Breve storia della globalizzazione in arte

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Breve storia della globalizzazione in arte

Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948 2. Clement Greenberg L’avventura del modernismo. Antologia critica 3. Ai Weiwei Il blog. Scritti, interviste, invettive, 2006-2009 4. Brian O’Doherty Inside the White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo

«Ci troviamo nella terra di nessuno che separa due territori, ciascuno con le proprie leggi e le proprie consuetudini, ma in quella posizione non valgono né le une né le altre. D’altronde, creare leggi e consuetudini per il periodo di transizione risulterebbe faticoso e inutile, per cui finché ci si trova lì il nostro comportamento è governato da un vorticoso giro di regole assolutamente temporanee […] il cui scopo non è tanto la creazione di una struttura solida e definita, ma la mera sopravvivenza.»

Marco Meneguzzo

Marco Meneguzzo (1954) è critico d’arte, curatore indipendente e docente all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano, dove insegna Storia dell’arte contemporanea e Museologia e gestione dei sistemi espositivi. Nel corso dell’ultimo decennio – accanto alla produzione di mostre e di saggi – ha viaggiato ripetutamente in Cina, India e Russia, per conoscere la situazione degli artisti e del sistema dell’arte nei paesi emergenti. Questo volume è il risultato di una riflessione critica, di una pratica operativa e di un’analisi storica che muove dalla conoscenza “verticale”, temporale, della storia dell’arte recente (soprattutto a partire dagli anni ottanta del xx secolo) per giungere a un’ipotesi “orizzontale”, diffusa, dell’arte globalizzata.

Marco Meneguzzo

Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze)

Da almeno un decennio il sistema dell’arte occidentale deve far fronte all’avanzata, sullo scacchiere mondiale, di nuovi soggetti che minacciano di imporre regole diverse, più congeniali ai loro mercati. Una svolta radicale negli equilibri si respirava già negli anni ottanta, quando l’arte è diventata un’opportunità economica dai potenziali globali. Grazie a linguaggi accessibili a tutti, il Postmodernismo ha conquistato un pubblico sempre più vasto, prosperando verso territori sconfinati: la febbrile impennata del desiderio di arte contemporanea ha preparato il terreno all’ascesa dell’opera a status symbol e ha allargato l’orizzonte a paesi come Cina, Russia e India in cerca di riconoscimenti nel consesso occidentale. L’euforia di quegli anni si è presto smorzata nell’attuale clima di incertezza causato dallo sfaldamento del vecchio assetto e dall’esautorazione delle sue componenti, quella intellettuale (il critico, che legittimava le pratiche artistiche) e quella istituzionale (il museo, che le consacrava per la posterità). Oggi a decretare il successo è lo spirito speculativo – in tutti i sensi – dei nuovi protagonisti che, con l’abilità di chi manovra grossi capitali, fanno il bello e il cattivo tempo nel circuito chiuso galleria-collezionista-casa d’aste-museo. Perfino l’artista, un tempo motore del sistema, rischia di essere ridotto a mero ingranaggio. Cosciente del contesto in cui opera, ha saputo assecondare il depauperamento indotto dalla globalizzazione: se in passato mirava all’innovazione, oggi aderisce a standard linguistici immediatamente riconoscibili in ogni angolo del mondo. Con un approccio storico volto a scandagliare il passato per cogliere le complesse trasformazioni in atto, Marco Meneguzzo individua lo spartiacque tra il prima e il dopo, cioè tra un’arte come fatto esclusivo ed elitario e un’arte come fenomeno popolare e globalizzato. Un breve saggio di ampio respiro per comprendere il tempo che stiamo vivendo e quello che ci aspetta: un futuro in bilico tra un mutamento soffice del sistema dell’arte (e della stessa concezione

di arte) e una sua variante apocalittica.

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Marco Meneguzzo

Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze)



PARTE PRIMA Il canone occidentale



1 L’arte è una faccenda occidentale?

Quando si parla di arte, e soprattutto di arte contemporanea, la mente corre immediatamente a un modello che si è andato costruendo in ambito europeo, poi passato attorno alla metà del xx secolo anche negli Stati Uniti. Il lungo cammino dell’idea di arte, dalla Grecia ai giorni nostri, è sempre andato di pari passo con la consapevolezza della diversità del concetto da quelli legati a una mera funzione simbolica o decorativa. Inoltre, la centralità dell’individuo artista e l’idea di un possibile “progresso” del linguaggio artistico – per quanto possa apparire semplicistica – hanno innescato nei secoli quel meccanismo che ha portato l’arte occidentale a essere considerata arte tout court. (Gli unici competitori possibili, nel passato, vale a dire gli imperi asiatici, erano infatti troppo lontani e vivevano in una sorta di guscio centripeto.) L’estremizzazione del concetto e dei suoi portati formali nel corso del xx secolo, poi, ha prodotto in Occidente un sistema di linguaggi senza precedenti, articolato, preparato a inglobare ogni nuovo strumento espressivo, ogni nuova tecnologia (come la fotografia o il cinema), e quindi perfettamente adeguato all’idea di Modernità. Se a questo si aggiunge la forza del mercato e dello spirito borghese nel costruire una vera e propria struttura sistematica, adeguata e analoga al sistema capitalistico del profitto, si comprende come il mondo dell’arte si sia via via identificato nel modello occidentale. Solo in piena era globalizzata questo sistema così granitico e funzionale potrebbe essere messo in discussione sia dai suoi stessi fruitori, sia dalle forze intellettuali ed economiche nuove che vi affluiscono da altre culture del pianeta. Le oscillazioni sulla leadership nel mondo dell’arte, inizialmente tutte interne al mondo occidentale, nell’inevitabile apertura all’intero pianeta devono fare i conti con la globalizzazione del sistema, e prevedere anche un radicale rovesciamento. Qualche indizio storicamente probante di questo andamento lo si ritrova nel passaggio di testimone da Parigi a New York, negli anni cinquanta del xx secolo, e nella contestuale – e all’epoca sottovalutata – comparsa sulla scena dell’arte del caso giapponese, primo esempio di una cultura extraoccidentale coinvolta in quel sistema.

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1.1  Il concetto tradizionale Si è molto dibattuto sull’esistenza, presso culture non occidentali, di un concetto di arte così come si è configurato da noi negli ultimi due secoli. Quella straordinaria combinazione di norme linguistiche, di convenzioni sociali e di spirito di libertà individuale che ha costituito il terreno favorevole alla crescita di un’idea di “arte” quale è entrata nella nostra tradizione, è ritenuta un lascito del pensiero greco-giudaico, e suo appannaggio esclusivo. Uno sguardo meno centripeto, e oggi più abituato a considerare le altre culture del pianeta non soltanto dal punto di vista etnico e antropologico, ha certamente sfumato questa posizione: basti pensare a culture come quella cinese, giapponese, indiana, persiana per riconoscere la presenza dell’arte, e di un concetto di arte, che anche lì si differenzia e si differenziava da ogni altra produzione di manufatti, e in cui la tecnica, la maestria, l’abilità, il rispetto delle norme “non” fossero gli unici parametri di giudizio. Tuttavia, se torna in auge un concetto romantico di arte come prerogativa umana, riscontrabile universalmente presso tutte le culture, e non come portato di uno sviluppo storico particolare, secondo quanto affermato sino a pochi anni fa dal materialismo storico, è invece assodato che il concetto di arte “borghese” o “capitalistica” si è affermato solo in Occidente da poco più di due se16

coli, e da lì si è diffuso in tutto il mondo, mentre non esiste sinora l’esempio di un’arte allogena che abbia saputo imporre le proprie norme – o persino parte di esse – al di fuori del proprio bacino culturale, senza che queste fossero reinterpretate con gli occhi dell’Occidente. È di questa idea di arte, e del sistema che vi si è costruito attorno, che intendiamo indagare la forza pervasiva, la diffusione planetaria con l’accettazione globalizzata delle sue regole, il campo linguistico, economico, culturale su cui gioca il rapporto per ora tra Occidente e Oriente e, tra pochi decenni, tra una più frantumata rete di complesse relazioni che percorrerà l’intero pianeta. Per fare questo è necessario individuare le caratteristiche principali – o comunque le più efficaci – che hanno fatto dell’arte e del sistema dell’arte borghese-capitalistico il paradigma di riferimento per ogni produzione, realizzata in qualsiasi parte del globo, che si fregi del termine “arte”. Di tutte le caratteristiche dell’arte così come si è sviluppata in Occidente, certamente la più funzionale al sistema che l’era borghese vi avrebbe costruito attorno è il fattore “novità”, cioè l’idea che l’introduzione di elementi, di forme, di relazioni nuove e sorprendenti all’interno dell’opera sia innanzitutto un valore, e poi che questo valore condizioni la percezione di tutto il lavoro. La possibilità di introdurre nei codici espressivi prestabiliti elementi di novità è davvero un frutto della cosiddetta civiltà occidentale sin dalle sue prime formulazioni classiche, della sua vocazione dinamica ed evolutiva, della sua concezione lineare del tempo, e persino della sua religione dominante, che considera il tempo


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e la vita come progetto indirizzato a un fine, e quindi sempre passibile di mutamento inteso come progressivo miglioramento. La storia dell’arte occidentale – a differenza di altre – è costellata di cambiamenti di stile, di tecnica, di temi, di soggetti, di concetti, e quando questa attitudine si è misurata con il nuovo sistema produttivo capitalistico (dopo un breve periodo di conflitto che coincide con il momento delle avanguardie storiche) si è adattata perfettamente alle nuove esigenze produttive. L’etica dell’avanguardia e lo spirito del capitalismo, tanto per parafrasare Max Weber, si sono trovati perfettamente uniti e complementari sotto la bandiera del “nuovo”, e anche se oggi di avanguardia – la rappresentante per eccellenza della Modernità – non si può più parlare in quanto ha esaurito il suo compito storico e lo spirito del capitalismo sta prendendo strade e costruendo modelli forse lontani da quelli del xx secolo, ciò che comunque rimane è l’idea di “novità”, depurata di ogni assunto ideologico e dunque finalmente “pura” nella sua essenza economica. Naturalmente, dietro il “nuovo” può venire una serie di altre caratteristiche, come la capacità ermeneutica, la profondità dell’indagine, la complessità dei livelli di lettura, ma ciò che ha impresso un dinamismo straordinario al sistema dell’arte, dall’inizio del xx secolo, è stata l’accettazione del “nuovo” come valore principale – e di fatto è il più immediatamente percepibile – del linguaggio artistico. Nel mercato mondiale dell’arte questo è divenuto un valore per ora assoluto. Basterebbe questa considerazione, quindi, per far comprendere con un semplice sillogismo che quando si parla di arte contemporanea per ora si parla di un modello elaborato in Europa e negli Stati Uniti nel xx secolo, e che le regole del sistema dell’arte sono perciò le regole sviluppatesi in quello stesso arco temporale, con una particolare accelerazione a partire dagli anni ottanta. Di fatto si può considerare il sistema dell’arte come un sistema economico che ruota attorno a un prodotto – l’opera d’arte –, la cui peculiarità sta nell’imporre a ogni costo un certo crisma di qualità, molto più impalpabile e difficile da quantificare rispetto ad altri prodotti e più in competizione all’interno della medesima categoria commerciale, dove però la caratteristica della novità costituisce gran parte dei requisiti per il successo. Il sistema dell’arte, al cui interno operano artisti, critici, galleristi, istituzioni museali, collezionisti (figure che possono sovrapporsi e confondersi), comprende la produzione, la diffusione e il collocamento di un prodotto assolutamente superfluo, appartenente ai cosiddetti beni di lusso, ma al contempo assolutamente necessario, perché riconosciuto universalmente come espressione più alta di ogni cultura. La capacità di proporre, forse anche di imporre, un modello artistico rispetto a un altro diventa dunque un elemento strategico per tutto ciò che comporta interpretazione del mondo, aspettative, stile di vita dei gruppi sociali che vi si avvicinano. In questo senso se ne può dedurre anche una valenza politica non indifferente. A questo proposito, è significativa la leggenda metropolitana che

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continua a circolare attorno alla partecipazione statunitense alla Biennale di Venezia del 1964, quando gli artisti americani sbarcarono in forze in Europa, proponendo proprio in quell’occasione e massicciamente, nella vetrina mondiale più rinomata, la Pop Art come nuova tendenza. Si sa che quell’edizione della Biennale ne sancì il trionfo immediato e dirompente in tutto il mondo dell’arte, a dispetto di movimenti europei molto più intellettualistici e fortemente ideologizzati, che si erano preparati ad assaporare la notorietà: da allora il successo della Pop in quell’occasione viene attribuito alla collaborazione della cia, che aveva messo a disposizione aerei militari da trasporto, consentendo l’arrivo per tempo delle grandi tele degli artisti americani. La leggenda (ma come sempre qualcuno giura di aver visto i documenti) serve a mostrare come una potenza egemone pensi non soltanto a far bere la Coca-Cola a tutto il mondo, ma anche a imporne l’immagine come nuova icona “sacra” persino presso la cosiddetta società affluente e intellettuale. Poco importa che l’episodio sia accaduto o meno, il continuo riproporlo e tramandarlo di generazione in generazione lo invera nella misura in cui il mondo dell’arte, raccontandolo, ne accetta per così dire la “morale”: l’economia e la politica decidono le sorti dell’arte, soprattutto se questa si fa interprete e portavoce dei loro stessi valori. Questa visione semplicistica – corretta nei fatti da un’infinità di fattori non 18

sempre calcolabili – è comunque quella “passata” in Occidente presso sistemi dell’arte di paesi e di culture imprenditoriali non troppo avanzati e complessi, ma spregiudicati – come l’Italia degli anni ottanta-novanta –, e nei paesi emergenti come la Cina o, in misura minore, l’India, dove il fattore economico derivato dal mercato costituisce sicuramente il movente di quasi tutti quei sistemi dell’arte. Quale sia stata per alcuni l’evoluzione, quale sia l’evoluzione possibile per altri, quali i necessari e ineluttabili correttivi di una concezione così rozza e alla lunga inefficace sono alcuni degli argomenti di questo volume. La questione che si pone aprioristicamente è se la storia delle economie mature, dove esiste da tempo un sistema dell’arte ben strutturato e armonico, relativo appunto alla produzione e alla diffusione di quel bene, possa costituire oggi un modello plausibile per i nuovi sistemi, se, cioè, la storia del sistema dell’arte occidentale, pur con tutte le sue differenze interne, abbia qualcosa da insegnare in una situazione globalizzata, o invece non sia semplicemente da tralasciare per ipotizzare uno sviluppo completamente nuovo. Dall’analisi di questa condizione si passerà successivamente alla vera incognita della globalizzazione in arte, e cioè se il sistema reggerà all’impatto dei nuovi mercati e soprattutto delle nuove-vecchie idee sull’arte, inevitabilmente tirate in ballo quando il prodotto da imporre è già stabilmente presente – magari con una tradizione fortissima per quanto autoctona e sinora non esportata – in quei territori che si affacciano al mercato globale. In altre parole, in quale misura si modifica il sistema iniziale – inventato e sviluppato in Occidente – quando è adottato nei paesi emergenti? E quan-


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to si modifica il concetto stesso di arte, visto che questi ultimi, pur adottando il sistema già collaudato in Occidente, potrebbero voler imporre un loro modello e regole più congeniali ai loro mercati? Alla fine, una globalizzazione sempre più accentuata potrebbe anche rendere più autonomi i sistemi dei paesi emergenti e, in un futuro ancora imprecisato, potrebbe considerare nuovi valori artistici, nuovi modelli linguistici non più legati al concetto tuttora vigente, ma alla forza di queste nuove culture? Le ultime due domande prevedono risposte in tempi diversi. La prima, essendosi già parzialmente verificata nell’essere stato adottato il sistema dell’arte occidentale su scala planetaria, e avendo almeno un decennio – il primo del nuovo millennio – come base storica e periodo di sviluppo su cui indagare, consente risposte basate sull’analisi e sull’interpretazione di dati che possono diventare tendenziali, e quindi logicamente plausibili. Il secondo quesito assume invece i connotati della profezia più che della previsione, perché i dati sono minimi: essendo il fenomeno appena iniziato, le trasformazioni, se ci saranno, si potranno valutare solo in futuro. Tuttavia, rammentare che cosa è accaduto storicamente, quali mutamenti sono intervenuti nel sistema dell’arte in Occidente, almeno a partire dal secondo dopoguerra, può rivelarsi utile per ipotizzare i prossimi sviluppi di questo stesso sistema su scala mondiale. Tanto più che alcune “prove di globalizzazione”, alcune anticipazioni sono avvenute sotto i nostri occhi, prima che si parlasse diffusamente di mondializzazione: tra questi, l’ingresso del Giappone nel novero dell’Occidente “artistico”, già negli anni cinquanta, e l’esplosione del fenomeno artistico ex sovietico, dalla seconda metà degli anni ottanta, mentre il vero nucleo concettuale che porterà, per quanto riguarda l’arte, diritto alla globalizzazione di oggi, è da ricercare in quegli anni ottanta, dove tutto accadeva sub specie postmodernitatis, secondo le nuove regole della Postmodernità.

1.2  Il patto atlantico: da Parigi a New York Dal momento della nascita consapevole dell’arte moderna (vedi paragrafo precedente), tra la fine del xviii e l’inizio del xix secolo, con il passaggio a un’epoca “industriale” dell’immagine – con le riviste illustrate e la fotografia – il centro della cultura artistica mondiale era stato identificato, per ragioni oggettive, in Parigi, e di lì non si era mai mosso: dialogava con altre capitali dell’arte europea, ma il suo primato non era mai stato insidiato, a tal punto che quando, per ragioni altrettanto oggettive, lo scettro di capitale dell’arte passò in altre mani, oltre Atlantico, a New York, solo pochi europei “periferici” – in Italia, per esempio – si accorsero del cambiamento, e quasi nessun francese. I motivi di questo mancato riconoscimento vanno cercati probabilmente in un singolare senso di sicurezza che ipotizzava per il sistema dell’arte francese e più in generale euro-

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peo anche la categoria dell’universalità e della durata (se non proprio dell’eternità). Strano concetto, soprattutto se applicato a un soggetto così volatile come la battaglia delle idee, per quanto tramutate in forme e in opere concrete, ma forse comprensibile alla luce di una visione dell’arte così eurocentrica da non vedere neppure i cambiamenti avvenuti dalla Prima guerra mondiale in poi. Disposti a malincuore a cedere in campo economico una parte sempre più consistente dei mercati agli Stati Uniti, le potenze e anche le culture europee sembravano infinitamente più restie a considerare la possibilità che oltreoceano potesse nascere qualcosa di più “elevato” della Ford T o di Biancaneve e i sette nani di Walt Disney. Da Parigi, alla vigilia della guerra e durante gli anni di Vichy, gli artisti se ne erano andati da tempo, ma forse nessuno se ne era accorto, nell’immane tragedia che di lì a poco si sarebbe sviluppata. Certo, Parigi era ancora Parigi, ma era come a Vienna poco prima dell’agosto 1914: tutto uno splendore, anzi, il massimo splendore, che però non avrebbe più avuto la forza di rinnovarsi, e neppure di mantenersi dopo una guerra che, benché non l’avesse toccata visibilmente nei monumenti, aveva seminato rovina nelle certezze culturali del Vecchio continente, di cui Parigi era il simbolo. Nei due decenni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale Parigi era ricono20

sciuta come la capitale unica e indiscussa della cultura, e in particolare dell’arte: se in passato il primato della città dell’Impressionismo e del Cubismo – cioè la capitale della Modernità – poteva essere in qualche modo minacciato dalle comunità intellettuali di Vienna o di Monaco (e per certi versi anche di Londra), in quel particolare momento tutto era concentrato a Parigi, grazie a una serie di concause che avevano offuscato la brillantezza degli altri ambienti. Vienna e Monaco appartenevano alle culture che avevano perso la guerra e quindi anche i loro modelli non erano considerati attuabili (a questo si aggiunga l’obiettiva difficoltà del primo dopoguerra nei paesi usciti sconfitti: una quasi rivoluzione in Germania e lo smembramento di un grande impero in Austria, che aveva lasciato una “testa” grandissima – Vienna, appunto – su un corpo piccolissimo), mentre Londra si era rinchiusa nella sua insularità, che per altro non aveva mai abbandonato del tutto. L’altra grande speranza intellettuale, la Russia sovietica, dopo qualche anno di entusiasmo internazionale e internazionalista, aveva visto prevalere la concezione populista dell’arte e della cultura, così come la volevano Stalin e Ždanov, e che sicuramente non soddisfaceva più i palati raffinati degli intellettuali occidentali, se non nei suoi aspetti puramente ideologici. Di più, l’affermarsi di ideologie totalitarie prima in Italia e poi in Germania aveva lasciato Parigi senza rivali nell’immaginario degli artisti e degli intellettuali sia europei sia, soprattutto, americani. Questi ultimi, dopo lo sparuto gruppetto di pionieri e di conoscitori capeggiati da Gertrude Stein e da Walter Arensberg – per non parlare del fotografo Alfred Stieglitz –, avevano fatto di Pa-


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rigi la meta di ogni viaggio di formazione, di conoscenza, di crescita personale, di libertà comportamentale: per capire che cosa si provava a essere “moderni” a Parigi basta ricordare i romanzi di Francis Scott Fitzgerald e di Henry Miller. La libertà di espressione (e di costumi) era una bandiera che aveva fatto della città il centro del mondo artistico, dove nel corso di più generazioni – almeno a partire dalla svolta impressionista – erano state erette strutture ideali, ma anche operative e commerciali, atte a mantenere quello spirito. Il mercato dell’arte moderna passava di lì, e il mero fatto di trovarsi a Parigi consacrava gli artisti: il folto gruppo dei cosiddetti “italiani di Parigi” della fine degli anni venti non è un caso isolato e schiere di artisti e intellettuali di altre nazioni cedono al richiamo della capitale francese, tanto che si potrebbe parlare dei “russi di Parigi”, degli “spagnoli di Parigi” o degli “americani di Parigi”. Se il francese Marcel Duchamp aveva trovato ascolto – anzi, audience – nella New York dell’Armory Show, nel febbraio 1913, la sua attività tuttavia si svolgeva sempre nel rimbalzare da una parte all’altra dell’Atlantico, come quella del suo amico Francis Picabia, e così avevano fatto gli americani Man Ray, trasferitosi a Parigi, o Alexander Calder, che nel 1928 aveva presentato nel suo studio francese, a una ristretta cerchia di amici, il suo spettacolo Le cirque, composto da personaggi “mobili” in fil di ferro. Le valanghe di giovani americani e americane che negli anni venti e trenta si riversavano a Parigi per provare il brivido della libertà – soprattutto di quella dei costumi – denotavano soltanto un maggior potere d’acquisto e una ricchezza crescente degli Stati Uniti, ma non rappresentavano certo un’insidia culturale, un desiderio di sostituzione, una volontà di appropriazione da parte di questa nazione giovane nei confronti di una cultura tanto ammirata. Dopo la Prima guerra mondiale gli Stati Uniti si erano affacciati prepotentemente anche sullo scenario europeo, e le vecchie nazioni non avevano potuto impedire che la grande potenza economica statunitense diventasse anche un soggetto politico di primaria importanza. Tuttavia, la sfera della cultura sembrava ancora preservata, lontana, difficilmente raggiungibile e, soprattutto, oggetto di un’emulazione tale che sarebbe passato ancora molto tempo prima che fosse eguagliata. Ancora, l’incupirsi della situazione mondiale non sembrava aver contaminato la capitale francese, che al contrario diventava meta anche di quegli artisti che non si sentivano più liberi nei loro paesi europei d’origine, in un continente percorso da una ventata di totalitarismi mai vista prima. Alla vigilia della guerra, Parigi rifulgeva e traboccava di artisti, mentre l’ultima vera avanguardia “storica”, il Surrealismo, non solo vi era nata, ma non aveva ancora esaurito la sua carica propulsiva, e anzi costituiva per così dire la tendenza di riferimento per chiunque al mondo volesse, ancora una volta, “essere moderno”. Non fu neppure la guerra a rovinare questo mondo, ma la sconfitta. Di fatto, l’occupazione tedesca di Parigi e della Francia per l’arte portò come immediate conseguenze la fuga – quando fu possibile – degli artisti invisi al nazismo e

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il crollo delle relazioni internazionali del mercato dell’arte, che passavano per la capitale. È un aneddoto significativo quello di Daniel Wildenstein, terza generazione di mercanti d’arte ebrei, con filiali in tutto il mondo, ma con sede centrale a Parigi, che fugge dalla Francia occupata portando con sé, in tasca, soltanto un piccolo disegno a carboncino di Seurat, e poco importa che dopo la guerra riuscisse a recuperare molto di ciò che aveva lasciato in Francia: la situazione era irrimediabilmente compromessa. Le conseguenze della guerra, tuttavia, non furono soltanto quelle, ovvie, di un disagio degli artisti, di un rallentamento nella produzione di opere – che trovavano assai più difficilmente acquirenti –, e di una stasi europea negli scambi e nelle compravendite del mercato artistico, quanto quelle assai più profonde di una crisi ideale e materiale difficilmente superabile, anche alla luce di una riconquistata libertà. Anzi, dal punto di vista concettuale gli anni del conflitto furono per l’arte e gli artisti in Francia più facili di quelli immediatamente seguenti: si aspettava e si sperava che “passasse la nottata”, che per Parigi durò esattamente quattro anni (giugno 1940-giugno 1944), ma una volta liberata, la città non era più la stessa. Nonostante il desiderio di ricostruire, anzi, di tornare a una precedente età felice, le oggettive difficoltà economiche non consentivano di fingere che la 22

guerra fosse stata una brutta parentesi, tanto più che il conflitto aveva messo in crisi i modelli culturali vigenti, di cui Parigi rappresentava il risultato massimo. Da un lato, dunque, la guerra e il primo dopoguerra avevano comprensibilmente scardinato i sistemi economici legati a una “merce” sostanzialmente superflua come l’arte, dall’altro costringevano gli artisti a interrogarsi su un mondo che era totalmente cambiato non solo politicamente, ma nell’intima essenza, mettendo in luce gli abissi di orrore di cui l’uomo si era dimostrato capace. Il sistema connettivo economico dell’arte, ovvero il suo mercato e tutto ciò che vi stava attorno, benché marginale e poco importante, è l’elemento più facilmente rinnovabile: poiché il commercio si dirige dove ci sono i mezzi, il desiderio e la volontà di usarli a questo scopo, era giocoforza che il sistema dell’arte, a partire dalle sue ragioni economiche, si trasferisse nell’unico luogo in cui queste condizioni potevano manifestarsi, vale a dire gli Stati Uniti. Più difficile, più lento, più tormentato, più sotterraneo sarebbe stato invece, come si è detto sopra, il riconoscimento da parte del Vecchio continente. Dunque, New York era l’approdo naturale per un sistema dell’arte che non avrebbe più potuto contare sull’Europa per molto tempo ancora. I motivi di questo spostamento dell’asse di gravitazione mondiale sono evidenti, e già accennati sopra: gli Stati Uniti erano la più grande potenza mondiale, avevano vinto la guerra, erano tecnologicamente all’avanguardia – la bomba atomica ne è la


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dimostrazione più lampante –, non avevano subìto distruzioni sul loro suolo, si proclamavano i difensori della libertà in un’epoca che vedeva configurarsi chiaramente uno scontro ideologico tra il blocco liberale e capitalistico e quello comunista. In un simile clima anche la cultura e l’arte diventano bandiere che entrano nel grande gioco politico: al blocco dell’Est, che controllava ogni espressione artistica sino a promuovere un’arte di Stato, in Occidente, e soprattutto in quella parte dell’Occidente che ha assunto le redini politiche ed economiche del mondo, cioè gli Stati Uniti d’America, si contrapponeva nelle discipline artistiche l’esempio della massima libertà espressiva. Con la sola eccezione di media più popolari come il cinema, dove il controllo ideologico era più stretto, soprattutto agli inizi degli anni cinquanta, nel momento più difficile della Guerra fredda e della cosiddetta “caccia alle streghe”: l’epurazione e il processo pubblico negli usa per chi era sospettato di simpatie comuniste rimangono memorabili, testimoniati come sono nei cinegiornali dell’epoca e nella nascente televisione. Ma questa posizione ideologica e politica – la bandiera della libertà dell’arte contrapposta alla concussione dell’espressività individuale – sarebbe stata vanificata se negli Stati Uniti non ci fossero state davvero le condizioni perché una nuova spinta all’arte contemporanea arrivasse da quella situazione culturale. Come si è detto prima, queste condizioni erano state dettate dalle caratteristiche dello spirito americano del New Deal rooseveltiano, all’indomani della grande crisi del 1929, e dalla terribile situazione socio-politica europea: l’ascesa al potere del nazismo (1933), la feroce Guerra civile in Spagna (1936-1939), il riarmo generale, le leggi razziali e infine lo scoppio della Seconda guerra mondiale avevano reso impossibile il lavoro di intere generazioni di intellettuali e di artisti. Lo stalinismo imponeva un’arte che fosse pura propaganda, il nazismo agiva allo stesso modo e bollava con l’epiteto di “arte degenerata” le più grandi opere recenti dell’arte tedesca, impedendo per di più agli artisti che le avevano create di esporre o di insegnare; anche il fascismo italiano, di gran lunga più tollerante degli altri totalitarismi, con la sua politica autarchica anche in campo culturale negli anni trenta – e poi con la guerra – aveva di fatto spezzato i legami che ancora univano gli intellettuali italiani con il resto d’Europa. In questa situazione non restava che una possibilità: emigrare. Di solito la prima tappa era Parigi, poi Londra e, infine, gli Stati Uniti. L’elenco degli artisti che durante gli anni trenta soggiornano o si stabiliscono negli Stati Uniti è lunghissimo, e si tratta soprattutto di tedeschi, nordici e francesi: ricordiamo gli architetti Walter Gropius, Marcel Breuer, Ludwig Mies van der Rohe, e poi Georg Grosz, Josef Albers, Piet Mondrian, Max Ernst, Sebastián Echaurren Matta, Yves Tanguy, André Masson, Hans Hofmann – artista poco conosciuto, ma fondamentale per la sua attività didattica presso i futuri espressionisti astratti americani –, Jean Hélion, Fernand Léger, Alfred Lipchitz, László Moholy-Nagy, Hans Richter, Amédée Ozenfant, oltre ai citatis-

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simi Duchamp e Picabia. Pochissimi invece gli italiani: il futurista Fortunato Depero, ancora negli anni venti, Giorgio de Chirico, negli Stati Uniti per più di un anno, nel 1935 e 1936, e il giovane romano Corrado Cagli, che venne costretto all’esilio dalle leggi razziali emanate nel 1938. A ben guardare, l’elenco comprende artisti di due tipi: coloro che sono stati costretti a lavorare negli Stati Uniti – e si tratta soprattutto di artisti e architetti tedeschi – e coloro invece che, di fronte all’atmosfera sempre più stagnante della vecchia Europa, scelgono quel paese ritenendo la sua cultura più aperta, più favorevole alla loro ricerca. Questi ultimi sono quasi tutti surrealisti o, come Duchamp, inventori, precursori, rivoluzionari del linguaggio sia dadaista sia surrealista, e sono proprio gli artisti di estrazione culturale francese a trovarvi la migliore accoglienza. Ciò va ascritto al rapporto privilegiato che gli intellettuali americani coltivavano con Parigi, a quella specie di “educazione sentimentale” che solo Parigi poteva impartire ai figli dell’alta borghesia statunitense: le collezioni americane d’arte moderna si erano formate tutte – o quasi – a Parigi, e, come si è detto, il modello di libertà e di apertura mentale verso il “moderno” si poteva acquisire, almeno per i primi tre decenni del secolo, solo a Parigi. Inoltre, il Surrealismo incarnava perfettamente l’idea di modernità e di novità artistica (tra l’altro, ben preparate dall’attività sottile, elitaria ma incessante di 24

Duchamp), idea che si accordava bene con la politica del New Deal. Così, quando al Museum of Modern Art (moma) di New York si allestiscono le mostre “Cubism and Abstract Art” e “Fantastic Art, Dada, Surrealism”, nel 1936, il successo è enorme, e le giovani generazioni di artisti, che annoverano tra le loro fila personaggi poi fondamentali per l’arte americana come Arshile Gorky e Jackson Pollock, si confrontano giornalmente con le esperienze più avanzate del Vecchio continente. La generazione americana che giungerà alla piena maturità subito dopo la Seconda guerra mondiale comincia dunque la sua crescita alla fine degli anni trenta, grazie a una concomitanza di fattori culturali: il confronto diretto con gli artisti europei, che spesso diventano insegnanti in scuole d’arte; l’adesione al programma governativo per il progresso del lavoro e dell’arte (Federal Art Project of wpa, Work Progress Administration), che permette ai giovani artisti di misurarsi con grandi lavori pubblici, nell’ambito del già citato New Deal; lo sviluppo delle istituzioni museali anche per l’arte contemporanea e il concomitante diffondersi del collezionismo e delle gallerie d’arte private. Va ricordato, infatti, che negli Stati Uniti degli anni trenta-quaranta l’interesse per le strutture istituzionali dedicate all’arte contemporanea era velocemente ed enormemente cresciuto, grazie probabilmente a una mentalità non “zavorrata” dal peso della tradizione passata. Se la classe dirigente americana, non appena raggiunta la ricchezza, cerca di acquisire anche dignità e decoro regalandosi un grande museo come il Metropolitan di New York, fondato nel 1879, a somiglian-


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za dei musei europei e con la stessa tipologia di collezioni (arte antica, orientale, applicata ecc.), sono sufficienti cinquant’anni perché si passi dall’acquisizione forzata di un passato che in fondo non apparteneva loro, all’esaltazione del presente, della produzione attuale, del nuovo che solo una nazione “nuova” poteva proporre senza remore, e senza le pastoie ideologiche dell’altra nazione “nuova”, l’Unione Sovietica. È infatti nel 1929 che viene fondato il già citato moma, che solo pochi anni più tardi, affidato alla direzione del grande storico dell’arte moderna Alfred J. Barr, realizza quelle mostre per così dire “panoramiche” sullo stato dell’arte contemporanea, tanto importanti da influenzare in un colpo solo le nuove generazioni di artisti. Non solo, ma si sviluppa un collezionismo emulativo – e da subito aiutato da un sistema fiscale molto lungimirante – che costruisce grandi collezioni di contemporaneo e che rende solido il sistema delle gallerie d’arte e del mercato. Quando sui teatri di guerra si svolgono le battaglie di El Alamein e di Stalingrado, a New York – in una nazione che pure era entrata in guerra l’anno precedente – Peggy Guggenheim fonda la galleria Art of This Century, che tanto rilevante sarà per la crescita dei nuovi artisti. È un segnale di continuità e di accelerazione nella continuità: il processo di autoidentificazione dell’arte americana non aveva subìto traumi, stava proseguendo nella sua linea di definizione e anzi stava prendendo coscienza che il proprio modello avrebbe potuto essere il nuovo riferimento per l’arte mondiale.

1.3  Indizi di cambiamento: il caso Giappone In un mondo dell’arte tutto concentrato sui rapporti tra le due sponde dell’Atlantico – cioè tra East Coast degli Stati Uniti ed Europa – e sul travagliato passaggio del testimone tra Parigi e New York, è probabilmente passato come episodio marginale e atipico l’affacciarsi sulla scena dell’arte, sin dalla metà degli anni cinquanta, di artisti e movimenti giapponesi. Il riferimento è al gruppo Gutai (“Concreto”), fondato nel 1954 da Jiro Yoshihara e Shozo Shimamoto, ai quali si unirono poi numerosi artisti tra cui Kagaku Murakami, Kazuo Shiraga, Atsuko Tanaka, Sadamasa Motonaga, Akira Kanayama, Michio Yoshibara, Toshio Yoshida. Presente sin dal 1956 sulla scena europea e americana, aveva una doppia anima: una performativa, le cui azioni avrebbero influenzato gli artisti americani che di lì a poco avrebbero dato vita agli happenings (definizione originaria di ciò che poi sarebbe ricaduto sotto il termine di performance), l’altra pittorica, legata al comune clima planetario dell’Informale, con la ricerca sul gesto e sul segno, che ebbe immediatamente più successo. Non si trattava però solo della dimostrazione di come la temperie informale avesse contagiato tutto il pianeta allora conosciuto (dal mondo dell’arte), ma di qualcosa di più profondo, soprattutto se considerato sotto l’ottica odierna della globalizzazione artistica. Era la prima manifestazione di un’espressione artistica “altra” e al contempo coeren-

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te rispetto al mondo dell’arte contemporanea così come si stava strutturando all’indomani della guerra. La questione, allora come oggi, non riguardava soltanto l’arte, ma innanzitutto la politica planetaria, forse non ancora l’economia (nessuno avrebbe potuto prevedere l’ascesa economica del Giappone degli anni ottanta), e il modello di vita che quel paese sembrava disposto ad accogliere, così come aveva proceduto alla sua industrializzazione durante gli ultimi decenni del secolo precedente. La scoperta del Giappone come produttore di cultura in fondo compatibile con la cultura occidentale fa parte di una politica di democratizzazione del paese voluta dagli Stati Uniti, anche in funzione antisovietica, ma se questo progetto – andato a buon fine – appariva normale per altri paesi quali l’Italia o la Germania (tenuta un po’ più in quarantena, per la verità), nei confronti del Giappone il suo coinvolgimento assumeva l’aspetto di una svolta epocale per più di un motivo. Non solo si allargava l’orizzonte mondiale e si spostava leggermente l’asse d’interesse verso est, attraverso il Pacifico – cosa che comunque gli Stati Uniti stavano economicamente perseguendo sin dalla fine della Prima guerra mondiale –, ma si considerava per la prima volta come potenziale interlocutore paritario una cultura “non bianca”, e per di più pesantemente sconfitta e annichilita solo pochi anni prima. 26

Il grimaldello culturale del Giappone in Occidente è stato il cinema, arte popolare per eccellenza, molto prima della letteratura e comunque in anticipo sulle arti visive. Quello che è sempre stato considerato il più occidentale dei registi giapponesi – Akira Kurosawa – ha aperto la strada nel 1951 alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, vincendo il Leone d’oro con Rashomon, e vincendo l’Oscar con lo stesso film l’anno successivo. Accanto a lui, negli anni cinquanta, altri cineasti giapponesi hanno ricevuto premi e introdotto la cultura giapponese in Occidente (con la sola eccezione del più giapponese dei registi giapponesi, Yasujiro Ozu che, paradossalmente, già prima della guerra aveva dimostrato un grande trasporto per il cinema americano!). A Venezia, alla mostra del cinema, nel 1958 vince il Leone d’oro Hiroshi Inagaki con L’uomo del risciò, mentre I racconti della luna pallida d’agosto (1953), L’intendente Sanshô (1954) di Kenji Mizoguchi e I sette samurai (1954), sempre di Kurosawa, si aggiudicano il prestigioso secondo premio, e altri film nipponici in concorso, non premiati, riscuotono comunque un buon successo – è il caso della Vita di O Haru donna galante (1952) di Kenji Mizoguchi e dell’Arpa birmana (1956) di Kon Ichikawa; a Berlino Tadashi Imai vince l’Orso d’oro solo nel 1963, ma aveva vinto il premio per la miglior regia nel 1958, mentre l’anno successivo era stata la volta di Akira Kurosawa; a Cannes, al festival del cinema, nel 1954 vince quella che diventerà la Palma d’oro Teinosuke Kinugasa con La porta dell’inferno e, infine, negli Stati Uniti, durante gli anni cinquanta, ben tre film giapponesi vincono il premio Oscar per il miglior film straniero: sono, appunto, Rashomon di Kuro-


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sawa (nel 1952), La porta dell’inferno (nel 1955) di Kinugasa, e Miyamoto Marashi di Hiroshi Inagaki (nel 1956). In questa rinascita l’arte ricopre un ruolo decisamente minore, ma solo per la ristrettezza del sistema dell’arte di allora, se paragonato alla portata quantitativa del cinema (e, del resto, la letteratura giapponese viene apprezzata ancor più tardi, probabilmente per le difficoltà della traduzione e per l’oggettivo tradizionalismo dei tempi e dei ritmi della parola). Tuttavia, quando Saburo Murakami, artista di Gutai, attraversa con un balzo la carta tesa su ventun telai, realizzando così una lacerazione simbolica dello spazio tradizionale della pittura, l’impatto sulle coeve generazioni di artisti occidentali – soprattutto americani – è davvero forte; questa volontà d’azione si ritroverà poco dopo negli happenings di Allan Kaprow o di Claes Oldenburg, che riconosceranno a Gutai un ruolo da precursore. Del resto, se l’Europa era stata affascinata dalla cultura giapponese nella seconda metà del xix secolo, tanto da mettere in dubbio il primato della prospettiva rinascimentale e da adottare una sorta di visione bidimensionale iperdecorativa, è l’America del xx secolo ad avere i maggiori contatti con quella cultura, soprattutto gli artisti della West Coast californiana, affacciati a quell’oceano da dove erano venuti a lavorare milioni di cinesi, ma anche centinaia di migliaia di giapponesi. Anche l’interesse per la calligrafia, per la scrittura degli ideogrammi – una sorta di pittura-scrittura – aveva sedotto artisti come Mark Tobey, allora attivo in California, arrivando sino a interessare gli artisti della vecchia Europa come i romani Gastone Novelli e Achille Perilli. Contestualmente, anche la scoperta dello zen (e dei suoi comportamenti al contempo così disinvolti, eterodossi e poetici) aveva scatenato la ricerca e l’imitazione – insieme al rispetto – di certi atteggiamenti orientali, sull’onda di un’arte così flessibile da adattarsi immediatamente ai linguaggi occidentali, tanto da affascinarli pur mantenendo una propria indiscutibile originalità culturale. Può darsi che da entrambe le parti, Oriente e Occidente, l’interesse reciproco si basasse su sostanziali fraintendimenti, ma resta il fatto che le mostre del gruppo – a partire dalle testimonianze fotografiche giunte in Occidente di “The Experimental Outdoor Exhibition of Modern Art to Challenge the Midsummer Sun” del 1955, per arrivare, rimanendo fermi agli anni cinquanta, alla loro presenza newyorkese del 1958 –, ignorate all’inizio, furono prese in considerazione in Occidente per motivi che probabilmente non avrebbero convinto gli stessi protagonisti giapponesi. Yoshihara, il teorico del gruppo, aspirava a realizzare qualcosa che non fosse mai stato fatto da nessuno, mentre la lettura che se ne diede fu di un’arte di ispirazione dadaista, prodotta nel solco di una tradizione del nuovo che, per quanto spregiudicata, partiva sempre da esperienze mutuate dalla storia dell’arte occidentale. E anche se le appena successive azioni Fluxus avrebbero accolto con attenzione le esperienze Gutai, è indubbio che quelle performance (che al tempo non si chiamavano così) derivavano più da un’attitudi-

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ne zen nei confronti della propria vita, in cui l’aspetto contemplativo dell’esistenza si concentrava e si esprimeva in un’azione di gioiosa libertà espressiva, che da un atteggiamento ideologicamente determinato nei confronti dell’arte e della storia dell’arte. Tuttavia, è da quel momento che il mondo dell’arte si è enormemente dilatato, comprendendo non uno ma due oceani – l’Atlantico e il Pacifico – a fare contemporaneamente da confine e da passaggio, da ponte per l’arte contemporanea. Certo, per molto tempo – almeno sino alla fine degli anni ottanta – la cultura artistica giapponese è stata considerata come una curiosa appendice, vagamente esotica, dei centri di produzione principali, ma la sua presenza per così dire “sottotraccia” non solo ha costituito un importante precedente di una più ampia globalizzazione, ma anche il più duraturo (per ora) esempio di autonoma compartecipazione a un sistema culturale non autoctono, e però accettato e sfruttato. Di fatto, quando la cultura artistica giapponese, verso la fine degli anni ottanta, si è presentata sul mercato mondiale da posizioni economico-politiche ben differenti da quelle di un paese sconfitto, i meccanismi e le strutture per agire nel mondo dell’arte mondiale erano già ben oliate e capaci di competere alla pari con le corrispondenti strutture nordamericane, che avevano allora (come oggi) la leadership del settore. Dalla loro posizione insulare, che per cer28

ti versi li metteva al riparo da eccessive contaminazioni, gli artisti giapponesi hanno saputo imporre una loro immagine al contempo internazionale e molto “giapponese”, attraverso la generazione di personaggi che hanno fatto della rivisitazione dei tradizionali manga (figurine, fumetti) una sorta di bandiera e di cifra immediatamente riconoscibile. Artisti come Takashi Murakami, Yoshitomo Nara, Mariko Mori hanno sorpreso il mondo dell’arte internazionale con una produzione inconfondibile, quintessenza del Giappone postmoderno, capace di rinnegare tutte quelle caratteristiche di raffinatezza compositiva, di eleganza formale che avevano rappresentato l’arte giapponese sino a pochi anni prima. Il disinteresse per la natura “naturale”, la convinzione di poter ricostruire una nuova natura “artificiale” (esattamente come avveniva nei primi impianti sciistici in pieno centro cittadino, con collinette coperte di neve finta sotto una tensostruttura, o nelle spiagge ricostruite, con tanto di onde oceaniche, all’interno di parchi acquatici urbani), la sostituzione integrale della vita reale con una continua fiction sono oggi il cuore dei sogni giovanilisti giapponesi, che trovano entusiasti adepti sia in Europa sia in America. Lo spostamento progressivo – ma che agli occhi dell’Occidente è sembrato repentino, dato il periodo di sostanziale silenzio vissuto dall’arte giapponese tra il 1960 e il 1990 – dalla cultura elitaria uscita dalla guerra alle icone di massa della società giapponese arricchitasi improvvisamente agli occhi del mondo negli anni ottanta, ha introdotto nella percezione dell’arte contemporanea un elemento autenticamente “pop”, quale forse neppure la Pop Art statunitense, con i suoi geniali


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epigoni alla Jeff Koons, era riuscita a suscitare. La variante giapponese della Pop Art, cioè, ha dimostrato in questi anni di non avere nessuna remora nel parificare cultura alta e cultura di massa, con una disinvoltura che negli Stati Uniti era soltanto simulata: mentre in Occidente questo livellamento aveva comunque alla base un discorso intellettualistico e ideologico da ultima spallata nei confronti di divisioni classiste tradizionali e anacronistiche tra i linguaggi, in Giappone – e sarà ancor di più così nella Cina del nuovo millennio – il passaggio sembra avvenuto in maniera assolutamente semplice e immediata, con l’accettazione entusiastica di una nuova società, ordinata quasi come un tempo e affluente come mai prima. Tutti i sintomi di questa nuova condizione sono considerati un’ineluttabile e non scomoda necessità, per cui ai film di Ozu o anche di Kurosawa si sono sostituiti Godzilla e i Pokémon (mentre tutte le inquietudini sembrano essersi trasferite in massa nella cinematografia coreana…), e alle azioni di Gutai il travestimento da “fatina spaziale” di Mariko Mori. Tutto ciò non viene vissuto come un decadimento dai valori forti della tradizione al pensiero debole della Postmodernità globalizzata, ma come un naturale passaggio temporale di cui gli stessi “sconfitti” (che però in Giappone non si ritengono tali) debbono essere contenti, perché comunque vi si afferma una forte identità culturale, per quanto basata sulle “evoluzioni biologiche” dei Pokémon o dei personaggi di Murakami, a metà tra la Pop e il vero e proprio merchandising. Chi, come Yukio Mishima, non era d’accordo sull’abbandono dei costumi di un tempo, era già uscito di scena da molti anni.

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