giovanna dal bon
doppio ritratto
Zoran Music e Ida Cadorin agli Alberoni, anni quaranta.
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i incontrano nell’antro fondo di una galleria d’arte nel
cuore di Trieste. Istintiva, la corsa verso il lungo tavolone rettangolare e oplà, il salto. Ida ha ancora i capelli umidi dal pomeriggio trascorso ai bagni. Li avvolge in un asciugamano a formare una specie di turbante. Indossa sandali a infradito:
È stato più forte di me, non ho pensato a niente, ho preso la rincorsa dalla soglia e ho saltato.
Zoran è in piedi nella sua mole di uomo altissimo, pietrificato da tanta vivace irruenza. È primavera inoltrata del 1944. L’amica Anita Pittoni, una pioniera in ambito editoriale (da qualche anno una scultura le rende omaggio in una piazza triestina), la trascina per un vicoletto, alla mostra di quel pittore sconosciuto – «assai un bel toso» le assicura – nato da una famiglia di vignaioli ai margini dell’Impero Austro-Ungarico, in una cittadina il cui nome allude a una piccola collina. La mostra non la convince:
[...] sembrava la pittura di De Pisis, che già non mi piaceva. Si trattava infatti di una mostra molto banale, da cui Zoran aveva escluso le “pietre preziose” come per esempio le sue donne con gli asinelli…
Anche fisicamente non è per nulla impressionata da quell’uomo giovane, schivo, dagli occhi buoni. Ida al mare, anni quaranta. Zoran Music, Riva degli Schiavoni, olio su carta, 1944.
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Lui ha più di trent’anni, è già stato a Venezia l’anno precedente, in piena occupazione nazista della Venezia Giulia, esponendo dei Paesaggi alla Piccola Galleria di Roberto Nonveiller. Conosce il pittore Guido Cadorin, padre di Ida (celeberrimi i pannelli nella Stanza dei sonni puri al Vittoriale e gli affreschi all’hotel Ambasciatori di Roma), che lo affascina da subito. Molti anni dopo dirà di lui:
Cadorin senza volerlo mi ha insegnato enormemente. Quest’uomo tutto di un pezzo, di un animo limpido senza macchia, sincero e puro, pittore di grande valore ha sofferto per le ingiustizie inflittegli dalla critica che dopo la guerra lo spingeva in disparte.1
Zoran trascorre l’infanzia nel paese di Bukovica (oggi Slovenia), al di là del Carso, con il fratello Ljuban, il padre direttore di una scuola e la madre insegnante: «Aveva uno sguardo fulminante, che paralizzava» dirà di lei. In quegli anni prendeva spesso il treno per andare a Trieste a visitare degli zii:
Fra le rocce, sassi, doline e cespugli, che diventavano rossi e ocra
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Nel 1924 Guido riceve da D’Annunzio l’incarico di dipingere la Stanza dei sonni puri e si trasferisce con Livia e i bambini nella dépendance di San Damiano al Vittoriale. Pagina a fianco La madre di Zoran da giovane, 1911. Zoran a casa di Filippo de Pisis, 1943 e a Venezia con il suo gallerista Roberto Nonveiller, 1943. In questa pagina La famiglia Cadorin al Vittoriale, negli anni venti.
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Quando viveva nell’isola di Curzola, Zoran assisteva quotidianamente alle “migrazioni” di donne di nero vestite sul dorso di asinelli che andavano e tornavano dal mercato, all’alba e al tramonto.
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Il paradiso perduto? Per me è un paesaggio spoglio, senza alberi e persone. Z.M. Pagina a fianco Zoran Music, Mercato dalmata, tempera su cartone, 1935. In questa pagina Zoran Music, Mercato dalmata, gouache su carta, 1935. Il Carso in una foto di Zoran Music.
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nel tardo autunno, questo viaggio ogni volta era un’indimenticabile festa per me.
Seguono gli anni da profughi in Stiria e poi in Carinzia durante la Prima guerra mondiale:
Profughi in un piccolo paese della Stiria. Mio padre al fronte, mia madre sola con Ljuban e me. Abitavamo in una casupola con il tetto di paglia. La scuola era lontana e guai se arrivavo in ritardo…
Dal 1930 al ‘35 frequenta l’Accademia di Belle Arti a Zagabria nel magistero del più celebre pittore croato, Babic, a sua volta allievo dell’austriaco Von Stuck e invitato più volte alle Biennali di Venezia. Babic lascia a Zoran libera espressione e lo introduce alla pittura di Grosz, Otto Dix e soprattutto Goya. Determinante è il soggiorno in Spagna, fino allo scoppio della Guerra civile, e le visite quotidiane al Prado, dove dipinge copie da Goya. Scrive per la rivista slovena Umetnost un reportage di quel viaggio:
[…] danza macabra, riso sardonico di volti deformati e bocche senza denti. Si direbbe che Goya credesse nelle streghe… Mi sembra di vederlo come si batteva con un sorriso diabolico con queste masse nere e uniformi di gobbi, mendicanti e furie.
Sulle tracce di El Greco trascorre alcune settimane a Toledo. Il paesaggio spoglio e scarno della Castiglia gli appartiene, simile al suo Carso. Filippo De Pisis, più anziano di lui, che è il primo a dedicargli una breve monografia, scrive di Zoran:
È un pittore, un pittore vivo, cosa che, come si sa, non è comune. Una certa finezza orientale, che gli viene forse da misteriose e lontane influenze di razza, si sposa, in lui, a una foga un poco barbara e alla divina gioia di creare.
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Quest’uomo tutto d’un pezzo, di un animo limpido senza macchia, sincero e puro, pittore di grande talento, senza volerlo mi ha insegnato enormemente. Z.M
Pagina a fianco Zoran Music, Copia da Goya, olio su tela, 1935; Zoran Music, 1932. In questa pagina Guido Cadorin e Zoran a Parigi, 1958.
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Il primo quadro che ho fatto, di getto, senza saper disegnare. I.B. Pagina a fianco Guido Cadorin, L’idolo, tempera su cartone, 1911; Ritratto del padre Vincenzo, tempera su cartone, 1910. In questa pagina Ida Cadorin, Autoritratto, olio su faesite, 1938.
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L’Accademia è utile e inutile. Chi sa disegnare naturalmente non ha bisogno di impararlo. E chi ci va per imparare vuol dire che non è nato artista. I.B.
Lei discende dalla genealogia dei Cadorin, originari del Cadore e una delle botteghe di scultura più antiche della Serenissima, come racconta Giuseppe Marchiori:
I Cadorin, dal fiorente albero genealogico, fabbricavano mobili e statue e mettevano al mondo innumerevoli figli.
Ida, ventenne, dipinge da sempre ed è iscritta all’Accademia di Belle Arti. Si trova a Trieste con i genitori e il fratello Paolo, in temporaneo rifugio durante la guerra per aver dato ospitalità a un capo della Resistenza:
Bruciati tutti i documenti, i servizi segreti ci hanno procurato carte false e un indirizzo dove poterci nascondere; la sera comparivano dei divani e la casa si trasformava in albergo.
Circondati da amici straordinari, tra i quali lo scultore Marcello Mascherini: «Un bell’uomo, molto portato a corteggiare le ragazze». Da mangiare non manca, Trieste abbonda di lardo e prosciutti. Pochi giorni dopo quell’incontro in galleria Ida è stupita di imbattersi in Zoran continuamente, quasi avesse il dono dell’ubiquità:
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Pagina a fianco Ida con i compagni dell'Accademia e mentre dipinge, 1940. In questa pagina Ida all’Accademia, anni quaranta.
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Lavori giovanili di Ida Cadorin: Operaie in riposo, olio su tela, 1942, e Negozio di stoffe, olio su tela, 1941.
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Ho tanto disegnato fin da bambina. Mi sono accorta che anche la pittura sgorgava con naturalezza. I.B.
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Lo incontravo sempre per caso, si faceva trovare ovunque io andassi. Quasi non ci facevo caso, la trovavo una cosa molto naturale. Quindi in quel periodo non sviluppavo nessuna impressione sul suo conto. Mi sarei accorta della sua reale presenza solo molto tempo dopo, frequentandolo, conoscendolo meglio.
Allarme finito, è tempo di rientrare; con tutta la famiglia Ida sale sul treno per Venezia. Zoran è su quello stesso treno:
L’ho trovato nel corridoio, mi ha detto con la massima naturalezza “vengo anch’io a Venezia” e molto timidamente si è azzardato a chiedermi il numero di telefono per potermi chiamare qualche volta.
I ritrovi sono gli stessi: Il Cavallino, la galleria fondata da Carlo Cardazzo, il passeggio in piazza San Marco, il Florian. Quel giovane riservato e di poche parole prende coraggio e inizia a telefonarle per proporre passeggiate, pitture en plein air, gite ai murazzi degli Alberoni. Ida si fa spesso accompagnare da Livia, sua madre, ma hanno anche occasione di rimanere soli, a parlare, la loro amicizia si approfondisce:
Un po’ alla volta, abbiamo cominciato a parlare, anche di pittura, e mi sono accorta che aveva un certo gusto e diceva cose interessanti, tra noi c’erano delle affinità. Lui era educatissimo, stile Mitteleuropa, non faceva nessuna smanceria. Mi proteggeva con discrezione, ed era proprio quello di cui avevo bisogno in quel momento, di aggirarmi libera e indisturbata.
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Pagina a fianco Ida e il fratello Paolo in terrazza nella casa di fondamenta Briati; Zoran e il fratello Ljuban in piazza San Marco. In questa pagina Ida e Zoran a Trieste, anni quaranta.
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Zoran Music, Senza titolo, inchiostro su carta, Dachau 1945.
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ta svoltando l’angolo che conduce al suo studio, vicino
al ponte dell’Accademia. È un “foresto”, i tedeschi sospettano di lui: amicizie con i servizi segreti, collaborazione con i dissidenti. Lo arrestano. Lo portano prima all’albergo Luna in calle Vallaresso, quartier generale delle SS, per la perquisizione, poi lo caricano a mani legate su una gondola verso piazzale Roma:
Ho fatto tutto il Canal Grande in gondola ed è stata la prima volta che ho preso una gondola di lusso. Ero incatenato, anche se nessuno lo vedeva. Ero un turista incatenato. 2
Una jeep scortata lo conduce a Trieste, al comando centrale delle SS; sopra gli uffici, sotto i bunker. Lì saranno settimane di interrogatori interminabili, di lunghe sessioni con i piedi nell’acqua. Dopo qualche tempo si rendono conto che quel prigioniero mite è estraneo ai fatti, un pittore assorto nel suo mondo, innocente e pacifico, con nessuna implicazione in operazioni di spionaggio. Ma la beffa del destino è in agguato. Poco prima di procedere al rilascio gli suggeriscono, vista l’alta statura e l’aspetto “ariano”, di arruolarsi nelle Waffen SS. Music risponde imprudentemente con una risata. La collera è immediata. Il prossimo treno per Dachau sarà il suo. Ha inizio il calvario verso la Ancora oggi gli occhi dei moribon-
deportazione:
di mi accompagnano. Z.M. Zoran Music, Senza titolo, inchiostro su carta, Dachau 1945.
Il viaggio è stato duro. Arrivati a Gorizia ho visto una donnina attraversare i binari, ho fatto in modo di chiamarla e le ho dato un
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biglietto da consegnare a mia zia che abitava in via Carducci. Così ho informato i miei.
Ida lo viene a sapere per strada, per caso. Le dicono che il suo amico è stato arrestato perché è un influente capo partigiano. Corre a casa, prepara un fagotto con dentro alcuni generi di conforto, un po’ di cibo e va dritta al carcere di Santa Maria Maggiore dove spera di poter consegnare a Zoran quelle poche cose. Le dicono subito che il “prigioniero” è partito. Da quel momento non sa più nulla di lui, in quella congiuntura così confusa non si sospetta l’atrocità dei campi. Le voci, genericamente, parlano di campi di lavoro: «Li hanno mandati a lavorare». Allora pensa di andare immediatamente alla Pensione Fontana in Campo San Provolo, dove Zoran alloggiava, per cercare di mettere in salvo le sue cose da pittore:
Ho preso una scatola di colori che pesava tantissimo, un po’ di cartoni dove lui dipingeva a tempera e quel poco che c’era l’ho portato a casa. In base a quello che mi avevano riferito su di lui, in quel momento lo vedevo come un eroe.
Il tempo trascorre nell’incertezza di tutto, in quell’anno cruciale. Ida non ha nemmeno tempo di chiedersi che fine abbia fatto il suo amico. Si vive in stato di allarme permanente. I viveri scarseggiano. Bisogna badare alla propria sopravvivenza.
In piedi, pigiati gli uni agli altri, due giorni senza cibo, una tappa a Villach dove riesce a ingurgitare una specie di zuppa. Durante il viaggio intravedono il bombardamento di Salisburgo, roghi ovunque, tutto brucia. Le detonazioni pro-
Ero come accecato dall’allucinante grandiosità di questi campi di cadaveri. Z.M.
vocano spostamenti d’aria e i prigionieri sono sottoposti a continui sobbalzi. Infine Dachau. È ottobre del 1944. A chi gli domanda quale fu la sua prima impressione all’arrivo:
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In queste pagine Zoran Music, Senza titolo, inchiostro su carta, Dachau 1945.
Quanta tragica eleganza in questi tragici corpi. Le ossa coperte di una pelle bianca, quasi celestina. Z.M.
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Cadaveri dappertutto. Non si contavano più. Era un mondo allucinante, una specie di paesaggio con montagne di cadaveri, tra le
Pagina a fianco Zoran Music, Senza titolo, inchiostro su carta, Dachau 1945.
quali si aggiravano coloro che erano incaricati di aprire e recuperare i denti d’oro. […] c’erano anche i morenti, tra i morti. Bisognava scavalcarli o camminarci sopra. Da parte loro ci guardavano con occhi persi… ci seguivano con gli occhi… non avevano più la forza di chiedere aiuto. Era come una foresta, i tronchi tagliati, gettati a destra e a sinistra, di traverso. […] finiva per crearsi una piccola torre. La sera la torre si muoveva ancora un po’. Si sentivano anche degli scricchiolii. Di notte, era la fine di febbraio, cadeva un po’ di neve. E al mattino la torre non si muoveva più.
È un mondo parallelo, l’orrore domina su tutto. Zoran capisce che la prima cosa da fare per sopravvivere è orientarsi in quella topografia di morte, organizzata come un marchingegno stritolante. Ha fortuna, viene mandato a lavorare in fabbrica, al tornio, dove ha anche qualche margine di manovra per un minimo sabotaggio:
Tagliavo dei pezzettini di ferro, ci facevo un buco, e dopo ci mettevo la polvere da sparo, per fare le granate. Non era un lavoro difficile. Su duemila pezzi che dovevo preparare nell’arco di una giornata, una ventina era senza polvere da sparo.
Comincia a disegnare di nascosto, registra in segno scuro tutto quello che vede; sottili corpi isolati, adagiati nel nulla, immersi nello spazio immemoriale di un bianco assoluto; corpi nudi e scabri che oscillano nell’impiccagione. Mucchi di cadaveri accatastati con bocche spalancate come a inghiottire un ultimo respiro. Disegnare è resistere: alla barbarie, all’abbrutimento della coscienza, all’ottenebrarsi dei sensi. Disegnare è restare vigile, esercitare l’attenzione: Un pittore non può fare a meno
Quello che si vedeva intorno era così enorme che nessuno potrà mai descriverlo. Tagliavo i disegni a pezzi, li tenevo sotto la camicia… poi a un certo momento mi sono fatto rinchiudere in infer-
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di disegnare… poi, tutta quella tragedia… quello che si vedeva era così enorme che nessuno lo potrà mai descrivere. Z.M.
I morti erano dappertutto, non li portavano via subito. Dietro alle baracche dove dormivamo c’era una specie di prato dove accatastavano i cadaveri. Z.M.
Quello che piÚ mi ha impressionato il primo giorno che sono arrivato a Dachau è stata la vista di un prigioniero su uno sgabello con una scatoletta in mano mentre un altro si aggirava tra i morti e apriva le bocche per estrarre i denti d’oro. Z.M.
Si viveva in un mondo impossibile da immaginare. Un mondo assurdo, allucinato, irreale. Forse in un altro pianeta. Z.M.
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Era un po’ prima di Natale. La nostra ultima visita a Dachau. Il campo era ovattato dal silenzio della neve. Dopo quegli orrori tutto sembrava riconciliato dalla natura. Zoran aveva un’espressione quasi esaltata dal fatto di essere lì e di essere ancora vivo. I.B.
In questa pagina: Ida e Zoran a Dachau, 1980, fotografia di Ivo Gregorč. Pagina a fianco: La copertina di un libro di disegni di Rembrandt, che Zoran prese in prestito nella biblioteca di Dachau.
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meria dove sapevo che nessuna SS sarebbe entrata, e lì ho potuto disegnare finché non sono guarito.
Nella dimensione di allucinata irrealtà che domina il Campo ci sono dei paradossi al limite del surreale: concerti di delicata musica romantica la sera, piccole feste. Esiste anche una biblioteca dalla quale Zoran preleva un libretto di disegni di Rembrandt. La copertina è rimasta intatta e custodita tra i suoi ricordi.
Negli ultimi mesi di reclusione riesce a nascondere molti dei disegni nella tornitrice, che non si rivelerà un nascondiglio tanto sicuro. All’arrivo degli americani, con lo sgombero dei campi, i macchinari della fabbrica vengono portati allo scoperto e bruciati. Va così in fumo la maggior parte dei trecento disegni composti a Dachau. Riesce a trarne in salvo circa centocinquanta che si perdono, per un colpo di vento, nel tragitto in camion verso Gorizia. In tutto se ne sono salvati una trentina ora custoditi in musei europei e americani.
L’esperienza di Dachau lo segna, irrimediabilmente. Cambia la prospettiva sulle cose. Muta radicalmente il suo fare pittura:
Il campo di concentramento è stata la mia grande scuola di solitudine. Mi ha insegnato a non avere paura, a essere solo anche in mezzo a mille persone. Dopo Dachau in me qualcosa si è rotto. Prima avevo molte certezze: all’improvviso le ho perse. Ho capito che intorno a noi c’è solo il vuoto. […] a Dachau ho colto la realtà e ho capito cosa significa arrivare all’essenziale.
Ci vorranno molti decenni per far affiorare, in segno elegante e sottilissimo, quasi “depurato”, gli orrori del campo. Nel 1971 ha inizio il ciclo Noi non siamo gli ultimi. Testimonianza abissale, uno degli assoluti lasciti testamentari del Novecento. Elaborata nella latenza dell’inconscio in tutti quegli anni, ve-
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drà la luce senza sforzo, con la naturalità di qualcosa che si impone alla coscienza: una necessità. Un paesaggio di cadaveri ammassati l’uno sull’altro, bocche aperte che annaspano oltre una linea d’orizzonte, sottili resti di scheletri che si intersecano. La tonalità equivale in misura a certi paesaggi rocciosi di qualche decennio prima. Nulla di angosciante o trepidamente commosso trapela da queste tele che hanno l’evidenza scabra ed essenziale di un paesaggio carsico.
Dopo la liberazione Zoran e i suoi compagni sono rimasti ancora un periodo a Dachau per la disinfestazione. Accanto a lui Ivo Gregorč, che allora aveva sedici anni e Zoran proteggeva. La loro amicizia è continuata per tutta la vita. In questa pagina: Zoran con compagni di prigionia dopo la liberazione. Pagina a fianco: Zoran Music, Noi non siamo gli ultimi, acrilico su tela, 1970.
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Negli anni settanta, improvvisamente, ho dovuto tornare a Dachau. Ăˆ affiorato il ciclo Noi non siamo gli ultimi. Si diceva che mai piĂš sarebbero potute succedere cose simili. Mai piĂš. Dopo tanti anni ho visto che non eravamo gli ultimi. Z.M.
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