Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi

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«Una vera rivelazione.» Times Literary Supplement «Una biografia non convenzionale in cui emergono tutti quegli aspetti della vita di Bacon che sfuggono a uno studio accademico. Nessuno più di Farson ha le carte in regola per restituire l’arguta compagnia di Bacon e la vita sfrenata del sottobosco londinese.» Lynn Barber, Independent on Sunday

copyright © Dmitri Kasterine / contrasto

«Un libro provocatorio e di grande intrattenimento, popolato di personaggi veri, raccolti per strada.» David Mellor, Daily Telegraph

Nella stessa collana: 1. Mark Stevens - Annalyn Swan De Kooning. L’uomo, l’artista 2. Calvin Tomkins Robert Rauschenberg. Un ritratto 3. Bernard Marcadé Marcel Duchamp. La vita a credito 4. Gail Levin Edward Hopper. Biografia intima 5. Hunter Drohojowska-Philp Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana 6. Annie Cohen-Solal Leo & C. Storia di Leo Castelli

Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi

Foto di copertina:

«“Ho sempre pensato all’amicizia come il luogo in cui due persone si fanno a pezzi a vicenda” diceva. “Solo in questo modo si può imparare qualcosa l’uno dall’altro.” Quando il regista Gavin Millar [...] lo definì “gentile”, ripetei la parola incredulo. Sapeva essere gentile ma poteva pure essere un mostro, anche se un mostro sacro.»

Daniel Farson

Daniel Farson, figlio del leggendario corrispondente americano Negley Farson, all’età di diciassette anni diventò il più giovane giornalista parlamentare della House of Commons. Mentre lavorava come fotografo per Picture Post, capitò a Soho e conobbe Francis Bacon. Dopo aver lavorato come intervistatore televisivo e aver condotto una serie di programmi di successo, si trasferì nel Devon per dedicarsi alla scrittura. Fra aspre polemiche riguardo al suo stile di vita poco ortodosso e alle sue crociate per i diritti degli omosessuali e dei travestiti, si affermò anche come scrittore. Tra i suoi titoli, il bestseller Jack the Ripper (Jack lo Squartatore), The Man Who Wrote Dracula (L’uomo che scrisse Dracula) e Soho in the Fifties (Soho negli anni cinquanta). È morto nel 1997.

Daniel Farson

Francis Bacon Una vita dorata nei bassifondi

«Stronzate!» esclama Bacon spazientito quando Daniel Farson gli chiede se è contento di essersi guadagnato un posto nell’Olimpo della storia dell’arte. La reazione è sincera, non gliene importa degli orpelli della fama, figuriamoci della posterità. «Da morti non serviamo più a nulla, è finita» ripete. Non crede in Dio, nella moralità o nell’amore, ma si definisce comunque un ottimista. Un ottimista del nulla, che campa della “sensazione del momento”. La vita è così insensata, tanto vale farne qualcosa di straordinario: il paradosso nietzschiano guida anche un approccio alla pittura improntato alla capacità di sfruttare l’“incidente creativo”, come quando getta a caso il colore sulla tela per vedere che cosa può tirarne fuori. Simile a un funambolo in bilico fra astrattismo e figurazione, si muove abbinando a una casualità intenzionale il calcolo del giocatore d’azzardo. Bacon rema contro l’ondata della moda artistica, che in questi anni abbraccia l’astratto: vuole dipingere la tragica bellezza della vita e se arriva a distorcere la figura umana è solo per trarne una verità più grandiosa e violenta. Analogo intento sembra animare questo libro – vivida memoria personale anziché biografia ufficiale – che riesuma materiali di prima mano raccolti nel corso di un’amicizia iniziata nel 1951 in un locale di Soho e durata oltre quarant’anni. Quello di Farson è il racconto sboccato e senza veli di un artista fuori misura, capace di amori smodati e odi feroci, di slanci magnanimi e spietate calunnie. Fra una bevuta di champagne e una frecciata al vetriolo, lo seguiamo nelle spumeggianti scorrazzate “tra i bassifondi e il Ritz”, al cui capolinea c’è sempre Soho, la bohème di Londra, la seconda casa, se non la prima, di scrittori e artisti che consumano il loro talento nell’alcol. Per Bacon la discesa nel sottobosco omosessuale va di pari passo con l’inarrestabile ascesa artistica: i capolavori in cui esplode una sessualità furiosa passeranno alla storia, ma se qualcuno gli chiede di che cosa si occupi, risponde caustico: «Sono una vecchia checca».

€ 29 ,0 0



Daniel Farson

Francis Bacon

Una vita dorata nei bassifondi

Traduzione di Costanza RodotĂ



1 La violenza di una rosa

Quando sarò morto, mettetemi in un sacco di plastica e gettatemi nella fogna. Francis Bacon a Ian Board

Con un abile inganno e un ultimo gesto plateale, Francis Bacon morì la mattina del 28 aprile 1992 a Madrid. Aveva ottantadue anni. Tutto avvenne come aveva sempre sperato: nessuno scalpore, nessun ritrovamento del corpo un paio di giorni dopo in una stanza spoglia, nemmeno un funerale. Più che una morte, la sua fu una scomparsa. Francis era stato ricoverato in ospedale sei giorni prima per disturbi cardiaci, aggravati da quell’asma che lo aveva perseguitato tutta la vita. All’epoca aveva già smesso di dipingere, ma godeva dell’amore di un giovane spagnolo. A modo suo, rimase un vincente sino alla fine. Nutriva per la morte lo stesso disprezzo che aveva per la vita. Il 14 luglio del 1989 ci eravamo incontrati a Soho per festeggiare il congedo di Gaston Berlemont dal French House, un pub che Francis aveva frequentato nel 1930, quando aveva vent’anni; era lì che lo avevo conosciuto durante la mia prima visita a Soho. Di punto in bianco mi parlò di suicidio. «D’altronde, da morti non serviamo a niente, è finita. Quando toccherà a me, spero di rimanere stecchito mentre sono al lavoro!» Ribattei che se moriva dipingendo, forse con quell’ultima pennellata accidentale avrebbe creato un capolavoro. «Non intendevo una cosa così romantica» disse sprezzante. «Mi accontenterei di morire lavorando, ecco tutto. Altrimenti mi suiciderei.» «Ti suicideresti?» «Be’» una parola che amava pronunciare strascicando la vocale «se conoscessi il modo giusto di farlo, con un medico che mi prescrive quello che serve… Molti lo fanno male e la cosa non va a buon fine, si bruciano il cervello

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e si riducono a vegetali. Se lo fai, devi farlo bene» dichiarò enfaticamente. «Non pensi che sia un affronto alla vita?» «Stronzate» disse con tono arrabbiato. «Proprio per niente! Che vuoi dire con “un affronto alla vita”? Non sarai mica diventato credente o roba del genere?» «Io amo la vita, ma forse esagero.» «Sì, penso di sì. Che vuoi dire con “un affronto alla vita”?» Cercai di spiegarglielo, ma il nervosismo produceva solo pensieri sconnessi. «La vita è di un’intensità così magnifica, molti miei amici si sono uccisi e io ho sempre pensato a quanto avrebbero apprezzato alcune cose… Mi sembra un tale spreco» conclusi poco persuasivo. «Chissenefrega» disse. «La fai finita e basta. Perché non possiamo procurarci quella roba che usavano i tedeschi? Cianuro, sì, ci vogliono solo due minuti di agonia.» «Ma in quell’ultimo momento di agonia, se per caso…» «Be’, a quel punto non puoi mica cambiare idea!» disse ridendo. «È troppo tardi. Non sono ammessi ripensamenti!» Si versò un altro bicchiere di champagne: «Salute» disse con quel suo sorriso inimitabile. Ma all’avvicinarsi del suo ottantesimo compleanno era così “in forma”, a 14

detta di una conoscente, e il suo vigore così intatto, che forse quel discorso sul suicidio era stato solo un gioco. Tuttavia i suoi amici rimasero scioccati dalla notizia della sua morte. A Soho si respirava un reale senso di perdita anche se a ottantadue anni la morte difficilmente arriva inaspettata. Sapevo che sarebbe stato un evento importante, ma non ne avevo colto la portata. All’inizio, provai quell’inspiegabile brivido che ti invade quando vieni a sapere che un personaggio famoso è morto. Quasi un senso di euforia. Il telefono squillò senza interruzione per le successive ventiquattr’ore, erano per lo più quotidiani che chiedevano un necrologio. Avevo scritto il mio per il Daily Telegraph quattro anni prima; spesso la gente si sorprende che i necrologi vengano preparati con molto anticipo, ma è una prassi normale. Dovetti rifiutare altre richieste, visto che mi ero impegnato con il Mail on Sunday per cui lavoravo come corrispondente per la sezione arte. Tuttavia contribuii con qualche riga a una commemorazione collettiva sul Sunday Times: Sia nella vita sia nell’arte non aveva eguali. Era un uomo unico, quasi venisse da un’altra epoca. Tutto in lui era diverso: la camminata attenta; il particolare modo di parlare; l’enfasi speciale con cui pronunciava le parole e che rendeva irresistibile la sua conversazione. Quando entrava in una stanza era un’epifania. Sentirò la mancanza del suo senso dell’umorismo e della sua disarmante risata.


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Soho fu preda di una baldoria selvaggia. A Dean Street, i membri del Colony Room risalirono le tetre scale del club, un ritrovo per bevute pomeridiane che figurerà spesso in questo libro. «È stato pazzesco» mi disse Ian Board, il proprietario. «Quei luridi vermi sono strisciati fuori dalle loro tane, molti li credevo morti, ma la cosa straordinaria è che le nuove leve erano presenti in tutto il loro cazzo di splendore.» La cantante Lisa Stansfield, sull’orlo delle lacrime, disse a un giornalista invadente di andarsene a “’fanculo!”. Lì accanto, al Toucan, un gay-bar aperto fino a tardi, molti dei presenti levarono i calici con posa teatrale e brindarono a “Eggs”, uno dei soprannomi con cui veniva chiamato Bacon, rivendicando un’amicizia che a stento si poteva definire tale, anche se un gigolò mi confidò che una volta era andato nel retro con Francis: «Se ne fotteva proprio, eh?». La sua morte ebbe una risonanza enorme, superiore a quella di qualsiasi altro personaggio contemporaneo britannico cui riesca a pensare, compreso Graham Greene. Senza precedenti, il Times pubblicò in prima pagina un’indimenticabile fotografia a colori con il titolo: «world of art pays tribute to bacon» (Il mondo dell’arte rende omaggio a Bacon); Paris Match gli dedicò diverse pagine e James Birch mi telefonò da Mosca, dove nel 1988 aveva organizzato una mostra su Bacon, per dirmi che l’Unione degli artisti sovietici era in lutto. Per quanto mi riguardava, il vuoto mi travolse solo alcuni giorni dopo, quando finalmente capii che non avrei mai più rivisto quel sorriso disarmante, né avrei mai più ascoltato quella sua inimitabile risata. Era stato così intensamente vivo che era difficile accettare di non rivederlo più. Mi resi anche conto che lo avevo frequentato per quarant’anni, vale a dire per la maggior parte della mia vita, avevamo spesso litigi furiosi perché il suo umore era variabile quanto un cielo inglese in estate e io stesso raramente sono tranquillo. «Ho sempre pensato all’amicizia come il luogo in cui due persone si fanno a pezzi a vicenda» diceva. «Solo in questo modo si può imparare qualcosa l’uno dall’altro.» Quando il regista Gavin Millar, in una nostra conversazione, lo definì “gentile”, ripetei la parola incredulo. Sapeva essere gentile ma poteva pure essere un mostro, anche se un mostro sacro. Una delle lettere che ricevetti mi fece particolarmente piacere, perché era di David Sylvester, uno fra i più autorevoli critici d’arte britannici e intimo amico di Bacon. Vi aveva accluso il ritaglio del necrologio pubblicato sull’Independent alcuni giorni dopo la sua morte. Anche lui ne ricordava soprattutto il tratto umano: Dal giorno della sua morte ho smesso di pensare a lui come a un pittore. Ho pensato esclusivamente alle qualità che per lungo tempo mi hanno fatto credere che probabilmente fosse l’uomo migliore che io abbia mai conosciuto e

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certamente il più grande. La sua onestà intellettuale, il suo perenne senso del tragico e del comico, il suo gusto per i piaceri della vita, la sua pignoleria, la sua generosità, non solo riguardo al denaro – cosa da tutti – ma riguardo al suo tempo; e soprattutto, credo, il suo coraggio. Aveva difetti che potevano essere esasperanti: era bisbetico e fazioso, senza dubbio infedele e indiscreto. Ma era anche un uomo gentile e indulgente, il successo non lo aveva rovinato e non era mai scortese senza volerlo.

Mi piacque quel “senza volerlo”. Le considerazioni personali di David Sylvester erano toccanti, mi fecero capire che ero stato una parte importante della sua vita e che eravamo stati invidiabilmente vicini. Un giorno chiesi a Francis se fosse contento di sapere che il suo lavoro sarebbe stato ricordato, che si era conquistato un posto nella Storia dell’arte. Lui rifiutò categoricamente questa insinuazione. «Stronzate!» esclamò spazientito. La sua reazione era sincera. Altri avrebbero potuto nutrire una segreta soddisfazione, ma lui aveva poco tempo per pensare ai posteri e ancora meno per gli orpelli della fama. Quando gli chiesi perché aveva rifiutato le onorificenze che gli erano state offerte – prima il titolo di cavaliere e poi quello dell’Order of Merit – disse 16

che non aveva alcun desiderio di «essere tagliato fuori* dall’esistenza» e un attimo dopo, scoppiando a ridere, aggiunse: «E poi certe cose ti fanno sembrare più vecchio!». Mi chiese però, tipico da parte sua, di non rendere pubblico il suo rifiuto perché non voleva imbarazzare lord Chamberlain. Nessuno sapeva essere più disfattista di Francis nei confronti del suo stesso lavoro. Se Picasso e Bacon si distinguono dagli altri artisti del xx secolo è per via di una forza che non ha mai permesso alla moda di prendere il sopravvento. Entrambi erano eccezionalmente caparbi, egoisti e determinati. Tutti e due ossessionati dalle loro personali fantasie sessuali, sebbene di gusti opposti. Come lo stesso Bacon ebbe a dire al critico Richard Cork nel 1991, «se si può dire che siamo stati entrambi [Picasso e io] spinti da un impulso erotico, si tratta di un erotismo di segno opposto, perché io sono omosessuale». L’omosessualità dominò la sua vita. La ferocia del suo lavoro era direttamente collegata a quell’ambiente di dorati bassifondi che tanto amava. Insisteva nell’affermare che non si era mai ispirato a nessuno, ma mentiva, perché alcune influenze erano innegabili. L’unica che fu pronto a riconoscere, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, fu quella di Picasso. Fu grazie alle sue opere, viste nel 1928 a Parigi, nella galleria di Paul Rosenberg,

*  Gioco di parole con il verbo inglese to cordon off che significa “fare cordone” (es. intorno a una folla per isolarla). Al tempo stesso la parola cordon designa un’insegna onorifica. [N.d.T.]


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che decise di dedicarsi alla pittura. Il suo primo lavoro di un certo rilievo per lui, il trittico Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion (Tre studi per figure alla base di una Crocifissione), esposto a Londra nel 1944, riecheggia uno dei disegni di Picasso presenti alla mostra parigina sedici anni prima. Bacon odiava le definizioni, non amava essere “etichettato”, e aveva i suoi buoni motivi. Quando nel 1967 Richard Cork gli ricordò che quel celebre trittico era stato «ispirato dal poema di T.S. Eliot, Sweeney Agonista», si lamentò del fatto che «non era stato lui a intitolarlo così, ma i galleristi». E lo avevano fatto dopo avergli sentito dire di aver letto La terra desolata di Eliot. A chi gli chiedeva se la cosa gli dispiacesse, rispondeva: «Certo che sì». Nelle sue opere Bacon rese omaggio a tre artisti: van Gogh, con il cavalletto a tracolla sulla strada di Tarascona; Velázquez, dal cui Papa Innocenzo x ha tratto la serie dei papi del 1953, un lavoro che in seguito rinnegò; e Ingres, come attesta Oedipus and the Sphinx after Ingres (Edipo e la Sfinge da Ingres) del 1983. Il suo debito più importante, tuttavia, non era forse quello verso altri pittori, ma verso la fotografia, in particolar modo gli Studies (Studi) di Eadward Muybridge, un americano nato a Londra nel 1830 e morto nel 1904. Muybridge si era interessato alla fotografia come strumento di prova scientifica più che come forma d’arte. Fece degli esperimenti con sequenze che mostravano i movimenti delle zampe di un cavallo al galoppo, per dimostrare che non erano divaricate come si era erroneamente creduto. Nel 1952-53, Bacon usò una delle serie di Muybridge, raccolte in Animals in Motion (Animali in movimento), per uno studio sui cani, a cui era allergico; guardando questi lavori si ha la netta impressione che l’animale stia ansimando per lo sforzo. Quello che affascinava Bacon delle fotografie di Muybridge era anche la sua predilezione per il bizzarro: Chicken Scared by a Torpedo (Pollo spaventato dallo scoppio di un petardo), Man Walking after Traumatism of the Head (Uomo che cammina in seguito a un trauma alla testa) e Paralytic Child Walking on All Fours (Bambino paralitico che cammina a quattro zampe), quest’ultimo attentamente riprodotto da Bacon in quello scarno dipinto che ora è esposto al Gemeentemuseum a L’Aia. Bacon ebbe l’opportunità di utilizzare anche le immagini di Studies for the Human Figure in Motion (Studi per la figura umana in movimento) del 1887, quando il suo amico e pittore Denis Wirth-Miller gli disse che l’opera di Muybridge era esposta al Victoria and Albert Museum, proprio a due passi da casa sua. Il dipinto più famoso, o famigerato, ispirato a questa serie fu Two Figures (Due figure) del 1953, noto agli amici come “I sodomiti”, basato sullo studio di Muybridge di due lottatori nudi. Che si tratti di due attività diverse è piuttosto ovvio, ma la loro posizione è assai simile. «Certo non possiamo sapere che cosa stessero pensando i lottatori» fece notare Bacon con enfasi. Replicò questo abbraccio atletico-sessuale in diverse versioni, in particolare l’anno seguente in Two Figures in the Grass (Due figure nell’erba, 1954). La prima resta

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comunque la più straordinaria, ma oggi è difficile vederla perché è di proprietà di Lucian Freud che si rifiuta di prestarla. Ha tutto il diritto di farlo, ma un giorno quest’opera meriterà di essere mostrata come una delle immagini omosessuali più provocatorie del nostro tempo. Suscitava sempre grande fascino il movimento catturato nel fermo immagine della pellicola e uno degli esempi più eclatanti è sicuramente quello tratto dalla Corazzata Potëmkin, il capolavoro di Ejzenštejn del 1925: sulla scalinata di Odessa, l’infermiera viene colpita a morte, gli occhiali infranti dalla pallottola, il sangue che le cola dall’occhio, la bocca cavernosa aperta in un grido. Riferendosi a quel grido, che dominò così tante sue opere, proprio come quello di Edvard Munch, Bacon fece una sorprendente ammissione: «Ho sempre pensato di poter rendere quel grido bello come un paesaggio dell’ultimo Monet, ma non ci sono mai riuscito». Pensai che fosse finta modestia da parte sua finché Peter Bradshaw non mi chiese di portare un suo quadro allo studio di Bacon. Stavo andando a Londra dal Devon del Nord, dove Bradshaw, un vecchio amico, viveva nella casa accanto alla mia. Nel 1957, Bacon aveva usato l’immagine tratta dalla Corazzata Potëmkin per Study for the Nurse (Studio per l’infermiera), un quadro a grandezza naturale, ma non aveva dipinto il viso, cosa che aveva fatto Bradshaw come 18

una sorta di affettuoso omaggio. Conoscendo il disprezzo di Bacon per i beni materiali, in particolare per i dipinti degli amici, temevo quell’incontro, ma non avevo modo di evitarlo. Salii le anguste scale dello studio di Reece Mews, Bacon mi accolse, prese il pacchetto confezionato con cura e strappò via la carta marrone, felice come un bambino nel giorno del suo compleanno. Rimasi turbato e in quel momento capii che raramente la gente gli regalava qualcosa, forse proprio perché aveva così tanto. Mi aspettavo comunque un commento sprezzante; pensavo che avrebbe guardato il quadro per poi aggiungere, con quel suo tono sarcastico: «Oh, davvero molto carino». Invece lo studiò intensamente in totale silenzio mentre io trattenevo il respiro. Passò almeno un minuto, poi fece un gesto enfatico ed esclamò: «È quello che ho sempre cercato di ottenere: il colore della bocca». Pur conoscendolo bene, rimasi sconcertato, perché quella sua affermazione rivelava una modestia che non avevo mai sospettato o, come riconobbi un attimo dopo, la forza di un uomo che è consapevole della sua genialità, ma anche dei suoi limiti. Mandò a Peter Bradshaw una lettera scritta a mano, estremamente generosa: Londra, 2 settembre 1986 Caro Peter, adoro questo quadro penso che sia molto ben eseguito ed è meraviglioso vederlo a colori Grazie davvero per avermelo regalato sono molto contento di averlo – spero di vederti presto e grazie ancora per questo


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meraviglioso dono – i miei migliori auguri con affetto Francis [Di rado usava la punteggiatura, N.d.A.]

Fin dagli inizi Bacon apprezzò l’impatto della pittura sulle tele di grandi dimensioni; spesso, quando doveva fare economia usava anche il retro e scoprì che questo espediente poteva fornirgli la trama ideale per il suo lavoro. I dipinti erano montati in sontuose cornici dorate, protetti da un vetro che aumentava l’effetto della “gabbia” che egli creava utilizzando linee orizzontali e verticali in cui confinava i suoi soggetti. Quando Arnold Eichmann venne messo sotto processo per crimini di guerra, vedendolo rinchiuso in una gabbia di vetro nell’aula del tribunale, tutti notarono subito la somiglianza con i ritratti di Bacon, sebbene questi fossero stati realizzati già nel 1949, anno a cui risale Head vi (Testa vi) che il vecchio sir Lawrence Gowing elogiò con tanto vigore: Il cubicolo si rivela un vero e proprio cubo, forse di lastre di vetro. Le tende di luce, a meno che non siano ombre, scendono giù come pioggia intorno e attraverso la scatola, inzuppandola più che mai. Dentro di essa, sospesa, una nappina ironica pende contro il naso del soggetto ritratto, tra i suoi occhi invisibili e ciechi (che l’ombra e il destino hanno lavato via); egli è al tempo stesso prigioniero e sovrano; niente meno che un principe della Chiesa in una cappa di raso viola, che evoca la berretta da prete sulla sua testa invisibile. Sotto il raso, con straziante finezza, indossa merletti bianchi. La nappina lo punzecchia, lo solletica o lo tortura. In una smorfia abnorme, il papa grida.

Questa immagine fu scelta per il manifesto della prima grande retrospettiva su Bacon organizzata alla Tate Gallery nel 1962. E costituiva l’apice del suo lavoro su una serie di teste del 1948 e 1949, tra le sue opere più inquietanti. Lawrence Gowing era un critico molto perspicace e anche un pittore della vecchia scuola e la sua reazione alle teste esposte alla Hanover Gallery, in particolare a Head vi, confermò il successo di Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion di quattro anni prima. Scrivendo di Head vi, Gowing disse: Era un oltraggio, un’infedeltà al principio esistenziale, una capitolazione mimica alla tradizione, un pietismo profano, come uno snobismo intellettuale artefatto, una resa anche alla pittura tonale, che i pittori seriamente progressisti non hanno mai perdonato. Ogni cosa era imperdonabile. L’improvvisa paradossale comparsa di pastiche e iconoclastia era senz’altro uno dei tratti più originali di Bacon. Il quadro resta uno dei suoi tanti capolavori e una delle meno convenzionali e delle meno prevedibili raffigurazioni del xx secolo. Come le immagini davvero importanti del nostro tempo, essa inaugurava una dimensione che non avremmo potuto immaginare e che ancora non possiamo interamente descrivere.

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Molto è stato detto a proposito della manipolazione che Bacon operava sull’incidente creativo e del modo in cui il colore ricadeva sulla tela, dandogli l’ispirazione per continuare in una direzione non prefissata. In una delle sue interviste con David Sylvester disse: «Se c’è qualcosa che funziona nel mio caso, funziona a partire da quel momento in cui consciamente non so che cosa sto facendo». Riconoscendo i rischi di un tale approccio, descrisse un ritratto che aveva tentato di dipingere nel 1962 in cui le orbite oculari, il naso e la bocca non erano affatto realistici, anche se il colore, deformandosi da una linea all’altra, improvvisamente ne creava le sembianze. Tuttavia, quando il giorno dopo cercò di andare oltre, perse del tutto l’immagine. In questo senso, si muoveva come un funambolo tra astrazione e pittura figurativa. Ma poiché non amava l’astrattismo, ogni volta che deviava troppo in quella direzione inevitabilmente cadeva dalla fune. Allo stesso modo era determinato a evitare l’immagine illustrativa, constatando che nel momento in cui la narrazione emergeva, conduceva sempre alla noia. Sosteneva che, nella sua impotenza, preferiva usare pennelli grandi e una grande quantità di colore che riversava sulla tela molto liberamente: a volte funzionava e quella che emergeva era l’esatta immagine a cui aspirava. In questo senso, così come nella vita, Francis era un mago esperto, il prestigiatore della pittura. 20

Quando Bacon sosteneva di rovesciare il colore sulla tela senza sapere che cosa sarebbe accaduto e di sperare in un “incidente creativo”, non poteva non ricordarmi Tony Hancock nel film The Rebel (Il ribelle) che, in una galleria parigina, alla domanda di un sofisticato gruppo di critici d’arte su come mischiasse i colori, rispondeva: «In un secchio, con un grosso bastone!». Mi diceva spesso: «Se si può dire a parole, perché prendersi la briga di dipingerlo?» e tanti altri discorsi del genere, perché tornava su questo argomento con sorprendente regolarità, ripetendo nel corso degli anni sempre le stessi frasi, come “aprire le valvole del sentimento”. Paradossalmente affrontava di più la questione quando scriveva di altri. Anche se di rado elogiava qualcuno, rese un inaspettato omaggio a Matthew Smith, scrivendo nel catalogo della Tate Gallery per la mostra del 1953: Mi sembra uno dei pochi pittori inglesi che, da Constable e Turner, si preoccupano della pittura, ovvero che si sforzano di rendere inseparabili l’idea e la tecnica. Pertanto ogni movimento del pennello sulla tela altera la forma e le implicazioni dell’immagine. Ecco perché la vera pittura è una continua e misteriosa lotta con il caso. Penso che oggi la pittura sia pura intuizione e fortuna e un tentativo di sfruttare quello che accade quando rovesci il colore sulla tela e in questo gioco con il fato Matthew Smith sembra avere gli dèi dalla sua parte.


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Non dubito che Bacon stesse pensando anche a se stesso. L’incidente creativo, l’audacia di “gettare la roba sulla tela” e vedere che forma assume è affascinante. L’imprevedibilità aveva un peso per Bacon sia come artista sia come uomo. Era uno sfrenato giocatore d’azzardo – a volte vinceva enormi somme di denaro – e questo suo vizio nasceva dall’estrema consapevolezza del ruolo del caso nelle nostre vite e della nostra vulnerabilità dinanzi a esso. Nel suo lavoro abbinava alla casualità il calcolo di un giocatore d’azzardo. Se il movimento del pennello creava un’immagine più interessante di quella che aveva previsto, allora cercava “di salvare la vitalità dell’errore preservando una continuità”; perché, di fatto, Bacon era estremamente attento alla disciplina e al controllo. Verso la fine della sua carriera, le sue opere erano quasi una dissezione clinica: «Non penso mai alla mia come a una pittura convulsa» disse a Richard Cork nel 1991. «Mi piace che il lavoro sia molto ordinato.» Con la scusa dell’esperienza, Francis sentiva forse che l’elemento del caso aumentasse il mistero che avvolgeva la sua arte, audace quanto la sua vita, mentre in realtà erano entrambe estremamente controllate. Era disciplinato come pochi altri e questo lo rendeva egoista come sono e devono essere i grandi artisti. Molti di noi sono inadeguati, lui non lo era mai di fronte ai suoi difetti, per quanto spaventosi che, in modo perverso, manipolava spesso a spese di chi gli stava accanto. Nel tentativo di comprenderlo a posteriori, mi ha sorpreso ricordare fin dove potesse spingersi la sua crudeltà. Una selvaggia risolutezza dominava la sua esistenza in nome dell’arte, e la giustificava. Egli mise a frutto il senso di disperazione, trasformandolo in esaltazione. Non riteneva necessario sentirsi al sicuro nella vita, lui di certo non si aspettava di esserlo: «L’esistenza è già di per sé banale, tanto vale tentare di farne qualcosa di grandioso». In definitva, quale fu la sua conquista? Una volta mi disse: «È necessario reinventare il linguaggio della pittura»; questo fu il suo traguardo, il suo più grande successo. Durante le conversazioni si riferiva spesso alle nevrosi del nostro tempo e nei suoi quadri le catturava in azione. Sebbene fosse un masochista, a differenza di quanto si pensi la sua arte aveva poco a che fare con la violenza fisica o con la guerra. Diceva: «È un tentativo di riprodurre la violenza della realtà stessa. E la violenza della realtà non è solo la semplice violenza che si intende quando si dice che una rosa è violenta, ma è anche la violenza delle suggestioni all’interno dell’immagine che possono essere espresse solo attraverso la pittura». La violenza di una rosa! Questo sì che è un pensiero. Riguardo alla violenza della realtà, qui ci avviciniamo eccome. Laddove gli altri ricercavano un’impressione o un’affermazione morale, Bacon proponeva il fatto scevro da ogni commento, a differenza di Guernica di Picasso che, a suo dire, puzzava di propaganda.

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Si può affermare che fece un passo ulteriore rispetto alla concezione della realtà di Picasso e la sua versione della verità ebbe grande risonanza nella seconda metà del Novecento. Parlava con ammirazione di Buñuel e ipotizzava che se non fosse stato attratto dall’uso della pittura, avrebbe potuto diventare un regista, perché mentre gli impressionisti prendevano le distanze dalla rappresentazione formale della nuova arte fotografica, Bacon era attratto dall’attimo catturato dalla pellicola cinematografica. A loro volta, i registi erano affascinati da lui. Nel 1972 Bernardo Bertolucci usò le immagini di Bacon per i titoli di testa del suo film Ultimo tango a Parigi, noto per l’“esplicita e furiosa sessualità” e quando gli scenografi iniziarono a lavorare sul Silenzio degli innocenti si rifecero a Bacon e alle sue “gabbie” per creare l’infernale cella di Hannibal Lecter. Difficilmente la sua visione della vita avrebbe potuto essere più dura. Non credeva in Dio, nella moralità, nell’amore o nel successo materiale, ma solo, come diceva lui stesso, nella “sensazione del momento”. Condannava il ruolo della religione come stampella dell’essere umano. E soprattutto dava voce all’uomo del xx secolo nei suoi vari stati di solitudine. Per comprendere Bacon come uomo è necessario accettarne le contraddizioni. Era un solitario che apprezzava la compagnia. Il suo lavoro, considerato pessimistico, aveva in sé un innato ottimismo che lo aiutava a sopravvivere. 22

La sua era la migliore compagnia possibile, la più divertente e spiritosa. Sapeva essere affabile e generoso, come appresi con l’esperienza, ma era soggetto a improvvisi attacchi di collera e stizza. Tradì molti dei suoi amici più intimi, specie se artisti rivali, e alcuni non lo perdonarono mai. Era assolutamente amorale. Non perdeva tempo con le debolezze altrui e non aveva pazienza per le fissazioni umane né per le piccole vanità, tutte qualità che mi affascinavano. Si annoiava facilmente. Lucian Freud una volta lo definì l’uomo più saggio e più selvaggio che avesse mai conosciuto. Se anche non fosse diventato pittore, avrebbe comunque segnato la sua epoca con la forza della sua originalità, perché, come Oscar Wilde, riversava il suo genio nella vita come nell’arte. A prescindere dall’omosessualità che li accomunava, Bacon era l’antitesi di David Hockney, un artista per il quale non aveva la minima considerazione e che ridicolizzava persino in privato. Detestava l’intelligenza fotografica californiana di Hockney, ma era pur vero che disprezzava ogni cosa che avesse a che fare con l’arte britannica contemporanea. Con la sua solita falsa modestia, si lamentò con Richard Cork di non sentirsi amato quanto Hockney. «Stai dicendo che non sa esprimere una visione più oscura della vita?» chiese Cork. «Ho detto questo?» esclamò Francis. «E quale sarebbe la visione della vita di Hockney?» «La sua celebrazione?» azzardò Cork.


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«Anche a me piacerebbe celebrarla. Bene, anche la felicità e l’amore sono cose bellissime da dipingere. Spero sempre che un giorno sarò in grado di farlo. Dopo tutto» scosse le spalle con aria di autocommiserazione «sono solo l’antitesi dell’ombra, non è vero?» E lo disse con un sorriso radioso e sconcertante. Il punto è che Francis preferiva le ombre generate dalla luce esteriore più spietata: «Se ami davvero la vita, cammini all’ombra della morte… La morte è l’ombra della vita e più si è ossessionati dalla vita più si è ossessionati dalla morte. Io sono avido di vita e sono avido in quanto artista». Non so se fosse l’uomo migliore che abbia mai conosciuto, ma di certo era il più straordinario. Il più seducente e il più spietato. Non avrebbe potuto essere altrimenti.

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7 Bacon all’opera

Viviamo gran parte del tempo protetti da una serie di veli… quando la gente dice che il mio lavoro sembra violento, è perché forse sono riuscito a sollevarne un paio. Francis Bacon a David Sylvester

Quando trovavamo il tempo di lavorare? Maclaren-Ross mi aveva avvertito che Soho era un posto pericoloso: «Se cominci a frequentare Soho, ci rimarrai notte e giorno e non riuscirai mai a concludere nulla!». Ho conosciuto molti scrittori e pittori che hanno buttato via il loro talento bevendo, parlavano con una tale eloquenza del lavoro che avevano intenzione di fare che finivano per convincersi di averlo già fatto. Sognare a occhi aperti sostituiva il lavoro stesso. Per alcuni di loro il problema stava semplicemente nel ritmo troppo intenso della vita. Nel 1948 Rex Nan Kivell organizzò una mostra di Nina Hamnett alla Redfern Gallery, la metà dei quadri venne venduta a fedeli sostenitori come Matthew Smith e J.B. Priestley, e nel 1951 espose con un’associazione artistica locale; ma già allora sprecava la maggior parte delle sue giornate nei pub o al Caves de France. E pure l’entusiasmo dei due Robert si spense dopo quella cocente delusione. Anche Deakin a un certo punto venne licenziato da Vogue. La rivista stava organizzando una festa di gala e lui si era presentato con largo anticipo per dare una mano con l’allestimento. Si era subito servito un drink e poi un altro e un altro ancora; quando a mezzanotte erano arrivati gli ospiti illustri, era così sbronzo che, per l’ennesima volta, dovettero trascinarlo fuori come il cadavere di Amleto. Cercai di tirarlo su di morale: «Secondo te di chi staranno parlando questa mattina? Di madame Edith, o di madame Margot? No, di John Deakin!». «Hmm, forse hai ragione.» Ma quando mi disse che aveva incontrato Cecil Beaton nell’ascensore della sede della rivista e che questi lo aveva ignorato, capii che era arrivata la fine.

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· Francis Bacon ·

Fecero fuori anche me. Il Picture Post mi licenziò perché il mio lavoro si era impantanato per colpa del disertore della marina che assorbiva tutto il mio tempo e il mio denaro, mentre vendevo e impegnavo quei pochi averi che mi erano rimasti. Avevo fatto l’errore di portarlo con me a Brighton Downs, dovevo coprire un pezzo estivo su due ragazze e due asini. Avevo appena superato l’esame di guida, ma sapevo già che le auto non facevano per me né io per loro, tuttavia mi azzardai a guidare un rottame di furgone, facendo un viaggio terribile, tutto scossoni e gracchiar di marce, e alla fine mi convinsi che non avrei mai più toccato un volante. E così è stato. Le ragazze erano divertenti, Mike si comportò bene ma, mentre prendevamo il sole, rimasi supito nel ritrovarmi tra i capelli delle piccole creature: fu la mia prima esperienza con i granchi. Tornato a Londra feci l’errore di rivolgermi al medico del Picture Post per un rimedio, questo, insieme al racconto di una delle ragazze che per caso viveva con l’assistente del direttore, determinò la fine del lavoro che amavo. La notizia del licenziamento mi giunse con la posta del sabato e in quei giorni decisioni simili si accettavano e basta, senza pensare di fare ricorso in tribunale. Deakin, al massimo della sua cafonaggine, si precipitò tutto eccitato a Beauchamp Place per raccontarmi che il giorno prima era stato al Picture Post 90

per cercare di vendere una storia. «Ho scambiato due chiacchiere con il direttore» dichiarò «me lo sono cucinato a dovere!» Senza dire una parola, gli passai la lettera. «Oh mio Dio!» Era così scioccato che pagò persino il primo giro al Bunch and Grapes. Per ironia della sorte le mie foto delle ragazze e degli asini occuparono diverse pagine. Dopo aver lavorato per un po’ come freelance, decisi di entrare nella marina mercantile, ma finii per ritrovarmi in una situazione altrettanto difficile. Non mi facevano acquistare un biglietto perché ero privo di esperienza e non mi lasciavano salire a bordo perché ero senza biglietto. Francis scrisse una lettera a sir Colin Anderson, uno dei suoi mecenati e presidente della Orient Line, che mi offrì un lavoro come impiegato postale su uno dei loro mercantili. Due marinai di coperta di una nave mi avvertirono che così non sarei stato né tra l’equipaggio né tra i passeggeri, quindi optai per un posto di aiutante. Passai l’anno seguente lavando piatti e navigando intorno al mondo sull’Orcade e raramente mi è capitato di essere così felice. Mi sentivo come uno dei personaggi esotici di Tennesse Williams e pensai che sarebbe stato elegante farmi fare un tatuaggio disegnato dai miei amici. Da quello che ricordo, Lucian apprezzò l’idea, Graham Sutherland suggerì una rosa e Francis una Crocifissione a coprire tutta la schiena. A quel punto però persi l’entusiasmo, alla fine sbarcai con un unico squalo tatuato sul dorso


· Bacon all'opera ·

della mano che mi ero fatto fare insieme ad altri tre membri dell’equipaggio a Honolulu; non avevo avuto né tempo né soldi per qualcosa di più ambizioso. Francis lo esaminò con un’attenzione esagerata: «Ma che bella sardina!». Dubito che al mondo ci fosse un tatuatore in grado riprodurre Crucifixion, ma quanto sarei stato prezioso oggi se l’avesse fatto! Paragonata alla mia inconcludenza, la disciplina di Francis appariva straordinaria. Lavorava dalle sei del mattino con una assoluta concentrazione post-sbornia, in questo modo riusciva a eliminare qualsiasi distrazione. Mi disse che l’alcol e i suoi effetti collaterali lo costringevano a concentrarsi sulla pittura e questo, a volte, gli dava “una sorta di libertà”. Si gettava sulla tela lavorando a grande velocità. Era difficile immaginarlo addormentato e simili concessioni al sonno devono essere state molto rare. Il suo vigore era eccezionale. L’ho visto di mattina, grigio in volto e quasi cieco per la stanchezza dopo aver passato tutta la notte a bere e giocare a carte, per vederlo ricomparire solo qualche ora dopo perfettamente riposato. Deakin ne risentiva moltissimo, mentre non ricordo di aver mai sentito Francis lamentarsi per i postumi di una sbornia: non era certo il tipo che aveva bisogno di un alibi! Anche se sembrava che non lavorasse mai, la produzione di Bacon era considerevole. Gli anni dal 1951 al 1962, nel corso dei quali Francis, Deakin e io imperversavamo per le strade di Soho, furono anche quelli della sua ascesa artistica. Se paragoniamo Three Studies at the Base of a Crucifixion, l’opera con cui esplose sulla scena nel 1945, con i capolavori di questo periodo – ovvero, i papi, il notevole dipinto Man with Dog (Uomo con cane), la serie su van Gogh, il sorprendente Two Figures, (chiamato anche “I lottatori” o “I sodomiti”), Miss Muriel Belcher, Paralytic Child Walking on All Fours (Bambino paralitico che cammina a quattro zampe) e il sanguinolento Three Studies for a Crucifixion del 1962, completato mentre era ubriaco - essi ne confermano la formidabile produzione in un tempo relativamente breve. Il primo Three Studies si differenzia dalle altre perché fu dipinto con intenzionalità. In effetti si tratta di forme attentamente disegnate e riempite di colore. È chiaro che nulla è stato lasciato al caso, anche se fin dall’inizio Francis mi parlò di quanto amasse sfruttare l’“incidente creativo” – «La mia aspirazione sarebbe prendere un pugno di colore e gettarlo sulla tela e sperare che il ritratto si faccia da sé» – non capii mai quanta frivolezza ci fosse in questa boutade, di certo le cose non furono mai così semplici, soprattutto ai primi tempi. Parlando con David Sylvester, citò come esempio Painting (ora al Museum of Modern Art di New York) realizzato nel 1946. Francis confessò che aveva iniziato con l’idea di dipingere un gorilla in un campo di grano, poi un uccello in picchiata, poi «gradualmente ogni colpo di pennello suggeriva un’altra immagine – un’immagine completamente accidentale che non avevo mai pensato di creare». Ecco “l’incidente creativo” in azione. Quest’opera storica

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venne venduta da Erica Brausen della Hanover Gallery, tra i primi a riconoscere l’importanza del lavoro di Francis, anche se i suoi finanziatori dissentivano, e fu lei ad amministrare le sue opere dalla metà degli anni quaranta fino alla fine del decennio successivo. Oggi si stenta a crederlo, ma i suoi quadri all’epoca erano quasi invendibili e Bacon fu molto felice quando Brausen comprò Painting per cento sterline. A mano a mano che acquistava fiducia, il suo approccio alla pittura si fece più audace e di conseguenza più vibrante. Negli anni cinquanta diceva spesso di lavorare seguendo il più possibile l’istinto o i meccanismi del suo sistema nervoso. Era affascinato da come il colore cadeva sulla tela e da questa casualità cercava di trarre un vantaggio, con un atto intenzionale. «Ti accorgi che il segno che tracci suggerisce un’altra forma da cui puoi sviluppare qualcosa. A volte mentre lavoro sono così stufo che prendo il pennello e riempio la tela di segni, convinto che non funzioni affatto, e poi all’improvviso in questo caos si inizia a intravedere un’immagine a cui prima non avevo pensato.» Nel precedente capitolo ho parlato a lungo della School of London perché rappresenta il contesto storico-artistico da cui emerse Francis Bacon. All’epoca sem92

brava quasi un evento ineluttabile che la pittura si volgesse sempre più verso l’astrattismo, ma la piccola School of London, capeggiata da Francis, remava contro l’ondata della moda artistica. Forse il racconto di Michael Andrews sulle settimane in cui Francis sostituì John Minton al Royal College of Art, nel 1950, può chiarire meglio quali fossero le sue opinioni sull’astrattismo. «Quello di cui l’uomo moderno ha bisogno, è una sorta di stenografia» disse Francis. «Il bombardamento d’informazioni a cui siamo costantemente sottoposti non dovrebbe sopraffare la nostra capacità di riceverle e tradurle in una visione del mondo.» Andrew ricordò con quanta forza Francis rispose a uno studente che gli aveva chiesto perché fosse un pittore figurativo: «L’arte astratta è così noiosa!». A un certo punto qualcuno gridò: «Ma perché dobbiamo stare qui a perderci in chiacchiere? Perché non possiamo uscire a dipingere e basta?». «Mio caro» disse Francis con tono avvilito «se solo potessimo!» Le sue affermazioni sull’arte astratta non erano condivise da Victor Pasmore, l’artista che espose insieme a lui da Agnew nel 1937 e che cinquant’anni dopo gli scrisse: Naturalmente sono interessato alle tue obiezioni sulla pittura astratta, in particolare perché si dice che Picasso abbia detto la stessa cosa per le stesse ragioni! Certamente il suo Guernica non avrebbe potuto essere così emozionalmente efficace se parliamo di espressionismo astratto. Ma d’altro canto, non sarebbe


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stato così libero e moderno senza quell’imitazione di un collage cubista schiaffata lì proprio sopra le figure centrali! Significa che il futuro della pittura moderna, se deve raggiungere alti livelli artistici, deve essere confuso? Be’, forse sì: dopo tutto, la Natura stessa è confusione!

Francis rispose in modo succinto: «Grazie molte per la tua lettera. Per me l’arte astratta non può essere altro che decoratività perché non vi è nulla a cui ancorarla se non il suo fascino artistico. I miei migliori auguri, Francis». In quel primo periodo, la carenza di risorse influenzava la scelta dei materiali. Per cominciare, Francis usò una tavola in fibra di legno assorbente Sundlea, raccomandata da Roy de Maistre e Graham Sutherland. A prescindere dal fatto che fosse economica, Francis trovava che “tenesse” il colore, anche se non appena poté permetterselo passò alla tela, che però non reggeva così bene perché non aveva “il mordente” giusto. Nel 1947, mentre si trovava a Montecarlo senza un soldo bucato, non potendo comprare tele nuove iniziò a dipingere sul retro dei quadri che non gli piacevano e scoprì che la superficie senza imprimitura reggeva la pittura proprio come desiderava. Fu questo il metodo che utilizzò finché non ebbe la possibilità di pagarsi delle tele con imprimitura fronte-retro, ma non tagliate su misura. John Richardson, autore della biografia ufficiale su Picasso, raccontò di come Francis fosse solito farsi crescere la barba per tre o quattro giorni per poi provare le pennellate sul suo viso davanti allo specchio: «…provava quelle strane e roteanti pennellate, che conosciamo così bene dai suoi quadri, con il fondotinta della Max Factor. Aveva tutta una serie di vasetti della Max Factor, ne prendeva uno e si faceva una specie di sbavatura sulla faccia, sono le stesse sbavature che si vedono sui volti di quei primi dipinti». Richardson paragonò persino il rovescio “lanoso” della tela alla barba sul viso di Francis! Francis “disegnava” direttamente sulla tela, poi, senza alcuno schizzo preliminare, iniziava l’immagine centrale e le sue pennellate furiose contrastavano con lo sfondo attentamente costruito. In un opuscolo della Tate Gallery, Andrew Durham spiegò che a mano a mano che l’immagine progrediva lo sfondo veniva poi adattato: «Non lavorava sempre con ritmo furioso e serrato, ma, in generale, i dipinti che considera meglio riusciti sono quelli realizzati molto rapidamente». Le pennellate variavano: […] da arabeschi calligrafici diventavano colpi taglienti e acuti, per giungere poi alla delicata resa, quasi acquerellista, dei capelli nella figura di destra di Triptych 1972 (Trittico 1972), altre volte erano un voluttuoso impasto fatto di pennellate cariche, altre pittura secca sparsa sulla superficie per creare incrostazioni piuttosto che pennellate. In altri casi sollevava il pennello dalla tela per lasciare punti decisi e dentellature.

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Francis mi disse di non aver mai pulito lo studio di Reece Mews perché così poteva raccogliere la polvere dal pavimento e applicarla sulla tela quando dipingeva le dune di sabbia; ogni tanto passava le dita nella polvere e poi sulla pittura fresca. Usava colori a olio tradizionali, senza aggiunta di smalto, che spremeva in spessi grumi direttamente sulla tela; per usare le parole di Andrew Durham: «Un raffinato impasto e sfumature asciutte laddove il medium sembrava essersi asciugato, fino a strati molto sottili dove era stata aggiunta una buona quantità di trementina per modificare il colore. Sembra gioire della finezza e della malleabilità del suo medium». Come molti artisti, Francis usava le dita oppure piccole spugne per creare effetti sfumati, altre volte riusciva a imprimere sulla tela un reticolato di linee con un panno di velluto. Sebbene non avesse regole fisse, per disegnare le linee dritte sfruttava i metodi pratici a disposizione e il Letraset per la scrittura, la tecnica più vicina al collage che utilizzò per esaltare l’immagine centrale, sebbene in modo del tutto irregolare. Una volta accennai al fatto che ero stato nello studio di Michael Andrew, ad Ayers Rock, e che ero rimasto deluso nello scoprire che usava in modo scontato l’acrilico e il nebulizzatore. Francis mi guardò con l’aria di chi la sa lunga e scegliendo accuratamente le parole replicò: «Per la verità, anche io uso il nebulizzatore 94

e l’acrilico». «Davvero?» esclamai. «Sì» sorrise «ma in modo meno ovvio!» Mi spiegò che l’acrilico si asciugava presto ed era utile soprattutto per le grandi campiture di colore piatto che costituivano lo sfondo, sempre che non decidesse di sfruttare la semplice trama della tela stessa che, a volte, veniva usata come un bersaglio su cui spruzzare la vernice per poi lasciarla colare. Un espediente, questo, che divenne pericolosamente simile allo stratagemma delle frecce rosse che miravano al torace mutilato in Studies for the Human Body (Studi per il corpo umano). Ricordai che avevo visto qualcosa di simile in uno dei primi quadri di Richard Hamilton, pensai che era da lui che Francis l’aveva “preso in prestito” dato che era uno dei pochi artisti contemporanei che ammirava. Hamilton replicò: «Dubito molto che Francis possa aver preso in prestito la freccia dal mio Transition iii (Transizione iii). Io probabilmente l’ho mutuata da Paul Klee, per lui può essere stato lo stesso. Non so se abbia mai visto il mio quadro, non venne esposto fino al 1956, in una mostra alla Hanover Gallery». Ma è molto probabile che Francis lo vide e che, anni dopo, se ne sia ricordato, seppur in modo inconsapevole. Di recente però ho scoperto che Francis dichiarò di aver preso l’idea da un manuale di golf che, tramite frecce simili, indicava la direzione che avrebbe dovuto assumere la pallina dopo il colpo. Se tutto questo può sembrare improbabile, di certo non lo è più dello spargere sabbia sulla tela.


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Francis ebbe una gran fortuna con amici e mentori: Roy de Maistre; Patrick White; Graham Sutherland; Eric Hall, il suo primo mecenate; Robert e Lisa Sainsbury e Colin Anderson; e in particolare la sua prima agente, Erica Brausen, che dirigeva la Hanover Gallery insieme a Arthur Jeffress, un ricco espatriato americano. Robert Sainsbury pensava che Jeffress fosse troppo effeminato per i gusti di Francis e io sono d’accordo. Era proprio una civetta. Jeffress era più amico di Graham Sutherland, che potrebbe averli presentati la prima volta, determinato com’era nel volere il successo di Francis. Di conseguenza, Francis trattava direttamente con Erica Brausen. Ricordo che nei suoi confronti era passionale e possessiva, parlava con un leggero accento tedesco. Riluttante a partecipare ai bagordi che Francis amava tanto, era solita dire: «Questi artisti, perché defono bere tutto il tempo? Befono così tanto, che cosa ci puoi fare?». Ma lei fece molto per Francis. La sua lealtà era assoluta e disinteressata e la fiducia con cui guardava al suo futuro gli fu di sostegno negli anni difficili, quando solo pochi intenditori le davano credito. Dopo la morte di Francis, sull’Independent apparve una lettera firmata da sir Robert e Lisa Sainsbury, Stephen Spender e David Sylvester in cui si evidenziava quanto poco fosse stato riconosciuto […] il ruolo chiave che la sua prima agente, Erica Brausen della Hanover Gallery, ebbe nella sua carriera, fu lei ad amministrare le sue opere dalla metà degli anni quaranta alla fine degli anni cinquanta. Tra i primi a riconoscere la sua grande importanza come artista, in un periodo in cui il suo lavoro era quasi invendibile, sia agli enti pubblici che ai collezionisti privati, Erica Brausen si impegnò appassionatamente per sostenerlo. Questo le creò molti problemi, dato che entrambi i suoi finanziatori non condividevano le sue scelte. Tuttavia, anche se nello scantinato della sua galleria si accumulavano quadri invenduti, in qualche modo riuscì a fornirgli costantemente il denaro di cui aveva bisogno per sopravvivere.

Dal 1949 al 1957 alla Hanover ci furono mostre annuali, eccetto che nel 1956. Francis espose poi anche da Durlacher Bros a New York nel 1953, al padiglione dedicato alla Gran Bretagna nella Biennale di Venezia del 1954, alla Galerie Rive Droite a Parigi nel 1957 e alla Galleria Galatea a Torino nel 1958, una mostra che continuò poi alla Galleria l’Ariete a Milano e a L’Obelisco a Roma. Dato che non aveva una dimora fissa a Londra, Francis era costantemente in movimento. Viaggiare non fu mai un problema, se non da un punto di vista economico e, per quanto le era possibile, Erica Brausen provvedeva alle sue spese, anche se non deve essere stato facile stare al passo con le sue stravaganze e i debiti di gioco. Considerati i loro diversi temperamenti, lei si dimostrò molto tollerante. Ogni agente o intermediario troverà le richieste

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di denaro di Francis dolorosamente familiari: dopo tutto, essere una sorta di banca privata fa parte del loro mestiere. Oscar Wilde era un maestro nel gioco di persuadere, obbligare e supplicare dal suo esilio. Erica Brausen non abbandonò mai Francis. La prima volta che visitò il suo studio, vide e comprò Painting (1946), che Francis considerava una delle sue opere più riuscite, e lui quindici giorni dopo partì per Montecarlo a giocarsi i ricavi. Da quel momento lei gli fornì costanti somme di denaro, esigue come le quindici sterline che chiese da Wivenhoe, quando vi soggiornò con Denis Wirth-Miller e Dickie Chopping; o più cospicue come le duecento sterline per Montecarlo. Erica inviò pagamenti regolari anche a Tangeri, incluse cento sterline quando Francis scrisse che aveva completato quattro tele: «Le cose migliori che ho fatto… due scene del papa con gufi molto diverse dalle altre e uno speciale ritratto di una persona in una stanza. Ne sono entusiasta, spero di tornare con venti o venticinque quadri…». Alla fine sopravvissero solo gli Owls (Gufi). Poiché Francis di rado datava le sue lettere, è difficile stabilire a che anno risalgano le sue parole. Suppongo che fosse il 1948, quando da Montecarlo scrisse a Arthur Jeffress, ringraziandolo per un anticipo di duecento sterline. «I quadri sembrano venir bene, al momento sto lavorando su alcune teste che mi piacciono più di altre fatte prima, spero che piaceranno anche a te e Erica 96

tornerò a novembre o dicembre e porterò del materiale e lo lascerò a voi sono piuttosto preoccupato per le cornici…» Una lettera successiva a Erica Brausen annunciava la buona notizia che si stava trasferendo in una villa sulle colline sopra Montecarlo con una «meravigliosa stanza per lavorare… Ci sono molte stanze e bagni quindi vieni pure quando ne hai voglia… Ieri sera ho visto Graham e Kathy ed Eardley. Spero che la mostra venda meglio ora, ti mando il mio affetto e ti prego di dire ad Arthur che non sono ancora riuscito a rintracciare i movimenti della flotta». (Quest’ultima frase si riferiva al fatto che Graham Sutherland e altri loro amici avvertivano Jeffress dell’arrivo della flotta americana a Villefrance. Ossessionato dalle uniformi, Jeffress seguiva la flotta britannica durante il Royal Tournament a Earl’s Court, che ironicamente chiamava il “Royal Torment”, e nel suo testamento lasciò una considerevole somma per i marinai britannici a patto che nemmeno un penny andasse agli ufficiali o alle Wren.)* Francis concludeva così la sua lettera a Erica Brausen: «Spero che ti senta meglio, qui è bellissimo e tutto così caro e le giornate sono caldissime e vibranti come il cuore dell’estate, con amore Francis». Per la prima mostra alla Hanover – al 32A di St. George Street, vicino a Hanover Square, dall’8 novembre al 10 dicembre 1949 – Francis espose insieme a

* Wren, membro del Women’s Royal Naval Service. [N.d.T.]


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Robin Ironside, che ebbe un ruolo di secondo piano con quadri come The Gondolas of Delos (Le gondole di Delo), venduto a sole venticinque ghinee, mentre le somme scribacchiate accanto alle opere di Bacon nel catalogo della galleria erano notevolmente più alte. Le opere dai titoli enigmatici come Studies i, ii e iii non erano in vendita; Figure in Landscape 1946 (Figura in un paesaggio 1946) costava quattrocento sterline: la più cara di tutte e a buon diritto. Tony Hubbard comprò Head iv 1949 e Head ii venne destinata alla Contemporary Arts Society. Head vi 1949 costava centoventicinque sterline. Somme del genere oggi sembrano irrilevanti, ma allora erano davvero considerevoli. Eppure, Erica Brausen avrebbe potuto benissimo venderle privatamente a meno. Il fatto che otto anni dopo i prezzi fossero rimasti pressoché invariati dimostra quanto fosse difficile piazzarle: gli Owls, dipinti a Tangeri e comprati da Tony Hubbard, costavano duecentocinquanta sterline, Study for Figure i (Studio per figura i) e Study for Figure ii (Studio per figura ii) quattrocentocinquanta sterline ognuno e Study for Portrait x 1957 (Studio per ritratto x 1957) era valutato seicento sterline. Una mattina del 1955, Francis mi telefonò allarmato per chiedermi se conoscevo qualcuno che potesse comprare uno dei suoi ultimi quadri, si trattava di un papa ispirato al ritratto di Velázquez di papa Innocenzo x. Il problema era che aveva bisogno di centocinquanta sterline per quel giorno stesso. Non gli chiesi il motivo di tanta urgenza. Contattai John Knight, con cui avevo condiviso l’appartamento a Beauchamp Place quando ci eravamo trasferiti da Cambridge e lo convinsi a comprarlo. Il suo matrimonio andò quasi in rovina per colpa di quell’opera, sua moglie Wendy cominciò a temere quella figura color porpora che si stagliava con silenziosa violenza sulle scale del loro cottage. Quando diedi i soldi a Francis rimasi di stucco: mi allungò quindici sterline come “commissione per l’intermediazione”, una cosa che non mi sarei mai aspettato. I Knight, stanchi della presenza del papa, vendettero il quadro alcuni anni dopo. Fu il primo ad andare all’asta e nel 1964 raggiunse settemila sterline e fu rivenduto da Christie’s a New York per la cifra record di cinque milioni e settecentoventimila dollari. La mostra del 1957 includeva quattro studi per Portraits of van Gogh (Ritratti di van Gogh), dipinti tra il 1956 e il 1957. Il primo era di proprietà di Robert e Lisa Sainsbury che lo concessero in prestito per la mostra. Ispirato al quadro di van Gogh, Autoportrait sur la route de Tarascon 1888 (Autoritratto sulla strada di Tarascona 1888), andato distrutto durante la guerra, divenne una delle sue opere più riuscite confermandone l’eccezionale talento di colorista. Sir Robert Sainsbury sottolineò che la sua versione era dissimile da quelle che seguirono: qui van Gogh per metà era oscurato dall’erba alta, a differenza della figura a tutta grandezza che Francis dipinse successivamente. Il viso era una macchia confusa, ma il cavalletto sulle spalle era inconfondibile.

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I Sainsbury sono tra i maggiori mecenati dell’arte di questo secolo, degni di essere definiti i Medici moderni, gli equivalenti inglesi dei ricchi filantropi americani Guggenheim, Getty, Mellon e Frick. Con sguardo esperto scoprirono Bacon molto prima che divenisse di moda. Una sera del 1953 Robert Sainsbury tornò a casa dal lavoro e sua moglie Lisa lo accolse così: «Faresti meglio a guardare cosa c’è nell’altra stanza». Quella mattina era andata alla Hanover e aveva preso in prestito Study of a Nude (Studio per un nudo) che Francis aveva appena terminato. «Diedi un’occhiata» mi disse Robert «e poi corsi da lei. Quando mi disse che costava centoventicinque sterline esclamai: “Non possiamo non averlo!”.» Da quel momento in poi si rivolsero sempre a Erica Brausen ogni volta che si trattava di acquistare un’opera, tranne che per un piccolo trittico di Isabel Rawsthorne comperato dalla Marlborough nel 1965. Ma allora l’eccitazione iniziale era già scemata e i quadri costavano di più. Sir Robert doveva fare i conti con un budget limitato: «Quando le quotazioni salirono, comprare un quadro di Francis Bacon a caro prezzo voleva dire sacrificare altre cose». Ma rimpiansero sempre di aver rinunciato al dipinto dei due uomini avvinghiati sull’erba: una versione dei Lottatori. Alfred Hecht, che costruì cornici per tutti i quadri di Bacon, affermò di essere l’uomo raffigurato sotto: «Non mi hai ri98

conosciuto, Bob?». Sir Robert mi disse che non riusciva a immaginare Francis dipingerlo se non erano andati a letto insieme, ma questa potrebbe essere stata un’ingenuità da parte sua: in effetti, se Jeffress era troppo effeminato per Bacon, altrettanto lo era Hecht, e io stesso avrei stentato a credere che i due potessero essere stati insieme. Poiché i loro figli erano ancora troppo piccoli, Sainsbury ritenne che lui e sua moglie avevano già abbastanza problemi senza dover spiegare loro cosa stessero facendo i due uomini tra l’erba alta. Di solito Sainsbury evitava di incontrare un artista prima di vedere le sue opere: «Se mi piace il suo lavoro, allora voglio conoscerlo di persona». Nonostante sia convinto che Francis fosse più vicino a sua moglie per via della sua omosessualità, va detto che i tre diventarono molto amici. Quando il padre di Sainsbury si suicidò questi mi disse: «Francis mi scrisse una lettera molto affettuosa. Se avevo bisogno di un consiglio potevo rivolgermi a lui perché era un uomo fondamentalmente buono. Straordinariamente empatico». L’affetto di Francis per Lisa e Robert Sainsbury era sincero, sicuramente era grato di avere il loro patrocinio in un momento di grande bisogno, e in particolare doveva aver apprezzato il fatto che Robert fosse stato disposto a garantire per il suo scoperto in banca. Francis li incoraggiò anche a posare per lui, cosa che non accadeva spesso: Lisa fu la sua modella per diversi quadri, “Bob” dovette acconsentire quando, nel 1955, la moglie commissionò a Francis il suo ritratto per quattrocento sterline. Ci vollero ben nove sedute. Utilizzarono uno studio preso in presto dall’onorevole Michael Astor, al 28 di


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Mallord Street, SW3: l’appartamento era così freddo che sir Robert doveva posare avviluppato nel cappotto mentre beveva caffè bollente da un termos e buttava giù un sandwich per poi tornare di corsa da Sainsbury, dov’era direttore generale aggiunto. Gli standard di Francis erano molto rigidi e se una tela non lo soddisfaceva, s’innervosiva al punto da avventarsi su di essa, proprio come faceva con le persone che non conosceva e che lo irritavano. I Sainsbury rimasero sbigottiti quando Paul Danquah, un amico di Bacon, li avvertì che il migliore degli otto ritratti realizzati era stato distrutto e aspettarono di ricevere la tanto temuta telefonata con cui Francis li avrebbe avvertiti che: «Oggi non ci sarà nessuna seduta, il quadro è andato». In seguito, a una festa incontrarono Francis che accennò entusiasticamente a un nuovo dipinto di un papa sostenendo che fosse “un quadro meraviglioso”. Erano così ansiosi di vederlo che si offrirono di accompagnarlo a casa nella speranza di poterlo eventualmente comprare, ma durante il tragitto Francis cambiò idea e quando arrivarono disse che non era affatto buono e che doveva essere distrutto. «Non puoi farlo» supplicarono i Sainsbury. «Fareste meglio a entrare e vedere se vi piace» cedette lui. Ma una volta entrati prese un rasoio e lo squarciò. «Ci diede quello che ne restava» dissero. «Arrotolammo la tela e la caricammo sul tettino dell’auto prima che potesse cambiare idea. La mattina successiva andammo da Alfred Hecht, che la rifilò e la incorniciò.» Dissi che, nonostante lo squarcio, il quadro sembrava comunque ben riuscito e sir Robert replicò che: «Se un quadro è davvero eccellente, qualunque sua parte lo dovrebbe essere altrettanto». Allora mi venne in mente La lezione di anatomia del dott. Joan Deyman di Rembrandt: quello che possiamo ammirare oggi non è che un frammento dell’originale, distrutto da un incendio. Forse il fatto che non ci siano troppe figure sullo sfondo a distrarre l’occhio dello spettatore lo rende ancora più prezioso. Una delle lezioni più difficili per un artista è capire quando smettere. Francis di solito riusciva a fermarsi in tempo, ma appena si accorgeva di essere andato troppo oltre diventava spietato. Times dichiarò che nel primo periodo distrusse circa settecento dipinti, ma anche se fossero stati solo la metà, ci sarebbe motivo di credere che la maggior parte valeva la pena di essere salvata. In totale i Sainsbury acquisirono tredici Bacon, tre dei quali regali. Francis dipinse nove ritratti, di cui ne restano solo tre: due di Lisa Sainsbury e uno di sir Robert. Nove Bacon vennero donati alla University of East Anglia di Norwich. Negli anni cinquanta, Francis mi invitò a trascorrere una serata nell’elegante casa dei Sainsbury a Westminster. Il primo Nude che avevano acquistato era ancora esposto nell’ingresso rivestito di legno. Mi accolsero affabilmente

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anche se non ero stato invitato, e mi mostrarono il loro pezzo più prezioso: il bronzo di Degas Piccola danzatrice di quattordici anni del 1880. Non sapevo che Degas avesse eseguito un’opera simile e fissai con timore reverenziale la piccola figura in corpetto e tutù, polverosa e leggermente consumata. Ma rimasi ancora più intimorito quando, seguendo il figlio dei Sainsbury su per le scale, riconobbi un altro quadro di Bacon. Entusiasta esclamai: «Credo che abbia una sorprendente somiglianza con vostro padre». «Sì» concordò David Sainsbury freddamente, «a parte il fatto che è mia madre.» Nel 1951 Francis andò in Sudafrica a trovare la madre che da qualche tempo si era stabilita lì. In una lettera spedita a Erica Brausen da Salisbury, Rhodesia del Sud, non parla affatto di lei, ma per una volta siamo sicuri della data: 22 febbraio. In quell’occasione frequentò Robert Heber-Percy, un intimo amico di lord Berners. Diana Mosley mi raccontò di aver conosciuto Francis nella residenza di campagna di Berners, Faringdon House nel Berkshire, dove le colombe hanno diversi colori; di lei Francis disse che era “molto bella”. Sulla nave per il Sudafrica, Heber-Percy viaggiava in prima classe, mentre Francis era finito in terza. «Più divertente?» chiesi. «Molto più divertente» rispose. 100

A testimonianza di questo viaggio resta oggi solo l’affascinante brano di una lettera da cui si intuisce che Francis dovette divertirsi comunque a prescindere dalla classe in cui viaggiava. La missiva era indirizzata a Paul Danquah, scritta sulla carta da lettere della nave che riportava lo stemma della Union Jack e la dicitura “Union Castle Line”, S.S. Kenya Castle, senza data perché manca la prima pagina: …sono assolutamente affascinanti e utili e molto belli e dolci pensano che siamo una coppia in luna di miele non è kitsch – al nostro tavolo c’è una vecchia checca che ha un centro fitness a Nairobi, e una donna molto simpatica che è la moglie di un tecnico delle miniere d’oro. Ci sono anche un giovane uomo e sua moglie diretti in una banca in Uganda. Mi trovo bene con lui non è strano – specialmente perché dice di non sopportare gli omo. Non so cosa pensa che io sia – le reti da pesca sono un successo straordinario non mi sono mai divertito tanto in un viaggio vorrei solo che tu fossi qui con affetto profondo a te e Peter…

Per quanto tollerati dagli altri passeggeri a bordo, costituivano un ménage un po’ troppo bizzaro persino per le frange più dissolute dell’aristocrazia britannica e subito dopo il loro arrivo scoppiò un litigio. Questo spiega la fretta di Francis. Sono arrivato circa una settimana fa e sono rimasto in Zimbabwe [presumibilmente per vedere sua sorella] e la campagna da lì a qui è davvero meravigliosa è


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come un paesaggio di Renoir e lo Zimbabwe stesso è incredibile. Robert HeberPercy se n’è andato. Ho incontrato una persona che ha una fattoria vicino allo Zimbabwe e sto tornando lì adesso che mi sono liberato di Robert il lavoro è iniziato benissimo…

Poi venne al sodo: «La galleria potrebbe anticiparmi cinquanta sterline dato che ora che ho lasciato Robert in pratica non ho un soldo?». Spiegava che sperava di prendere un cargo a Beira e continuare risalendo la costa orientale fino a Port Sudan sul Mar Rosso, viaggiando poi nell’entroterra fino a Tebe e riprendere la nave ad Alessandria, scendendo a Marsiglia. Credo che sia riuscito a fare questo viaggio, anche se ebbi l’impressione che dovette prendere diversi mercantili. La lettera terminava così: «Ti sarei estremamente grato se potessi fare questo per me sono tutti così gentili qui e non mi piace dover vivere sempre alle loro spalle e i colori sono molto costosi». Il denaro fu spedito da Cook’s a Berkeley Street ai loro uffici di Salisbury dove Francis sarebbe rimasto più o meno per tre settimane. Un messaggio a Arthur Jeffress elogiava la tempra della polizia di Salisbury. Il 27 scrisse che aveva trovato un passaggio. «Mi dispiace chiedere ancora ma potresti mandarmi immediatamente le cinquanta sterline. Ho fatto tre piccoli quadri di cui sono entusiasta… È così brutto dover chiedere sempre piccole somme di denaro. Visto che non sto più con Robert non ho nulla tranne il biglietto. Mi piace da morire stare qui.» Nella primavera del 1952 fece un secondo viaggio in Sudafrica e quando rientrò andò a stare al numero 6 di Beaufort Gardens a Londra, poi alla fine dell’estate del 1953 affittò un cottage a Hurst, non lontano da Henley-onThames per stare vicino al suo amico Peter Lacy, l’affascinante uomo con cui lo avevo visto discutere animatamente al Gargoyle. Nel marzo 1954 si trasferì all’Imperial Hotel di Henley e successivamente al numero 9 di Market Place. Sebbene l’ambiente aristocratico di Henley non gli dispiacesse affatto, i suoi sporadici soggiorni lì probabilmente erano dovuti alla vicinanza di Lacy, il quale non aveva ancora dilapidato il suo patrimonio per intero cercando di promuovere un gruppo di musica pop. All’epoca Lacy possedeva persino una casa alle Barbados che chiese a Francis di ritrarre il più fedelmente possibile a partire da una fotografia. Tutto questo avveniva nel 1952: Lacy ebbe il suo quadro, che io non ho mai visto e che successivamente finì nella collezione di Erica Brausen alla Hanover e poi alla Galerie Claude Bernard a Parigi. Il ritratto di Peter Lacy intitolato P.L. fu acquistato dai Sainsbury. Accadeva di rado che Francis parlasse dei suoi soggiorni a Henley, ma non era un segreto che il suo ristorante preferito fosse, ironia della sorte, Chez Peter. In una lettera a Erica Brausen (senza data), scritta mentre soggiornava all’Imperial Hotel, le confessa di non essere affatto felice:

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Non sono in grado di finire alcun quadro al momento quindi per favore puoi rinviare la mostra – sono dispiaciutissimo per questo ma come sai nel lavoro sono cose che accadono - ti farò avere i quadri appena posso ma per favore non esporre le cose che hai in galleria penso che sarebbe un grave errore sia per me che per te - Come sai voglio sostituirne la maggior parte appena posso inoltre ci sono state troppe mie mostre – sono disperato e completamente al verde e cercherò di trovare un lavoro per qualche tempo – mi dispiace tantissimo per questo…

Era chiaro che fosse di pessimo umore e probabilmente c’era qualcos’altro, oltre al lavoro, che lo preoccupava. Simili battute d’arresto devono essere state davvero penose. Le richieste di Francis erano modeste e giustificate dal lavoro. Senza dubbio, quelli furono anni di grande allegria nonostante qualche occasionale momento di difficoltà, come deve essere accaduto a Henley. Si godeva l’eccitazione delle mostre in America e in Italia; sebbene non gli piacesse la vita sociale a Roma – «così cara per via dell’invasione americana» –, al contrario disse che Napoli era «meravigliosa e mi piacerebbe molto lavorare lì per un periodo». Era pervaso da un inesauribile ottimismo, che raramente mostrò in seguito; il fatto che il «nuovo» lavoro fosse «migliore e più definito di prima» forse lo rassicurava. È innegabile che si sentisse motivato a continuare come testimonia 102

la sua successiva richiesta di trecento sterline – «devo comprare molta pittura» – da spedire presso Auto Gears and Spare Parts Co., 51 Main Street, Gibilterra. Nel giugno 1957 Erica Brausen gli inviò cento sterline tramite il suo amico Toto che stava partendo per Tangeri, accennando al fatto che si era parlato di organizzare una mostra: «Dato che di recente hai avuto molto successo sarebbe una buona idea tenere una mostra in America in un futuro non troppo lontano». In luglio lo avvertiva che sarebbe partita per le vacanze e sarebbe stata via fino al 1° settembre, ma gli assicurava: «Se, nel frattempo, dovessi avere urgente bisogno di denaro, sempre che non si tratti di una somma ingente, mettiti in contatto con Margot alla Galleria, se ne occuperà lei». Il marzo seguente scriveva eccitata: Siamo in grande agitazione qui perché abbiamo venduto quasi tutti i tuoi quadri in Italia (pensa, tra tutti i posti!), persino il mio, non volevo, ma hanno insistito così tanto. Lo so che non stai pensando di dipingere ma vorrei che lo facessi, visto che la Germania, gli Stati Uniti e il Messico vogliono organizzare delle mostre e non penso che sia un bene rifiutare. Anche io vorrei fare un’altra mostra l’anno prossimo…

Lo ribadì in giugno rispondendo a un telegramma in cui Francis si lamentava di non aver ricevuto il denaro che lei gli aveva inviato attraverso la sua banca.


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Forse esagero, ma trovo alquanto strana la frase in cui Erica dice: «So che non stai pensando di dipingere», è probabile che Francis non volesse tenerla al corrente di come procedesse il suo lavoro. Inoltre, aveva bisogno di trovare una sistemazione a Londra – «Sono così stanco di non avere un posto fisso». Nell’estate del 1953 c’era un altro segnale di avvertimento che il loro rapporto non sarebbe durato ancora a lungo; Erica Brausen chiuse la galleria per il mese di agosto, Francis era così a corto di denaro che David Sylvester lo portò alla Beaux Arts Gallery su Bruton Street per presentarlo a Helen Lessore: «Pensò che sarei stata interessata a comprare alcuni quadri». La galleria di Helen Lessore era la più bella di Londra. Era un piacere visitarla soprattutto perché Helen dava spazio a giovani artisti come Frank Auberbach, Michael Andrews, Tim Behrens, Craigie Aitchison e Leon Kossoff in un momento in cui avevano bisogno di esporre e di essere incoraggiati. Non appena lo vide varcare la soglia della galleria, Helen rimase straordinariamente colpita da Francis e non dimenticò mai quel primo incontro: «Il suo aspetto era diverso da quello di qualsiasi altro essere umano, in particolare il viso. Dava l’impressione di essere circondato da un’aura. Ovviamente anche i suoi quadri erano straordinari. Nei mesi successivi ne comprai diversi, incluso il papa con le macchie di sangue esposto nell’ultima retrospettiva della Tate». Il libro di Ronald Alley, The Collections, contiene una lista delle opere esposte alla Beaux Arts: Man Eating a Leg of Chicken 1952 (Uomo che mangia una coscia di pollo): David Sylvester; Beaux Arts; Hanover; Man in a Chair 1952 (Uomo seduto su una sedia); Beaux Arts: Junior Common Room, Pembroke College, Oxford; Study after Velázquez Portrait of Pope Innocent x 1953 (Studio dal ritratto di Papa Innocenzo x di Velázquez): Beaux Arts. Nei mesi di novembre e dicembre questi quadri vennero esposti alla Beaux Arts, non c’era alcun catalogo ma la mostra si intitolava “New Paintings by Francis Bacon” (Nuovi dipinti di Francis Bacon). Poi Erica tornò. «Avevo acquistato un numero sufficiente di opere per organizzare una mostra a novembre» mi disse Helen Lessore nel 1992 «ma lei venne da me e fece una scenata, si mise seduta sul balcone, piangeva e diceva: “Francis è il mio bambino. Per favore, mi permetti di ricomprare i suoi quadri?”.» Helen rifiutò. Da quel momento Francis prestava particolare attenzione nel presentarla come sua “intermediaria”; il loro rapporto di affari non andò mai oltre, ma rimasero amici intimi fino alla sua morte. Francis la rispettava, lei lo amava. Nel 1992 Helen parlò con grande trasporto di Craigie Aitchison e Leon Kossof, ma ricordò Francis come […] il più straordinario. È un dovere far conoscere a tutti la sua grandezza e il suo fulgore! Non c’è stato giorno in cui non abbia pensato alla morte, ma era un ottimista. Ogni tanto veniva alla Beaux Arts e per quanto la sua conversazione

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fosse frivola, era sempre serio con me. Ho conosciuto due geni in vita mia: Walter Sickert [suo cognato] e Francis Bacon.

Il 17 ottobre del 1958 Francis si presentò alla Hanover sconvolto «e in preda a una certa agitazione». Erica Brausen era in vacanza; Francis disse a Michael Greenwood, un collega di Erica, che non aveva voluto dirle la verità riguardo alla sua situazione finanziaria, ma a quel punto era così disperato che aveva deciso di fare un accordo con la Marlborough Gallery. Affermò anche che non avrebbe mai fatto un passo del genere senza consultare prima Erica, ma aveva un debito di gioco di circa cinquemila sterline e aveva con sé un assegno per saldare i conti con la Hanover. Michael Greenwood scrisse subito a Erica Brausen per darle la cattiva notizia: «Ha pensato che non saresti mai stata in grado di assumerti un simile impegno e quindi non te ne ha parlato». Tuttavia, Greenwood fece un ultimo tentativo, chiese a Francis a che punto fossero le negoziazioni con la Marlborough e se non fosse possibile rinviare la decisione finale fino al ritorno di Erica; Francis rispose che la decisione era irrevocabile. Sperava che la Hanover e la Marlborough potessero giungere in futuro a un accordo per permetterle di acquisire alcuni quadri. Per la verità, come lo stesso Michael Greenwood sospettava, Francis aveva firmato il contratto con la nuova galleria il giorno prima. «Ovviamente ha già 104

firmato e ha preso i soldi. Sa che ne sarai addolorata, come lo è lui, ma dice che la situazione era davvero disperata e che non aveva alternativa.» Greenwood concludeva: «Mi dispiace moltissimo per Francis, dopo tutto quello che hai fatto per lui in questi anni». Non era certo il modo più corretto di separarsi, ma è il destino inevitabile e doloroso di ogni mecenate della prima ora, venir rimpiazzato da qualcuno con mezzi più potenti non appena l’artista ottiene un successo commerciale. La Marlborough portò Francis Bacon a un livello ancora più alto. Fu una svolta cruciale. Henrietta Moraes sostiene che la prima mostra alla Hanover Gallery era stata organizzata con una tale fretta che, quando David Sylvester si appoggiò a uno dei quadri, sulla schiena gli rimase impresso “un uomo mezzo nudo”. (Suppongo che le tele fossero ancora fresche e che non fossero state messe dietro il solito vetro.) Francis non si preoccupò minimamente di correre ai ripari. C’ero anche io nel 1957 quando la galleria di George Street era così piena di amici e approfittatori che molti di loro potrebbero essere usciti di lì con un Bacon sulla schiena. La maggior parte degli amici di Francis ne aveva trascinati lì altri, più assetati di vino che di arte, quindi più che di una mostra, si trattò di una festa; Deakin, dal canto suo, se ne andava in giro informando tutti che: «No, questo è davvero buono» strabuzzando gli occhi come se solo


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lui potesse comprendere quelle opere. Francis, come suo solito, se ne stava nel mezzo di quel mêlée, sorridente e perfettamente calmo, come faceva sempre in situazioni stressanti. Forse perché li avevo visti nascere, questi erano i miei quadri preferiti. Magari non li avrò compresi appieno allora ma non potei fare a meno di rendermi conto dell’eccitazione che suscitavano. Francis dipingeva con la sicurezza di un old master. Figure in a Landscape del 1945 allude all’omicidio. Quando la Tate acquistò il quadro, Francis mi regalò una riproduzione su cartolina, da allora l’ho sempre tenuta appesa al muro e oggi è splendidamente sbiadita. Autografò una foto dell’incredibile cane che gira in tondo dipinto nel 1952, ora al Museum of Modern Art di New York, ma era in bianco e nero e l’immagine ha bisogno del colore. Figure Study 2 del 1945-46 venne donato alla Batley Art Gallery dalla Contemporary Art Society nel 1952. Batley, nel Nord dell’Inghilterra, è famosa soprattutto per i suoi night club, non certo per il grande interesse riservato all’arte. Tanto è vero che alcuni cittadini proposero al Comune di mettere in vendita l’opera ed è solo solo grazie alla tenacia del direttore della galleria che il quadro è esposto ancora oggi a Huddersfield. Una figura nuda, avvolta in un ampio mantello a righe, si appoggia a una palma, la bocca è aperta in un grido, sovrastata da un ombrello. Che cosa significa? Non c’è alcuna narrazione, ma qualcosa di terribile è accaduto. A questa seguirono le cinque teste, tanto ammirate da Lawrence Gowing, e i papi basati sull’opera di Velázquez; Two Figures ispirato ai lottatori di Muybridge (1953); Study for Portrait after the Life Mask of William Blake (Studio per un ritratto dalla maschera di William Blake, 1955); Van Gogh Going to Work (Van Gogh va al lavoro, 1957); e Miss Muriel Belcher (1959). Una produzione complessiva di poco più di quaranta quadri nell’arco di dieci anni può sembrare poco, ma fu con queste opere che Bacon si assicurò la supremazia nell’arte britannica del xx secolo. Se Francis durante i suoi vernissage si comportava in modo impeccabile, a quelli degli altri sapeva essere spietato. Ricordo con vergogna il nostro comportamento indegno a quelli di Cork Street. Apprezzare il lavoro di qualcuno poteva renderti vulnerabile, Francis lo sapeva perfettamente, ma se ti lanciavi in una critica feroce, chi avrebbe potuto smentirti? Esprimeva raramente e controvoglia il suo sostegno ad altri artisti e questa era una delle sue poche debolezze. Di solito uscivamo dalle gallerie sghignazzando con malcelata allegria. «Bene!» esclamò Francis in un’occasione, appoggiandosi a un lampione perché stava ridendo in modo incontrollabile, «io sono decisamente più bravo, non trovi?» Era pericoloso perché il suo modo enfatico di esprimersi faceva sì che tutti trovassero i suoi commenti divertenti. Persino le sue vittime finivano per

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ignorare i segnali di avvertimento quando cercavano di ottenere la sua attenzione o di ingraziarselo. Lady Caroline Blackwood ricorda un episodio: «C’era un artista particolarmente fastidioso che lo tormentava affinché andasse nel suo studio per vedere le sue opere, finché questi non giunse alla conclusione che Francis si rifiutava perché probabilmente si sentiva minacciato, ma lui replicò che non era affatto così, con feroce precisione gli spiegò: “Non voglio venire nel tuo studio perché mi è bastato vedere la tua cravatta!”». In questo periodo Francis e Graham Sutherland si frequentarono di rado. L’influenza di Sutherland, decisiva nel periodo iniziale, diminuì a mano a mano che Francis ebbe meno bisogno di lui. Tuttavia, fu proprio a lui che Bacon scrisse una delle sue rare lettere di ringraziamento, sostenendo che se non fosse stato per il suo impegno nel promuovere il suo lavoro, probabilmente non avrebbe mai venduto un quadro. Stanco di Londra, stava pensando di affittare uno studio a Parigi che, eventualmente, avrebbero potuto condividere. Si fidava a tal punto di Graham Sutherland che gli chiese di passare il fissativo sul quadro di un uomo che sghignazza sotto un ombrello, circondato da carcasse di carne che si stagliano su uno sfondo color malva. Si trattava dell’opera che in seguito sarebbe stata intitolata Painting, acquistata da Erica Brausen nel 1946 e rivenduta, due anni dopo, per centocinquanta sterline ad 106

Alfred Barr per il Museum of Modern Art di New York: la prima acquisizione museale di un Bacon. È indubbio che Graham aiutò Francis in molti modi, ma se si preferisce dar credito a Roger Berthoud si potrebbe suppore che: «In questo momento [1951] l’influenza predominante era quella di Bacon, sebbene lo scambio non fosse proprio a senso unico. Se ne può dedurre che, in alcuni casi, Sutherland sembrava dipingere opere simili a quelle di Bacon, affrontando temi specifici prima ancora che lo facesse lo stesso Francis». Berthoud sottolineò inoltre che sicuramente Sutherland doveva aver visto nello studio di Bacon opere importanti che in seguito vennero distrutte. D’altro canto è lecito chiedersi come sia possibile passare del fissativo su un quadro come Painting e non rimanerne influenzati. Era inevitabile che il particolare tocco di Bacon cominciasse a ottenere un certo risalto. Durante una visita a casa di Tony Hubbard a Regent’s Park Terrace, mi capitò di vedere un lavoro magnifico, che non avevo mai visto prima. «È un Bacon davvero particolare! Non ne ho mai visto uno così» esclamai. «Non c’è da sorprendersi» disse Hubbard. «È un Sutherland.» Osservandolo più attentamente, era abbastanza ovvio. Il soggetto era di Sutherland: fogliame e tronchi d’albero nel suo inimitabile verde acceso, ma aveva usato un certo numero di stratagemmi tipici di Bacon: il retro di una tela enorme, la linea orizzontale vicino ai margini per suggerire una gabbia, lo stesso vetro pesante e la cornice di Alfred Hecht. Per un momento la presentazione mi


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aveva ingannato. Un critico scrisse che Sutherland stava iniziando ad avere «un debito troppo grande nei confronti di Francis Bacon», mentre Times sosteneva che «in uno o due momenti il suo stile e il suo sentimento risultavano insolitamente prossimi a Francis Bacon». Commenti del genere devono aver avuto un effetto devastante sull’artista più anziano, perché Graham non era meno ambizioso di altri. Berthoud scrive: «Come amico, Bacon si stava eclissando dalla vita di Sutherland. Questi continuò ad ammirare il suo lavoro, ma in seguito ritenne che fosse diventato un po’ troppo “autobiografico”. Si stancò delle serate alcoliche e anche del suo disprezzo per persone che lui ammirava come Picasso, Braque e Matisse». Infatti, dopo un iniziale apprezzamento, Bacon prese le distanze da Picasso e finì con il paragonarlo a Walt Disney. Francis mi raccontò dell’estrema povertà in cui Graham e Kathy erano vissuti all’epoca in cui lui stava cercando di farsi un nome come artista e incisore, sostenendo che Kathy era gelosa delle donne più eleganti e più ricche di lei. Con quel suo sorriso sornione aggiunse poi che, per la verità, era Graham lo snob che amava le feste eleganti e tutti quei prerequisiti necessari per far parte dell’alta società. Berthoud sostiene che vi fosse anche un’altra ragione per questo allontanamento: «Bacon non era affatto entusiasta dell’amicizia che stava nascendo tra Sutherland e Douglas Cooper, che si era messo contro di lui». D’altro canto Graham iniziò a credere che l’approvazione di Cooper fosse vitale per il suo futuro, soprattutto in qualità di artista britannico più importante del momento. In questo senso potrebbe aver gradito il distacco di Cooper da Francis, che aveva conosciuto ai tempi di Roy de Maistre. Bryan Robertson offre un curioso giudizio sull’atteggiamento di Francis in quel periodo: «Nonostante la sua giovialità, era una persona riservata, alla fine degli anni cinquanta aveva l’abitudine di mettere un disco sul grammofono, per controllare i discorsi ed evitare qualsiasi stratagemma». C’è del vero in queste parole: Francis era molto più astuto di quanto lasciasse trasparire, ed era ambizioso. È abbastanza sconcertante, ma non si può evitare di pensare che fosse più gentile con gli artisti minori, come de Maistre, perché non rappresentavano una minaccia; in Sutherland invece vedeva un avversario da battere, forse persino da annientare. Dopo tutto, alla metà degli anni cinquanta era Sutherland a essere considerato il miglior artista britannico. Proprio nel momento in cui Francis riuscì a sorpassarlo e a diventare il più apprezzato pittore britannico, anche per me arrivò una svolta. Mi unii alla Associated-Rediffusion, in un’epoca in cui la tv era agli albori, c’era una grande eccitazione e soprattutto non avevamo restrizioni; liberi di esplorare le possibilità del mezzo restavamo sorpresi nello scoprire che gli ascoltatori

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amavano i documentari quanto i programmi dello show-business che costituivano il piatto forte. Le interviste “live” realizzate per This Week erano tremende. Raggiunsi la fama quando dovetti cacciar via Caitlin Thomas: Deakin l’aveva costretta a passare un pomeriggio più che alcolico al Caves de France. In seguito mi assegnarono un programma mio e l’amministratore mi chiese di fare una puntata sul suo amico Cowan Dobson, un pittore di società con papillon e panciotto che a proposito di sua moglie diceva: «Nessun’altra donna a Londra ha posato per così tanti ritratti». In fondo era un brav’uomo, anche se si compiaceva in modo odioso del suo successo. Nessuno si era accorto che i suoi quadri erano davvero orribili. Lavoravo con Rollo Gamble, un regista straordinario, e decidemmo di esorcizzare Dobson facendo un servizio sull’arte con Francis Bacon come antidoto. La cosa si rivelò più problematica del previsto. Dapprima Francis si rifiutò, ma io insistetti così tanto che in un momento di debolezza acconsentì a prendere in considerazione l’idea a patto che saldassimo il suo conto da Wheeler. Quando Rollo e io ci incontrammo con Bernard Walsh, restammo di stucco nello scoprire che il conto ammontava a quasi millecinquecento sterline, mentre il nostro rimborso spese arrivava al massimo a quindici. Persino Rollo perse la sua innata esuberanza, finché Walsh non propose una soluzione fantastica: 108

«Vi dirò io cosa faremo» disse con un ghigno. «Addebiterò il conto di Francis al ristorante, esentasse, come pubblicità, a una condizione: che facciate le riprese qui.» Era proprio quello che avevamo sperato di poter fare e Rollo accettò con grande entusiamo. Davanti alla nostra gioia, anche Francis dovette cedere. Filmammo The Art Game nel pomeriggio del 27 agosto 1958. Era la prima apparizione televisiva di Francis e, sebbene il filmato originale sia andato distrutto quando l’Associated-Rediffusion perse i diritti, resta il copione a documentare i dialoghi, ma non le nostre risate e neppure la strabiliante velocità con cui ci ubriacavamo. All’epoca le bobine duravano quattro minuti e durante le lunghe pause in cui venivano ricaricate Francis e io consumavamo una quantità incredibile di ostriche e champagne. Il montato finale venne ridotto da tre ore a quindici minuti con un effetto stupefacente: grazie a una sorta di metamorfosi istantanea, da due sobri Dott. Jekyll ci trasformavamo in due ebbri Mr. Hydes. «Dipingi per denaro?» «No, dipingo unicamente per divertimento.» «Allora perché esponi?» «Perché ho bisogno di soldi per tirare avanti.» «Vuoi dire che se avessi denaro sufficiente non esporresti?» «No, certo che no. Non c’è assolutamente alcun piacere nell’esporre. Il vero piacere è nel lavorare per se stessi, spero che un giorno farai quello che desideri davvero.»


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«Non ti dispiacerebbe se i tuoi quadri non venissero mai visti da nessuno?» «Niente affatto.» «Non è strano per un artista?» «Non lo so. La maggior parte degli artisti sono esibizionisti e forse lo sono anch’io, ma nei confronti di me stesso, non verso il pubblico. Preferirei avere soldi e libertà e non dover esporre.» «Ma continueresti a dipingere?» «Certamente, è un modo di vivere… per me.» Insinuai che molte persone si sentono vittime di un imbroglio quando visitano le gallerie d’arte perché tutta la faccenda è molto distante da quello che conoscono. «Be’, la maggior parte delle persone viene imbrogliata per tutta la vita, quindi non vedo perché dovrebbero andare a una mostra di pittura e aspettarsi di avere una rivelazione.» «Non è questa una delle cose che dovrebbe fare l’arte, rivelare cose alla gente?» «Potrebbe essere così solo dopo che le persone abbiano acquisito una certa consapevolezza, ma perché dovrebbero aspettarsi un’improvvisa rivelazione se sono completamente ignoranti e non ne sanno nulla? Perché dovrebbero aspettarsi di capire all’improvviso che cosa sta succedendo? Per la verità, l’arte moderna è una cosa molto semplice. Non è più complessa di quanto sia stata l’arte del passato.» «Ma di sicuro in passato» insistei «le persone comuni potevano riconoscere i soggetti e potevano far riferimento a standard in base ai quali giudicare se un’opera era buona o meno. Ma come si può stabilire che cosa è buono o cattivo tra tutte le cose che vengono prodotte oggi?» «Be’, in realtà questo non era possibile neanche in passato. In modo molto superficiale si sarebbe potuto dire se il dipinto somigliava a qualcuno nel caso di un ritratto, o di una ciotola di frutta o qualcosa del genere. A questo livello si sarebbe potuto pensare alla rappresentatività, ora la rappresentatività è stata notevolmente ridotta e l’uomo comune si sente un po’ imbrogliato dall’intera faccenda.» Menzionai i “pittori azionisti” che facevano a meno del pennello. «È solo il fine che conta. Non importa veramente se la tua opera consiste in te che te ne vai in giro in bicicletta o che cosa ne fai di essa.» «E questa non è una novità in pittura?» «Niente affatto. Prendiamo le ultime opere di Rembrandt: in un certo senso è stato il più grande pittore azionista. Se guardi il suo ultimo autoritratto, se lo osservi attentamente, ti accorgi che non c’è bocca, non c’è naso, non ci sono le orbite degli occhi, ma il fatto è che ha prodotto un’immagine magnifica… L’unica differenza con la pittura azionista è che, sfortunatamente e

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diversamente dalle opere di Rembrandt, è una forma di arte decorativa. Rembrandt cercò di creare una testa o un ritratto di qualcuno, mentre i pittori azionisti cercano sempre di creare una trama decorativa.» «È una buona cosa?» «No, è terribile. Ma la pittura azionista è molto recente e probabilmente temporanea. L’unica cosa interessante al riguardo è che una macchia di colore sulla tela è più stimolante – perché ha maggiore vitalità – delle insulsaggini dell’arte accademica.» Alla domanda se fosse possibile per un cattivo pittore dipingere un buon quadro, Francis replicò che era improbabile. «Dopo tutto, la pittura non è il cricket. Le regole sono lì per essere infrante se riesci a farlo a tuo vantaggio, e molto probabilmente scoprirai che la fortuna più grande spetta ai pittori più grandi perché possiedono una sensibilità che di tanto in tanto gli permette di sfruttare la fortuna toccatagli in sorte». Accenai all’arroganza della sua affermazione, quando sosteneva che dipingere per lui consisteva semplicemente nel “rovesciare” il colore sulla tela e gli chiesi se fosse uno scherzo. «Spesso dico cose un po’ come mi vengono, tanto per passare il tempo.» «Non è così semplice?» 110

«Non è affatto semplice. Ovviamente, a volte, ogni pittore spera che i colori funzionino e che gli saranno concesse tutte le cose che cercava di fare. Che un giorno ci sarà una coagulazione e tutto fluirà insieme e che almeno per un momento avrà ottenuto quello che voleva.» «Quanti pittori viventi ci sono riusciti?» «Non saprei dire quanti pittori lo hanno fatto, ma suppongo che accada nella vita della maggior parte dei bravi artisti, o nella vita di un grande artista, di tanto in tanto, e questo è il motivo per cui persino il novanta percento delle opere dei grandi artisti sono noiose… se si potessero eliminare tutte le cose noiose e lasciare solo quelle migliori, si otterrebbe qualcosa di veramente interessante. Ma ovviamente è antieconomico, perché devi essere in grado di poter comprare i materiali e tirare avanti.» «È per questo che distruggi molti dei tuoi quadri, cosa che credo tu faccia?» «Be’, certamente, Dan, ne distruggo il novanta percento. Purtroppo qualcuno devo salvarlo, altrimenti non saprei come sopravvivere.» «Se non dovessi esporre, li distruggeresti tutti?» «Non lo so. Di tanto in tanto capita che vengano fuori delle cose che ti piacciono.» «Pensi che l’arte sia veramente importante?» «Credo che l’arte conti molto, perché tutte le più grandi aspirazioni degli esseri umani sono state consegnate all’arte. Non conosceremmo nulla delle civiltà passate se non fosse stato per le tracce che hanno lasciato nelle loro opere.»


· Bacon all'opera ·

Gli feci notare che aveva appena contraddetto la sua precedente affermazione che non avrebbe esposto se non avesse dovuto guadagnarsi da vivere. «Non credo che gli uomini delle caverne esponessero. Credo che disegnassero oggetti che gli piacevano, sia perché volevano vederli di nuovo, sia per un motivo magico: ovvero se disegnavi quell’oggetto, questo veniva da te.» «Come può una persona comune giudicare cosa è bello o brutto, come può stabilire se un graffito delle caverne sia in qualche modo migliore o peggiore di un Rembrandt o di un Bernard Buffet?» «Penso che sia molto difficile, perché innanzitutto l’intera questione su cosa sia una persona comune è complessa. Ma suppongo che gli individui che hanno passato la maggior parte della loro vita a rifletterci probabilmente saranno in grado di giungere a una conclusione in merito a quello che apprezzano, a quello che ha un certo valore e a quello che contiene un certo elemento di realtà, più di coloro che non hanno mai preso in considerazione certe tematiche.» «Ha importanza che la maggior parte delle persone non comprenda l’arte moderna?» «Di sicuro non c’è molto da comprendere. L’arte non è diversa, non cambia mai. È solo che quando è presente un forte elemento di rappresentatività, le persone pensano di capirla. Ma nel corso di ogni epoca pochi hanno avuto veramente le capacità o le qualità per apprezzare l’arte.» Dato che ero un fotografo, volevo sollevare l’argomento dell’influenza della fotografia. «Diresti che la fotografia ha spinto l’arte in una direzione completamente diversa?» «No, in una direzione completamente diversa no, ma l’aspetto rappresentativo dell’arte è stato ampiamente sorpassato dalla fotografia e la logica conclusione di tutto questo è che oggi ci si rivolge all’arte astratta. Ma il problema dell’arte astratta è che sembra che l’uomo debba lottare con l’oggetto prima di… perché la grande arte ha sempre ricondotto la gente alla vita in modo più violento. E così la gente apprezza la vita in modo più intenso: l’arte astratta non fa che creare modelli.» «Non si potrebbe dire che oggi, più di prima, i pittori dipingano per altri pittori?» «No, non credo. Perché, dopo tutto, a che cosa si interessa la maggior parte dei pittori? Alla vita. Tutti gli artisti sono amanti, amanti della vita, vogliono vedere come riescono a piazzare la trappola in modo che la vita ne venga fuori più vivida e più violenta. E come lo fanno? Ragioniamoci un attimo, perché si dovrebbe dipingere per se stessi? Quello che mi chiedo è, lasciando da parte l’astuzia, come posso intrappolare una cosa transitoria?» «È necessario essere in grado di riprodurre perfettamente le sembianze di qualcuno per essere in grado di dipingere un grande quadro?»

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«Be’, questa è una cosa molto interessante. Perché forse due dei migliori artisti del nostro tempo – Picasso e Soutine – si trovano in posizioni diametralmente opposte. Picasso è un uomo con un dono enorme che può fare quasi tutto quello che vuole. Soutine era un uomo con uno sconfinato amore per la pittura che non ha mai disegnato, dipingeva direttamente sulla tela e ha scelto in maniera deliberata di non sviluppare la sua tecnica. E non l’ha sviluppata perché pensava che con questo metodo avrebbe mantenuto la cosa più pulita e grezza.» La stessa cosa si sarebbe potuta dire per Francis ed è significativo che in Painting (1946) e Figure with Meat (Figura con carne, 1954) ci fosse un’eco di Le boeuf écorché (Carcassa di Bue, 1925) di Soutine. Quando gli chiesi nuovamente se fosse necessario saper riprodurre una perfetta somiglianza, Francis ritrattò. «Non c’è alcuna necessità, perché, dopotutto, si potrebbe usare una macchina fotografica… per la verità quando gli artisti dipingono un ritratto generalmente stanno dipingendo qualcosa che rivela molto più di se stessi che non del modello… Non credo che importi se un ritratto sia quasi irriconoscibile, ma quando guardi i grandi ritratti del passato come si può sapere se assomigliavano anche lontanamente a quelle persone? Come potremo mai sapere se i faraoni erano davvero così? In effetti, credo che fosse una cosa ben nota al 112

tempo della grande arte egizia, ovvero, quando un re moriva, toglievano il suo nome e mettevano sullo stesso ritratto quello del successore.» «Credi che abbia senso parlare di arte?» «È sempre un argomento affascinante perché la gente quando parla di arte rivela se stessa – non riguardo all’arte, ma riguardo al loro atteggiamento verso la vita. E sai, è sempre una cosa impossibile parlare di… perché credo che Pavlova avesse ragione quando le chiesero che cosa volesse esprimere mentre danzava La morte del cigno e lei rispose: “Be’, se potessi dirvelo, non danzerei”.» «Se tu potessi dire tutto sull’arte, dipingeresti?» «Certamente no, perché si tratta di qualcosa che va molto al di là di ciò che chiamiamo coerenza e consapevolezza e speri che l’arte migliore sia una sorta di valvola in cui sono intrappolati molti dei segreti sul sentimento e sul destino degli uomini… qualcosa che non può essere concretamente e direttamente espresso a parole.» «Si dice spesso che la tua arte sia sensazionale. Puoi spiegarlo?» «Che cosa intendi con “sensazionale”?» «Che ti lascia scioccato. Risulta malvagia, sconcertante, sgradevole…» «Credo dipenda dal fatto che i miei soggetti suscitano scalpore. Per esempio una delle mie grandi ambizioni è registrare il grido umano, e questa di per sé è una cosa sensazionale. E se davvero riuscissi a farlo – ed è una delle cose più difficili in arte e non direi che non sono mai stato in grado di farlo, o che qualcuno non sia ancora stato in grado di farlo – ovviamente sarebbe sensazionale.»


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«Quando dici “il grido umano”, che cosa intendi?» «La coagulazione del dolore, della disperazione…» «Francis, che ne pensi del lato opposto della vita: felicità e amore? Perché dipingere solo disperazione e dolore?» «Be’. Anche la felicità e l’amore sono una cosa meravigliosa da dipingere. Spero prima o poi di riuscire a farlo anch’io. Dopotutto, sono solo l’altra faccia delle tenebre, non è così?» «Ha qualche importanza per te il fatto che molte persone non siano in grado di comprendere i tuoi quadri?» «Be’, non credo che un pittore debba essere interessato al fatto che la gente capisca o meno i suoi quadri. Se sei in grado di dipingere, è solo grazie al tuo sistema nervoso. E sai, questo forse non c’entra, ma Valéry ha detto una cosa molto interessante sull’arte moderna, che è molto vera. Ha detto che gli artisti moderni vogliono le rose senza le spine, ovvero che vogliono comunicare la sensazione della vita senza il fastidio delle parole. Una delle cose molto interessanti è che negli ultimi cinquant’anni tutti – nessun movimento escluso – sono stati astratti… quindi la questione è: come posso sollevare un altro velo dalla vita e presentare quella che si chiama la sensazione della vita in modo più vicino al sistema nervoso e in modo più violento?» A questo punto eravamo felici e Francis espresse la sua opinione sui veli con grande enfasi ed eloquenza. Unendomi a lui, suggerii: «Quindi tu saresti la Salomé dell’arte moderna, colei che solleva i veli?» Con un grande sorriso replicò: «Mi dispiace ammetterlo, ma difficilmente potrei dire una cosa del genere. Però sarebbe una gran bella cosa.» «Prendi un altro bicchiere di champagne.» Era una rara occasione per me fare l’ospite. «Grazie molte, Dan.» Quando The Art Game andò in onda, Cowan Dobson si lamentò con il produttore, disse che si era sentito insultato da una compagnia così meschina. Mr. Dobson si aspettava semplicemente che l’intero programma venisse dedicato all’arte di Bacon e, per la verità, questo era quanto gli era stato detto. Il revisore dei programmi mandò a me e a Rollo una dolente nota di rimprovero.

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