Le “diverse” anime di Kelley: l’artista, il curatore, il critico, finanche lo storico. In una parola, l’intellettuale.
Marco Enrico Giacomelli
Di tutto un pop Un percorso fra arte e scrittura nell’opera di Mike Kelley
Marco Enrico Giacomelli (1976), giornalista e dottore Marco Enrico Giacomelli Di tutto un pop
di ricerca in Estetica, ha studiato Filosofia alle università di Torino, Paris viii e Bologna. È cofondatore dell’e-journal ReF-Recensioni Filosofiche e direttore responsabile di Artribune. Ha collaborato all’Abécédaire de Michel Foucault (2004) e all’Abécédaire de Jacques Derrida (2007). Tra le sue pubblicazioni: Another Italian Anomaly? On Embedded Critics (2005), La Nouvelle École Romaine (2006), Ascendenze e discendenze foucaultiane in Italia: dall’operaismo italiano al futuro nel volume collettivo Foucault-Marx. Paralleli e paradossi (2010) e Un filosofo tra patafisica e surrealismo. René Daumal dal Grand Jeu all’induismo (2011).
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isbn 978-88-6010-083-2
€ 9,00
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Nella stessa collana 1. Marco Belpoliti Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio 2. Clément Chéroux L’immagine come punto interrogativo o il valore estatico del documento surrealista 3. Luca Scarlini Andy Warhol superstar. Schermi e specchi di un artista-opera 4. Marco Meneguzzo Arte Programmata cinquant’anni dopo 5. Federico Ferrari L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine 6. Roberto Dulio Un ritratto mondano. Fotografie di Ghitta Carell 7. Massimo Minini Kiefer e Feldmann. Eroi e antieroi nell’arte tedesca contemporanea 8. Marco Belpoliti Il segreto di Goya 9. Silvia Mazzucchelli Oltre lo specchio. Claude Cahun e la pulsione fotografica 10. Ando Gilardi La stupidità fotografica 11. Michele Dantini Macchina e stella. Tre studi su arte, storia dell’arte e clandestinità: Duchamp, Johns, Boetti
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© 2014 Johan & Levi Editore Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di gennaio 2014 isbn 978-88-6010-083-2 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.
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Marco Enrico Giacomelli
Di tutto un pop Un percorso fra arte e scrittura nell’opera di Mike Kelley
Sommario
Archiscrittura — 11 Sinestesie — 15 Di tutto un pop — 19 Tecnologia viscida — 24 Attenti a quei due — 28 My sweety teddy bear — 36 Sublim-azione — 42 Freud sulla West Coast — 46 Educare all’abuso — 54 MyKelley — 65 Nota — 69
A Bianca Alice e Marta Andrea
I don’t think you can be an experimental artist your whole life. Mike Kelley
Archiscrittura
Los Angeles non è più la stessa dalla morte di Mike Kelley, avvenuta il 31 gennaio 2012. Del suo suicidio la maggior parte dei quotidiani italiani ha dato notizia in maniera sommaria, talora con un ritardo inspiegabile. Non era annoverato fra gli artisti contemporanei più noti globalmente, non era Jeff Koons o Marina AbramoviĆ. Ma nemmeno era un artista-per-artisti né un artista noto principalmente agli addetti ai lavori, e il fatto che da anni lavorasse per una top gallery come Gagosian ne è una testimonianza eloquente. Ciò che probabilmente ne ha limitato una conoscenza più diffusa – pur nella coerenza del percorso intrapreso – è stata la sua estrema versatilità. Perché l’opera di Kelley ha attraversato fasi e tecniche le più diverse, e così la sua identità plurale è sfuggente a confronto dell’estrema riconoscibilità di chi ha fatto di uno stile, di una firma, il proprio biglietto da visita e la propria “spendibilità” sul mercato dell’arte. Inoltre, la bulimia di Kelley lo ha condotto a esplorare ambiti tangenti le arti visive, dalla musica al cinema, e le espressioni culturali più diverse,
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dall’ufologia alla psicoanalisi. Ogni volta il suo interesse e la sua opera hanno svolto la funzione di collettore. Ovvero: Kelley riusciva a far precipitare e sedimentare intorno a sé le energie intellettuali ed espressive che circolavano in un dato ambito, convogliando in uno scritto, in una performance, in un video la summa delle riflessioni intorno a quella data questione. Non in maniera riepilogativa, ma fornendo punti di vista inediti e arricchenti la questione stessa e il dibattito. Proprio per questa ragione qui non parleremo – né potremmo parlare – di tutto Kelley; tralasceremo il suo rapporto con l’architettura e l’interpretazione degli spettacoli di monster trucks, i dubbi sollevati su pensatori come Deleuze e Lacan e l’interesse per le teorie cospirazioniste, giusto per citare qualche esempio. Abbiamo scelto alcuni concetti e lavori che sono nodali nella sua parabola artistico-intellettuale, basandoci però su quel “supermedium” – la definizione è di John C. Welchman – che nella sua opera è la scrittura. Scrittura che è inizialmente parte integrante dell’opera artistica, poi interpretazione di essa, finché i ruoli paiono ribaltarsi e l’opera sembra diventare “illustrazione” di tesi e riflessioni scritte. Al centro di questo libro v’è dunque l’“archi-scrittura”, per dirla con Derrida, che costituisce le fondamenta dell’opera di Kelley, e qui con “opera” intendiamo la produzione visiva così come quella scritta. Per questa ragione attraverseremo alcune tappe basilari del suo corpus artistico utilizzando come chiave prevalente di lettura i suoi scritti, che sono peraltro la parte meno nota della sua produzione, ma che ne costituiscono una componente integrante e strutturale.
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Non è d’altronde un caso che l’ultimo, incompiuto progetto di Kelley andasse esplicitamente in direzione di un’“opera d’arte totale”. La scrittura, nell’opera di Kelley la si incontra nei primi lavori in forma d’image-text, negli script delle performance, che evocano Lautréamont e Raymond Roussel, nei titoli delle opere, mai meri paratesti né algidi Untitled. La si ritrova negli statements e nei saggi più o meno occasionali. E poi c’è la scrittura curatoriale, ed “esercizi stilistici” come quello per la serie “Timeless/Authorless” del 1995. Anche solo contando gli scritti raccolti da Welchman, in tre volumi (Foul Perfection, Minor Histories e Interviews, Conversations, and Chit-Chat) si arriva al migliaio di pagine. Kelley ha dunque sollecitato in maniera particolarmente tenace lo stereotipo che tratteggia l’artista nella veste dell’idiota dal dono innato e il critico in quella del decodificatore. Una relazione simbiotica che, anche in questa istantanea macchiettistica, contiene alcuni elementi di verità, secondo quanto lo stesso Kelley dichiara introducendo una raccolta di scritti di John Miller. Innanzitutto la divisione del lavoro fra chi produce e chi commenta, divisione che avvantaggia chi detiene lo strumento linguistico, con il corollario dell’infantilizzazione dell’artista. Il fatto che esista una consolidata tradizione di scritti d’artista non ha limitato lo scetticismo della critica più “organica”, che anzi insiste con l’obiezione epistemologicamente discutibile della mancanza di distanza fra soggetto e oggetto del discorso. Nella migliore delle ipotesi, dunque, lo scritto d’artista è considerato uno strumento utile per verificare tecniche,
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fonti d’ispirazione, poetiche. Nella peggiore, entra in azione una forma di censura. Tuttavia, Kelley non s’è mai scoraggiato e ha usato ogni declinazione della scrittura – anche visiva – per difendere e diffondere altre storie dell’arte e della cultura. Qui ne leggeremo alcune.
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Sinestesie
Tra le “forme” di scrittura adottate da Kelley, un ruolo solo a prima vista marginale lo riveste l’intervista. Si tratta in genere di commissioni da parte di riviste che lo hanno scelto per il legame più o meno stretto con l’intervistato. Questi ultimi sono artisti, cineasti, musicisti; appartengono al mondo della sperimentazione, non sono personaggi mainstream ma nemmeno fanno parte della scena underground più carbonara. Un ruolo particolarmente stimolante è rivestito dalle conversazioni del 1991 e del 2004 con Kim Gordon, leader dei Sonic Youth insieme a Thurston Moore; non solo e non tanto per i contenuti specifici della conversazione stessa, bensì per il tema di fondo che le attraversa, ovvero il rapporto fra arte e musica. Per Kelley, infatti, quest’ultimo ambito è sempre stato fondamentale, sin dalle sue prime performance, come Perspectaphone (con Don Krieger) del 1978, in cui l’eco dell’Intonarumori di Luigi Russolo è fragoroso. Si tratta qui di un epifenomeno che connette i fils rouges di cui si parlava in precedenza: l’importanza della scrittura nell’opera di Kelley, l’amplissimo spettro d’interessi
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di cui si nutriva e, soprattutto, il suo ruolo di catalizzatore. Gli anni settanta e ottanta vedono infatti svilupparsi il fenomeno delle art band e gli artisti di formazione che si dedicano alla musica sono sempre più numerosi: Glenn Branca, Richard Prince, Robert Longo, per fare qualche nome, con l’indiscusso nume tutelare rappresentato da Dan Graham. Mike Kelley agisce in prima persona in questa scena, innanzitutto con i Destroy All Monsters, il cui nome deriva dal film omonimo di Toshiro Honda. La band si formò ad Ann Arbor nell’inverno del 1973-1974: Kelley vi frequentava la Scuola d’Arte dell’Università del Michigan e gli altri componenti erano Jim Shaw, Niagara e Cary Loren. In Post-punk 1978-1984, Simon Reynolds li descrive come «un gruppo noise post-psichedelico e sperimentale», mentre Kelley preferiva definirli piuttosto «una scultura», connettendo così direttamente quell’attività con la sua produzione artistica. Nell’estate del 1976 Kelley e Shaw partirono per Los Angeles e, dopo vari rimescolamenti nella formazione, nel 1985 il gruppo si sciolse; salvo poi riprendere a suonare in occasioni ancora una volta “contaminate”: componendo per esempio il brano Mom and Dad’s Pussy, che apre il cult movie Gummo (1997) di Harmony Korine; o diventando parte della personale di Kelley al Boijmans Van Beuningen di Rotterdam nel 1998 con la sezione Destroy All Monsters Archive. Questa attitudine alla collaborazione e all’intersecazione dei piani torna spesso nella “carriera musicale” di Kelley, che lo vede impegnato nei Poetics (The Poetics Project fu presentato a Documenta x nel 1997, rassegna alla quale
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Kelley era già stato invitato nel 1992) e negli Extended Organ (con Paul McCarthy, Fredrik Nilsen, Joe Potts e Tom Recchion), nei Gobbler (con Paul McCarthy e Cameron Jamie) e nei Supersession (in coppia con Ann Magnuson), e finanche come batterista nei Dolphin Explosion, composti da Colette Weber Shaw (sei anni all’epoca, figlia di Jim Shaw) e Ariel Mira West (sette anni). Tutti questi gruppi hanno al loro interno una componente artistica fondamentale e si nutrono di quell’humus relativo al fenomeno delle art band a cui facevamo cenno. La formazione basilare all’interno di quella scena sono proprio i Sonic Youth, fondati nel 1981. E se Kim Gordon e Lee Ranaldo provengono entrambi da studi artistici, è lei la figura più multidisciplinare. Ne è prova un articolo come “American Prayers”, pubblicato su Artforum nell’aprile del 1985, in cui analizza l’opera di Raymond Pettibon, Mike Kelley e Tony Oursler, e dove lucidamente scrive: «A posteriori, molta Pop Art sembra aver rafforzato lo status quo, cessando di esaminare l’America che stava sotto le icone che adottava. […] Fu la musica degli anni sessanta ad alludere veramente a cosa si celava sotto il sogno americano». Una critica, questa alla Pop Art, che attraversa più o meno sottotraccia l’opera di gran parte di questi artisti-musicisti. Ed è una questione sulla quale torneremo. Nel 1982 esce il primo ep dei Sonic Youth e la copertina è ispirata palesemente al Double Self-Portrait (1979) di Jeff Wall. Da allora la collaborazione con gli artisti per copertine, booklet e video sarà una costante, e per i Sonic Youth sfileranno Dan Graham, Richard Kern, Tony Oursler,
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Raymond Pettibon, Richard Prince, Gerhard Richter, Christopher Wool e naturalmente Mike Kelley, che viene chiamato per Dirty (1992), album importantissimo nella storia della band e, d’altra parte, occasione per lui di grande visibilità al di fuori dei circuiti più ristretti dell’arte contemporanea. Torna dunque il ruolo di Kelley in quanto elemento chimico che fa precipitare la soluzione, in questo fungendo da facilitatore dello scambio reciproco fra gli ambiti della musica e dell’arte. Thurston Moore ricorda che il titolo Dirty fu ispirato dal lavoro dell’artista. La copertina del disco è infatti una fotografia tratta dalla serie “Ahh… Youth!” (1991): sette scatti che ritraggono bambole e peluche, mentre l’ottavo è un ritratto dell’artista da adolescente. Inoltre, nella tray card del cd era riprodotta Nostalgic Depiction of the Innocence of Childhood (1990), «una foto di Bob Flanagan e di un’amica colti in un evidente stato di eccitazione legato ai ricordi infantili» racconta ancora Moore. La collaborazione con i Sonic Youth non è estemporanea. Nel 1986, infatti, erano stati parte attiva della performance Plato’s Cave, Rothko’s Chapel, Lincoln’s Profile. Un lavoro-chiave nella produzione di Kelley, poiché definisce uno dei suoi temi portanti: la discrasia fra gli archetipi ideali e la realtà in tutto il suo condizionamento, con particolare riferimento alle disfunzioni sessuali e allo scatologico. Su questo lavoro torneremo, ma prima occorre sostare ancora nel campo del pop.
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Di tutto un pop
Mike Kelley e i Sonic Youth sono accomunati nel loro operare dal de-skilling, la “de-qualificazione”, ovvero quell’atteggiamento d’avanguardia che – con l’intento di fare tabula rasa in un certo modo degli stilemi dominanti – opta per il ritorno tendenziale al “grado zero” della competenza, della professionalità, del mestiere. Un approccio che potremmo definire punk, ma che siamo certi si situi al capo opposto rispetto al pop, al popolare? La questione è nota e spinosa: il legame fra avanguardia e pop (Clement Greenberg avrebbe detto fra avanguardia e kitsch) è costellato di trappole e letture spesso semplicistiche, ma ciò che è indubitabile è la funzione socio-politica della distinzione fra Cultura e cultura, fra cultura aristocratica e cultura popolare. Distinzione che prescinde dalla struttura formale dell’opera. Opporsi a essa significa allora prendere le distanze da entrambi i modelli, dall’ozio decadente così come dal realismo pseudo-socialista. Ed è ciò che tenta (l’opera di) Kelley: se strizza l’occhio alla cultura popolare, lo fa in maniera “patetica”, antieroica. Il suo modus operandi non è demistificatorio, poiché uno scontro frontale con uno
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o entrambi i modelli non farebbe altro che legittimarli ulteriormente. Da tale impostazione della scena del conflitto ci si smarca lavorando anche sul linguaggio, sostituendo i termini “alto” e “basso”, come dichiara lo stesso Kelley nel 1992, con “permesso” e “represso”. Il suo approccio è dunque antitetico, improntato a uno scetticismo rigorosamente caotico. Così capita che Kelley porti all’estrema conseguenza un sillogismo per dimostrare l’assurdità delle premesse che parevano tanto “naturali”, non offrendo allo spettatore-visitatore alcuna consolazione o soluzione, nessuna Aufhebung o superamento della contraddizione. Al contrario, Kelley rende patente il conflitto de-sublimandolo, poi lo alimenta, infine lo dissemina. Non è forse ciò che ha fatto la Pop Art? Scrive Bettina Funcke in Pop or Populus: «Warhol ha dimostrato che si possono utilizzare non solo i meccanismi della cultura pop, ma anche incorporarne le forme fondamentali». Ecco, uno dei problemi della Pop Art, di certa Pop Art almeno, è proprio quel singolare: perché la cultura pop non esiste. O meglio, occorre distinguere fra cultura di massa e culture popolari, benché le seconde nutrano fatalmente la prima. Non v’è dunque nulla da salvare nella Pop Art? Va condannata senza appello, come consiglia Baudrillard nella Società dei consumi, in quanto rea di sottrarre all’oggetto il suo significato simbolico, integrando in tal modo l’opera d’arte nell’economia politica del segno-merce? Si pensi alla serie warholiana “Death in America”. Nel Ritorno del reale, Hal Foster sostiene che quelle immagini non vadano lette né in senso referenziale né simulacrale, ma in termini di “realismo traumatico”: «Con Warhol la ripetizione non è riprodu-
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zione nel senso di rappresentazione (di un referente) o simulazione (di un’immagine pura, di un significante separato). Piuttosto, la ripetizione serve a schermare un reale inteso come traumatico. Ma proprio questa necessità indica il reale, e a questo punto il reale rompe lo schermo della ripetizione». È proprio questa peculiarità a esser sottolineata da Kelley, il quale evidenzia come questo Warhol, nel momento in cui «fa scontrare l’immagine con il colore e oppone la natura decorativa del dipinto al soggetto», costituisca un’eccezione all’interno della Pop Art. Kelley fa così emergere una storia dell’arte diversa, alternativa: «L’artista prototipo degli anni sessanta è Andy Warhol, e i suoi quadri serigrafati sono l’apoteosi dell’arte americana di quell’epoca. Immersi in un razionalismo accessibile a tutti, sono formalismo travestito da populismo». E tuttavia, «intere aree della produzione di Warhol sono eliminate dalla discussione o ridotte a capricci secondari. Penso in particolare ai suoi film, che – per la natura stessa dei loro temi, degli “attori” e della durata – rivelano perfettamente un pubblico in conflitto con la cultura museale». Ma nel 1968, dopo il colpo di pistola di Valerie Solanas al suo indirizzo, la produzione radicale di Warhol s’interrompe: «Quello sparo fu sia il suo assassinio artistico, sia la sua ascesa alla gloria. Segna la fine del suo legame con la cultura di strada e lo introduce integralmente nel pantheon degli artisti “seri”». Se fosse necessaria una controprova, c’è l’esempio uguale e contrario di Paul Thek, al quale Kelley nel 1992 dedica pagine profonde e storiograficamente interessanti. Nel 1965 Thek firma con Warhol Meat Piece with Warhol Brillo
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Box: la scatola della Brillo diventa una vetrina che contiene una fetta di carne in cera. «Dapprima sembra un accoppiamento improbabile» commenta Kelley «ma poi ci si rende conto che il legame sta in una sorta di perversità simmetrica, nella strana relazione parassitica che entrambi hanno con l’estetica hard-edge del periodo.» E mentre Warhol imbocca la strada del successo, con Death of a Hippie (1967) Thek compie un passo in direzione opposta, celebrando amaramente l’assassinio della controcultura, e cadendo nell’oblio. Almeno finché non ha scontato una sorta di quarantena, finché quella cultura diviene un’icona astorica: «Gli americani possono riconoscersi nella ribellione solo in questo modo» scrive Kelley «quando cioè è trasformata in un simbolo unitario spogliato della sua conflittualità e la cui complessità è neutralizzata». La figura e l’opera di Öyvind Fahlström sono il case study ideale per cogliere la pluralità della Pop Art e al contempo per comprendere come Kelley – che gli dedica un saggio nel 1995 – sia latore di una storia dell’arte militante, ovvero impegnata e che al tempo stesso lo impegna. Perché la sua riflessione è sempre legata a doppio filo con la propria produzione, e da questo punto di vista le sue sono parole performative in senso austiniano. Ovvero, hanno un effetto diretto sulle cose (e viceversa). Inoltre, il saggio di Kelley su Fahlström è rilevante perché espone in maniera palese la sua stessa strategia argomentativa decostruttiva, fatta di continue e improvvise torsioni critiche. Fahlström, scrive dunque Kelley, è stato considerato «un attore minore nel dramma della Pop Art […] perché ha permesso al “politico” di entrare nel suo lavoro, essendo inte-
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ressato a questioni di narrativa, e perché il suo lavoro era, dal punto di vista compositivo, “pieno”». L’esatto opposto della centralità e inflessività dell’immagine nella Pop Art più nota, dove il significato è una superficiale “patina uniforme”. Da un lato stanno quindi Lichtenstein o il Warhol da cartolina, artisti “freddi”, dall’altra uno “caldo” come Fahlström. E tuttavia, ciò non significa che quest’ultimo possa essere cooptato da una lettura agitprop, poiché – sottolinea Kelley con una prima inversione retorica – Fahlström è un artista formalista, al quale interessa che il suo lavoro funzioni otticamente. Ma – seconda inversione – egli riconosce altresì che l’osservatore tenta sempre di conferire un senso alle immagini: tale consapevolezza conduce l’artista a giocare con tale impulso e a sovvertirlo, seppure in maniera “costruttiva”. E – terza inversione – non lo fa alla maniera dell’arte concettuale, poiché utilizza un immaginario popolare, non curandosi dell’unità stilistica del proprio lavoro: «La pratica di Fahlström [è] una sorta di decostruzione che dispiega i segni popolari che ci circondano ogni giorno, piuttosto che un esercizio d’innalzamento del materiale culturale “basso” al regno nobile dell’arte bella». Per chiunque conosca anche solo superficialmente l’opera di Kelley è evidente che questo discorso resta valido anche per l’artista di Detroit. E ciò testimonia d’altro canto come il carattere militante degli scritti storiografici di Kelley si innesti in un altro “genere” di scritti d’artista, lo statement, dando vita a un risultato spurio e proprio per questo particolarmente fecondo. In altre parole: spesso e volentieri, quando Kelley parla di un altro artista, sta parlando di se stesso.
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