’artista afferma: “Creo, dunque vendo”, mentre lo spettatore è in primo luogo un acquirente che esclama: “Compro, dunque sono” scegliendo un prodotto artistico autogratificante. L’arte viene così snaturata dai marchi della grande distribuzione, non solo per far lievitare le vendite ma anche per dimostrare la loro capacità di innovazione, utilizzando l’approccio sperimentale tipico della creazione. Tuttavia, l’attrazione tra le opere d’arte e la pubblicità è reciproca. Se le opere d’arte hanno la facoltà di rappresentare uno spazio cognitivo irriducibile alle contingenze temporali (e ciò spiega il fascino che possono esercitare sulla pubblicità), l’arte contemporanea attinge a sua volta a piene mani da ogni sorta di pratica pubblicitaria e si serve di oggetti di cui la società dei consumi fa largo uso. Qui entra in gioco lo status particolare dell’opera d’arte, considerata “opera dell’ingegno” e, in quanto tale, regolata dal “diritto morale dell’artista-autore”, che è imprescrittibile, e al tempo stesso classificata tra i “beni d’occasione”.13 Da Filliou a Hyber, il campo d’azione dell’artista non conosce limiti. Ricordiamo l’Hybermarché (1995) presentato al Musée d’art moderne de la ville de Paris, dove gli oggetti esposti venivano effettivamente venduti e i proventi della vendita incassati dalla società Unlimited Responsibility. O ancora il progetto Mobile Information Stand for Moneyback Products di Matthieu Laurette, che si inserisce nell’ambito del “metodo dei prodotti rimborsati”. Concepito in origine come uno stand informativo per la lobby dell’ica di Londra (1999), l’installazione riunisce un insieme di strumenti e di forme che spiegano il suo metodo di consumo recuperando il 100% della somma spesa. Questo si basa sulle strategie di marketing dei grandi gruppi industriali che lanciano prodotti associati a offerte promozionali “soddisfatti o rimborsati”. Matthieu Laurette elabora la sua personale strategia di accompagnamento: distribuzione di volantini e interventi nel metrò, “visite guidate” nei supermercati, conferenze pubbliche, sito Internet e

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persino un camion-negozio itinerante. Sovvertendo a proprio vantaggio le leggi del marketing e dei mass media, Matthieu Laurette procede per incursioni e partecipazioni a trasmissioni televisive (Tournez Manège) dove propone le sue Apparitions (apparizioni): immagini readymade che riflettono tanto l’eredità di Duchamp quanto i quindici minuti di celebrità di Warhol. La campagna pubblicitaria Microsoft afferma: “Your potential. Our passion”, il tuo potenziale è la nostra passione. La sua visione commerciale people-ready colloca abilmente i dipendenti in primo piano, per «permettere loro di sbocciare, di esprimere tutto il loro potenziale e di farli partecipare al successo dell’azienda» fornendo loro i software adeguati. Questi ultimi non sono designati tanto come prodotti quanto considerati opportunità o “soluzioni software”, frutto di un investimento in Ricerca e Sviluppo nel corso degli ultimi tre anni per un ammontare di venti miliardi di dollari. Nulla quindi sembra poter resistere alla forza inno30

vatrice proposta: “Dall’informatica decisionale alla forza lavoro mobile, dalla collaborazione alla comunicazione e dalla gestione dei rapporti con la clientela alla ricerca aziendale”. Slogan tra il provocatorio e l’ironico in sovrimpressione sulle immagini pubblicitarie vi informano che, a patto di essere efficacemente connessi tramite Microsoft, i team della vostra azienda saranno pronti “a consegnare in tempi impensabili” o “a fare il giro del mondo prima di mezzogiorno”, o ancora “a unire i cinque continenti”, mentre ogni collaboratore/collaboratrice è pronto/a “a trasformare un contatto in un cliente fedele”. Si vedono uomini giovani (e altri meno giovani), qualche donna qua e là, in piedi, con le braccia incrociate o le mani in tasca, che posano disinvolti ma visibilmente attenti a qualsiasi situazione dovesse richiedere il loro intervento. Questi strumenti tecnologici all’avanguardia promettono vantaggi ineguagliabili, misurabili in termini di produttività e di qualità del lavoro, ovviamente eccelsa. L’aeroporto internazionale di Zurigo, per esempio, (milletrecento aeroporti partner e ventimila dipendenti) è dotato da Microsoft del programma dall'azzeccato nome zeus che gestisce tutti (o quasi) i movimenti di aerei e passeggeri, come afferma il chief executive officer: «In due o tre minuti al massimo ottengo una visione molto chiara e sintetica di quello che accade in ogni istante e ho a disposizione, in tempo reale, ogni sorta di diagramma per tenermi informato». I protagonisti di questi ritratti di gruppo sono tutti anonimi, in pie-


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di, di faccia, con un leggero sorriso sulle labbra e un atteggiamento che mira a dare l’impressione rassicurante di essere “immediatamente operativi”. L’insieme tuttavia provoca un leggero disagio, poiché l’ambientazione scelta è di una neutralità inquietante: o un’ampia stanza priva di qualsiasi oggetto o arredo, pavimento scuro e lucido, tramezzi di vetro leggermente colorato e soffitto in legno lamellare, oppure l’interno di una fabbrica, riconoscibile dalle sagome vagamente minacciose di qualche motore d’aereo dalle alette taglienti. Il disagio nasce dal fatto che questo ritratto di gruppo rappresenta individui identificabili unicamente come gruppo sociale (l’unico criterio di differenziazione è costituito dall’abbigliamento: i quadri con o senza cravatta, a seconda dell’età, gli operai in tuta da lavoro), ma anche dal fatto che si tratta palesemente di un raggruppamento fittizio (quasi di una performance), e cioè tecnicamente di una fotografia. Questa scena compositiva non può non ricordare le “fotografie composite” molto in voga nell’America del 1880 basate sul “collage”. All’epoca, poiché i tempi di posa erano lunghi (e le emulsioni lente), il rischio di veder muovere i modelli era inevitabile. Così, per ovviare a questo grave inconveniente, ogni persona veniva fotografata separatamente in studio e, una volta ritagliata, l’immagine veniva aggiunta alle altre tramite collage per trovarle un posto nel gruppo. In un certo senso, la pubblicità Microsoft non sfugge alla legge del genere, i cui caratteri furono fissati già nel xvii secolo dai maestri olandesi e ripresi in seguito dagli inglesi. È a partire da quest’epoca infatti che comincia ad accentuarsi lo scarto, nella rappresentazione del corpo sociale, tra il mondo paradisiaco dipinto da Poussin in stile allegorico (quello dei Pastori d’Arcadia) e l’universo pragmatico di Rembrandt (I sindaci dei drappieri). Ricordiamo che all’epoca in cui Poussin si stabilisce a Roma i mercanti olandesi comprano l’isola di Manhattan (1626) e fondano le colonie di Haarlem e New Amsterdam, quest’ultima ribattezzata New York all’arrivo degli inglesi (1664). La scenografia Microsoft, con la sua austerità, ricorda un interno di chiesa di Pieter Saenredam, che peraltro ha fatto da sfondo a un famoso film pubblicitario prodotto da Publicis per Hewlett-Packard (2003), le cui scene riprendono le composizioni di diversi dipinti olandesi. Nell’atteggiamento dinamico e nella posa frontale dei dipendenti Microsoft ritroviamo inoltre la franchezza dello sguardo e la vivacità dei modelli maschili e femminili dipinti da Frans Hals con grande economia di mezzi, che si stagliano su uno sfondo grigio chiaro.

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Infine, ciò che anche l’osservatore meno attento può cogliere, è la “funzionalità” della figura umana, il fatto che ognuno è al proprio posto e ricopre il ruolo adeguato. Quando Frans Hals ritrae Adrian van Ostade verso il 1650, si sforza di rendere la personalità del suo modello persino nell’abbigliamento, che riflette il suo status sociale. Nulla, nella composizione dell’immagine Microsoft, viene a turbare quest’ordine ineccepibile e socialmente corretto (con un sapiente dosaggio dei sessi maschile e femminile, sostanzialmente in parità, unito alla presenza più discreta di africani e asiatici), poiché il people-ready considera il valore degli uomini e l’efficienza dei team in funzione dei “software che li ispirano, che trasformano l’informazione in azione e li connettono tra loro”.

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