Marco Meneguzzo
Arte Programmata cinquant’anni dopo
Marco Meneguzzo Arte Programmata cinquant’anni dopo
A mancare oggi è quella fiducia che gli esponenti dell’Arte Programmata avevano non solo nel futuro, ma nelle possibilità dell’arte di incidere sulla realtà. Marco Meneguzzo (1954) insegna Storia dell’arte contemporanea e Museologia e gestione dei sistemi espositivi all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. Come curatore indipendente, sull’argomento in questione, ha realizzato importanti rassegne, tra cui “Azimuth & Azimut” al pac di Milano (1984), “Arte Programmata 1962” al Museo di Galliate (2000), “Arte Cinetica e Programmata in Italia” alla Galleria Niccoli di Parma (2000), “Kinetische Kunst aus Italien 1958-1968” (2002-03), “Zero. Tra Germania e Italia 1958-1968” al Palazzo delle Papesse di Siena (2004) e “Programmare l’arte. Olivetti e la neoavanguardia cinetica”
Avvenire ed è tra i corrispondenti italiani di Artforum. Fra le
•
sue pubblicazioni recenti: Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze) (2012).
il punto
Novecento a Milano (2012). Collabora alle pagine d’arte di
€ 8,90
presso il negozio Olivetti di Venezia e il Museo del
Nella stessa collana: 1. Marco Belpoliti Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio 2. Clément Chéroux L’immagine come punto interrogativo o il valore estatico del documento surrealista 3. Luca Scarlini Andy Warhol superstar. Schermi e specchi di un artista-opera
4
4 ISBN 978-88-6010-080-1
il punto 4
P04-imp-esec.indd 1
01/06/2012 17.39.17
Marco MeneguzzoÂ
Arte Programmata cinquant’anni dopo
P04-imp-esec.indd 3
01/06/2012 17.39.17
P04-imp-esec.indd 4
01/06/2012 17.39.17
Un revival inaspettato?
Questo saggio non è una storia dell’Arte Programmata. È piuttosto una riflessione contemporanea sui motivi per cui una tendenza, un movimento, un’attitudine possono ritornare d’attualità a distanza di cinquant’anni dalla loro nascita e, soprattutto, a grande distanza dalla loro caduta nell’oblio. Per questo, non è necessario che chi legge conosca perfettamente le vicende legate a quella precisa stagione espositiva – tra l’altro, una piccola sfida è stata quella di cercare di far scoprire e di raccontare le vicende storiche dell’Arte Programmata attraverso una serie di indizi e di aneddoti sparsi nel saggio, e attraverso le note al testo, che sono discorsive, oltre che bibliografiche –, ma è sufficiente che frequenti un poco il mondo dell’arte, e che si sia accorto di come, a volte, autori o movimenti del recente passato, assolutamente tralasciati nel corso di decenni, assumano quasi all’improvviso un ruolo e un’importanza storica impensati. Questioni di mercato, dirà qualche cinico, e certamente il desiderio e la necessità di proporre al collezionismo continue nuove “attrazioni”, non sempre ritrovabili nella
7
P04-imp-esec.indd 7
01/06/2012 17.39.18
produzione contemporanea, hanno qualche peso in tali riscoperte, ma il caso dell’Arte Programmata va oltre questi calcoli: è una questione di gusto, e non solo di gusto del revival. In ogni riscoperta c’è sempre l’indizio di un desiderio, di una nostalgia, cui si cerca di rispondere con qualcosa che colmi con sostanza quella mancanza. In questo senso, al di là di ogni sottigliezza critica, di ogni considerazione storica e di ogni realizzazione pratica, l’Arte Programmata lavorava su un concetto di futuro che probabilmente non si sarebbe potuto mai realizzare, ma che di converso ci piace moltissimo, proprio in virtù di quella utopica impossibilità: a distanza di cinquant’anni esatti dalla prima formulazione di Arte Programmata quelle idee e quelle opere sembrano vivere oggi una seconda giovinezza; le loro componenti sono la nostalgia e al tempo stesso la visione di un futuro che, come dice una battuta ben azzeccata, “non è più quello di una volta”.
Vecchie tecnologie Una delle caratteristiche che immediatamente balza all’occhio, visitando una mostra di arte cinetica o programmata, è la sconcertante e obsoleta semplicità di tutte le parti mobili, solitamente motorizzate, di queste opere. Quando nel 1964 Enzo Mari fu incaricato da Giorgio Soavi e da Bruno Munari – i promotori della mostra di Arte Programmata di due anni prima – di accompagnare i lavori negli Stati Uniti e di curare l’allestimento della
8
P04-imp-esec.indd 8
01/06/2012 17.39.18
mostra nelle sedi americane della Olivetti (sponsor della manifestazione) e in alcuni musei universitari, si trovò a dover fare i conti con una difficoltà banale, quella di una rete elettrica a 125 volt invece della nostra a 220, che costrinse a rivedere tutti i “motorini” (così li chiamavano) che muovevano le opere meccanicamente cinetiche. Se a questa contrarietà così simile a quella del turista europeo dotato di rasoio elettrico in una camera d’hotel a New York si aggiunge la considerazione – anch’essa di Mari – per cui «…a noi [gli artisti “programmati” e genericamente cinetici, N.d.A.] ci hanno fregato i gadget elettrici apparsi nei negozi a cavallo del settanta…»,1 si può tranquillamente affermare che il motivo d’interesse nei confronti di queste opere non risiede assolutamente nello stupore tecnologico, assimilabile per molti versi all’abilità tecnica, quella sì, invece, oggetto dell’apprezzamento più elementare presso un pubblico non smaliziato che si trovi di fronte a un’opera d’arte minuziosamente dipinta o abilmente scolpita. In fondo, i piccoli motori elettrici francesi Crouzet (semplicissimi apparecchi che si limitavano a produrre un movimento rotatorio relativamente veloce o anche lentissimo – particolarità per cui erano soprattutto apprezzati dagli artisti cinetici italiani – grazie a un riduttore dentato altrettanto semplice) non erano certo l’emblema della tecnologia o della novità neppure nel 1960, ma sono stati quasi indispensabili alla creazione delle prime opere cinetiche del milanese Gruppo T. Questo, giusto per ribadire che gli artisti in questione – quelli del Gruppo T, appunto, del padovano Gruppo Enne2 (tra l’altro ancor meno coinvolti nell’uso di strumenti
9
P04-imp-esec.indd 9
01/06/2012 17.39.18
elettromeccanici per inserire il movimento reale nei propri lavori), di Bruno Munari, di Enzo Mari o di Getulio Alviani – non erano sedotti dalla tecnologia, non erano scienziati o percettologi prestati all’arte, non erano cioè innovatori dal punto di vista della strumentazione usata. È vero che Munari era curiosissimo di ogni novità in campo tecnologico, e che altri gruppi appena posteriori, come il Gruppo mid,3 sempre milanese, si avventuravano in campi scientificamente più difficili, come quello della stroboscopia luminosa, ma sia nell’un caso come nell’altro l’applicazione avveniva nel modo più semplice e diretto, senza far intervenire laboratori che non fossero poco più che artigianali, anche se controllati da grandi aziende. Per esempio, gli esperimenti sulla luce polarizzata di Munari, culminati in varie serie di polariscop (le opere che utilizzavano il principio della polarizzazione per mostrare la mutevolezza della percezione di una stessa superficie) prevedevano inizialmente un semplice movimento manuale di una lente polarizzata di fronte a pezzetti di cellophane stropicciati, e questo non aveva certo né il carisma, né l’aspetto di uno strumento tecnologico avanzato. D’altro canto, non era vero neppure il contrario: che, cioè, l’aspetto tecnologico fosse volutamente disdegnato, pur nel suo utilizzo, come era avvenuto poco prima con Jean Tinguely, che nel suo rapporto con la macchina mostrava quell’insieme di odio e di amore, di attrazione e di repulsione che avrebbe caratterizzato la sua carriera di ludico luddista, e che avrebbe incarnato la difficile relazione intellettuale tra uomo e società dell’epoca moderna (ma con un occhio all’indietro, verso l’Ottocento meccanico).
10
P04-imp-esec.indd 10
01/06/2012 17.39.18
Per gli artisti “programmati” la tecnologia era un puro strumento e, cosa difficile a credersi, uno strumento “neutro”. Certo, tutti prevedevano che alcuni materiali avrebbero “scandalizzato” il pubblico tradizionale dell’arte, e tuttavia non era la pura provocazione il loro obiettivo. Quando alla Galleria Pater di Milano, nel 1960, in occasione della prima mostra di “Miriorama”,4 il Gruppo T espone un “oggetto pneumatico”, vale a dire un tubo di leggera plastica trasparente gonfiato dall’aria fornita da un piccolo compressore, l’intento è diverso da quello praticamente coevo di Piero Manzoni che realizza il Fiato d’artista o il multiplo Corpo d’aria, costituito da un palloncino da gonfiare a bocca e porre su di un piccolo treppiede (a questo proposito, secondo la testimonianza di Davide Boriani, queste opere vennero realizzate da Manzoni immediatamente dopo che lo stesso Boriani gli aveva manifestato l’idea che il gruppo aveva avuto di realizzare una scultura fatta con l’aria gonfiata: «…è andato a casa» dice Boriani «e l’ha fatta lui!»).5 Di fatto, se ci si astrae dalla memoria dello scandalo legato a entrambi gli episodi, e si guarda alle due opere – quella del Gruppo T e le due di Manzoni – con gli occhi di chi ormai è abituato a vedere lavori realizzati con qualsiasi cosa, si capisce come l’oggetto pneumatico del Gruppo T insistesse su di un materiale impalpabile che diventava struttura visibile e dunque nuovo strumento d’arte, mentre Manzoni proponeva il gesto dadaista dell’artista come venditore d’aria, dell’arte equiparata a un palloncino. Il motore, dunque, non è esibito (nell’unica foto esistente e sempre ripubblicata dell’“oggetto pneumatico”
11
P04-imp-esec.indd 11
01/06/2012 17.39.18
gli artisti tengono tra le braccia questo ingombrante manufatto, ma il motore non si vede, così come nelle ricostruzioni messe in atto dal 1996 il motore – un “bidone aspiratutto”, un tipo di aspirapolvere molto economico – è quasi un giocattolo, un modo leggero e quasi goliardico di costruire l’oggetto estetico. Dopo le prime uscite dei gruppi, improntate a un dadaismo giovanile quasi fisiologico, la poetica si precisa velocemente, magari anche per contrasto: mentre Bruno Munari, il maestro, adotta una sorta di maieutica zen, e spinge ciascuno ad agire secondo i propri convincimenti, un personaggio come Enzo Mari – che ha circa quattro o cinque anni di più di tutti gli altri, essendo nato nel 1932 – fa della dialettica hegeliano-marxista lo strumento di discussione e di definizione di ogni concetto, soprattutto quando l’Arte Programmata italiana si confronta con i corrispondenti internazionali nelle manifestazioni legate a “Nuove Tendenze”, luogo d’incontro privilegiato degli artisti cinetici di tutto il mondo, non a caso attuato a Zagabria, in un paese “non allineato”, come era allora la Jugoslavia del maresciallo Tito.
Nostalgia del futuro Ci sono pochi momenti così propulsivi per l’immaginario come gli anni a cavallo del sessanta. In quel periodo si diffondono tutte le previsioni e le profezie sul futuro che vedono l’anno Duemila come una specie di traguardo, di data simbolica così come si dice lo fosse stato l’anno
12
P04-imp-esec.indd 12
01/06/2012 17.39.18
Mille, con intonazioni peraltro molto più cupe. La conferma di questo atteggiamento la si ritrova nei mass media dell’epoca: sono tutti coinvolti nell’immaginare il futuro. Dal cinema ai fumetti, dalla fantascienza letteraria alla pubblicità, la visione di un futuro inusitatamente vicino e sostanzialmente roseo cancellava e in parte addirittura giustificava gli investimenti di denaro e di ideologia della Guerra fredda, che pure rischiava di diventare calda proprio in quel 1962 della cosiddetta “crisi di Cuba”. Le ingenue immagini dei rotocalchi, i robot cinematografici che tengono tra le braccia metalliche fanciulle discinte, le copertine di “Urania”, l’esaltazione della macchina nelle prime pubblicità (al contrario di quanto accade oggi, dove sembra che ogni biscotto sia preparato singolarmente dalle mani di qualche nonnina che abita nel bosco…) contribuiva a creare un’immagine del futuro che previsioni appena più “scientifiche” vedevano realizzato soprattutto in una sorta di aumentata mobilità del genere umano. Le immagini dell’avvenire negli anni sessanta erano basate in special modo sulle auto, su viaggi aerei e spaziali, su ogni cosa che, nonostante tutto, prevedeva ancora una forte “fisicità” in azione, un’esaltazione cioè di azioni fisiche – viaggiare, spostarsi in maniera sempre più veloce – più che di attitudini mentali. Anche facendo la tara sul fatto che è difficile illustrare attraverso immagini popolari un possibile mutamento nella percezione del mondo, e ancor più difficile è illustrare un atteggiamento mentale, un cambiamento, che so, nei modelli matematici dello spazio, tuttavia l’immagine che allora si aveva del futuro
13
P04-imp-esec.indd 13
01/06/2012 17.39.19
era di tipo meccanico-architettonico, cioè di fatto ancora un retaggio dell’Ottocento. A maggior ragione, che un gruppo di artisti si interessasse di percezione del mondo da un punto di vista profondamente diverso ha dello straordinario, assomiglia a una congiuntura di eventi quasi irripetibile, e ciò anche considerando l’enorme forza ideale che alla cultura italiana veniva dal senso di ricostruzione che pervadeva tutto il paese. È ben vero che in quegli anni il compito che la società attribuiva all’arte e all’artista contemplava ancora un’idea di progresso, più che di novità, che gli veniva dall’elaborazione finale del concetto di Modernità, ma questa poteva essere interpretata come osservazione e rappresentazione del nuovo orizzonte quotidiano. È in questo momento, anzi qualche anno prima, che comincia a divaricarsi il filone dell’arte che ha come oggetto d’indagine il mondo e non il sé: da un lato la Pop Art, dall’altro tutte le neoavanguardie legate alla progettazione del futuro. Ovviamente, gli artisti dell’Arte Programmata appartengono a questa seconda categoria, ne sono anzi gli esponenti più cristallini, possedendo tutte le caratteristiche che una Modernità progressista attribuiva al nuovo concetto di arte e di artista: lavoro collettivo per la collettività, nuovi parametri di visione del reale, nuovi comportamenti relazionali all’interno del sistema dell’arte. Essi non solo preparano il futuro attraverso le loro indagini estetiche, ma lo incarnano senza abdicare a quel quoziente di umanità (e di eccentricità) che viene comunque sempre attribuito alla figura dell’artista, per quanto rinnovata. Il senso del progetto, che li avvicina al mondo
14
P04-imp-esec.indd 14
01/06/2012 17.39.19
del design e dell’industria, si sovrappone perfettamente al senso del futuro, di cui è quasi un sinonimo, e se la loro battaglia ingaggiata controvoglia con chi si occupava tendenzialmente “solo” del presente – vale a dire gli artisti pop – alla fine li vede soccombere, ciò non inficia affatto la portata del loro tentativo, che infatti oggi viene riscoperto, riconosciuto, valutato come un ramo di ricerca troppo frettolosamente abbandonato e sicuramente carico di una speranza progettuale totalmente assente nel “qui e ora” della Pop.8 E poiché ciò di cui si sente la mancanza nella contemporaneità è proprio quella speranza e fiducia non solo nel futuro, ma nelle possibilità dell’arte di incidere sulla realtà, ecco che l’Arte Programmata rischia di diventare un soggetto mitopoietico, una “figura” che va molto al di là delle sue realizzazioni e dei suoi esiti storici, ma di cui le potenzialità concettuali sono ancora intatte e, forse, ancora da scoprire. Per questo motivo si accettano di buon grado le ingenuità insite nelle opere realizzate, l’artigianalità dei cinetismi, la delicatezza irresolubile dei meccanismi, l’aspetto di fatto già obsoleto degli chassis (cfr. anche paragrafo precedente): come agli artisti non interessava nessun tipo di perfezione meccanica, ma la sensazione di un effetto, così anche gli spettatori di oggi sono capaci di non guardare all’obsolescenza e di considerare soltanto il carico propositivo dell’Arte Programmata. Forse non era così all’epoca della sua prima uscita, quando solo un occhio allenato – e gli stessi artisti che conoscevano il “contenuto” tecnico dei loro manufatti, tanto da potervi riconoscere un residuo di dadaismo –
15
P04-imp-esec.indd 15
01/06/2012 17.39.19
poteva accorgersi della grande finzione tecnologica (cioè della sua semplicità esecutiva) che stava dietro alle realizzazioni d’Arte Programmata; ma anche allora l’attenzione era rivolta più agli aspetti concettuali che a quelli meramente tecnologici, i quali non ne erano che un corollario necessario. (Tra l’altro, nel Gruppo Enne padovano tale aspetto era ridotto al minimo, il cinetismo essendo indotto dal semplice movimento dello spettatore e del conseguente punto di vista, o al massimo da un’azione semplice come il rovesciare un contenitore o l’azionare un perno.) Di fatto, ciò che allora affascinava era il senso del futuro, ciò che commuove oggi è la sua nostalgia.
Voglia di certezze Una delle componenti del revival dell’Arte Programmata – e con essa di tutta l’arte genericamente cinetica – è dunque la nostalgia del futuro, intesa come vagheggiamento malinconico non tanto di un vero e proprio futuro, ma di un’idea di avvenire così come poteva essere elaborata in un’epoca in fondo ancora piena di speranza: nostalgia di un futuro positivo, molto lontano da tutti i blade runners che a partire dagli inizi degli anni ottanta ne hanno determinato l’immagine odierna. Di fronte a tanto disordine, e soprattutto a tanta insensatezza, il progetto dell’Arte Programmata offre un appiglio fortemente consolatorio, una specie di via di fuga temporanea (come sempre avviene per la fruizione dell’arte al giorno d’oggi,
16
P04-imp-esec.indd 16
01/06/2012 17.39.19
quando essa costituisce una bolla separata dal mondo, un luogo di lavaggio delle coscienze) nei confronti di un destino che appare segnato. Progetto contro casualità, programmazione (mai parola fu più azzeccata) contro accidentalità sembrano addirittura termini “urbanistici”, tanto appare solido il contrasto e la contrapposizione tra due modelli di cui quello più entropico – cioè quello che ritorna al livello più basso, alla quiete del caos – è risultato vincente. Casualità e accidentalità dominano la vita delle persone, nonostante i tentativi di attribuire al dio economico una sorta di onnipotenza e di ineluttabilità, ed è per questo che il luogo dove regna il progetto e il programma appare come un’isola felice, dove in un passato neppure troppo lontano la fiducia nel futuro si costruiva sulla possibilità che questo fosse governabile e addirittura programmabile. Finito il compito profetico dell’arte, le rimane almeno quello consolatorio, quello che Nietzsche disprezzava tanto, attribuendolo soprattutto alla religione. Certo, non era così all’inizio dell’avventura programmatica, negli anni sessanta, ma una distanza di mezzo secolo è sufficiente per ribaltare completamente il modo di percepire un fenomeno storico. Se si fosse detto cinquant’anni fa a qualsiasi artista programmato, o anche a qualsiasi artista cinetico, che la sua ricerca sarebbe stata letta in maniera nostalgica solo qualche decennio dopo, probabilmente non vi avrebbe creduto, o si sarebbe disperato, perché questo atteggiamento è esattamente ciò che quegli artisti non volevano non solo dalla loro arte, ma dall’arte in genere. Basterebbe quella
17
P04-imp-esec.indd 17
01/06/2012 17.39.19
vena emotiva insita nel concetto di nostalgia per fare inorridire chi ha cercato di eliminare dal proprio orizzonte ogni sentimentalismo, quell’atteggiamento così personale e sovrastrutturale (questa la definizione “politica” della mancata consapevolezza delle cose…) che sposta l’attenzione dalla realtà all’iperuranio del desiderio: del resto, l’atteggiamento rigorista e intransigente è proprio di ogni avanguardia – e l’Arte Programmata, nel suo insieme, si è configurata come una vera e propria neoavanguardia –, e almeno all’inizio sopporta più il fallimento dei propri assunti che il successo ottenuto con una lettura conformista del proprio lavoro. Anche i ripensamenti mostrati durante gli anni ottanta – manifestati e riportati in occasione di un’ampia retrospettiva curata da Lea Vergine, a Milano, nel 1983 – non facevano cenno a nessuna lettura nostalgica delle ricerche cinetiche, quanto piuttosto alla contrapposizione e al fallimento dell’utopia gestaltica di fronte ad altre proposte artistiche, alla resistenza del mercato, all’impossibilità di uscire realmente dal sistema codificato. Si trattava, cioè, del riconoscimento di una lotta politica da cui si era usciti sconfitti, ma con l’onore delle armi, o al massimo con una sorta di autocritica per non essere stati ancor più aderenti “alla linea” del rigore, ma certo non con un così marchiano errore di valutazione, per cui l’arte cinetica veniva considerata alla stregua di una tendenza non solo passata, ma addirittura “tradizionale”. Allora non era ancora tempo: troppo vicini l’esplosione e il successo della tendenza, e tuttora in discussione il passaggio tra Moderno e Postmoderno, con tutto quel corollario di
18
P04-imp-esec.indd 18
01/06/2012 17.39.19
décalage dei valori sociali, politici, etici ed estetici di cui l’arte cinetica si sentiva investita. Oggi, a cinquant’anni di distanza, tutto è cambiato, a cominciare dalla considerazione per le neoavanguardie per tutte le neoavanguardie (ancor più che per le avanguardie storiche, le quali sono ormai al riparo della Storia e non appartengono quasi più alla contemporaneità dell’arte): esse sono l’emblema di una stagione irripetibile, e quindi da rimpiangere. Sono l’esempio concretizzato in opera, sempre visibile dunque, del “dover essere” di una società in grado di progettare il futuro – o anche solo il presente –, ma comunque padrona del proprio destino, anche nei suoi momenti più casuali e autodistruttivi, come potrebbero essere stati quelli degli happening e di Fluxus. In questo panorama, l’Arte Programmata gode di una duplice certezza (perché, in fondo, padroneggiare il futuro significa possedere delle certezze): la prima è comune a tutte le neoavanguardie degli anni cinquanta e sessanta ed è quella appena accennata della presunta capacità di progettare il futuro, mentre la seconda è intrinseca alla ricerca cinetica. Il campo d’indagine di questa, infatti, teoricamente non risente del contesto storico in cui si sviluppa. Per fare un esempio: se un happening era il risultato di comportamenti umani debitori in massimo grado delle convenzioni sociali dell’epoca in cui sono stati realizzati (e la società del 1960 è molto diversa da quella del 2010), non così per le ricerche gestaltiche, che sono comunque alla base sia dell’arte cinetica che di quella programmata, seppure in misura diversa; la scientificità di base cui tutti si riferiscono riguarda una sfera della percezione
19
P04-imp-esec.indd 19
01/06/2012 17.39.19
del reale più fisiologica che antropologica, legata cioè a dinamiche più stabili, più immutabili, biologicamente determinate e solo in minima parte condizionate dal contesto del momento. Sono paradossalmente questi gli ingredienti della visione nostalgica dell’Arte Programmata, oggi. Sono la visione di un movimento determinato nella ricerca, forte della sicurezza di essere supportato da elementi scientifici inoppugnabili, conscio di “abitare il nuovo”, convinto di poter incidere se non su tutta la società, almeno su quegli elementi produttivi che la stavano indirizzando verso un orizzonte rinnovato: sono tutti fattori di cui la società occidentale contemporanea è attualmente deficitaria e di cui sente maggiormente la mancanza. Ecco allora che, a fronte della credenza che quell’atteggiamento sia assolutamente utopico e non riproponibile, interviene il vagheggiamento di un’epoca in fondo più felice, passibile di essere nostalgicamente rimpianta. La precisione scientifica, il rapporto cercato tra arte e scienza, tra arte e industria, diventa occasione di rimpianto, di malinconia, di sentimentalismo.
20
P04-imp-esec.indd 20
01/06/2012 17.39.19