Forma e informazione. Nuove vie per l'astratto nell'arte del terzo millennio

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Stefano Pirovano è storico dell’arte e giornalista specializzato in arte contemporanea, architettura e design. Dal 2006 collabora con Panorama, CasAmica, Velvet, Dove e con i Musei Civici di Como, per i quali si occupa dell’Archivio Ico Parisi. Nel 2007 è stato tra i finalisti del Premio Nazionale darc maxxi. Nel 2005 ha lavorato nella redazione del canale televisivo Rai Sat Art. Forma e informazione è il suo primo libro.

«Pirovano si è imbarcato in un viaggio solitario il cui scopo non è di approntare una serie di regole per scovare l’artista del momento o per apprendere qualche scorciatoia al successo in arte. Il compito che si è imposto è assai più ambizioso e ingrato: quello di tracciare una cartografia dell’arte contemporanea, inquadrandola in un contesto culturale più ampio, cercando cioè di collocare l’opera d’arte in un sistema di valori, di ideologie, narrazioni e modelli interpretativi che arricchisca la nostra comprensione dell’arte, ma soprattutto che riveli a noi stessi la nostra cultura.» Dalla prefazione

stefano pirovano

testo, il percorso del libro non è stato pensato per raggiungere una destinazione stabilita, ma piuttosto per restituire, persino al non addetto ai lavori, la ricchezza di un territorio dai molti luoghi inesplorati.

Interviste a: Carol Bove, Peter Coffin, Tacita Dean, Martino Gamper, Wade Guyton, Goshka Macuga, Beatriz Milhazes, Seth Price, Luca Trevisani, Phoebe Washburn.

forma e informazione

In copertina: studio di Wade Guyton, New York, 2010. Courtesy dell’artista.

forma e informazione nuove vie per l’astratto nell’arte del terzo millennio

— stefano pirovano Nella stessa collana: 1. Maria Perosino (a cura di) Effetto terra 2. Marco Tonelli Pino Pascali. Il libero gioco della scultura

€23,00

Prefazione di Massimiliano Gioni

In un’epoca in cui ci s’interroga di frequente sul perché – e sul reale valore – di certe rappresentazioni visive, il saggio di Stefano Pirovano risponde mettendo a fuoco la natura del legame tra la componente materiale dell’opera e quegli elementi che l’occhio non può cogliere. L’opera d’arte, infatti, si è a tal punto dilatata oltre i propri confini da non essere più riconducibile all’esclusiva dimensione fisica: deve avere un racconto che la accompagni e informazioni che introducano il lettore al mistero della sua immagine. È in questa direzione, secondo l’autore, che stanno insistendo gli artisti più significativi degli ultimi anni. Date tali premesse, Forma e informazione scatta un’istantanea sul panorama attuale e lo fa partendo dal principio di astrazione, inteso come primordiale motore dell’opera d’arte. Per rendere conto della dialettica tra l’oggetto e l’“informazione” che anima le astrazioni contemporanee, l’autore si misura con una serie di artisti dai lavori particolarmente emblematici. È il caso di Carol Bove e Goshka Macuga, che intrecciano relazioni tra oggetti e sapere; di Cory Arcangel, Peter Coffin e Tomas Saraceno, con i loro passaggi nella cultura tecnologica; o ancora di Wade Guyton, Josh Smith, Beatriz Milhazes le cui immagini su tela sono generate da processi informativi. Nel libro si alternano approfondimenti teorici a puntuali descrizioni di opere, intervallate dalle testimonianze degli artisti. Numerose le incursioni in altri campi del sapere: dai più prossimi del design e dell’architettura, ad altri più lontani quali la fisica, le neuroscienze, la filosofia e la letteratura. Sono così chiamati in causa scienziati come Vilayanur Ramachandran o Brian Greene, accanto a scrittori del calibro di Orhan Pamuk, Sergej Nosov, Cormac McCarthy, Bret Easton Ellis e Patrick McGrath, le cui opere, disseminate di riferimenti all’arte contemporanea, offrono efficaci spunti interpretativi. Resta alla fine una precisazione: nella sua continua contrattazione tra creatività, teoria e con-



Stefano Pirovano

Forma e informazione Nuove vie per l’astratto nell’arte del terzo millennio

Prefazione di Massimiliano Gioni



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1. Prologo Tra la sera del 15 e il pomeriggio del 16 settembre 2008, nella sede londinese di Sotheby’s in New Bond Street, Damien Hirst ha messo all’incanto duecentoventitré opere provenienti direttamente dai suoi atelier, senza farle passare dalle mani dei mercanti. Si è trattato della prima asta monografica di un artista vivente. I valori in gioco e i rischi di quella che è stata presentata al pubblico come una grande sfida al mercato globale e al potere delle gallerie hanno fatto sì che l’attenzione dei media fosse tutta concentrata sull’evento. Tabloid, quotidiani, settimanali, televisioni, internet. All’asta dei record il settimanale Time ha addirittura dedicato la copertina: un primo piano di Hirst che indossa un giubbotto di pelle da motociclista e un paio di occhiali con le lenti azzurre come la formaldeide dei suoi squali. Titolo: Artist as a Rock Star. Nonostante i timori della vigilia l’incanto è andato oltre le migliori aspettative. Chiusa la prima sessione si era già raggiunto l’obiettivo minimo, con più di settanta milioni di sterline da incassare da compratori di tutto il mondo. Alla fine della terza, il totale è stato di centoundici milioni, un record ottenuto proprio mentre da New York giungeva la notizia del crac di Lhemann Brothers, il più grande fallimento di sempre. Beautiful Inside My Head Forever – questo il titolo dell’opera-operazione di Hirst & Co. – è stato un episodio isolato e probabilmente irripetibile, che nel frattempo si è addensato di significati che vanno ben oltre il ristretto alveo dell’arte contemporanea. Ma al di là del giudizio che si può avere a proposito, esso è la migliore dimostrazione di un principio piuttosto diffuso. Quello secondo cui gli artisti non possono più prescindere dal lavorare tanto sulla parte solida dell’opera, quanto sul suo software, ovvero su quel complesso di informazioni che, per usare un concetto matematico, ne costituisce “l’intorno”. Quelle opere di Hirst, dalle farfalle ai pallini, non saranno più leggibili senza aver presente il testo del fenomeno nel suo complesso. 11


Damien Hirst, Beautiful Inside My Head Forever, Londra, 15 settembre 2008, immagine scattata dal parterre riservato alla stampa alla fine della prima sessione d’asta.

C’è stato un tempo in cui il compito di creare l’intorno dell’opera spettava soprattutto ai teorici, che producevano idee per indicare la rotta. Ora i teorici sono sempre più rari, ma proliferano giornalisti specializzati e curatori, e le opere migliori tendono ad avere storie a sé, ovvero un apparato di informazioni teso ad affermare l’indipendenza del singolo, invece che la sua appartenenza a un certo sistema di pensiero. Come vedremo, sono molti i fattori a entrare in gioco e non sempre è facile circoscriverli. Tuttavia, almeno uno di essi sembra costante, ovvero che l’opera si debba raccontare per essere comunicata, condivisa o venduta. Per quanto infatti sia relativamente facile muoversi tra le mete dell’arte – fiere, musei e biennali con il loro contorno di inaugurazioni e feste più o meno esclusive – gran parte delle opere finiscono ancora per essere conosciute solo virtualmente, attraverso documenti dedicati. Si deve perciò presupporre un gradiente non neutro che separa emittente e ricettore, un territorio che molti nel tempo hanno pensato di riempire. Anche per questo motivo l’opera non può in alcun modo essere ridotta a pura immagine: deve avere un racconto che la accompagni e informazioni che introducano il lettore al mistero della sua rappresentazione. È in questa fertile terra che crescono molti apparati di idee degli artisti under 35, di cui parleremo anche in relazione a quelli dei loro sempre più giovani maestri.

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Il legame che unisce l’opera materiale all’informazione relativa trova il suo più importante precedente storico nello schema mentale che dagli inizi del xx secolo ha caratterizzato gli sviluppi del principio di astrazione, uno schema essenzialmente fondato su una relazione di carattere consequenziale tra documento scritto e opera, prima che su quella assai più nota tra soggetto e rappresentazione. In effetti, il termine continua a dilatarsi, per questo è necessario verificarlo costantemente. Ora la questione non è più limitata alla rappresentazione o alla non-rappresentazione del reale, ma riguarda anche la manipolazione del legame tra l’opera e il contenuto di idee a essa destinato. L’astrazione – anche da un punto di vista fisiologico – è la forza che garantisce il loro temporaneo equilibrio e la loro costante compenetrazione. In questo senso, uno dei migliori indicatori dell’effettiva espansione della sua metafisica è nel modo in cui l’opera si conserva. Accanto alla tradizionale attenzione per l’oggetto nasce infatti il bisogno di preservare ogni forma di conoscenza che entra nel suo campo gravitazionale. Si tratta di un sapere per la conservazione del quale la tecnologia odierna fornisce supporti assai efficaci. Si pensi all’agilità con cui si possono stivare grandi masse di immagini, o alla possibilità di trasformare le pagine web in documenti archiviabili individualmente. Si consideri la facilità che si è raggiunta nella gestione e condivisione dei dati. In un momento storico in cui il pubblico è abituato a ricevere più notizie sull’ambiente e i suoi attori che sulle opere in sé, ecco che comincia a prender forma l’esigenza di garantire che con l’hardware, vale a dire la parte fisica dell’opera, arrivi integralmente a destinazione anche il suo software. Inoltre, diventando cruciale il problema della conservazione delle informazioni relative, diventa centrale anche quello di conservare i legami strutturali che queste hanno con l’opera, legami che possono essere molto fragili e che pertanto si deve saper riconoscere e trattenere. Da qui nasce anche l’esigenza, a livello conservativo, di agire nell’immediato, con attenzione capillare, e soprattutto con costanza nel tempo. La figura del conservatore – sia esso un soggetto istituzionale o un privato collezionista – diventa fondamentale nel garantire le condizioni affinché l’opera, che è stata concepita con un apparato dinamico di idee e informazioni, continui a poter interamente disporre di questo valore. Resta ora da chiarire il motivo per cui si è deciso di partire dal concetto di astrazione. Ebbene, la ragione è molto semplice e sta tutta nella constatazione che in arte non esiste nulla di così limpidamente trasversale. Prima di essere una categoria critica legata a un preciso periodo storico o a un certo medium, l’astrazione è un modo della visione volto a stabilire associazioni costanti tra un soggetto e una quantità variabile di idee. In quanto tale, essa è la questione essenziale intorno a cui finisce per convergere ogni ragionamento sull’opera, sulla sua reale identità, sul suo modo di essere formulata e comunicata. 13

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Al concetto di astrazione si ritorna sempre, per forza di cose, perché a esso è riconducibile la maggior parte dei rapporti di carattere rappresentativo tra la realtà e il mondo delle idee. È anche per questo che, in un momento storico in cui più che mai l’arte – come la scienza – ha bisogno di postulare nuove dimensioni oltre allo spazio e al tempo, lavorare intorno a questo tema sembra il modo migliore per cominciare a ricomporre una frattura che, a partire dalla fine del secolo scorso, ha progressivamente marginalizzato il pensiero critico, rendendo l’effettiva qualità dell’opera più difficile da riconoscere. Sulla scena globale, cercare di capire quale sia il significato corrente del termine astrazione – qualcosa che non avrebbe senso fare senza la complicità degli artisti – è dunque un modo per costringersi a riconoscere quel che di effettivamente nuovo c’è nel presente. Non adattando idee precostituite a opere appena prodotte (vizio che sempre impedisce di cogliere il nuovo), ma ripartendo da uno degli ingranaggi fondamentali del processo creativo. Alla base di questo approccio c’è dunque una logica di carattere comparativo, applicata a quella piccola porzione di realtà che al singolo è dato cogliere, senza l’intenzione di definirla univocamente, ma con quella semmai di raccontare in modo informato la complessità di un certo aspetto. Vale forse la pena spendere ancora qualche parola sulla conservazione dell’opera per ricordare ai collezionisti la responsabilità che si assumono quando comprano il lavoro di un artista. Le opere, come le piante, vanno curate con discrezione e costanza. È sufficiente sbagliare la posizione, spostarle più del dovuto, trascurare la circolazione d’aria, innaffiarle troppo o troppo poco o nel momento sbagliato, perché inizino a risentirne. Le piante giovani sono più fragili di quelle adulte. L’opera, come la pianta, va mantenuta viva nel tempo e per far questo bisogna conoscerla a fondo. Parte di tale sapere, oggi, sta nel favorire il suo riverbero nel sistema mediatico, il che significa soprattutto valorizzarne la capacità di attirare informazioni e trasmetterne a sua volta. Il sapere è il principio attivo di questa cura, un fertilizzante che, a parità di condizioni, è molto più efficace e persistente del denaro.

2. Storia di un termine Il nodo principale di ogni discorso sull’astrazione rimane quello di stabilire la relazione fra il soggetto e il suo referente esterno, anche quando è evidente che essi sono cresciuti di pari passo nel processo creativo. Lo scarto storico è avvenuto con le prime discussioni sulla possibilità di una rappresentazione non imitativa, ovvero liberata dalle catene della mimesis intesa come imitazione della realtà. Se il primo a postulare un’arte in cui il creare venga prima del riprodurre è lo storico 14

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dell’arte Alois Riegl alla fine dell’Ottocento, di fatto il principio di mimesis – fondato da Platone nel decimo libro della Repubblica, dove l’artista è considerato un imitatore di secondo grado delle idee create dal Demiurgo e trasformate in oggetto dall’artigiano – entra in crisi quando in occidente il valore della visione personale si impone su quello della rappresentazione oggettiva. Ovvero, in significativa coincidenza storica con la nascita della borghesia, nel momento in cui l’individuo comincia ad avere nuovi e più efficaci strumenti di affermazione nel contesto della società urbana. Già alla fine del secolo, mentre ovunque in Europa cresce con l’Art Nouveau l’intolleranza verso il conservatorismo delle accademie, l’artista cerca di affermare la propria personalità, riflettendo nella sua ambizione al pubblico riconoscimento lo stesso sentimento che anima le nuove classi emergenti. È in questo frangente, in diversi luoghi nello stesso momento, che il termine astrazione comincia a esser usato per descrivere il processo di elaborazione che da un certo fatto, fenomeno o dato reale, conduce alla raffigurazione pittorica individuale, non necessariamente rassomigliante al vero. Le prime scosse del sisma epocale le registra Charles Baudelaire, che affronta i nuovi risultati ottenuti dalla fotografia rivendicando per l’artista il diritto-dovere all’immaginazione, per lui vera entità creatrice, all’inizio del mondo, di funzioni espressive primarie come l’analogia e la metafora. Essa scompone tutta la creazione – dice Baudelaire – e, con i materiali raccolti e disposti secondo regole di cui non si può trovare l’origine se non nel più profondo dell’anima, crea un mondo nuovo, produce la sensazione del nuovo. […] Che cosa mai si può dire di un guerriero senza immaginazione? Può essere un ottimo soldato, ma se sarà alla testa di un esercito, non farà nessuna conquista.1

Eugène Delacroix, il suo alfiere, è un pittore per cui il reale altro non è che uno schiavo alla mercé della capacità inventiva dell’artista. Del resto, non più tardi del 1890, un pittore fondamentalmente ancora legato all’universo delle cose materiali come Maurice Denis dichiara: «Un quadro, prima di essere un cavallo da battaglia, una donna nuda, un avvenimento o qualcos’altro, è essenzialmente una superficie piatta ricoperta di colori meticolosamente organizzati». Solo un paio di anni prima Paul Sérusier – compagno di Denis all’Académie Julian di Parigi – aveva dipinto a Pont Aven Il talismano, prima messa in opera (sul retro di una piccola scatola di cartone) delle lezioni di libera pittura impartitegli da Paul Gauguin al Bois d’Amour. Dopo una precoce tela di Adolf Hölzel del 1905 (Composizione in rosso) e una lettera del 1907 in cui August Macke scrive di voler «combinare colori su una tela, senza pensare a un oggetto reale» la storia dell’arte astratta prende avvio ufficialmente nel 1910, quando Vasily 15

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Kandinsky inizia a scrivere Lo spirituale nell’arte, il libro che assicurerà al pittore russo la paternità della scoperta. Qui vengono formulati i princìpi di un nuovo modo di dipingere fondato sulla stretta relazione tra teoria e pratica, ovvero tra parola e immagine. Due anni prima Wilhelm Worringer ha pubblicato Astrazione ed empatia esaminando il problema dello stile da una prospettiva psicologica: da una parte l’arte che rappresenta la natura funziona per un meccanismo di empatia; dall’altra la componente astratta esercita i suoi effetti nella sfera più profonda dell’istinto, là dove agisce anche l’immaginazione. L’etimo è riconducibile al latino abstrahere, che significa scostare, trarre da qualcosa. Per estensione, astrarre vuol dire estrarre un concetto generale dall’insieme di dati particolari. Per esempio, dalla totalità di volti visti se ne dipinge uno che ha due occhi, una bocca, capelli, orecchie e così via. Senza porsi ancora il problema della riconoscibilità del soggetto e molto prima di avventurarsi nella galassia dei modelli di astrazione possibili, ci si rende conto che questa categoria è altamente generica e, come ricorda con un poco di malizia Kirk Varnedoe, categorie critiche generiche portano anche a interpretazioni generiche.2 Della difficoltà di esprimere una definizione univoca di astratto in arte sembra prendere atto anche Gerhard Richter, artista persino categorico nel dividere la sua produzione pittorica tra rappresentazione e astrazione. Nel 1982 Richter scrive: Tutte le volte che descriviamo un evento, sommiamo una colonna di cifre o prendiamo una fotografia di un albero, creiamo un modello; senza modelli non sapremmo nulla della realtà e saremmo come animali. I dipinti astratti sono modelli fittizi perché visualizzano una realtà che non possiamo né vedere, né descrivere, ma di cui possiamo intuire l’esistenza. Attribuiamo a questa realtà nomi negativi: l’ignoto, l’inesprimibile, l’infinito, e per migliaia di anni ne abbiamo dipinto immagini sostitutive, come il paradiso e l’inferno, gli dèi e i diavoli. Con la pittura astratta creiamo il miglior metodo per avvicinare quel che non può essere né visto né capito, perché essa spiega con la più grande chiarezza, ovvero con tutti i metodi a disposizione dell’arte, il “nulla”. Abituati a riconoscere le cose reali nei dipinti, rifiutiamo, giustamente, di considerare il solo colore (in tutte le sue varianti) come ciò che il dipinto rivela e invece permettiamo a noi stessi di vedere l’invisibile, quel che non è mai stato visto prima e che certamente non è visibile. Non si tratta di un gioco scaltro, ma è una necessità; e siccome tutto ciò che è sconosciuto ci spaventa e ci riempie di speranza allo stesso modo, prendiamo queste immagini come una possibile spiegazione dell’inesplicabile o, al limite, un modo per riferirci ad esso. [...] È ovvio che anche i dipinti rappresentativi hanno questo aspetto trascendentale, dato che, essendo parte di un mondo in cui la prima e 16

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l’ultima causa rimangono imperscrutabili, ogni oggetto incarna quel mondo: l’immagine di un certo oggetto in un dipinto evoca l’intero mistero in maniera tanto più convincente quanto meno “funzionale” è la rappresentazione. Questa è l’origine della continua fascinazione che, per esempio, molti antichi e pregevoli ritratti hanno su di noi. […] Perciò i dipinti sono i migliori, i più belli, intelligenti, pazzi ed estremi, le più chiaramente percepibili e le meno decifrabili metafore di questa incomprensibile realtà. L’arte è la più alta forma di speranza. 3

Alla voce “Arte astratta” l’assai diffuso dizionario dei termini artistici Dictionary of Art Terms, recita: «Arte che sia completamente non-rappresentativa, o che converte forme osservate nella realtà in motivi che sono letti dall’osservatore più come relazioni indipendenti che come riferimenti alla fonte originaria».4 Simon Wilson e Jessica Lack, in The Tate Guide to Modern Art Terms, sono più rispettosi dell’etimologia originaria, e prima di provare a definire la voce ribadiscono che, in senso stretto, astrarre significa «separare o estrarre qualcosa da qualcos’altro».5 Quindi, per estensione, si può concludere che il vocabolo si riferisce a quel tipo di arte che nasce dall’osservazione di un oggetto visibile da cui poi si traggono elementi che portano a una forma semplificata o schematizzata. Una forma che è priva di un corrispondente nella realtà esterna, e che spesso, ma non necessariamente, è geometrica. I due autori constatano inoltre che: «alcuni artisti di questa tendenza hanno preferito espressioni come Arte Concreta o Arte Non-Oggettiva, ma in pratica la parola “astratto” è usata trasversalmente e la distinzione tra i termini non è sempre ovvia».6 La seconda definizione, oltre che più completa, appare decisamente più rispondente all’attuale sentir comune nei confronti del significato in arte dell’astratto, soprattutto perché recepisce l’impossibilità di circoscrivere il termine e parla genericamente di opere o forme. D’altra parte, entrambe le definizioni giustamente evitano di delineare, sia pure in modo approssimativo, eventuali aree cronologiche o geografiche di pertinenza. Si è dunque lasciati liberi di applicare questa categoria dello sguardo a tutte le epoche e a lavori di qualsiasi genere, dalla preistoria ai giorni nostri. Il punto è che per quanto generiche nessuna delle due definizioni dà ragione della forte differenza tra l’usare correttamente il vocabolo per assegnare un’opera a un determinato contesto di idee (per esempio le teorie di Kandinsky o quelle di Mondrian) e usarlo per indicare una certa proprietà espressiva, oppure per definire una certa attitudine compositiva da parte dell’autore. Sarebbero questi tre modi del tutto differenti di adottare lo stesso dispositivo verbale. Proviamo ad analizzarli uno per volta. Dire che è astratta un’opera composta nel secondo decennio del Novecento, negli anni trenta o nel secondo dopoguerra, nell’ambito di 17

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movimenti come Der Blaue Reiter, Abstraction-Création o il Groupe Espace, significa parlare del suo contenuto di idee, ovvero del significato che i sistemi di pensiero nati in questi contesti attribuivano al fare astrazione. In ognuno di questi casi l’opera risponderebbe a criteri piuttosto precisi e a linguaggi ben codificati. Ecco che la mancanza nell’opera di riferimenti al vero – ossia la totale assenza di mimesis verso la res extensa – è una condizione necessaria e sufficiente all’uso pertinente del termine. L’opera è astratta perché appartiene a un certo modo di intendere la rappresentazione e questo, in una certa misura, ci parla anche delle sue caratteristiche formali. Tuttavia, l’opera sarebbe ugualmente astratta se appartenesse all’ultimo quarto dell’Ottocento e fosse stata composta da Vincent Van Gogh nel vento di Arles, o dall’ucraino Miháli Munkáksy nella foresta di Barbizon. In questo caso il termine indicherebbe sia un determinato impianto formale sia un’attitudine creativa da parte dell’autore. Un’attitudine che forse non risponderebbe a una precisa teoresi, ma che sarebbe piuttosto il modo di intendere il rapporto tra immagine e realtà proprio di un’epoca sperimentale. Infine, altro ancora sarebbe definire astratta un’incisione preistorica su un sasso trovato a Naquane in Val Camonica o in una grotta in Basilicata. In questo caso sapremmo con certezza che, se anche se si trattasse di sintesi formale di un soggetto scelto dall’autore – una figura umana, un’arma, o un qualche attrezzo agricolo – bisognerebbe anche tener presente che, mentre l’opera della prima parte del Novecento è astratta perché vuole allontanarsi dal vero affermando su di esso il dominio dell’immaginazione, quella preistorica si affida all’immaginazione per rappresentare il vero che l’autore non sa ancora replicare in termini naturalistici. Da questo grappolo di osservazioni derivano almeno due assunti: per quanto il termine “astratto”, secondo la definizione di Wilson-Lack, si possa usare trasversalmente, il suo significato si può però precisare solo in base al contesto e all’arco cronologico a cui viene riferito. Inoltre, la logica dell’astrazione, effettivamente sviluppata in ambito artistico in concomitanza con l’affermarsi della fotografia e del calco dal vero – cioè di tecniche di rappresentazione sempre più fedeli alla realtà – è vincolata a un certo modo di vedere l’immagine, più che alla natura dell’immagine stessa o al processo mentale che l’ha generata. In sostanza, entro certi limiti, è più utile pensare che lo sguardo abbia la facoltà di riconoscere nell’opera un’astrazione di qualcosa, anziché attribuire tutta la responsabilità all’intenzione dell’artista. In quest’ultimo caso, infatti, si finirebbe inevitabilmente per cadere nell’errore di ritenere rappresentativa tutta l’arte astratta. Una conclusione che, oltre a essere storicamente inesatta, porta a disinnescare due termini estremamente utili e potenzialmente efficaci non solo per stabilire somiglianze, ma soprattutto per individuare differenze. 18

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Più efficace e durevole sembra invece il concetto formulato da Theo Van Doesburg nel Manifesto del Concretismo pubblicato nel 1930, nell’unico numero della rivista Art Concret, poi diffuso negli anni quaranta in Europa e in Sud America e rifiorito nel dopoguerra in Francia e in Italia in relazione al principio di sintesi delle arti, soprattutto nel raggio d’azione del Groupe Espace e del Movimento Arte Concreta. Ovvero, il concetto di un’arte che annulla il problema della rappresentazione perché postula a priori la totale indipendenza dell’opera dal dato reale. L’opera è concreta, ovvero l’opposto che astratta. Si discute di autonomia della forma, ma in pratica pittura e scultura trovano compimento solo nell’elaborazione critica di artisti e teorici di un fenomeno che, con sguardo retrospettivo, appare un’inclinazione ampiamente diffusa, più che una rigorosa applicazione di princìpi, dogmi, o precetti. Non si dettano regole, come avevano spesso fatto le avanguardie, ma si cerca di mettere a fuoco il proprio approccio creativo con il solo ausilio di alcune solide premesse, lasciando che l’autore rimanga libero di cercare la propria visione. Eventualmente si stabilisce un quadro politico di riferimento, che di norma è quello che, nei paesi usciti dal conflitto, si vorrebbe guidasse la ricostruzione e che dunque è opposto al totalitarismo di regime. In questo senso, il lungo fronte del Concretismo è l’effettivo spartiacque tra un’arte in sé conclusa e un’arte che esiste compiutamente solo in relazione al suo apparato teorico e alla sua collocazione sociale.

3. Un passo nelle neuroscienze In Intuizione e intelletto (1962) Rudolf Arnheim osserva come le strutture formali dell’opera non possono essere disgiunte dal suo contenuto, perché ogni informazione particolare sul contenuto rappresentativo di un dipinto non si limita ad aumentare ciò che sappiamo, ma cambia anche quel che vediamo. Perciò Arnheim ritiene insensata l’idea che una corretta fruizione artistica debba ignorare temi e contenuto, così come considera riduttivo – e addirittura fuorviante sul piano didattico – l’approccio iconologico in quanto approfondisce solo temi e contenuti, trascurando la forma.7 Arnheim – che ha vissuto in prima persona il clima artistico newyorkese del secondo dopoguerra lavorando, tra l’altro, per la stessa Guggenheim Foundation – usa opportunamente la parola astrazione non già per definire una determinata corrente artistica ma, più in generale, per indicare il processo mentale che stabilisce il rapporto tra l’oggetto e la sua rappresentazione; lo stesso processo che si innesca anche quando il referente non è un oggetto, ma un qualsiasi sistema di idee. La scelta di far correre su un doppio binario la sua lettura della Guernica di Picasso,8 per esempio, è determinata dalla complessità 19

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cognitiva del dipinto e del messaggio che vuole lanciare al mondo. Il primo binario è quello della cronaca dettagliata dei fatti storici. Quei fatti negati dal regime franchista per più di quarant’anni e di cui ci è rimasta testimonianza grazie ai resoconti in presa diretta del giornalista inglese George Steers, inviato del London Times a Bilbao. In questo senso è particolarmente significativo che ai volontari accorsi sul campo da tutto il mondo a difendere la democrazia, per la prima volta si affianchi l’eroe mediatico impegnato in una difficile campagna d’informazione contro i sostenitori dei nazionalisti spagnoli. Il secondo binario interpretativo è quello dell’analisi dei dati formali che nell’opera esprimono la follia distruttrice delle bombe incendiarie, la paura della popolazione civile stipata nei rifugi, l’assurdità di un accanimento così feroce contro una cittadina indifesa e militarmente insignificante, solo per impedire che attraverso un piccolo ponte (per altro rimasto intatto) i repubblicani potessero ritirarsi verso Bilbao. La forza della visione di Arnheim sta nel fatto che gli aspetti formali del capolavoro di Picasso si sono chiariti solo con il lento emergere della verità storica, un processo nel quale il quadro ha senz’altro più di qualche merito. Si tenga ben presente che del bombardamento italotedesco, a causa della censura imposta dai vincitori di allora, non esiste nemmeno un’immagine. Da qui l’eccezionale importanza dell’opera di Picasso, che è l’astrazione di una vicenda vissuta come racconto anziché come esperienza. Inoltre non bisogna tralasciare che per Arnheim, al momento della scrittura del suo saggio, i fatti di Guernica e l’opera di Picasso erano qualcosa di relativamente vicino al suo punto di osservazione, e dunque quello che lui a più riprese chiama «livello di astrazione dell’opera» è un indice che misura la relazione tra una verità ancora in via di definizione e un’interpretazione di parte, cioè qualcosa di intrinsecamente dinamico. Di fatto, si tratta di una contrattazione tra l’opera e la storia. È per questo motivo che per lo storico dell’arte tedesco, la relazione tra realtà e immagine pittorica si presenta estremamente più complessa da decifrare che non se al posto di Guernica ci fosse, per esempio, la Pisa del Cinquecento, e al posto dei tedeschi le milizie di Cosimo i de’ Medici. In tal caso la storia avrebbe già espresso con chiarezza il proprio giudizio. Anche per questo credo che Arnheim abbia scelto insieme al capolavoro di Picasso anche la prima delle guerre combattute sui media, oltre che sui campi di battaglia. Tuttavia, il confronto tra l’astrazione tardo cubista e quella del Vasari del ciclo di battaglie affrescate nel Salone del Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze si risolve in un’inaspettata dichiarazione di somiglianza. Il metodo di Arnheim è un percorso cognitivo complesso che mette sullo stesso piano le forze che agiscono dentro l’opera d’arte con quelle che stanno al di fuori di essa, un metodo simile impronta anche il pensiero di Semir Zeki e la prospettiva neurobiologica. 20

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Anche per lo scienziato che affronta la visione attraverso l’immagine, la via che porta all’opera d’arte è un processo attivo nel quale entrano in gioco fattori non riducibili esclusivamente all’oggetto-opera. In termini artistici, ciò che lui chiama “cervello visivo” e che sta alla base della sua teoria neuroestetica sembra funzionare essenzialmente per astrazione, ovvero come sintesi che avviene sia nel processo cognitivo, sia in quello creativo. Sebbene le sue osservazioni riguardino in maniera quasi esclusiva la pittura in quanto immagine, l’assunto secondo il quale il cervello umano vede per poter acquisire una conoscenza del mondo in cui vive9 pare il supporto ideale sul quale appoggiare l’idea che l’opera d’arte è essenzialmente un accumulatore selettivo di idee. Prendiamo ancora una volta Guernica per considerare la definizione che Zeki dà del creare un’opera d’arte: «rappresentare le caratteristiche costanti, durevoli, essenziali e stabili di oggetti, superfici, volti, situazioni e così via, permettendoci in tal modo di acquisire conoscenza».10 Zeki pone arbitrariamente al centro della sua riflessione il processo visivo, ma il suo approccio riesce comunque a mettere in luce il valore fenomenico dell’opera, indipendentemente dal suo stato fisico. Non si vede con gli occhi, ma con il cervello: La nostra nuova concezione delle funzioni del cervello visivo ci permette di considerare l’arte come una ricerca di invarianti attraverso un processo di selezione dell’essenziale da una gran massa di dati: dunque, come un’estensione dell’attività fondamentale del cervello visivo che, come abbiamo detto, è quella di acquisire conoscenza del nostro mondo individuandone le proprietà specifiche e immutabili. Così, in prospettiva neurologica, la grande arte è quella che più si avvicina all’obiettivo di mostrare non ciò che appare, ma la realtà in tutto il ventaglio dei suoi possibili aspetti, aiutando in tal modo il cervello nello svolgimento della sua funzione primaria.11

Si può essere in disaccordo sul fatto che l’arte sia ancora rappresentazione, ma difficilmente si può escludere che essa sia il risultato di un ampio spettro di funzioni cognitive e, di conseguenza, che l’abilità dell’artista stia nel saper sfruttare il più possibile tale spettro. Agli scritti di Platone e alla celebre lettera di Raffaello a Baldassarre Castiglione in cui l’urbinate parla della bellezza ideale come di un insieme di bellezze localizzate, Zeki affianca il celebre Discourse on Art tenuto da Joshua Reynolds il 10 dicembre 1771 alla Royal Academy of Arts di Londra: «La bellezza e la grandezza dell’arte consistono [...] nella capacità di oltrepassare le forme singole, i fatti locali, le particolarità di ogni tipo [...]. Il pittore rappresenta un’idea astratta delle forme degli oggetti più perfetta di ogni singolo originale».12 Lette oggi, alla luce delle nostre premesse, queste parole fanno di Reynolds una specie di profeta nel definire astratta la rappresentazione ideale del vero. 21

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Nel 2006, intervenendo alla New York Academy of Sciences nel simposio intitolato From Mirror Neurons to the Mona Lisa. Visual Art and the Brain, Vilayanur S. Ramachandran ha avanzato alcune interessanti osservazioni incentrate sul rapporto tra arte e cervello, dando all’arte non già la funzione di rappresentare realisticamente, ma quella di produrre effetti “piacevoli”.13 Il neurologo indiano è convinto che l’arte abbia a che fare con una somma di deliberate distorsioni, esagerazioni, manipolazioni dell’immagine reale, il cui fine sarebbe rendere più attraente, o interessante, una rappresentazione. Qualcosa che risponde a una precisa intenzione da parte dell’autore e che può stimolare certe aree del cervello “meglio” di quanto possano fare la realtà o le rappresentazioni realistiche. Tale manipolazione della realtà, nota Ramachandran, non conosce confini temporali ed è ipotizzabile un certo numero di regole fisse che, pur nelle fondamentali diversità culturali di ciascuna opera in base alla sua provenienza, aiutano a comprendere gli schemi mentali entro i quali esse vengono concepite. In particolare, lo scienziato si concentra sul principio del peak shift, meccanismo neurologico secondo il quale l’esagerazione delle caratteristiche estetiche di un’immagine ne rende più interessante la visione. Per esempio, ricompensando un topo se si dimostra in grado di distinguere un rettangolo da un quadrato, si osserva che se poi lo si mette di fronte a rettangoli di diverse dimensioni il topo sceglierà quello più schiacciato e allungato, ovvero quello “esageratamente” rettangolare. Ramachandran conclude che il cervello umano, come quello dei topi, tenderebbe verso le esagerazioni. Nelle caricature, infatti, portando oltre misura le dimensioni di certi tratti somatici, il viso di una persona risulta ancora più simile al vero. Lo stesso avviene con i colori nelle opere impressioniste ed espressioniste, dove la sensazione dei luoghi si amplifica in noi in ragione dei forti cromatismi. L’artista amplificherebbe le caratteristiche dell’oggetto della rappresentazione in modo da attivare con più forza gli stessi meccanismi neurali che sarebbero attivati dall’oggetto reale. La capacità dell’artista di estrarre gli elementi essenziali, tra l’altro, sarebbe coerente con il funzionamento selettivo delle aree visive teorizzato da Zeki.14 A questo proposito, Ramachandran cita l’esperimento dello zoologo tedesco Nikolaas Tinbergen che dimostra come i pulcini di gabbiano che riconoscono il puntino rosso sul becco della madre e lo colpiscono per avere cibo, compiono lo stesso gesto se quel puntino è riprodotto su un bastoncino, e colpiscono in modo molto più eccitato se sul bastoncino vengono tracciate tre linee rosse. Lo stesso avverrebbe nell’uomo di fronte a immagini artistiche, gli autori delle quali, grazie alla loro sensibilità, hanno intuito elementi segnici in grado di produrre effetti di piacere visivo, interesse, curiosità. Ramachandran chiama questi elementi “primitivi figurali” e li associa, per esempio, al principio percettivo dell’“isolazione”, secondo il quale poche linee tracciate nella 22

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giusta maniera bastano per ricreare la sensazione di un particolare anatomico o di un determinato oggetto. Anzi, maggiore è la capacità di sintesi delle linee e, paradossalmente, maggiore è la loro capacità evocativa rispetto all’immagine realistica. Questi due princìpi bastano per capire come nella visione di Ramachandran l’arte sia la ricerca di una formula visiva capace di attivare una determinata risposta emotiva connessa alla sfera del piacere ed eventualmente capace di trasmettere in modo immediato i significati a cui l’immagine è preposta. Già nel 1902, nell’ambito degli studi sulla psicologia della percezione che hanno accompagnato l’alba dell’arte astratta, l’architetto, designer e artista belga Henry Van De Velde aveva parlato della linea come di una forza che come tutte le forze elementari, è attiva.

4. Il fattore testo Prima di riprendere il nostro rapido viaggio nella storia dell’astrazione, fermiamoci ancora un attimo a considerare un punto di vista laterale, ma per certi aspetti illuminante riguardo alla percezione dell’opera e del valore cognitivo del suo intorno. Per il fenomenologo Maurice Merleau-Ponty, il caso di Cézanne è uno dei punti di osservazione privilegiati sul mondo della pittura, nell’ottica della relazione tra opera d’arte ed esistenza, ma anche della percezione intesa come tutto, piuttosto che come somma di singole parti.15 Gli anni in cui il filosofo francese scrive il breve saggio Il dubbio di Cézanne sono gli stessi in cui vedono la luce due sue opere fondamentali, La struttura del comportamento (1943) e Fenomenologia della percezione (1945).16 Il valore fondante attribuito alla percezione soggettiva, là dove il soggetto è unità inscindibile di corpo e coscienza, porta Merleau-Ponty a considerare la concretezza dell’esperienza artistica sotto l’aspetto di dati oggettivi e verificabili, i dati dell’esistenza. Per lui la vita di Paul Cézanne potrebbe anche non insegnare nulla; oppure, sapendola leggere, potrebbe contenere già tutto della sua opera, perché su di essa è stata programmata. Infatti, parlando di Cézanne, afferma che «la pittura è stata il suo mondo e la sua maniera di esistere». Gli stessi tratti caratteriali dell’artista trovano spiegazione non già nella sua quasi patologica costituzione nervosa, ma nell’intenzione della sua opera. È la pittura, dunque, che carica di senso le circostanze della vita di Cézanne. Dice ancora Merleau-Ponty: «la verità è che quell’opera da fare esigeva quella vita». L’esperienza dell’arte è qualcosa che è parte dell’opera stessa, in una sorta di continuità tra fisica e metafisica dove il senso si determina nel continuo divenire. È così che l’arte smette di essere collegamento di idee già pronte e di forme già viste – cioè di esser cultura – per divenire qualcosa di nuovo, di “mai dipinto”. La sublimazione della conoscenza 23

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per Merleau-Ponty è dunque la ricerca che l’artista esercita alla stregua dello scienziato, ma con finalità molto diverse: «l’artista lancia la sua opera come un uomo ha lanciato la prima parola, senza sapere se essa sarà qualcosa d’altro che un grido, se potrà distaccarsi dal flusso della vita individuale in cui nasce e presentare, sia a questa medesima vita nel suo avvenire, sia alle monadi che coesistono con essa, sia alla comunità aperta delle monadi future, l’esistenza indipendente d’un senso identificabile», il senso che si compie nel lavoro e nell’ambiente in cui esso accade come fenomeno. Dopo un decennio speso a recidere del tutto il legame che ancora lega l’arte alla rappresentazione del reale, all’alba degli anni sessanta del secolo scorso già si assiste al manifestarsi di quella destrutturazione del linguaggio artistico che in poco tempo porterà all’affermazione su scala mondiale della Pop Art. Il rapporto con i media, ancora tenue durante gli anni cinquanta, cambierà soprattutto in ragione di uno spostamento di interesse nella visione. Se Jackson Pollock è per sua stessa ammissione un ritrattista che prende a soggetto il proprio inconscio – e come lui sono molti gli interpreti europei della triade “segno, gesto e materia”, nell’ambito di quella grande nuvola di individualismi che è stata l’arte informale – Jasper Johns sarà a tutti gli effetti un pittore di paesaggio; un paesaggio reattivo e ormai aperto alla dimensione mediatica. È in questo contesto che il libro diventa effettivamente una delle forme possibili dell’opera d’arte, e la naturale propensione all’astratto dei nuovi interpreti – primo fra tutti Donald Judd con i suoi Specific Objects17– comincia a sentire l’esigenza di uscire dai recinti teorici che il decennio precedente le aveva costruito intorno. Il testo d’artista assume spesso i toni della riflessione sulla natura e sulle possibilità funzionali dell’arte in quanto canale di comunicazione, e per lo più questo non porta a formulazioni di carattere formale. Scrive Germano Celant: Scegliere il film, il videorecording, la telescrivente, la fotografia, la stampa non significa rifiutare l’individuale o il naturale a favore del tecnologico, ma rafforzare la coscienza che il medium offre una condizione comunicazionale alla sfera privata; una condizione che, sì, diminuisce l’egemonia e l’importanza dei sensi, ma esalta l’aspetto uniforme e freddo, scientifico e filosofico, del medium psico-fisico o tecnologico usato.18

È importante sottolineare come la cosiddetta sfera privata sia da intendere come un territorio di libertà che a quei tempi doveva sembrare in larga parte ancora da conquistare (mentre oggi è soprattutto da difendere). Ed è proprio nella sfera privata che si accorcia la distanza tra l’opera e il suo contesto: l’artista, ora consapevolmente, diventa medium a sua volta, ovvero una soglia oltre la quale si è invitati a passare per accedere al 24

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lavoro. Ecco che si chiarisce l’utilità di chiamare in causa il pensiero di Merleau-Ponty riguardo a Paul Cézanne. La sete di astrazione che attraversa gli autori della Color Field Abstraction e quelli della Minimal Art, nota ancora Celant, si manifesta anche nella ricerca della parola che è il «presupposto linguistico e teorico del seguente sviluppo della non-visual art e della conceptual art», come dimostrano le teorizzazioni di Ad Reinhardt, Donald Judd e Sol LeWitt.19 Si potrebbe assumere questo come un termine ultimo del processo, ma bisogna prestare attenzione a non porre la questione esclusivamente in termini visivi, perché si potrebbe finire nell’equivoco di considerare la scrittura in sé come un mero accadimento formale. Infatti, la parola scritta – oltre a essere un elemento trasversale che può darsi su qualsiasi supporto – di fatto presuppone sempre una forma, che è data dalla somma di lettering, colore e corpo dei caratteri. Lo dimostrano i lavori di Laurence Weiner, le scritte al neon di Bruce Nauman, gli accostamenti di parole e oggetti di Joseph Kosuth e, più di recente, le opere di Tracy Emin, Richard Prince, Sophie Calle, o di autori più giovani come Josh Smith o Dan Colen. Un conto è dipingere un testo, un altro è scrivere un testo che dipinge qualcosa. Assunta questa precauzione non resta che osservare che la produzione degli scritti negli anni sessanta si sviluppa di nuovo in parallelo alla ricerca di un approccio trans-disciplinare e multimediale al fare artistico, che è anche un modo per calare pensiero e opera nel più ampio contesto del foro pubblico. Cioè in quel luogo dove i linguaggi si confrontano, si mischiano e si arricchiscono tra loro. In altre parole, forse più consone allo Zeitgeist di allora, l’artista lascia l’esclusività conservatrice e autoreferenziale del medium per immergersi con nuovo slancio nel flusso della comunicazione, già consapevole che l’opera – come avrebbe poi detto Nicolas Bourriaud – è soprattutto elemento di relazione, tanto per il quadrilatero artista-critico-collezionista-mercante, quanto per il pubblico che attraverso le istituzioni espositive la fruisce alimentandone il senso di esistenza. Anzi, secondo il critico francese, l’arte intercetterà il suo orizzonte teoretico proprio nel regno delle interazioni umane e del contesto sociale, piuttosto che in uno spazio simbolico indipendente e privato.20 Il che sarà quasi un paradosso nel mondo atomizzato e monadico che ha superato correnti, movimenti, gruppi, scuole e ogni dichiarata applicazione di princìpi estetici codificati. Dall’inclusione della sfera privata nei circuiti dell’opera si è così tornati al confronto con lo spazio sociale, uno spazio che nel frattempo è profondamente cambiato rispetto al clima di fiducia che aveva caratterizzato il ventennio postbellico. I temi tradizionali dell’astrazione sembrano aver esaurito la loro forza propulsiva e al loro posto si impongono princìpi trasversali come quelli di continuità e di partecipazione sociale. Il primo trova terreno fertile soprattutto in termini di 25

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governance del patrimonio culturale in relazione al territorio e al contesto legislativo.21 Il secondo interessa l’architettura, oltre che l’arte, e si applica principalmente in fase progettuale. In entrambi i casi, come ha notato Enrico Crispolti in riferimento proprio alla scena italiana – caso realmente emblematico data la difficoltà di coesistenza tra passato e presente – il territorio di riferimento è quello della sociologia. È così che in un momento storico in cui si scopre l’epicentro delle tensioni sociali nei “campi urbani” – molti dei quali sono interessati da nuovi e copiosi flussi migratori dalle zone rurali – anche in un paese come l’Italia capita che ci si riferisca agli scritti di un autore come Alexander Mitscherlich riguardo alla necessità di riformare i rapporti di proprietà nel contesto urbano e all’esigenza di creare nuove sedi di confronto e di discussione. L’arte che si vende nelle gallerie può così trovare quella coerenza tra pensiero e azione che le permette di schierarsi in difesa dell’“opinione difforme” che la società – sempre secondo Mitscherlich – tendeva a eliminare rendendola impossibile. Ecco che anche l’arte può essere un modo per istigare alla discordia, visto che il costo umano della crisi urbanistica della città è proprio il distacco e la passività del cittadino, il suo isolamento psicologico, la sua non partecipazione, la sua apatia politica.22 In un contesto di questo tipo la forma tende a diventare testimonianza di costellazioni di idee sempre più complesse e connotate dal punto di vista etico, mentre la parola, dal canto suo, preme sempre di più contro i limiti della comunicazione mainstream. L’esser presente con la propria voce nell’universo dei fatti che interessano lo scenario socio-politico coevo è, per esempio, un imperativo nel caso di Joseph Beuys, che infatti rende coerente al proprio lavoro persino il diretto impegno politico, prima con l’Organizzazione per la Democrazia Diretta e poi candidandosi nel 1979 al parlamento tedesco tra le liste dei Verdi: il dato fisico non è più che un residuo rispetto al suo racconto, una sorta di incidente rappresentativo integrato in un complesso sistema. Nel 1985, in un’intervista con il critico francese Bernard Lamarche-Vadel, Beuys dice a tal proposito: «Tutta la mia opera è un autoritratto in cui si raccolgono le mie idee, la Free International University, l’arricchimento dell’arte, la democrazia diretta, la libertà della scienza, il nuovo ordinamento economico contro lo stato attuale e contro tutte le forme di stato che esistono attualmente».23 Il valore della parola porta Beuys a cercar continuamente di garantirle l’adeguato contesto di risonanza, che ovviamente non può essere lo stesso delle opere da galleria. Tre anni prima l’artista tedesco si era presentato nel programma televisivo Bananas dell’emittente tedesca ard nelle vesti di un provetto cantante pop, con tanto di coriste e band al seguito, per cantare Sonne Statt Reagan, che in tedesco significherebbe “sole invece di pioggia” se il cognome del presidente americano fosse scritto 26

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“regen”. Si tratta di un pezzo allegro e cantabile che in certi passaggi ricorda I Want to Hold Your Hand dei Beatles e che senza mezzi termini contesta l’assurda corsa agli armamenti, invocando la peste per i soldati della Guerra Fredda. Del resto, già nel 1964 Beuys era apparso in diretta sul secondo canale della televisione tedesca con la profetica dichiarazione intitolata «Das Schweigen von Marcel Duchamp wird überbewertet» (il silenzio di Marcel Duchamp è sopravvalutato). Dunque Beuys, con uno spirito in fondo non dissimile da quello che ha alimentato i movimenti astratti dagli anni venti alla fine degli anni quaranta, ha voluto rilanciare il ruolo dell’artista anche pensando a un contesto più ampio di quello che, con l’estinzione delle grandi committenze, aveva confinato all’hortus conclusus dell’arte da galleria gli artisti ai margini dei grandi sistemi mediatici. L’aver cercato di portare il suo messaggio fuori dalla scena abituale lo ha posto in una condizione paragonabile a quella in cui si è trovato dall’altra parte dell’Atlantico Andy Warhol, pur con un senso profondamente diverso. I due poli opposti dell’arte del dopoguerra si erano incontrati una prima volta il 18 maggio del 1979 a Düsseldorf, dove Beuys viveva. Poi si erano rivisti cinque mesi dopo in occasione della grande mostra dedicata al tedesco dal Guggenheim Museum di New York e della simultanea apertura della sua personale nella galleria di Ronald Feldman. È in quest’occasione che Warhol inizia la celebre serie di ritratti di Beuys. I presupposti da cui partono i due artisti sono profondamente differenti e sembrano alquanto lontani anche i risultati a cui approdano. Tuttavia, nel più classico dei parallelismi dell’arte della Guerra Fredda, entrambi dimostrano come il confondersi dell’esistenza nella vita artistica porti come effetto collaterale l’espansione dell’opera oltre i suoi confini fisici nella dimensione del racconto. Ormai non è più possibile scindere l’oggetto dalla sua mitologia, una mitologia costruita spontaneamente in presa diretta, per produrre icone comprensibili e transculturali. Il dominio del verbo è in piena escalation e il suo legame con oggetti e immagini porta gli effetti cognitivi dell’opera d’arte a diventare qualcosa di sempre più complesso e solo parzialmente riconducibile a un processo di carattere visivo. Più che un puro fatto estetico l’opera, in questo momento, tende soprattutto a determinare quelle prospettive etiche che non tarderanno a riportare l’astratto al centro della scena.

5. Etica anni ottanta Dopo l’impegno degli anni settanta e il parziale declassamento dell’oggetto, l’astratto torna sorprendentemente in auge alla soglia dell’ultimo ventennio del Novecento, quando nell’arte subentra la prepotenza comunicativa dei media e il mercato impone nuovamente alla creatività le 27

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proprie logiche. Molti cominciano a considerare l’opera d’arte alla stregua di una commodity, come l’oro o il petrolio. Nel 1980 Three Flags di Jasper Johns è venduto al Whitney Museum per l’astronomica cifra di un milione di dollari e i grandi istituti di credito cominciano a entrare in maniera massiccia nel mercato. Già all’inizio degli anni settanta il British Rail Pension Fund aveva destinato una quota tra il 10% e il 15% del suo ingente portafoglio a investimenti in campo artistico, affidando a Sotheby’s l’acquisto, la valorizzazione e la vendita delle opere. In questi anni si va definendo la figura dell’art advisor, si moltiplicano musei e collezioni e si allungano le liste d’attesa dei collezionisti per comprare opere non ancora eseguite. Inevitabilmente si impone la portabilità del lavoro, ovvero il suo status di oggetto fisicamente stabile, ben conservabile e definito, in chiara antitesi con le tendenze del decennio precedente. Secondo il Moses Mei Art Index, raffinato strumento concepito dagli studiosi Michael Moses e Jiangping Mei per stabilire il valore delle opere d’arte nel lungo termine, tra il 1985 e il 1990 l’incremento del mercato dell’arte è stato del 30% annuo, lo stesso insostenibile ritmo a cui è cresciuto in quel periodo l’indice Nikkei della borsa di Tokyo. Mentre c’è chi come Beuys canta la propria protesta, la tela ritorna a essere il supporto privilegiato sul quale, negli Stati Uniti dell’amministrazione Reagan, si esprimono giovani pittori come Julian Schnabel, Ross Bleckner o Philip Taaffe. Il fenomeno può essere visto da diverse angolazioni, non solo quella del collezionismo. Al di là dei limiti dovuti all’irrigidimento del sistema di vendita, alla sua voracità e alle alterazioni che gli strumenti di analisi di mercato possono aver creato – e degli eventuali benefici – il fatto che il discorso artistico venga ricondotto all’interno del territorio franco del quadro non toglie il bisogno di eludere i nuovi recinti. A questo punto, l’autore che meglio di altri può essere chiamato a rappresentare tale quadro storico è probabilmente Peter Halley. Sono almeno due gli elementi della sua opera a interessarci, al netto della breve e troppo disomogenea esperienza Neo-Geo e delle persino ovvie vicinanze formali con i suoi predecessori nel campo dell’astrazione aniconica. Il primo consiste nella speciale attenzione che egli riserva alla parola, testimoniata sia dalla riedizione dei testi scritti di suo pugno per le riviste di settore, sia dalla pubblicazione di un’ampia selezione degli stessi sul proprio sito web. Il secondo elemento, invece, riguarda la costante prospettiva sociale in cui gli scritti di Halley si collocano, sulla scorta di autori come Foucault e Baudrillard applicati proprio a concetti appartenuti all’arte del secondo dopoguerra come quelli di geometria o formalismo. La personale disillusione che Halley sembra esprimere nei confronti della generazione di artisti che lo ha preceduto, e che si traduce anche nella disincantata ripetitività della sua formula estetica (semplice, accattivante, persino troppo riconoscibile), trova un contraltare nei toni 28

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critici che spesso assume. L’attacco di “Notes on Abstraction”, pubblicato a New York da Arts Magazine nel giugno del 1987 e ripubblicato nel 2000,24 ha il tono di un manifesto programmatico e annuncia senza mezzi termini che la storia è stata ormai sconfitta dal determinismo di numeri e mercati e dai processi di astrazione e di reificazione. I medesimi processi ai quali, di fatto, egli sottopone le proprie idee. Idee che, dice Halley nel medesimo scritto: […] possono sparire nella giungla del pensiero e riemergere nei panni di altre idee, fantastiche ed eccentriche, che sembrano innocue e sono considerate come tali, non rilevate dal meccanismo dei media, idee di dubbio che, non essendo considerate per la loro stessa verità, non si danneggiano quando sono manipolate, o idee che sono abbandonate perché sono troppo deprimenti.25

Secondo Halley, il processo di astrazione è qualcosa che impregna di sé fatti osservabili nel mondo reale come conseguenza di altri fatti. Tanto è vero che l’artista prosegue così: Ogni gradino dello sviluppo tecnologico e sociale è basato su un passo avanti verso l’astrazione: una stretta al rapporto tra il risultato che si vuole ottenere e la natura materiale, un maggior legame tra la tecnologia e la realtà astratta del pensiero razionale. Quindi [...] si può osservare una progressione che va dalla nave a vela, a quella a vapore, ai sottomarini nucleari. Nello sviluppo del denaro, si osserva il passaggio dalla moneta in metallo prezioso (che reca le fattezze del sovrano), alla moneta di carta (che porta il simboli dello stato), sino alla plastica delle carte di credito (con il logo dell’ente).26

Parallelamente Halley applica alla storia dell’arte il concetto di iperreale, tratto caratteristico della distinzione tra moderno e post moderno, ovvero del passaggio dalla cultura del reale di matrice industriale a quella del superamento del reale tipica dell’era post industriale. Così, il Cubismo è l’iperreale di Cézanne, che a sua volta è l’iperreale della pittura di Courbet; l’Espressionismo Astratto è l’iperreale dell’arte europea prodotta tra le due guerre mondiali. La conclusione, anche per Halley, è che la storia del principio di astrazione in arte coincide con quella delle trasformazioni sociali che hanno nel tempo emarginato il valore dell’oggetto e dell’esperienza individuale in favore di convenzioni più o meno solide. Attraverso Cézanne, il Cubismo, Mondrian, Pollock e Rothko la storia dell’arte astratta riflette un reale cambiamento nello spazio sociale dovuto «all’organizzazione degli spazi compartimentati e dei sistemi formali che hanno costruito il mondo astratto».27 Ovvero, quelli delle istituzioni che governano società e mondo finanziario. Tale attualissimo parallelismo appare 29

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piuttosto fertile se si rinuncia a stabilire il primato tra i due termini per osservare quanto la strada verso l’astrazione, indipendentemente dal punto in cui la si imbocca e da chi la percorre, abbia la caratteristica di favorire l’incontro e il confluire di idee e informazioni in un unico spettro. Dato che, come ricorda il mercato, l’opera fatica a esistere al di là del suo dato fisico – sebbene, come abbiamo visto, sia utile postulare il contrario – il percorso dell’opera d’arte verso l’astrazione è di nuovo quello che la porta a dissolversi nel flusso continuo di idee e informazioni. Oppure, si potrebbe iniziare a ritenere che quelle idee generali alle quali l’arte aspira quando rielabora fatti particolari siano a tal punto generali da poter essere attribuite a diverse sorgenti, e non necessariamente a quella artistica. Ma in questo modo ritorna il problema dell’identità ed ecco che la forma ha bisogno di tornare a sé stessa, alla solidità dello stile e alla sua immediata riconoscibilità, come appunto avviene brutalmente nel caso di Halley. Il ruolo dell’autore, dunque, tornerebbe a essere fondamentale non tanto nel rivendicare un diritto di proprietà – un concetto che per sua natura poco si adatta al mondo della res cogitans e che pertanto necessita di strumenti di controllo sempre più evoluti (si veda, per esempio, il mastodontico Digital Millenium Copyright Act entrato in vigore negli States nel 1998) – quanto nel mantenere costantemente aperto il canale che a tali e indefinite idee generali lo tiene legato. Da qui, forse, deriva e trova fondamento ontologico l’esistenza diffusa dell’opera, ovvero l’esistere dell’artistico al di là della sua dimensione fisica, sebbene da questa dimensione non possa prescindere. Al di là delle determinazioni di spazio e tempo, l’opera è lo snodo tra il mondo delle cose e quello delle idee ed è garantita, nella parabola della sua esistenza, dall’autore stesso.

6. Cronaca e metafisica dell’oggetto Come si è detto all’inizio del capitolo, anche quello di Beautiful Inside My Head Forever è un fenomeno osservabile da più angolazioni, non ultima quella prettamente economica. Ma dal nostro punto di vista interessa soprattutto per il modo in cui l’autore è riuscito a costruire il racconto che le opere in asta hanno interpretato, al quale per sempre apparterranno. Come nel caso di Beuys, il lavoro di Hirst tende a diventare evento e a mimetizzarsi nello spazio-ambiente, ma la relazione con il contesto sembra del tutto cambiata di senso. Se dopo la contestazione e poi nel decennio successivo, l’artista si era fatto interprete di quella che credeva essere la voce più forte della coscienza collettiva, ora il nodo della rappresentazione diventa il divismo che affligge i membri di una società a prima vista meno divisa e pronta allo scontro, ma comunque ancora assetata di eccessi. Eventualmente ci si emenda organizzando un’asta di beneficenza, come hanno fatto Hirst e Bono Vox all’inizio del 2008 per sostenere la lotta 30

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all’aids in Africa attraverso il progetto red. Oppure si avvisa il pubblico in sala che i proventi del lotto che sta per passare sotto il martello del battitore saranno devoluti a fine benefico, come sempre più spesso accade e come è avvenuto anche per Beautiful Inside My Head Forever. Poi, se un tempo l’opera-operazione era testimoniata dai documenti che i nuovi mezzi di registrazione rendevano possibili, ora il lavoro tende a esistere per il pubblico soprattutto nella sua dimensione mediatica, in quanto storia, eventualmente raccontata da osservatori specializzati. Se il racconto funziona, non c’è nemmeno bisogno di produrre documenti, perché essi arriveranno da sé, attraverso i canali della cronaca. È quanto accaduto nel febbraio del 2005 quando il francese Pierre Huyghe, con sette colleghi e dieci uomini di equipaggio, è salpato dalla Terra del Fuoco alla volta del Polo Sud con l’obiettivo di registrare il misterioso canto di una rara specie di sfeniscide, il pinguino albino. L’operazione ha prodotto un musical e un film che è stato presentato due anni dopo al Sundance Film Festival di Park City, Utah. Anche in questo caso la stampa non specializzata ha lasciato ampio spazio al resoconto dell’affascinate spedizione, intrecciando il suo valore artistico con le rivendicazioni delle campagne ecologiste che da qualche tempo hanno trasformato l’Antartide in una sorta di meta simbolica degli spiriti verdi di tutto il pianeta. A Port Ushuaia, ultimo avamposto umano prima dei ghiacci, si tiene perfino una biennale d’arte contemporanea, la Bienal del Fin del Mundo. Tra i lavori dell’asta dei record non potevano mancare gli spot paintings, opere che Hirst ha in catalogo da più di vent’anni. Volendoli classificare secondo vecchi parametri, i celebri pallini colorati andrebbero probabilmente sotto le voci “Concretismo”, “Astrazione non Oggettiva”, oppure “Astrazione Aniconica”. Il condizionale è doveroso perché questi termini non rientrano nello scarno ma efficace vocabolario critico dell’artista, che a tal proposito ha detto: Simboleggiano fantasticamente l’idea che non devi toccarmi per colpirmi in modo davvero feroce. È incredibile come gli oggetti possano andare oltre la loro dimensione. Niente è immobile al suo posto. Tutto salta fuori e ti afferra. È così che funziona la pubblicità […]. È come sbattere contro la faccia di qualcuno a ripetizione. Non riuscirai più a levarteli dalla testa.28

Il primo spot painting lo dipinge nel 1988 sul muro di un’aula del Goldsmith College. Sin dal principio le regole sono poche, ma rigorose. I pallini sono tutti delle stesse dimensioni e sono perfettamente rotondi; la distanza tra loro è uguale al loro diametro; i colori non si possono ripetere; per dipingerli si usa pittura da interno; i titoli sono nomi di sostanze stimolanti o narcotiche. Il problema del rapporto tra rappresentazione e realtà probabilmente 31

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non ha mai toccato Hirst nei termini in cui ha interessato artisti e critici nella prima metà del Novecento. Quello che conta per lui, invece, è se il pezzo “funziona” oppure no: proprio come se si trattasse di un’immagine pubblicitaria. Dai pallini, in fondo, ci sono già passati la giapponese Yayoi Kusama, lo svizzero John M. Armleder e, alla fine degli anni sessanta, il danese Poul Gernes, artista e designer fortemente impegnato sul fronte sociale che, infatti, vedeva nella semplicità della forma uno strumento per migliorare la vita delle persone. Tuttavia, grazie alla forza comunicativa dell’asta-evento, anche gli spot paintings, come le altre tipologie di opere battute in quell’occasione, assumono un significato accessorio che a esse per sempre apparterrà. Tra i quadri a pallini dipinti da Hirst (o dai suoi assistenti) quelli prodotti per Beautiful Inside My Head Forever occuperanno nella sua produzione un posto del tutto particolare. Non per un tradimento delle regole originarie, ma in quanto opere dotate di una storia (di un intorno metafisico) diversa. Luogo di questa funzione, cioè dello sposalizio tra opera e racconto, è un contenitore, di solito con valenza di supporto, che sta tra l’idea di tempio e quella di ostensorio, a seconda dei casi. Qualche tempo fa, in onore delle serie The New ed Equilibrium, Jeff Koons ha rivendicato l’apertura della via alle teche e alle vasche.29 Erano i primi anni ottanta e quello dell’artista newyorkese era un modo per compiere un passo deciso oltre il senso originario del readymade verso la mistica dell’oggetto. Tratteremo la questione più approfonditamente nel prossimo capitolo; nel frattempo, per capire sin dove si spinge questa lunga via, basta guardare la cura che le riservano giovani autori come Haris Epaminonda, Thea Djordjadze, Gintaras Didžiapetris, Isabelle Cornaro, Daniel Silver, o Carol Bove (si veda la sequenza immagini alle pagine 36 e 37). Quest’ultima si è a tal punto appassionata ai piedistalli delle sculture da pensare a una scultura in forma di piedistallo, adatta a semplici oggetti, oppure a opere di altri autori. Dal canto suo Epaminonda inserisce geometriche astrazioni tra strati sovrapposti di vecchie immagini di sculture e templi dell’antica Grecia, traducendo l’idea di piedistallo-supporto nel suo corrispettivo bidimensionale. E anche se sorprendentemente esclude ogni narrazione accessoria riguardo a quel che di riconoscibile c’è nell’immagine, dice a riguardo: «L’astrazione non ti porta necessariamente in un luogo familiare, anche se parte da qualcosa di riconoscibile, qualcosa che qualcuno potrebbe aver già visitato, o che già conosce. Nell’astratto anche l’immagine che ha un soggetto reale non riguarda più il presente, o il passato, ma riguarda lo spazio.»30 Perciò, se dalle chiese di Gerusalemme alle gallerie di New York il potere del tempio e dell’ostensorio è ancora in auge, e se il pensiero di Duchamp sembra molto al di qua dall’esaurire il suo magnetismo, è anche vero che lo schema funziona meglio quando c’è a disposizione un sapere 32

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accessibile e semplice da trasmettere. Nel caso di Hirst, per esempio, la storia ha come interpreti personaggi noti ai media come il collezionista Charles Saatchi, i galleristi Larry Gagosian e Jay Jopling o il manager Frank Dunphy, l’irlandese che dopo una carriera cominciata con Peaches Page e arrivata ai Led Zeppelin, aiuta l’eroe a superare l’alcol, le droghe e i problemi con il fisco, e lo porta a trattare alla pari con i suoi potentissimi mercanti. Altre stelle compaiono nella vicenda, da Bono Vox a Bryan Ferry, da Joan Collins alla giovane Dasha Zhukova, fidanzata del magnate e collezionista russo Roman Abramovich. Ma nella trama c’è spazio anche per i personaggi minori, come la pittrice Rachel Howard, rilanciata nei giorni di Beautiful Inside My Head Forever da Hirst sulle pagine dell’Independent come la migliore tra i suoi moltissimi assistenti a eseguire gli spot paintings.31 Anche così si costruisce la metafisica dell’opera, il suo fenomeno e il materiale per il suo futuro studio iconologico. Da questo punto di vista Hirst e Koons hanno parecchie affinità. Ilona Staller ancora oggi dichiara che quello che l’ex marito ha sempre definito un amore disinteressato in realtà non era che una strategia per ottenere, tramite lei, la popolarità che in Europa ancora gli mancava. A prescindere dall’attendibilità del testimone, è vero che l’effetto della serie Made in Heaven del 1989 – dove Koons appare fotografato insieme a Cicciolina,

Poul Gernes, Untitled (Dot Painting), opera in quattro parti, 1966-69, pittura a smalto su masonite, 244 x 244 cm.

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alter ego cinematografico della Staller – è stato soprattutto quello di procurare all’artista americano visibilità in formato mainstream. Anche nell’ambito della cultura pop – dove il sapere di riferimento è, appunto, quello popolare – ci sono canali più rapidi di altri per lanciare messaggi e per produrre metafisiche. Il campo di riferimento rimane quello del sapere condiviso, perché in questo modo si garantisce l’accesso a un maggior numero di fruitori. Per quanto l’ostensorio possa amplificare il valore della reliquia, la storia che essa racchiude deve essere un fatto semplice, facilmente comprensibile. Perciò, se per leggere il problema del tempo in Tiziano l’iconologo Erwin Panofsky ricorre a un sapere elitario, specifico e diffuso nei mille rivoli della storia, in futuro, per leggere For the Love of God – il celebre teschio di platino tempestato di diamanti che Hirst ha esposto nel giugno del 2007 da White Cube – non si potrà prescindere dalla cronaca che dell’opera-operazione hanno fatto i tabloid inglesi, con tutti i dettagli del caso. Così come non si potrà prescindere dalle vicende che seguiranno nel tempo.

7. L’istantanea È nel destino delle opere e degli autori essere o non essere in un certo elenco. In arte se ne fanno in continuazione, per indicare un’appartenenza, per circoscrivere, per escludere, per celebrare, per ricordare, per documentare, oppure semplicemente per far parlare di sé. Perciò, per fare il passo che ancora manca per trovarsi a pieno titolo nell’attualità, sfidiamo quel che Umberto Eco ha chiamato “vertigine della lista”32 e arrischiamoci a compilarne una di artisti under 50 che nell’ultimo decennio hanno dipinto quadri astratti non oggettivi: Tomma Abts, Franz Ackermann, Jules de Balincourt, Philippe Decrauzat, Inka Essenhigh, Mark Francis, Katharina Grosse, Mark Grotjahn, Damien Hirst, Gary Hume, Sergej Jensen, Jason Martin, Julie Mehretu, Beatriz Milhazes, Sarah Morris, Elizabeth Neel, Albert Oehlen, Gabriel Orozco, Anselm Reyle, Matthew Ritchie, Ugo Rondinone, Wilhelm Sasnal, Thomas Scheibitz, Sterling Ruby, Udomsak Krisanamis, Piotr Uklanski, Dan Walsh, Richard Wright. Se poi si vuole estendere il discorso di una decina d’anni bisogna includere anche Ross Bleckner, Ian Davenport, Helmut Dorner, Mark Flood, Pia Fries, Peter Halley, David Reed, James Siena, Rudolf Stingel, Philip Taaffe, Günter Umberg, Juan Uslé, Peter Zimmermann, e forse Bernard Frize, che non dichiara la sua età, ma che dovrebbe averne meno di sessanta. Per limiti cronologici, fuori da questo elenco, rimangono nomi molto importanti come quelli John M. Armleder, Daniel Buren, Helen Frankenthaler, Imi Knoebel, Yayoi Kusama, Jonathan Lasker, Brice Marden, Georges Mathieu, François Morellet, Oliver Mosset, Gerhard Richter, Bridget 34

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Riley, Robert Ryman, Sean Scully, Pierre Soulages, Antoni Tàpies, David Tremlett, Richard Tuttle, Cy Twombly. È evidente che un elenco di questo tipo ha un margine di senso piuttosto sottile, soprattutto perché non può evitare esclusioni arbitrarie. Tuttavia, può essere almeno utile a chiarire il metodo con cui sono stati scelti gli autori e i fatti che il lettore incontrerà nelle pagine che seguono. Un metodo alla base del quale c’è il convincimento che i criteri selettivi, in arte, tendono necessariamente a essere aleatori, soprattutto se formulati a posteriori e da una certa prospettiva culturale. A volte scrivere un libro è come scattare una fotografia. Si possono cambiare le ottiche, ma l’immagine risultante avrà sempre quattro margini perpendicolari tra loro. Spetta all’osservatore, eventualmente, ricomporre nella sua mente gli oggetti che i bordi hanno spezzato. All’autore spettano invece il setting della fotocamera, la scelta dell’inquadratura, lo studio della luce, la cura dei dettagli presenti sulla scena. Quella scena di cui l’immagine proverà, se non altro, almeno una temporanea esistenza. 33 Del resto, chi ha avuto l’accortezza di sfogliare con la mente i lavori degli artisti dell’elenco non potrà non giungere alla considerazione che ogni opera, fuori dal suo contesto, è una costellazione autonoma, che di certo vive di relazioni con altre costellazioni simili all’interno di un continuum spazio-temporale, ma che dal punto di vista estetico si presta decisamente più a una lettura individuale, raccolta, mirata, monografica. L’applicazione di etichette stabilite a priori non può far altro che ridurre la complessità del messaggio a un questione di appartenenza a un certo sistema di idee, qualcosa che in genere si rivela scomodo come un paio di scarponi ai piedi se si deve correre. È anche per questa ragione che si è deciso di partire da uno dei più consolidati termini artistici, un termine di cui ogni lettore che è arrivato sin qui dovrebbe aver maturato una qualche nozione. A proposito dell’opportunità di procedere valutando lavoro per lavoro, proviamo anche a fare qualche esempio tratto dal nostro elenco. Prendiamo Katharina Grosse. La sua principale preoccupazione è quella di dare forma alla pittura, e i suoi dipinti spray sono di fatto un modo per creare un’unione tra oggetti inseriti in un contesto architettonico. La pittura per lei è un ponte e le problematiche centrali sono quelle relative alla sua struttura, ovvero al modo in cui questo ponte riesce a innestarsi su due sponde lontane della realtà fisica. Macerie, oggetti geometrici, pietre, residui, costituisco porzioni di materia che vengono addizionate allo spazio perché una pittura vaporosa e colorata li mimetizzi con l’ambiente creando dal nulla una nuova dimensione autonoma. La pittura è la pellicola magica in grado di trasformare un luogo (eventualmente alterato) nella rappresentazione di sé stesso. Al contrario, l’inglese Tomma Abts insiste sullo spazio finito di piccole tele dove l’illusione prospettica è finemente perseguita attraverso ombre e studiate sovrapposizioni di linee e piani cromatici. La distanza 35

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Carol Bove, Tantra Yoga, assemblage, 2005, mensole in legno e metallo, libri, riviste, 91 x 76 x 25 cm.

Opere di Daniel Silver, esposte nel 2009 alla Frieze Art Fair di Londra. In primo piano: Untitled (Couple), 2009, coppia di sculture, onice nero e legno, 154 x 141 x 74 cm. In secondo piano a sinistra: Untitled (Freud), 2009, onice, legno e tappeto, 171 x 85 x 85 cm. Sullo sfondo: Untitled (Man on the Tower), 2009. In fondo a destra: Untitled (Golden Woman), 2009.

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Haris Epaminonda, Untitled #0011c/g, collage, 2007, 17,5 x 17 cm.

Thea Djordjadze, Gestell mit Streifen, assemblage, 2008. Tecnica mista: gesso, pittura, acciaio, gomma piuma, 125 x 130,5 x 70 cm.

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formale che separa opera e opera dà la misura di una ricerca persino ossessiva all’interno di pochi elementi caratterizzanti. Le dimensioni della tela, i cromatismi che escludono i toni accesi per abbracciare uno spettro ampio ma piuttosto uniforme di suoni cupi, il contrasto evidente tra piani, l’amore per la linea spezzata, sono elementi di una grammatica visiva la cui forza sta proprio nel rimanere refrattaria agli allineamenti storici pur essendo evidentemente parte di una precisa tradizione. Anche Sergej Jensen colloca i suoi interventi pittorici in uno spettro cromatico spento, ma riduce al minimo il margine operativo del segno per far emergere il valore fisico del supporto e delle sue possibili alterazioni. Le bolle di colore e materiale di Beatriz Milhazes esplodono come efflorescenze sulla superficie della tela portando a galla i resti depositati sul fondo delle profondità da cui provengono. Ma come ha notato Michael Asbury: «l’emergere del passato nelle sue opere, più che un rito spettrale, è la volontaria evocazione di una specifica identità culturale». 34 Per quanto altri se ne possano aggiungere, questi quattro brevi esempi dovrebbero bastare a concludere che, se di opere astratte si vuole parlare, bisogna prendere atto del fatto che la forza di un lavoro in genere sta nella sua capacità di rendersi identificabile; non già riconoscibile, che sarebbe un modo per portare il discorso nella secca della ripetizione dello stile (quello stile tanto disprezzato dagli antichi miniaturisti raccontati da Orhan Pamuk:35 lo stile che impedisce di dipingere senza occhi e di afferrare con l’arte la verità della bellezza). In questo senso, l’affermazione di Clement Greenberg: «l’essenza del Modernismo risiederebbe nell’uso del metodo caratteristico di una disciplina per criticare la disciplina stessa, non per sovvertirla, ma per radicarla più saldamente nella sua area di competenza», 34 potrebbe soprattutto servire a misurare la distanza che ormai separa la visione competitiva tipica della critica del secolo breve dal guardare all’arte come a un luogo di incontro tra sistemi di sapere unici e individuali, più che come luogo di antitesi e aree da circostanziare. Ora al centro non c’è più la pittura ma, eventualmente, il modo in cui essa riesce a stabilire relazioni vantaggiose tra sé e il contesto in cui si trova. Solo il prevalere della sua capacità relazionale garantirà la sopravvivenza dell’opera. Si può osservare l’affermazione sociale e politica del principio di cooperazione su quello di competizione nella ricerca di individualità tipica dello scorso ventennio, piuttosto che nell’ordinamento in gruppi o correnti, che di nuovo implicano appartenenza o esclusione. Per questo, una volta metabolizzati valori come ibridazione, contaminazione, interdisciplinarità, anche l’arte riconosce che uno dei meriti principali del messaggio è quello di saper parlare direttamente dell’individuo, rendendolo identificabile, e divenendo identificabile a sua 38

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volta, come per osmosi, in un rapporto che è sempre a doppio senso. Per questo motivo, al contrario di quanto avveniva nell’epoca in cui scrivevano Greenberg, Harold Rosenberg, Irving Sandler o Thomas Hess, quella stessa disciplina che poi ha incontrato la post modernità e ha visto i suoi ordini sciogliersi come ghiaccio al sole, ora ritrova nell’uomo il proprio centro di gravità e con esso, attraverso nuove formule di mimesis, riscopre le potenzialità del proprio dire. Mentre tradizionalmente l’arte astratta è un’arte di protesta e di rottura, che si allontana dalla realtà per contestarla o scandalizzarla, da un punto indefinito del passato recente anche la pittura ritrova il patrimonio formale dei primordi per moltiplicare le sue possibilità di relazione con la realtà. Ma a questo punto l’astratto è già uscito dalla confortevole culla dell’immagine dipinta.

Beatriz Milhazes, conversazione telefonica del 21 settembre 2009

Quando hai deciso che saresti diventata una pittrice? Ho iniziato studiando giornalismo e comunicazione sociale, ma mia madre è una storica dell’arte e anche mio padre, che è un avvocato, è appassionato alla materia; sin da bambina ho respirato una certa atmosfera. Al secondo anno di università non ero già più convinta della strada che avevo preso, così mia madre mi ha suggerito di provare con una scuola d’arte. Avevo vent’anni. Inizialmente non mi interessava una disciplina in particolare, la pittura è venuta strada facendo. Come è accaduto? Mi attraeva soprattutto l’idea di lavorare su una superficie bianca e piatta. Era uno spazio che potevo realmente creare, sul quale potevo inventare un mondo che apparteneva soltanto a me. Avevi bisogno di un supporto? In un certo senso credo di sì. La superficie della tela è un enorme limite che non appartiene alla realtà. Ogni cosa che ci fai sopra è un dialogo tra te e le due dimensioni; il mondo reale ne ha tre. Come definiresti la tua pittura? Direi che è pittura astratta, anzi pittura geometrica astratta. Credo che il mio lavoro sia un modo di pensare alla geometria.

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Beatriz Milhazes, Yogurt, 2008, collage, 185,5 x 141 cm.

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Sembra che tu abbia un’idea piuttosto personale a riguardo. Infatti, penso che la geometria riguardi il nostro modo di vivere. Il mio lavoro rappresenta una specie di salutare conflitto tra resistenze, aree, forme e colori ordinati dalla struttura che sviluppo. Per me tutto questo è parte della geometria, qualcosa che non interessa solo con forma basilare. Quale significato dai al termine astrazione? L’astrazione è come un grande campo, o come un calderone che contiene molte possibilità. Non sono interessata a un’astrazione rivolta su se stessa. Credo nell’astratto perché credo nell’immaginazione. È la possibilità di creare un mondo, uno spazio che esiste solo in quest’area, nel campo dell’arte. Non mi interessa sostituire la realtà. Dipingere offre la possibilità di avere un sogno, una poetica e uno scambio tra luoghi differenti che non sono luoghi reali. Credi dunque che l’astrazione sia qualcosa di individuale? Direi di sì, dovrebbe trattarsi di qualcosa di molto personale. È una specie autentica di libertà. Non come il Surrealismo, anche se dipinge cose che non sono reali perché vengono dal subconscio. Al contrario, preferisco gli stati di coscienza e sono molto razionale, per questo amo gli ordini e le strutture. Ma si tratta di strutture mie, della mia personale possibilità di coordinarle e indicarle. Credo che ogni opera d’arte dovrebbe essere astratta nella misura in cui qualsiasi opera, anche di Arte Concettuale, sviluppa qualcosa di personale che appartiene alle tue capacità artistiche e che è comunque sempre dipendente dalla tua immaginazione. Tra gli artisti che più hanno influenzato il tuo lavoro ci sono Mondrian e Halley, due autori molto attenti agli aspetti teorici della pittura. Inizialmente avevo due grandi punti di riferimento, Tarsila do Amaral ed Henri Matisse. Mondrian è arrivato dopo. Di lui mi colpiscono le strutture, così semplici e così complesse allo stesso tempo; incroci di linee e colori basilari che a seconda di come sono disposti attivano l’occhio di chi li osserva. Mondrian mi è stato sempre di ispirazione perché, anche se lavoro con forme differenti dalle sue e ho referenze anche fuori dalla pittura, quello che realmente cerco è quel tipo di organizzazione. Mentre Mondrian è una specie di riferimento costante, Halley è più semplicemente un artista che mi piace perché ha colori che ti colpiscono come un pugno nello stomaco. Riesce sempre a essere sorprendente. Dal punto di vista teorico credo che oggi la situazione sia differente dal passato. Ora siamo tutti parte di uno stesso mondo.

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Si può parlare di una dimensione narrativa nel tuo lavoro? Sì, credo che esista un racconto. Riguarda i materiali che usi? Può riguardare i materiali, ma può anche venire da riferimenti al design, alla vita reale, alla cultura del mio paese. Come scegli il titolo per un dipinto? Colleziono parole, nomi, espressioni, intere frasi. Quando leggo qualcosa che mi interessa lo annoto così da poterci ritornare sopra. Non mi interessa spiegare l’opera attraverso il titolo, preferisco le libere associazioni. Nominare un quadro significa dargli un posto nel mondo e definirlo. È qualcosa di poetico. Lavori con pittura e collage. Che differenze ci sono? La differenza principale è che nei collage uso solo carta; dagli involucri dei cioccolatini alla carta da parati. Mentre la pittura viene interamente dalla mia immaginazione i collage vengono da un contesto reale e portano informazioni. Io mi limito a dare loro una forma. Ora mi sto dedicando alla stampa, che è un altro mondo ancora, dove il limite principale è la tecnica. Ho anche prodotto libri d’artista e ho lavorato sull’architettura. Ogni medium o nuovo supporto cambia il mio approccio e i miei propositi. I risultati sono molti differenti, anche se le immagini tendono a far sembrare i lavori molto simili tra loro. Per esempio, i dipinti non sono mai meccanici e organici come i collage. Dal punto di vista artistico, che relazione hai con l’ambiente? Il mio studio si trova a Rio de Janeiro ed è molto importante che si trovi proprio qui. Ho bisogno della natura, di sentirmi in contatto con essa. Cerchi mai di rappresentarla? No, non direttamente. Sono più interessata alle manifestazioni della creatività umana. Mi piacciono il design, le arti decorative, gli oggetti che vengono dal folclore. Studio quello che l’uomo produce per rendere più accogliente e interessante l’ambiente in cui vive. In genere è anche quel che rende la vita più positiva e intensa.

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