«Dov’è, oggi, nella mutevole cultura dell’immagine, trasformata dai nuovi media, il bello dell’esperienza cinematografica? Adesso che la proliferazione di film su piattaforme grandi e piccole e l’ibridazione delle forme cinematografiche in una gran quantità di videogame e di installazioni di arte digitale hanno reso i confini di questo dispositif poroso e precario?» «Miriam B. Hansen ha coltivato le tradizioni della Teoria Critica, la storia del cinema moderno e le proprie curiosità diventando nei cinema studies un trait d’union transatlantico, teoretico e pratico, fondamentale.» Alexander Kluge, Berlin Journal
Miriam Bratu Hansen
Miriam Bratu Hansen (1949-2011) è stata una delle fondatrici dei cinema studies. Nata in Germania, ha studiato a Francoforte con Habermas e Adorno per poi trasferirsi negli Stati Uniti. Nel 1990 è approdata alla Chicago University, dove ha aperto il dipartimento di Cinema e Studi sui Media insegnando fino alla sua scomparsa. Oltre alle importanti collaborazioni con Alexander Kluge, ha scritto innumerevoli saggi sulla storia del cinema e sulla teoria del film.
Cinema & Experience
Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948 2. Clement Greenberg L’avventura del modernismo. Antologia critica 3. Ai Weiwei Il blog. Scritti, interviste, invettive 2006-2009 4. Brian O’Doherty Inside the White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo 5. Marco Meneguzzo Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze) 6. Frederic Spotts Hitler e il potere dell’estetica 7. Pierre Schneider Louvre mon amour. Undici grandi artisti in visita al museo più famoso del mondo
Miriam Bratu Hansen
Cinema & Experience Le teorie di Kracauer, Benjamin e Adorno
A partire dagli anni novanta i cosiddetti cinema studies hanno subito una tale proliferazione da diventare una vera e propria disciplina accademica. Attualmente, però, il loro oggetto d’indagine sembra dissolversi sempre di più in un flusso di mutevole, globale e globalizzante, cultura dell’immagine: audiovisiva, elettronica, digitale e web. Miriam Bratu Hansen ricomincia dal principio, ovvero dalla perspicace critica della modernità operata da tre pilastri dell’estetica del Novecento – Kracauer, Benjamin e Adorno – incentrata proprio su questo media: non su ciò che il cinema è, ma su quello che fa, ovvero la particolare esperienza sensoriale e mimetica che esso rende possibile negli spettatori. A cominciare, per esempio, dai cartoni animati di Mickey Mouse, così popolari, diceva Benjamin, per il «semplice fatto che il pubblico riconosce in essi la propria vita». Non un’ontologia del cinema, dunque, ma un tentativo di comprensione, sebbene con prospettive e modalità differenti, del suo ruolo all’interno della modernità in evoluzione. I film, infatti, contribuiscono in maniera sostanziale alla riconfigurazione dell’esperienza intesa nel suo senso più pieno di Erfahrung, ovvero come vita quotidiana, rapporti sociali e lavorativi, economia e politica. Nonostante il competitivo ambiente mediatico in cui è inserito, il cinema è comunque sopravvissuto, si è adattato e trasformato. La recente apertura della frontiera del digitale e il necessario ripensamento di dispositivi e categorie filmiche fondamentali come il movimento e l’animazione lanciano una nuova sfida, che però non è una minaccia: dopo aver fatto «saltare con la dinamite dei decimi di secondo questo mondo simile a un carcere», il cinema potrebbe riaprire capitoli dell’estetica apparentemente chiusi e riattualizzarli.
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Saggi d’arte 8
©2013 Johan & Levi Editore Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Meroni Lissone (MB) Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 isbn 978-88-6010-087-0 © 2011 The Regents of the University of California. Published by arrangement with University of California Press. Titolo originale: Cinema and Experience. Siegfried Kracauer, Walter Benjamin, and Theodor W. Adorno. La traduzione dell’opera è stata realizzata con il contributo del seps, Segretariato Europeo per le Pubblicazioni Scientifiche
Via Val d’Aposa 7 – 40123 Bologna seps@seps.it – www.seps.it Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.
STAMPATO SU CARTA
Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.
Miriam Bratu Hansen
Cinema & Experience Le teorie di Kracauer, Benjamin e Adorno
Traduzione di Nanni Cagnone
Sommario
Prefazione
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Ringraziamenti
23
Fonti
25
Kracauer 1. Il cinema, medium di un mondo che si disintegra
31
46
1.1 Verso un materialismo modernista
1.2 La fotografia e il Vabanque-Spiel della storia
56
2. Un curioso americanismo
71
2.1 La massa come ornamento e come pubblico
81
2.2 Cultura di massa, classe, soggettività
88
2.3 Modernità in competizione, possibilità che si riducono
98
Benjamin 3. Attualità, antinomie
concettuali
109
3.1 Il saggio sull’opera d’arte: strategie testuali, infortuni 3.2 Masse, distrazione
4. Aura: l’appropriazione di un concetto
117 130 140
4.1 L’aura in senso lato
142
4.2 L’arte auratica, la bella apparenza
150
4.3 L’aura, l’immagine primordiale, la coscienza onirica
155
4.4 Incontri auratici con il Sé, proficua autoestraniazione
164
5. Scambiare la luna per una palla
170
5.1 L’innervazione
170
5.2 La facoltà mimetica
185
5.3 L’inconscio ottico
194
6. Micky-Maus
203
6.1 Il riso collettivo: terapia e terrore
204
6.2 Una favola modernista
210
6.3 La creatura ibrida: “scardinare la teleologia della natura”
6.4 Eccesso e addomesticamento
220
217
7. La forma ludica della seconda natura
224
7.1 Spiel e teoria del gioco
225
7.2 Lo spazio di gioco, la seconda tecnica, la ripetibilità
231
7.3 Antinomie del gioco
237
Adorno 8. La questione dell’estetica cinematografica
249
253
8.1 Tecnica e tecnologia
8.2 Trasparenze
260
8.3 Immagine/scrittura
267
8.4 Bellezza naturale, carattere linguistico
273
8.5 Movimento, tempo, musica
280
Kracauer in esilio 9. Teoria del film
299
9.1 Marsiglia-New York
299
9.2 Cinema come anticamera della storia
312
Note
329
Indice analitico
399
A Michael Geyer In memoria di Karsten Witte (1944-1995)
Prefazione
Come «affrontare un pensiero ancora vivo ma ormai storicamente inattuale» è una questione – sollevata da Fredric Jameson in riferimento a Theodor W. Adorno – particolarmente impellente quando tale pensiero riguarda essenzialmente il cinema, tanto più se si considerano gli odierni, rapidi mutamenti dei media.1 Questo futuro in fieri del cinema, oltre a essere divenuto progressivamente uno dei temi di fondo di questo saggio, mi ha resa maggiormente consapevole della specifica storicità degli scritti in questione, non tanto a causa del venir meno della loro “attualità” quanto perché essi coincidono con momenti fondamentali della storia del cinema e delle vicende socio-politiche del xx secolo. Benché gettino luce su tali momenti, spesso lo fanno in modo “intempestivo”, il che oggi conferisce loro un diverso tipo di attualità. Nel contempo non posso ignorare fino a che punto questo progetto fosse strettamente connesso con la mia storia personale, che mi ha portato a cambiare paese, lingua e ambito di studio (dalla Germania agli Stati Uniti, dal tedesco all’inglese, dallo studio del Modernismo letterario e delle avanguardie a quello del cinema). Quando, negli anni ottanta, cominciai a occuparmi degli studi americani sul cinema, quel campo di indagine era dominato da una teoria cinematografica di stampo psicoanalitico-semiotico, cui facevano da sfondo Freud e Lacan, il marxismo althusseriano e il femminismo, che si erano diffuse nel mondo anglosassone grazie alle riviste britanniche Screen e Edinburgh Magazine, e Camera Obscura, che allora veniva pubblicata a Berkeley. Un’egemonia presto tramontata, messa in discussione dall’antagonismo tra i paradigmi asimmetrici dei cultural studies da una parte, e del neoformalismo, del cognitivismo o della historical poetics dall’altra. Eppure, l’energia intellettuale che aveva reso la teoria psicoanalitico-semiotica il punto di riferimento per gli studiosi di cinema e uno strumento di legittimazione accademica degli studi sul cinema – in un periodo in cui le discipline umanistiche erano influenzate dal Poststrutturalismo –, sembrava essersi spostata verso lo studio degli esordi del cinema. Un’indagine che era cominciata con il leggendario Brighton Symposium del 1978 e promossa dalle annuali Giornate del cinema muto di Pordenone come da
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· Miriam Bratu Hansen ·
altre retrospettive. Questa analisi mi attirava anche perché implicava l’attenta considerazione del rapporto tra i tratti formali e stilistici e aspetti concreti quali produzione, distribuzione e fruizione da parte degli spettatori, nonché di questioni di maggiore rilievo, riguardanti quel complesso di articolate trasformazioni cui di solito si dà il nome di modernità. In Germania non c’era una vera tradizione che facesse del cinema l’oggetto di indagini accademiche, a parte poche eccezioni, durante i primi decenni del xx secolo. Niente di paragonabile a quell’impegno organizzativo nell’istruzione, archiviazione e ricerca – negli Stati Uniti e in Francia – che di recente è diventato a propria volta oggetto di ricerca storica. A dire il vero, storia e teoria del cinema facevano parte dei curricula delle accademie cinematografiche di Ulm, Monaco e Berlino, fondate su impulso del manifesto di Oberhausen del 1962, ma non rientravano nei programmi accademici. All’università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte, dove studiai dal 1967 al 1976, i pionieristici corsi di Karsten Witte sulla cinematografia nazionalsocialista e sulla “teoria del cinema” (1970-1971) – seguiti dai primi corsi dedicati al cinema dagli American studies, che rientravano tra i miei interessi – dovevano essere considerati un’eccezione.2 Inoltre, nel 19751976 Alexander Kluge tenne una serie di impegnativi seminari su cinema e media, cui partecipai, dando così inizio a una duratura collaborazione. 12
Non che in quella Germania (o meglio, nella Repubblica federale tedesca) mancasse una cultura cinematografica. Mentre molte sale cinematografiche commerciali erano state chiuse e il pubblico se ne stava a casa a guardare la tv, intorno al 1970 iniziarono ad aprire cinema che, grazie a finanziamenti pubblici (Kommunale Kinos) e privati, proponevano una programmazione di qualità. Sempre nel 1970 al campus dell’università di Francoforte si tenne un festival di cinema indipendente (Frankfurter Filmschau ’70). Il movimento studentesco formava un nuovo pubblico cinematografico, ansioso di lasciarsi alle spalle una storia ancora profondamente condizionata dall’appropriazione delle emozioni e del piacere che si provano guardando un film compiuta dal cinema nazista. Guardavamo di tutto: pellicole di giovani autori tedeschi ed europei, della nuova e della vecchia Hollywood, spaghetti western, opere classiche del cinema internazionale muto e sonoro, film contemporanei sperimentali e underground. Parte essenziale di questa nuova cultura cinematografica erano i testi critici sul cinema – che apparivano in Feuilleton o nelle pagine culturali dei maggiori quotidiani, come Frankfurter Rundschau, Süddeutsche Zeitung e, talvolta, Frankfurter Allgemeine e Die Zeit – scritti da autori come Frieda Grafe, Helmut Faerber, Wolfram Schütte, Karsten Witte, Gertrud Koch, Hartmut Bitomsky e altri. Ci fu inoltre una fioritura di filmmakers indipendenti che potevano approfittare delle emittenti televisive pubbliche e delle sovvenzioni governative per le quali si erano battuti Kluge e altri: tra loro c’era quel gruppo di Autoren, o autori-registi (Fassbinder, Herzog, Wenders e altri), che diedero vita al Nuovo cinema tedesco,
· Prefazione ·
dopo che le loro opere furono proiettate al New York Cinema Festival e in luoghi come i Goethe-Instituten. Quando studiavo all’università di Francoforte, la Kritische Theorie (Teoria critica) era la scuola di pensiero dominante, quella che aveva individuato per tempo le condizioni politiche e socioeconomiche dell’affermazione del fascismo e previsto l’ascesa del nazionalsocialismo. Inoltre aveva assunto un atteggiamento critico nei confronti dell’assetto socioculturale della Germania del dopoguerra, e in particolare della sua incapacità di “venire a patti” con la propria eredità storica.3 A partire dagli anni sessanta, con “Kritische Theorie” ci si riferiva sia alla Scuola di Francoforte – ossia ai membri dell’Institut für Sozialforschung (Istituto di ricerche sociali) rientrati dall’esilio, come Max Horkheimer (che aveva coniato l’espressione stessa) e Theodor W. Adorno, e a quelli della prima ora, come Herbert Marcuse e Leo Löwenthal, che avevano preferito rimanere negli Stati Uniti – sia ad autori in qualche modo riconducibili al pensiero marxista, come Walter Benjamin, Ernst Bloch, György Lukács e Siegfried Kracauer, e ad altri più giovani, come Jürgen Habermas, Oskar Negt e Kluge.4 Se in questo libro considero Kracauer, Benjamin e Adorno degli esponenti non solo della Teoria critica ma anche della tradizione culturale ebraico-tedesca, lo stesso non si può dire di quando entrai in contatto per la prima volta con i loro testi (e, nel caso di Adorno, con il suo insegnamento); probabilmente non si sarebbe pensato di inserire Adorno in quella tradizione prima del 1933. Quando ero studente, il fatto di essere ebrei non era un argomento di conversazione né all’università né altrove, tranne nelle piccole, nascenti congregazioni e organizzazioni che si dedicavano alla cooperazione giudaico-cristiana. L’ebraismo era una categoria relativamente astratta – eppure carica di significati filosofici, morali e politici –, legata alla storia dell’antisemitismo e dello sterminio. Era presente soprattutto come un passato rimosso che doveva essere restituito alla coscienza pubblica e alla giustizia: per lo meno, questo era stato il doppio intento dei processi di Francoforte del 1963-1965 (cui assistetti occasionalmente, essendovi coinvolta mia madre, che si prendeva cura di testimoni sopravvissuti ad Auschwitz).5 Ma l’ebraismo non aveva attinenza né con una viva tradizione culturale né con il retaggio di esistenze spezzate. Questa situazione iniziò a cambiare solo negli anni ottanta, dopo la messa in onda della miniserie nbc Holocaust; con la grandi retrospettive di cinema yiddish a Francoforte nel 1980 e nel 1982; dopo le controversie suscitate dalla pièce di Fassbinder Der Müll, die Stadt und der Tod (I rifiuti, la città e la morte, 1985); dopo la progressiva affermazione di gruppi ebraici nelle università di Francoforte e Berlino, e la fondazione del periodico Babylon nel 1986 (a opera, tra gli altri, di Dan Diner, Gertrud Koch e Cilly Kugelmann).6 Quanto a me, che avevo lasciato la Germania nel 1977, vivendo negli Stati Uniti venni in contatto con una
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· Miriam Bratu Hansen ·
cultura ebraica, sia laica sia religiosa, che contribuì a farmi ritrovare quella parte della mia storia e della mia identità.7 Si sa che il cinema ha avuto una posizione piuttosto marginale nella Teoria critica, specialmente all’interno della ristretta cerchia della Scuola di Francoforte. Invece, la Kritische Theorie ha esercitato una significativa influenza sia sulla teoria e la critica sia sulla produzione e la politica cinematografiche. L’analisi, fatta da Adorno e Horkheimer, dell’industria culturale capitalistica – e la successiva critica adorniana della gestione culturale della Repubblica federale –8 erano ampiamente condivise, eppure portarono a conclusioni divergenti sia in coloro (soprattutto Kluge) che tentavano di realizzare e fare affermare un cinema alternativo sia nei dibattiti ospitati da riviste come Filmkritik, e in seguito dalla femminista Frauen und Film. Quando, sulla scia dei movimenti di protesta del 1968, si (ri)scoprirono gli scritti di Benjamin e Kracauer, il paradigma dell’industria culturale, poi ridefinita “industria della consapevolezza”, si era trasformato in un appello a una prassi di opposizione e si era radicalizzato con il richiamo a Brecht e a esponenti dell’avanguardia sovietica, come Sergej Ėjzenštejn, Dziga Vertov e Sergei Tretyakov.9 Gli scritti di Benjamin venivano difesi nelle riviste della nuova sinistra (particolarmente in Alternative, che invece lanciò accuse di censura nei confronti di Adorno), tuttavia ben presto la sua opera entrò a far parte delle di14
scipline accademiche, specialmente letteratura e filosofia. Invece, fino agli anni ottanta, la ricezione dell’opera di Kracauer continuò a essere in gran parte extraaccademica e limitata a Feuilleton, in cui aveva raccolto il grosso dei suoi scritti del periodo di Weimar (che non si possono ridurre semplicemente all’attività giornalistica).10 La ricezione degli scritti di Kracauer può essere considerata un sismografo dei maggiori errori nell’evoluzione dei discorsi sul cinema compiuti nella Germania occidentale a partire dal 1968. La prima raccolta di saggi e recensioni cinematografiche di Kracauer, Kino (Cinema), pubblicata a cura di Witte nel 1974, si apre con il saggio programmatico Über die Aufgabe des Filmkritikers (Il compito della critica cinematografica), la cui frase più citata – «un buon critico cinematografico è tale solo se è un critico della società» – fu scritta sotto la minaccia dell’ascesa al potere dei nazisti.11 Tuttavia, Theory of Film (Teoria del film) di Kracauer – la cui prima edizione tedesca (1964) aveva avuto un’accoglienza sconfortante o era stata largamente ignorata – divenne fonte di ispirazione quando, un decennio dopo, lo fece proprio Sensibilismus, il movimento di Monaco influenzato dagli scritti di Wim Wenders e da film come Alice nelle città (1974) e Nel corso del tempo (1976). La sensibilità di questo cineasta indusse ad acclamare quelle pellicole «per aver reso visibile la corporeità», a celebrare l’esperienza cinematografica in quanto tale e a contrapporre “l’aspetto” e “la descrizione” all’“interpretazione”, alla lettura marxista dell’ideologia e alla disapprovazione critica per le chiacchiere intorno ai film.12 Superfluo dire che la polarizzazione degli interessi socio-politici, da una parte,
· Prefazione ·
e dell’esperienza estetica dall’altra, era riduttiva tanto per l’opera complessiva di Kracauer quanto per i tentativi, fatti sulla scia della Kritische Theorie (gli scritti di Witte sul cinema, che devono non poco a Kracauer, ne sono un buon esempio), di analizzare i tratti formali e stilistici e gli effetti estetici in rapporto – ma anche in opposizione – ai condizionamenti socioeconomici dei film. La tensione tra gli approcci politico ed estetico al cinema, e fra entrambi e i tentativi teoreticamente fondati di mediare tra questi due, si manifestò chiaramente nella rivista femminista Frauen und Film. Quest’ultima, fondata nel 1974 dalla cineasta Helke Sander e strettamente intrecciata con la progressiva affermazione del cinema e del movimento delle donne, pubblicò dei manifesti di cinema femminista, recensioni di pellicole girate da donne e di “film sulle donne” dei loro antagonisti, gli autori maschi, analisi critiche della produzione, della distribuzione e della formazione di cineaste, articoli e interviste rivolti a una generazione di registe, di lavoratrici del cinema e di studiose. Dal 1977 in poi, con la crescente partecipazione delle scrittrici di Francoforte (in particolare Gertrud Koch e Heide Schlüpmann), la rivista dedicò molti numeri ad argomenti come la teoria cinematografica femminista, il cinema femminile come contro-cinema, le spettatrici, lo sguardo pornografico e l’erotismo. Ebbe inizio così la ricezione della teoria cinematografica semiotico-psicoanalitica nella sua elaborazione femminista, principalmente anglofona (di cui fanno parte i resoconti dell’“evento femminile” al Film Festival di Edimburgo, nel 1979, e le traduzioni di testi di Claire Johnston e Christine Gledhill). Inoltre, gli spunti paradigmatici di questo lavoro – specialmente il saggio pionieristico di Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema (Piacere visivo e cinema narrativo, 1975) – vennero assorbiti, analizzati e radicalizzati. Non si trattava solo di rivedere l’impianto critico del cinema maschilista, ma anche di concepire la soggettività femminile nel cinema in termini che non fossero quelli dell’assenza e della negatività; si trattava di fornire dei motivi per un piacere cinematografico che non si basasse sulle classiche categorie psicoanalitiche di voyeurismo, feticismo e castrazione, per far ricorso invece, all’interno del quadro più ampio della Kritische Theorie, all’antropologia, alla fenomenologia e ad altre tematiche, come la storia del cinema degli inizi.13 Questi tentativi ebbero un’utile influenza sul mio lavoro, a cominciare dal saggio su Rodolfo Valentino e il pubblico femminile, la cui prima versione apparve in Frauen und Film. C’era anche una correlazione più generale, benché indiretta, tra Frauen und Film e la Kritische Theorie. Il concetto di “cinema delle donne” come contro-cinema, e di una rivista come strumento di organizzazione, espressione, analisi e dibattito, rientrava in un discorso – e in una prassi vitale – che risentiva dell’idea di publicness, e in particolare delle sue forme alternative e oppositive. Se il libro di Habermas Strukturwandel der Öffentlichkeit (La trasformazione strutturale della sfera pubblica, 1962) aveva posto le basi per la richiesta militante di publicness, te-
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· Miriam Bratu Hansen ·
ma cruciale del movimento di protesta del 1968, la replica di Negt e Kluge ad Habermas, Sfera pubblica ed esperienza (1972), divenne il testo di riferimento per i nuovi movimenti sociali degli anni settanta (i movimenti gay e femministi, l’associazionismo urbano, le rivendicazioni pedagogiche e ambientaliste ecc.). Quell’opera liberava la categoria habermasiana di sfera pubblica dai condizionamenti formali in base ai quali gli individui potevano parlare e agire, a prescindere dalla loro origine e dalla loro condizione sociale, verso una più inclusiva comprensione della publicness come «orizzonte sociale dell’esperienza», fondato sui «contesti esistenziali» (Lebenszusammenhänge) dei soggetti, ossia sull’effettiva trama di relazioni tra ri/produzione sociale e materiale, emotiva e immaginativa.14 Il concetto di esperienza (Erfahrung) proposto da Negt e Kluge richiamava la tradizione della Kritische Theorie, specialmente la sua appassionata elaborazione negli scritti di Benjamin e Adorno. Anche nell’uso comune, il termine tedesco Erfahrung – che ha le sue radici etimologiche in fahren (andare, viaggiare, navigare) e Gefahr (rischio, pericolo) – non ha la connotazione empiristica del suo equivalente inglese, dato che dà rilievo più alla precaria mobilità del soggetto che a un costante atteggiamento percettivo nei confronti dell’oggetto. Teorizzando le condizioni che rendono possibile l’Erfahrung nell’epoca moderna, Benjamin ha stabilito una relazione fra il suo declino storico e la proliferazione di Erlebnis (espe16
rienza immediata, ma isolata) nel capitalismo industrializzato; in tale contesto, Erfahrung comporta la capacità di ricordare – individuale e collettiva, involontaria e conoscitiva – e di immaginare un futuro diverso. Per Negt e Kluge, che scrivevano in un periodo in cui presumibilmente l’esperienza era tutt’altro che svanita, la frammentazione, l’alienazione e i blocchi dell’esperienza erano già parte dell’esperienza stessa (persistente, a dispetto del suo lamentato declino), insieme con le esigenze e le fantasie che reagivano a quella condizione. Quindi, per loro il significato politico di ciò che è pubblico era quello di un orizzonte sociale, o di una matrice, in cui si poteva riconoscere la dimensione relazionale e collettiva dell’esperienza vissuta sul piano individuale, mentre – e proprio perché – la dinamica dei media determinata dal mercato agiva in modo da appropriarsi di quella esperienza, rendendola astratta. Nei suoi scritti e nei suoi film, Kluge proponeva una teoria del cinema come sfera pubblica, e adottava accorgimenti estetici che inducevano gli spettatori a mettere in gioco la propria esperienza; allo stesso tempo, poneva il cinema in relazione con una più ampia, instabile ed eterogenea sfera pubblica, in cui le tradizionali forme borghesi di publicness si trovavano a convivere e a competere con quelle prodotte e introdotte nel mercato dai nuovi media (allora si trattava dei sempre più diffusi media elettronici privati). Interpretare ciò che è pubblico in accordo con questa teorizzazione dell’esperienza è stato decisivo per le mie riflessioni sul cinema, specialmente sul cinema degli albori e il suo legame con la modernità. Mi ha indirizzato verso que-
· Prefazione ·
stioni riguardanti i rapporti tra norme istituzionali, come quelle riconducibili al classico paradigma hollywoodiano e all’imprevedibile dinamica della publicness massmediatica (come nel caso della Rodolfo Valentino-mania). Attualmente, ritengo che l’insistenza di Negt e Kluge sul carattere eterogeneo, combinatorio, in rapida formazione e disgregazione, delle sfere pubbliche contemporanee abbia anticipato notevolmente il modo in cui sto tentando di comprendere le trasformazioni di ciò che è pubblico e l’esperienza dell’ambiente mediatico digitale, per non parlare delle implicazioni di tali sviluppi sia per il cinema sia per la teoria e la storia del film. Delineare i punti di incontro fra Kritische Theorie e cinema, che considero importanti per la storia di questo libro, mi rende decisamente consapevole della distanza esistente fra gli studi degli anni ottanta sul cinema americano e quell’insieme di interrogativi, interessi e conoscenze che facevano parte del mio bagaglio culturale.15 Fu soprattutto il concetto di sfera pubblica a offrirmi la possibilità di mediare l’analisi testuale e sistematica del cinema con le questioni sociopolitiche e culturali, e di porre la storia dell’evoluzione stilistico-formale in relazione con le storie a lungo termine della modernizzazione e della modernità, compresi i cambiamenti dei ruoli di genere e della sessualità. Ma era quasi impossibile trovare la parola publicness nel lessico accademico, per lo meno fino ai tardi anni ottanta, allorché irruppe in molte discipline (come antropologia, storia, filosofia, studi letterari e di settore) e dibattiti (per esempio, sul postcolonialismo, sul femminismo, sui gay e le lesbiche). Già allora, la riluttanza con cui il concetto venne adottato dagli studi sul cinema probabilmente era dovuta all’iniziale dipendenza dalle discussioni sul libro di Habermas, di scarsa utilità quando si trattava di forme di publicness mediate dalla tecnologia (tra l’altro, i cultural studies sembravano offrire un’alternativa più semplice e flessibile). La più ampia ricezione della Kritische Theorie nel mondo anglosassone risale agli anni settanta: era dovuta soprattutto agli studi di Fredric Jameson, Martin Jay e Susan Buck-Morss.16 E ci fu lo straordinario successo dell’opera di Benjamin – iniziato con l’edizione di Illuminazioni (1969) e poi di Riflessioni (1978), a cura di Hannah Arendt –, accolta come un romanzo e come un modo nuovo di scrivere su temi letterari e culturali. Infine, il celebre saggio di Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica entrò a far parte del canone della teoria cinematografica classica e, insieme con gli scritti su Baudelaire e I «passages» di Parigi, divenne una fonte essenziale per l’indagine sui rapporti tra il cinema dei primordi e la modernità, nonché per le riflessioni su cinema e postmoderno.17 Tuttavia, gran parte delle reazioni – che si trattasse di esegesi, critica, o trasformazione – alla Kritische Theorie, Benjamin compreso, ebbe luogo nell’ambito degli studi di germanistica e di teoria sociopolitica, soprattutto in riviste come New German Critique e Telos. L’intento della prima, fondata nel 1973 (nel cui comitato editoriale entrai a far parte nel 1984), non era soltanto quello di rendere di-
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sponibili le traduzioni di testi essenziali e di contestualizzarli storicamente, ma anche quello di sviluppare gli spunti critici e interdisciplinari di tale tradizione per applicarli a occasioni diverse e a un’ampia gamma di argomenti e campi di indagine, compresi il cinema, le arti visive e i nuovi media. Dopo un numero doppio sul nuovo cinema tedesco (1981-1982), pubblicammo un numero speciale sulla teoria del cinema di Weimar (1987) con saggi di Tom Levin, Thomas Elsæsser, Schlüppmann, Koch e Richard Allen. (C’era anche il mio primo articolo su Benjamin, il cinema e l’esperienza – The Blue Flower in the Land of Technology, Il fiore azzurro nella terra della tecnologia – del quale c’è ancora traccia in questo libro.) Seguirono, tra l’altro, dei numeri speciali dedicati a Kluge, Kracauer e Fassbinder, a Heimat di Edgar Reitz e alla cultura di massa di Weimar, al cinema nazista, a cinema ed esilio, al cinema successivo alla caduta del muro di Berlino e alle cinematografie transnazionali. A partire dagli anni novanta, la Kritische Theorie venne accettata in una molteplicità di ambiti del sapere, e in particolare in quelli della letteratura, della filosofia e dell’arte. Questo rinnovato interesse era dovuto in gran parte alla disponibilità di nuove e migliori traduzioni, e non era estraneo al rinato interesse per l’estetica, già bandita dalla semiotica e poi dal nuovo storicismo e dai cultural studies. Benjamin proponeva una teoria estetica concepita come aisthesis, più adatta 18
alla comprensione dei tratti formali e stilistici di un’opera. Una teoria connessa con la sua indagine sulla trasformazione della percezione sensoriale e sull’esperienza della modernità. Le microanalisi adorniane di opere letterarie e musicali offrivano una lettura di tipo dialettico, che prendeva sul serio la pretesa di autonomia estetica di tali opere e insieme ne rintracciava i condizionamenti socioeconomici proprio nella loro negazione del mondo empirico. Invece i primi scritti di Kracauer sulla cultura di massa e sui fenomeni urbani combinavano un’acuta osservazione e descrizione estetica con un esercizio retorico dell’ambivalenza che nella sua opera tarda si sarebbe evoluto nel principio conoscitivo noto come “fianco-a-fianco”. Ognuno dei tre autori presentava al lettore un diverso modo di pensare, anche in termini di speculazione teoretica, e una prosa più letteraria – caratterizzata da metafore, giochi di parole, paradossi, strutture frastiche acrobatiche – che rappresentava un rimedio alla povertà di gran parte del linguaggio accademico. Ma anche gli studi sul cinema stavano andando incontro a profondi cambiamenti. Nel 2002, dopo anni di discussioni riguardanti il riconoscimento degli studi sulla televisione, la Society for Cinema Studies cambiò il proprio nome in Society for Cinema and Media Studies. La vicina università di Chicago aveva istituito un Committee for Cinema and Media Studies che assegnava un dottorato di ricerca (un corso di cms per studenti non laureati esisteva già nel 1995) da cui nel 2009 nacque un vero e proprio dipartimento. In questo caso, la denominazione intendeva indicare una grande eterogeneità di media, incoraggiare indagini
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critiche sulle interazioni del cinema con altre forme e istituzioni, artistiche e popolari, tradizionali e sperimentali, comprendendo dunque il cinema nelle sue intersezioni (o disgiunzioni) con storie diverse, come quella dell’estetica e quella della tecnologia, quella sociale e quella politica. Grazie alla diffusione accademica di quest’ambito di indagine, non sembrava esserci più un paradigma normativo, ma piuttosto una pluralità – e un salutare eclettismo – di teorie e metodologie, che andavano dalla fenomenologia all’analisi cinemetrica, da Deleuze a Wittgenstein, a Cavell. Attualmente, se esiste un denominatore comune, questo è il riconoscimento (divenuto quasi un cliché) che il vero oggetto degli studi sul cinema – ora che finalmente stanno diventando una disciplina ufficiale degli studi umanistici – sembra dissolversi in un ampio flusso di mutevole, globale e globalizzante, cultura dell’immagine (audiovisiva, elettronica, digitale e web). Che il cinema sia sopravvissuto e si sia adattato e trasformato nel competitivo ambiente mediatico, non è una novità. Ma la proliferazione dei film mediante dispositivi di archiviazione digitale e diffusione mediatica, su differenti piattaforme e schermi piccoli o piccolissimi, mette in discussione le nostre convinzioni su come intendiamo il cinema e sui limiti imposti o le possibilità aperte dai suoi dispositifs. Questa sfida ha portato a un ripensamento di concetti chiave che si davano praticamente per scontati, o che se non altro si consideravano cruciali per la teoria classica del cinema, come la specificità del medium, l’indessicalità fotografica e il loro significato quando parliamo di realismo. Siamo anche stati costretti a riesaminare l’importanza di categorie filmiche fondamentali come il movimento, l’animazione e la vita. Secondo me, tutto ciò – più che una minaccia – è un positivo, stimolante incitamento a riaprire capitoli apparentemente chiusi della teoria del cinema. Sono infatti convinta che il cinema digitale, specialmente nelle sue manifestazioni indipendenti, cambierà il volto della storia della cinematografia. Per quanto riguarda la situazione attuale del cinema, potremmo trovare degli spunti nei tentativi di Kracauer e Benjamin di comprendere la storia del presente, o il presente in quanto storia, e di immaginare futuri differenti, le cui possibilità potrebbero essere sepolte nel passato. Per lo meno, essi potrebbero salvarci da una nostalgia cinefila, inducendoci a rivolgere l’attenzione al modo in cui i film e l’esperienza cinematografica hanno una relazione con la riconfigurazione in atto dell’esperienza (nel senso pieno di Erfahrung) nella vita quotidiana, nei rapporti sociali e lavorativi, nell’economia e nella politica. Per lo stesso motivo, si potrebbe dire che i testi di Adorno, apparentemente assai paranoici, che trattano empiricamente della convergenza dei diversi settori dell’industria culturale (specialmente la radio e la televisione), siano stati riabilitati dagli sviluppi successivi, ancor prima dell’affermarsi dei network mediatici globalizzati e della cultura del marketing e dell’informazione, amplificata dalle tecnologie digitali.18 In tal senso, essi offrono un serio antidoto a ogni facile ottimismo riguardo alla tecno-
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logia dei media in quanto tale – a prescindere dai suoi usi politici, economici e culturali –, un antidoto che spesso ha avuto Benjamin come precursore. Non credo che questi autori, alle soglie dell’attuale cultura dell’immagine in movimento, abbiano lasciato in eredità alla teoria del cinema e del film un contributo a nuove ontologie. Essi erano interessati, più che a quel che il cinema è, a quel che il cinema fa, cioè alla particolare esperienza percettivo-sensoriale e mimetica che rende possibile. E qualunque cosa stesse facendo, il cinema era troppo contingente rispetto alle strutture istituzionali, sociali e politiche, perché si potessero isolare i suoi tratti ontologici, sebbene Kracauer spesso si sia mosso in questa direzione. Essi consideravano il cinema come una parte di una fenomenologia della modernità in evoluzione, ed erano interessati specialmente alle modalità del nesso tra l’esperienza del cinema e l’esperienza esistenziale degli spettatori. Perciò, quando attribuisce la popolarità dei film di Mickey Mouse al «semplice fatto che il pubblico riconosce in essi la propria vita», Benjamin mette da parte ogni rappresentazione diretta, riflessivistica, del lavoro e delle condizioni esistenziali e lavorative tecnicizzate, per dare invece rilievo all’espressione filmica dell’esperienza collettiva di quelle condizioni in termini di ritmi corporei, sensoriali, di ilarità e fantasie di rottura e trasformazione.19 Qui c’è in ballo anche la possibilità del gioco estetico (o «spazio di gioco») – un’idea condivisa da Kracauer, 20
ma non da Adorno –, con il quale il cinema non solo educa lo spettatore a un adattamento mimetico, non distruttivo, della tecnica, ma gli offre anche l’opportunità di disinnescare gli effetti patologici di un non riuscito adattamento tecnologico. Dunque, non si tratta di un’ontologia del cinema, ma della comprensione del posto che esso occupa entro la fenomenologia materialistica del presente, e di una (ancora) sorprendente valutazione del suo possibile ruolo nell’attuazione di un non-ancora-comprensibile futuro. Scrivere questo libro mi ha richiesto anche troppo tempo. A volte mi sono chiesta se stessi lavorando su una tela di Penelope o su un palinsesto. Taluni capitoli cominciano con articoli apparsi in riviste o in altre pubblicazioni. Se si eccettuano i capitoli 4 e 6, tali articoli sono stati modificati sostanzialmente; tuttavia, lo stesso è accaduto anche ad alcuni brani presenti in capitoli scritti ex novo. In parecchi casi, le mie opinioni sono cambiate nel corso degli anni: si tratta di cambiamenti che non sono estranei alle trasformazioni subite dal cinema, considerato come prassi e come istituzione, né all’evoluzione degli studi su cinema e media. L’indagine proposta da questo libro non è né completa né del tutto rappresentativa. Nelle opere di ognuno dei tre autori presi in esame, il cinema richiede un’attenzione diversa per ampiezza e intensità. Va detto che, tra loro, l’unico assiduo frequentatore di sale cinematografiche fu Kracauer, che tra l’altro aveva una notevole conoscenza dell’evoluzione della storia del cinema. Benché il cinema abbia avuto una posizione centrale nei tentativi di Benjamin di teorizzare le intersezioni della modernità, probabilmente egli vide i film sovietici, quelli
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di Chaplin e Disney e poco più (secondo Gershom Scholem, i film con Adolphe Menjou, sui quali – a quanto ne so – non scrisse alcunché). Invece il rapporto di Adorno con il cinema, come disse causticamente Kluge, potrebbe essere riassunto con la frase: «Mi piace andare al cinema; l’unica cosa che mi infastidisce è l’immagine che appare sullo schermo».20 Eppure sappiamo che, specialmente durante il suo esilio a Santa Monica, egli vide molti film oltre a quelli dei fratelli Marx (i suoi preferiti), menzionati nel capitolo sull’industria culturale, e che fu coinvolto in parecchi progetti cinematografici. Dal punto di vista metodologico, questa disomogeneità mi ha suggerito di estrapolare dai testi dei tre autori delle osservazioni che di per sé non riguardano principalmente o esplicitamente il cinema, come quando ho cercato di chiarire concetti chiave che si trovano nelle loro opere. Uno dei miei scopi iniziali era quello di conferirgli una voce propria tramite conversazioni che effettivamente ebbero luogo, con quelle che sarebbero potute avvenire, e – nel caso di Adorno e Kracauer – che erano diventate dei rituali in cui nessuno dei due interlocutori dava retta a quel che diceva l’altro. Mi auguro che le mie conversazioni con questi autori possano invogliare i lettori a dialogare con loro. Chicago, novembre 2010 21
Ringraziamenti
Molte istituzioni hanno generosamente sostenuto le ricerche per questo libro. Ho ricevuto una borsa di studio dell’Alexander von Humboldt Foundation e della John Simon Guggenheim Foundation, nonché una borsa residenziale dell’American Academy in Berlin e del Wissenschaftskolleg zu Berlin. Queste ultime mi hanno aperto le porte di ambienti in cui si tenevano discussioni stimolanti e mi hanno permesso di usufruire di eccellenti servizi bibliotecari (assai importanti per chiunque abbia tentato di orientarsi tra i fondi della ramificata struttura bibliotecaria berlinese). Mi è servito anche presentare le prime stesure di parti di questo libro in varie conferenze, tra cui quelle all’Humanities Center della Johns Hopkins University, all’Indiana University, a Princeton, al Whitney Humanities Center di Yale, e quella del memorabile simposio per il centenario di Benjamin alla Wayne State University di Detroit. L’Archivio di letteratura tedesca di Marbach am Neckar mi ha messo a disposizione le carte di Kracauer e mi ha offerto un inestimabile aiuto nel decifrare i testi scritti in gotico. La Division of Humanities della Chicago University ha integrato le borse di studio esterne e mi ha assegnato un fondo per le ricerche; inoltre, in vari modi mi ha dato un sostegno non solo materiale per la pubblicazione di questo libro. Da quando insegno a Chicago (cioè dal 1990), ho avuto la fortuna di trovare formidabili interlocutori, tra colleghi e amici, nel * di Inglese, in quello di Cinema and Media Studies e in quelli di altre discipline. Per i loro preziosi commenti, le richieste di chiarimenti, le conversazioni e i loro utili consigli, sono grata a Lauren Berlant, Dipesh Chakrabarty, James Chandler, Bradin Cormack, Tom Gunning, Elizabeth Helsinger, Berthold Hoeckner, James Lastra, David Levin, W.J.T. Mitchell, Richard Neer, Robert Pippin, Eric Santner e Yuri Tsivian. Ringrazio i meravigliosi studenti, laureati e non, ai quali ho tenuto lezione in tutti questi anni: sia nei seminari sia nell’attività di tutor, ho sempre avuto modo di imparare da loro. In particolare, desidero segnalare il Graduate Workshop on Mass Culture (durante il quale ho presentato parte di questo libro), che – insieme con il New Media Workshop – ha rappresentato un’intensa, impegnativa ma
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congeniale tribuna per discussioni intorno al cinema e ai media fra dottorandi, docenti e uditori. Oltre che con quelli di Chicago, sono in debito con numerosi colleghi e amici che hanno avuto un ruolo nella genesi e nella stesura di questo libro. Ho un debito di lunga data con gli amici i cui nomi sono già apparsi nella prefazione: Alexander Kluge, Getrud Koch, Heide Schlüpmann e Karsten Witte, la cui memoria confido di onorare con quest’opera. Devo ringraziare anche Albrecht Wellmer, mio mentore all’Humboldt-Stiftung al tempo in cui presi a lavorare a questo progetto, il quale – tra l’altro – mi esortò ad affrontare la questione della rilevanza di Adorno per la teoria del cinema dalla prospettiva della sua estetica musicale. Andreas Huyssen ha condiviso con me il suo interesse per le teorie della cultura di massa e della modernità, le sue intuizioni riguardo all’arte contemporanea e la sua competenza nell’ambito della letteratura tedesca e della cultura visiva. Sono grata a lui e a Martin Jay per gli intensi e preziosi readings fatti per la University of California Press. Per i commenti all’intero manoscritto o a sue parti, in diverse fasi del lavoro, per i vari incoraggiamenti e il sostegno, desidero ringraziare Paula Amad, Ingrid Belke, Harold Bloom, Horst Bredekamp, Susan Buck-Morss, Victoria de Grazia, Frances Ferguson, Heiner Gœbbels, Lydia Gœhr, Michael Jennings, Rob Kaufman, Roberta Malagoli, Reinhart Meyer-Kalkus, Klaus Micha24
el, Laura Mulvey, Alexander Nagel, Gary Smith e Lesley Stern. È stato un piacere lavorare con Mary Francis della University of California Press; la sua pazienza, la sua tenacia, sono state essenziali per portare a compimento il libro. Eric Schmidt si è occupato con grande perizia del lavoro redazionale e del processo produttivo del libro. Christina Petersen e James Hodge, miei assistenti a Chicago, hanno fatto del loro meglio per sistemare e controllare le numerose note e hanno avuto una parte di rilievo nella preparazione del manoscritto. Un ringraziamento particolare a Bill Brown (il cui lavoro sul “gioco” e le “cose” mi è stato di ispirazione per molti anni), che è intervenuto con brillanti ed eleganti suggerimenti in varie fasi della stesura; a Edward Dimendberg, che ha creduto nel mio libro ancor prima che lo scrivessi, ne ha letto attentamente ogni capitolo e ha discusso con me l’impostazione della prefazione; e a Daniel Morgan, che mi ha indotta a pensare più rigorosamente, e insieme con maggiore disinvoltura, ad argomenti specifici e all’opera nel suo complesso. Lo stimolo più forte a chiarire e ad alzare la posta di quel che stavo facendo mi è venuto da Michael Geyer, carissimo amico e marito, che non potrò mai ringraziare abbastanza. Egli ha gettato sul progetto il lungimirante sguardo dello storico e messo in discussione presupposti che io davo per scontati. E mi ha tenuto in vita, in tutti i sensi, in tempi difficili.
Fonti
Le traduzioni dal tedesco, a meno che non venga citata una fonte di lingua inglese, sono dell’autrice. Un riferimento supplementare alle fonti originali indica che la traduzione in questione è stata modificata. Laddove possibile, si forniscono anche le fonti italiane. sigfried kracauer bn
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