«[…] Negli ultimi trent’anni si è verificata una virulenta proliferazione di opere macabre. I teschi sono talmente numerosi che è più facile trovarli nei musei e nelle gallerie d’arte anziché nei camposanti. È come se l’arte contemporanea fosse stata investita da una psicosi legata al memento mori. Ciò nonostante, quando un fenomeno si protrae oltre il proprio tempo può somigliare a un carcinoma, capace cioè di provocare metastasi ovunque.» Dalla premessa dell’autore
alberto zanchetta
Alberto Zanchetta, critico d’arte e curatore indipendente, insegna Storia dell’arte contemporanea alla laba di Brescia. Ha pubblicato il pamphlet Antologia del misogino (2006) e il saggio Humpty Dumpty Encomion (2007). Attualmente scrive per Flash Art, Arte e critica, Espoarte ed è stato collaboratore di Inside e Around Photography.
Nella stessa collana: 1. Maria Perosino (a cura di) Effetto terra 2. Marco Tonelli Pino Pascali – Il libero gioco della scultura 3. Stefano Pirovano Forma e informazione – Nuove vie per l’astratto nell’arte del terzo millennio
frenologia della vanitas - il teschio nelle arti visive
In copertina: Kris Martin, Still Alive, 2005. Foto Achim Kukulies, Düsseldorf, courtesy Sies + Höke, Düsseldorf.
€ 30,00
frenologia della vanitas il teschio nelle arti visive — alberto zanchetta
La morte è il topos più frequentato dall’uomo, un turbamento che dalla notte dei tempi ne contrassegna l’immaginario e le opere. Ogni epoca abbonda di simboli legati all’idea della transitorietà, ma fra tutti ne spicca uno: il teschio, simulacro spesso “pensoso” che ci ammonisce sulla vanità di ogni cosa terrena e ci costringe a riflettere sui fini ultimi dell’esistenza. Emblema della vanitas, il teschio ricorre nelle raffigurazioni medievali a suggello di corpi imputriditi che turbavano gli incauti viandanti. Emancipatasi dalla carne e ridotta a “corpo secco”, la optima pars dello scheletro si avvia, già in pieno Rinascimento, verso il suo apogeo seicentesco. In seguito l’effigie scheletrica conosce alterne fortune. Nel Settecento perde gran parte dell’afflato macabro a vantaggio di rifioriture dei sottogeneri connessi al memento mori, senza esaurire, peraltro, la sua carica dirompente. E se nell’Ottocento conosce una fiacca ripresa, è nel corso del Novecento che riacquista buona parte del suo magistero. La sua esasperata popolarità corrisponde però al crinale del nuovo millennio, quando teschi e scheletri tornano a signoreggiare fra le arti visive. Un vertiginoso incremento, quantitativo più che qualitativo, a cui non corrisponde automaticamente una rinnovata vitalità. Sembra infatti che l’arte si sia a tal punto assuefatta all’effigie del teschio da esserne quasi anestetizzata. Inerte, incapace di incutere paura o di imporre una morale, la testa di morto appare oggi più che mai devitalizzata. È questa la diagnosi cui giunge l’autore di Frenologia della vanitas al termine di un lungo e articolato vagabondare. Un percorso che procede attraverso accostamenti inusuali e connessioni tra contemporaneità e tradizione, tra stili ed epoche. La rinuncia a una cronologia e a ogni altro criterio classificatorio favorisce uno sviluppo rizomatico, sostenuto da una forte apprensione per l’avvenire del teschio.
Alberto Zanchetta
Frenologia della vanitas Il teschio nelle arti visive
Liber mortuorum Prolusione allo spazio e al tempo della vita
La Storia dell’arte non è solo una storia delle immagini ma anche, e soprattutto, una storia dello sguardo. Nelle arti visive esiste una provocazione rivolta a colui che guarda e viene a sua volta osservato: è l’effigie del teschio, che con le sue vuote fosse orbitali ci fissa e non smette di ammonirci dall’oltretomba. Pur incutendo una certa soggezione, il suo sguardo è universale, primigenio, e ha la facoltà di svelare la realtà “ultima e prima”, unendo il mondo di quaggiù con quello di lassù. Lungi dal voler urtare la sensibilità e il buon gusto, il teschio non è una scheggia strappata al passato, bensì una scheggia conficcata nell’eterno presente: volto plurisecolare che ha saputo disfarsi della carne, così come si farebbe con una maschera che cela la sostanza dell’uomo. In esso vediamo venire meno l’identità ma non l’unità, perché l’integrità del corpo scheletrico è «riassunta nel teschio, una volta disperse le altre ossa».1 Ben più che una semplice terminazione del corpo ossuto, il cranio umano è una vera e propria monade, una reliquia antica quanto l’infanzia dell’uomo. Bisognerebbe dunque risalire all’origine stessa della vita per introdurre i temi di questo libro. Lo studio dell’origine della nostra specie è stato possibile grazie al raffronto di crani appartenuti ai primati, ancor più che dall’esame dei loro scheletri e dalla progressiva acquisizione della stazione eretta. In particolare: l’anatomia comparata dei reperti fossili ha evidenziato lo sviluppo del sistema nervoso centrale degli ominidi. In virtù delle sue prominenze e dei suoi ispessimenti, l’encefalo è l’organo che ci consente di comprendere l’evoluzione della specie Homo in relazione ai nostri antenati più prossimi, le scimmie. Tali metamorfosi ci hanno permesso di individuare nell’Aegyptopithecus – un ominide quadrumane risalente a trenta milioni di anni fa – il nostro progenitore più remoto, «il più grande innovatore della nostra storia, colui che “ebbe” l’abilità di adattarsi, in modo efficace, immediato e assolutamente indifferenziato, al cambiamento climatico […]. Con questo nuovo cervello, l’Aegyptopithecus possedeva un immenso potenziale di adattamento che gli assicurò una futura esistenza».2 Oltre 15
Cranio di Sinanthropus (Homo Erectus).
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venticinque milioni di anni dopo spetterà alla specie Homo rispondere positivamente alle sollecitazioni ambientali, diventando habilis, quindi erectus e infine sapiens. La specie umana, però, non è stata esaminata solo in una prospettiva antropologica. Nella seconda metà del xix secolo si sviluppa una branca dell’antropometria che effettua ricerche statistiche sul corpo umano, ora studiandolo e misurandolo, ora comparandolo e classificandolo. È in questo fervido clima di ricerche che nasce il delirante scientismo della frenologia ottocentesca. 3 Diversamente dai paleontologi che perseguono i loro studi con scrupolo deontologico, i frenologi creano le proprie “verità” basandosi su informazioni e risultati a dir poco opinabili, sicché potremmo ben dire che la frenologia è, né più né meno, l’equivalente della chiromanzia. Così come la lettura della mano fu ridicolizzata durante il Rinascimento, già nel corso del Novecento si inizia a dubitare dei metodi e delle teorie di questa pseudo-scienza che pretende di “leggere” il cranio umano. Goniometri auricolari, nastri metrici, compassi a branche rette o a branche curve, sono solo alcuni degli strumenti che i frenologi usavano per esaminare i tratti devianti e abnormi della testa. Il loro intento era quello di esaminare i crani dei pazienti o dei morti riconoscendo nelle peculiarità somatiche un corrispettivo psicologico dell’individuo.4 Sfortunatamente, i presupposti si rivelarono tutt’altro che attendibili, screditando completamente questa neonata “scienza positivista”. Vilipesa la disciplina, resta in auge l’oggetto dell’investigazione: la testa di morto che già dall’antichità era diventata un pungolo ai tormenti e ai turbamenti dell’arte.
Frenologia della vanitas
Mors certa, hora incerta Vanitas e memento mori
Nelle arti visive le teste di morto racchiudono (sempre e comunque) un presagio sulla fatuità della vita e costituiscono il simbolo per eccellenza dei temi della vanitas e del memento mori. L’etimologia della parola vanitas – il più delle volte parafrasata con il termine vanità – deriva da vanus, che significa “vuoto”, “caduco”. Teologi, filosofi, intellettuali, scrittori e artisti di diverse epoche ed estrazioni culturali si sono ampiamente cimentati nel tentativo di definire cosa debba intendersi per vanità. Scrive Pierre Charron: La vanità è la più essenziale e propria qualità dell’umana natura. Non v’ha tanto di verun’altra cosa nell’uomo; sia malizia, disgrazia, incostanza, irresoluzione (delle quali tutte ha però sempre un’abbondanza grande), quanto di vile inanità, sciocchezza e ridicola vanità. […] Ma la più sciocca delle vanità è quella cura penosa di ciò che si farà qui, quando saremo partiti noi. […] Vogliamo provvedere che ci si facciano cose per quel tempo in cui non saremo più: desideriamo essere lodati dopo la nostra morte: che maggior vanità può trovarsi di questa? […] Noi consentiamo forse di perder la vita, ma non la vanità.1
Per Goethe la vanità è autocompiacimento privo di fondamento, non conduce all’immortalità ma all’immoralità. Compiango le persone che si lamentano tanto della transitorietà delle cose e si perdono nella contemplazione della vanità terrena. Giacché noi esistiamo proprio per rendere eterno ciò che è transeunte; e questo può avvenire solo qualora si apprezzi sia il transeunte che l’eterno.2
Necessariamente, la vanità deve essere espressa attraverso coppie avversative (sostanza-fenomeno, essere-apparire, carne-spirito) che inducano a condannare ciò che è superfluo, ovvero ricchezza, bellezza, 17
potere temporale, prestigio e gloria terrena, perché da morti le cose cessano di avere un valore, e in verità moriamo ogni giorno. Buddisti, cristiani, platonici e mistici ritengono che la vita sia pura e semplice vanità, concetto che si riassume nel motto “tutto sfugge”, sennonché le persone preferiscono arricchirsi materialmente anziché fortificarsi spiritualmente, motivo per cui c’è sempre meno sentimento umano nelle cose. Per emendare i peccati dovremmo rinunciare alle passioni, che sono all’origine di una cattiva coscienza, rifiutando ciò che è terreno, in una specie di visione ascetica e ineffabile che sprezza il materialismo. Dovremmo altresì predicare la vita ultraterrena per raggiungere l’assoluzione e la beatificazione; ma per ottenere la misericordia bisogna prima scontare la mortificazione della carne e dello spirito.
Parkin, Memento mori, c. 1794.
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Frenologia della vanitas
Il concetto di vanitas, così com’è inteso nelle arti visive, deriva dal Qohélet, 3 libro sapienziale della Bibbia, anche detto Ecclesiaste.4 Il testo è una complessa e ardua riflessione sulla vanità universale, una prova di sofferenza che mette l’uomo di fronte al tormento della conoscenza, alla fugacità del tempo, alla labilità della vita e delle cose che le appartengono: ergo è inutile riporre gioie e speranze nelle vanità, esse rendono l’uomo assolutamente infelice. Nell’Ecclesiaste la vanità del mondo, tripartita in vanità della scienza, dei piaceri e della sapienza, viene commentata dall’autore come una “grande sventura”. Non a caso l’incipit del testo biblico è suggellato dalla perifrasi Vanitas vanitatum (“Vanità delle vanità, tutto è vanità”), derivata dal superlativo ebraico Havel havalim, traslato in un “immenso vuoto”. Dunque, quel “tutto è vanità” sta a significare più esattamente “tutto è vuoto”. Il termine ebraico Hevel, tradotto in latino con vanitas, può riferirsi a diversi concetti; tra questi c’è il soffio, che non è pneuma datore di vita, al contrario, è un respiro che si affievolisce gradualmente, fino a esalare, a “spirare” (in altre parole è un “venir meno” che cessa e si estingue). Ma equivalenti dell’Hevel sono anche il fumo, il vapore, la nebbia. Anziché affidarci alle canoniche traduzioni dell’Ecclesiaste, riportiamo qui l’interpretazione che ne fa Guido Ceronetti, 5 il quale parafrasa vanitas vanitatum con «Fumo di fumi / Polvere di polveri», mentre la frase “tutto è vanità” è resa con l’impalpabile «Tutto passa in un soffio» [Qo 11,8]. Nell’Ecclesiaste c’è una visione spiccatamente realistica – molti esegeti avrebbero detto pessimistica o scettica – della condizione umana. Il mondo in cui viviamo è un mondo di amarezze, preoccupazioni, patimenti, perplessità, delusioni. La vanità viene sovente associata all’inane tentativo di rincorrere il vento: «Tutte io vidi / Le azioni che si fanno sotto il sole / Ed ecco / fumo è tutto / vento che ha fame» [Qo 1,14]. Che sia fumo, vento o alito, questo “tutto” è destinato a dissolversi: sapienza e piacere sono i cardini del suo progressivo svanire. Qohélet invita quindi il vivente a osservare le cose in vista della loro fine, «perché una è la sorte / Per i figli dell’uomo / E per le bestie / […] Gli è comune il morire / […] Tutto va a un’unica fossa / Dalla polvere viene tutto / Nella polvere tutto riposa» [Qo 3,19-20]. Poiché l’autore incarna la parola di Dio (epifania che si compie in silenzio e in gran segreto), la tradizione ebraica e quella cristiana sono concordi nel riconoscere all’empirismo di Qohélet una missione profetica. La Rivelazione divina passa attraverso il disincanto e la crisi di un uomo vecchio e saggio, il quale ha capito che è giusto evitare ogni eccesso, godendo delle scarse gioie che la vita ancora gli riserva. Egli vorrebbe che gli uomini si astenessero dal peccare, mettendo giudizio e facendo voto di fedeltà a Dio, perché l’unica e sola ricchezza sapienziale si trova nelle Leggi di Dio. Rivolgendosi al lettore, Qohélet gli rammenta «che per tutto / Dio ti giudicherà» [Qo 11,9]; malgrado ciò, l’autore non fa mai riferimento alla 19
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salvezza, non suggerisce alcuna possibilità di redenzione che sgravi l’uomo da tutta la vanità del mondo. In questa sua ansia si può intravedere soltanto un labile spiraglio di pace e serenità, scrutabile al fondo della miseria terrena. In definitiva il suo è un ammonimento, proprio come lo è il memento mori: ricorda che devi morire!6 Il memento mori rientra nella casistica connessa ai temi della vanitas, e benché le due tematiche finiscano spesso per collimare, la seconda appartiene più comunemente al genere delle nature morte, mentre il primo assume di frequente le sembianze del teschio. All’opposto, l’Ecclesiaste evita qualsiasi riferimento a teschi o ad altre ossa umane, non parla mai né di scheletri né di morti.7 Men che meno allude alle nature morte, eppure sono proprio i dipinti di vanitates che traggono ispirazione da questo testo sapienziale; saccheggiato in lungo e in largo, i quadri ne riportano stralci verbali che si attagliano perfettamente alla caducità della figurazione. È da questa consapevolezza della fragilità delle cose terrene, del tempo che corrompe la bellezza e la divora, che nascerà l’effigie del teschio, convertita poi in metafora dell’instabilità politica e religiosa. I soggetti e i temi della vanitas sono assai ampi e comprendono, oltre al memento mori, l’homo bulla, l’Et in Arcadia ego, l’allegoria della morte e le Tre età dell’uomo, che sono da mettere in relazione con le artes moriendi, le danze macabre, il trionfo della Morte, la Morte e la fanciulla, la Leggenda dei tre vivi e dei tre morti. Alberto Veca tiene però a precisare la sottile differenza tra vanitas e vanità: I due concetti sono apparentemente contraddittori: “ostentazione del transitorio” e “memento mori” sembrano procedere in modo complementare. Vanitas come ostensione delle ricchezze del mondo e della loro intima fragilità al cospetto del teschio, solido e immutabile nella sua assolutezza, o al cospetto dell’architettura semplice e funzionale della clessidra, che abbiamo visto declinata nelle fogge e nei décors più diversi. Vanità come fiera, mondana esibizione di una bellezza e di una preziosità che, pur appartenendo alle apparenze del mondo, colgono un sentimento morale affine ma un momento psicologico diverso. Nel tema della vanità, che percorre Cinquecento e Seicento […] si può riscontrare una complicità e un amore per le apparenze, per quanto nei fatti o a parole, nella sentenza, è condannato. 8
La vanitas può essere voluttuosa o contemplativa, in entrambi i casi ci avvisa che è impossibile possedere o comprendere (quel) tutto (che in realtà è un vuoto a rendere). Essa non ammonisce solo sul viscerale attaccamento alle cose terrene ma tende a istillarci anche il senso amaro del fallimento. A seconda dei punti di vista la vanitas può quindi apparire mortifera oppure salvifica. 20
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Allo stesso modo in cui è possibile leggere l’Ecclesiaste come un “canto della vita”, il memento mori diventa “un inno alla vita”, l’uno e l’altro ci invitano a superare i grandi tormenti dell’esistenza e a non perdere tempo, beneficiando al meglio della nostra breve vita terrena. Lussi o bisogni materiali non valgono nulla di fronte alla morte. L’unica concessione ammessa, affinché l’uomo possa congedarsi senza rimpianti, è l’accumulo di esperienze che lo rendano sazio e appagato dall’esistenza. Agli occhi del vecchio savio la morte diventa perciò necessaria e utile. Di più, è desiderabile in quanto rivela il massimo grado dell’esperienza.9 La saggezza connessa alla consapevolezza della morte è la medesima espressa dall’autore del Qohélet, il quale decide di ammantarsi delle spoglie di Salomone, emblema della sapienza del mondo. In qualità di “presidente dell’assemblea”, egli è chiamato a processare la vita, autorità accordatagli in virtù della sua età, poiché soltanto chi ha vissuto molto e Isaac Luttichuys, Vanitas, 1635-40.
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ha fatto tesoro della vita può comprenderne il senso e trarne un giusto insegnamento. Solo se equivocassimo le sue parole avremmo l’impressione che l’esistere non abbia senso, in quanto la morte – avrebbe detto Schopenhauer – è lo scopo della vita. Questa sentenza viene motivata dal De senectute del Petrarca, breve dialogo che vede coinvolti il Dolor e la Ratio; il primo si lagna e si dispera per la sopraggiunta vecchiaia, mentre la seconda cerca di fargli capire che è una cosa positiva, meglio: è addirittura un privilegio. Queste le motivazioni addotte da Ratio: Hai camminato senza mai fermarti, e ti meravigli di essere giunto alla meta. Sarebbe stato ben più strano se, andando sempre avanti, non fossi finalmente arrivato. […] Il corso della vita è ora breve, ora brevissimo, mai lungo, sempre duro, aspro e incerto; la vecchiaia ne è l’ultima parte, la morte la fine. Di cosa dunque in particolare ti lamenti, di essere vecchio? Puoi dire ormai di aver portato a termine il compito di vivere. […] Accettate senza recriminare che il vostro corpo e la vostra anima giungano insieme allo stremo: insieme sono entrati, così escano dalla vita; nei confronti del primo che si affretta alla meta l’altra non voglia far resistenza tentando di tirarlo all’indietro. È inutile cercar sotterfugi: bisogna andare, non è consentito tornare sui propri passi né fermarsi. E per voi, che credete nell’immortalità dell’anima e nella resurrezione dei corpi, ciò è di fatto più facile che non per quanti si aspettano una sola cosa delle due o addirittura nessuna. […] Molti hanno cominciato a conoscere se stessi e ad acquisire un po’ di saggezza soltanto nella vecchiaia, tardi certo ma ancora in tempo. Anche se ciò non ha più utilità per la vita che volge alla fine, perlomeno giova alla morte imminente. […] L’età degli uomini, come tutte le cose, ha il tempo della sua maturità, che è chiamata vecchiaia. Per farti certo di questo ti ricorderò che l’età e la morte di chi è giovane sono dette acerbe, come in effetti sono.10
La Ratio di Petrarca concepisce la giovinezza come una semplice parentesi, conferendo invece grande importanza alla vecchiaia. A fronte degli incessanti piagnistei di Dolor, che imperterrito continua a lamentarsi d’essere vecchio anziché apprezzarne i benefici, Ratio finisce per stizzirsi, biasimandolo brutalmente: «A ragione anche per te, come per la maggiore parte degli uomini, è il caso di dire che la disgrazia non è essere invecchiato ma essere vissuto».11 L’aspetto saliente del dialogo si trova però nel finale, dove vengono contrapposte la “morte naturale” e la “morte innanzi tempo”.
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Non omnis moriar Esiste una clausola invariabile: “e poi morì!”
«Un tempo si sapeva (o lo si presentiva) di avere la morte in sé come il frutto ha il nocciolo. I bambini ne custodivano dentro una piccola e gli adulti una grande. Le donne la portavano nel grembo e gli uomini nel petto. La si aveva, e questo conferiva a ciascuno una singolare dignità e un orgoglio silenzioso».1 Viceversa, ai giorni nostri abbiamo smesso di pensare e di parlare della morte, a tal punto da rigettare la nostra unica certezza. Siamo sempre più impauriti dall’oltre-vita, e ciò che temiamo maggiormente è l’Imperfetto dell’Essere: “egli era”. Il pensiero di una mors repentina ci terrorizza profondamente perché destabilizza l’ordine naturale della vita, consapevolezza che alla fine abbiamo preferito demandare alla scienza e alla medicina. La biologia studia la forma e la fisiologia, che sono rispettivamente la morfologia e la funzione svolta dal corpo, e da ultimo analizza la patologia, che è la malattia. Quando l’humana fragilitas inizia il suo decorso verso il rigor mortis, la morte finisce per coincidere con l’interruzione delle funzioni respiratorie, cardiocircolatorie e nervose. Per quanto ineluttabile, è impossibile stabilire il momento esatto in cui un corpo umano cessa di vivere. Il momento preciso della morte è ipotizzabile solo per approssimazione. Anziché nelle singole cellule – che deperiscono gradualmente, mai simultaneamente – la morte è riscontrabile nel collasso del sistema nervoso, ossia alla cessazione della sua funzionalità. Volendo tuttavia accertarci se la morte di un individuo sia stata accidentale o sia sopravvenuta per cause naturali dovremo affidarci alle necroscopie, che ci forniranno tutte le prove tanatologiche necessarie. La modernità ha cercato di rimuovere ogni coscienza astratta della morte, sicché viviamo una condizione esistenziale turbata dalla difficoltà di comunicare e di nominare la morte. In pratica la società ci ha imposto una distanza fisica, visiva e affettiva da coloro che sono passati a miglior vita; ma vanificando l’immagine dei morti rischiamo di vanificare anche la nostra immagine di morituri. Diversamente da noi, nel Medioevo la vita era breve ma intensa, così intensa che ogni situazione era oltremodo 23
amplificata; ecco spiegato il perché del “sentimento del macabro” che attanagliava così duramente la società dell’epoca. Se, com’è vero, la danza macabra deve le proprie origini a un sermone che un monaco volle accompagnato da scene mimate, anche il memento mori faceva parte delle funzioni religiose (usato dal celebrante per commemorare i vivi e i morti, l’officio pastorale impiegherà i temi macabri per ispirare ai fedeli il timore della dannazione). A tale scopo il teschio divenne il perfetto surrogato di questo terrore dell’oltretomba, di un aldilà dove saremo giudicati e condannati. Il memento mori incute paura proprio perché preannuncia la fine di tutte le cose. La “morte digrignante” tematizzata dal mondo ecclesiastico assume così un’intonazione morale che sarà recepita in vario modo dalla cultura umanistica del Cinquecento: da una parte il mondo laico inizia a disinteressarsi agli strali escatologici per beneficiare della vita terrena senza essere continuamente assillato dall’aldilà, dall’altra i credenti seguitano a espiare i propri peccati per rendere conto a Dio di un’esistenza retta e giusta. Ed è ai secondi che dobbiamo il fiorire dell’ars moriendi, forma espressiva che trova riscontro sia nella scrittura sia nell’iconografia allo scopo di insegnare l’arte del “ben morire” di fronte all’ora estrema. Il compito delle artes moriendi consisteva infatti nell’alleviare le sofferenze e i timori del morente, preparandolo all’incontro con Dio ed esortandolo ad accettare la morte come un dono. Questo genere di testi e di illustrazioni era molto diffuso nel Medioevo a causa dell’alto tasso di mortalità dell’epoca, circostanza che induceva l’uomo a mantenere un contegno di fronte alla morte e alle persone che si radunavano al suo capezzale. Un’attualizzazione di questa letteratura religiosa si riscontra nell’opera In hora mortis di Thomas Bernhard. Nel testo l’autore si rivolge direttamente a Dio, invocandolo per cinquantasei volte attraverso la parola Herr, che significa “Signore”, sopravanzando di buon grado le trentotto volte in cui la parola Hevel ricorre nell’Ecclesiaste. Ma laddove Qohélet parlava del “vuoto” del mondo, Bernhard si rivolge all’assenza di Dio, alla sua mancata epifania nella vita terrena. Il Verbo divino, incarnatosi nelle parole di Qohélet, viene qui sostituito dall’individualismo profondamente umano di Berhnard che si rivolge al “grande assente” per essere informato sul modo, il luogo e il tempo del (dover) morire. «Adesso – scrive l’autore – voglio essere sveglio dinanzi alla mia morte»,2 ma l’ora esatta della morte (ci) rimarrà sempre ignota. L’approccio alla morte può darsi come annichilimento totale dell’essere e come negazione della finalità umana, altresì come riassorbimento nell’insieme della natura o come serena, pacata accettazione dell’ineluttabilità terrena. In ogni caso, la morte avanza imperterrita, perché è nell’ordine naturale delle cose. Quanto all’uomo, egli è autore di se stesso, la sua anima e il suo corpo risentono dei pensieri che 24
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formula, delle parole che pronuncia, delle azioni che compie. Non può quindi sfuggire al pensiero della morte, tantomeno a quello della propria morte. E poiché l’uomo è l’unico animale che sa di dover morire, 3 molti artisti precorrono il loro destino, immedesimandosi in un evento che, viceversa, li vedrebbe inconsapevoli protagonisti. È questo il caso delle memorabili performances di James Lee Byars (nel 1994, a Bruxelles, Byars aveva indossato un vestito dorato e si era sdraiato in una stanza rivestita d’oro, ricevendo il cordoglio degli spettatori) e di Gregor Schneider (che nel 2000 decise di inscenare la propria morte,4 provocazione che in anni recenti ha indotto l’artista a concepire un’opera ancor più estrema: mostrare al pubblico la bellezza della morte). In un’ottica di posterità è però opportuno interrogarsi sul fatto che «forse non è vero che l’artista arriva a parlare solo dopo la morte. Ma forse è vero che l’artista morto è migliore dell’artista vivo».5
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Non omnis moriar
Tempus erit Anche in Arcadia c’è morte
Il dipinto a cui si è soliti far risalire il rapporto dialettico tra la morte e il teschio è il celebre Et in Arcadia ego eseguito dal Guercino intorno al 1618. In un ambiente rurale due pastori sostano davanti a un rudere sulla cui sommità poggia la testa di un morto. Sul cippo vediamo un millepiedi attardarsi alla base del teschio e un topo che ne rosicchia i denti, mentre sulla tempia fa capolino una mosca. Sono animali e insetti che simboleggiano la corruttibilità della materia. A Mercurio, divinità protettrice dei viandanti, era dedicata l’erma che veniva posta sul ciglio delle strade per segnare distanze e confini. Spesso si trattava di un semplice pilastro o di un tumulo di pietre, altre volte si presentava sotto forma di una colonna sormontata dalla scultura Guercino, Et in Arcadia ego, 1618-22.
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di una testa o di un busto. La “pietra miliare” del Guercino ha un aspetto e una funzione simile: mostrare ai viandanti non quanto manca loro alla fine, bensì da quanto tempo essa si trova in mezzo ai viventi. Tempus erit: il tempo (della morte) verrà, sennonché quel tempo è già stato (da sempre). Contrariamente al memento mori, che fa riferimento al tempo in cui dovremo morire, l’Et in Arcadia ego è la memoria inclemente, giunta fino a noi dall’alba dei tempi. Un saggio di Panofsky1 illustra meglio di ogni altro il significato della frase che appare per la prima volta sul dipinto del Guercino, mettendo in evidenza il distinguo lessicale che Poussin introduce nel d’après di quest’opera. Se nel caso del Guercino la Morte si serve del tempo presente per dichiarare di essere vissuta in Arcadia, nel caso di Poussin l’affermazione terrifica si stempera in un ricordo, ossia di quando la Morte aveva pure vissuto in Arcadia. I pastori d’Arcadia non tanto ascoltano un terribile monito per il futuro, quanto invece meditano soavemente su un dolce passato. [...] Il quadro di Poussin al Louvre non rappresenta più un drammatico incontro con la Morte, ma l’assorta meditazione dell’idea della condizione mortale dell’uomo. È avvenuta cioè una trasformazione da un moralismo sottilmente mascherato a uno scoperto sentimento elegiaco.2
Poussin sembra rileggere il motivo adattandolo al genere della Leggenda dei tre vivi e dei tre morti: tant’è che sostituisce i pastori con tre viandanti affiancati da una figura allegorica (in luogo dell’eremita o del monaco) che funge da mediatore rispetto al significato pedagogico e morale della scena. Tra le opere dei due pittori esiste un’altra sostanziale differenza: mentre il Guercino attribuiva alla morte le sembianze del teschio, accordandogli il privilegio del primissimo piano, Poussin ne riduce dapprima le proporzioni relegandolo sulla sommità del sarcofago, quasi a volerne eclissare la presenza (Et in Arcadia ego, prima versione del 1628). In seguito giunge addirittura a rinnegare del tutto la presenza del cranio umano (Et in Arcadia ego, seconda versione del 1637-38). Questa revoca iconografica porta in risalto il sarcofago – venuto a sostituirsi al rudere – che reca la frase incisa a guisa di epigrafe tombale, come se si riferisse a una qualsiasi persona che giace all’interno di quel sepolcro. Nel corso di un secolo appena, il tema ha quindi finito per occultarsi nella composizione, rischiando di essere travisato e ben presto dimenticato. Il monito di Poussin si mitiga dunque nella nostalgia per il trascorrere della gioventù, della bellezza e degli amori, così come per la perduta innocenza di cui la leggendaria Arcadia faceva parte. Secondo la letteratura tramandata da Virgilio in poi, l’Arcadia apparteneva all’Età dell’oro, era una landa idilliaca dove la fauna e la flora accoglievano e 27
Tempus erit
nutrivano l’uomo, dispensandolo dal pensiero della morte. Panofsky ha però confutato questa idealizzazione della Grecia meridionale, informandoci che essa altro non era che una regione ostile, arida come un deserto tartaro, ben altra cosa dai Giardini dell’Eden che censivano la prima età del mondo. Facendo riferimento all’Apollo che scortica Marsia (1618), dipinto da Guercino nello stesso anno dell’Et in Arcadia ego, Denis Mahon ritiene possibile che il quadro dei pastori di Arcadia fosse in origine una prova eseguita per studiare il motivo del piccolo gruppo di figure, effettivamente ripreso sul margine sinistro del soggetto mitologico. È probabile che il quadro fosse stato rifinito e corredato dal paesaggio con il cippo in rovina durante la lavorazione dello stesso Apollo e Marsia. Il tema dell’Et in Arcadia ego non doveva costituire la premessa dell’opera, ciò nondimeno le sorti di questo bozzetto a olio sono state riscattate dalla notorietà che, con alterne fortune, ha saputo conquistarsi nel tempo. Nonostante l’utopia dell’Arcadia sia evocata con insistenza dalla contemporaneità, il motivo dell’Et in Arcadia ego è pressoché bistrattato dagli artisti. Ne esistono poche trasposizioni, che vale la pena analizzare e confrontare con le versioni del xvii secolo. La personalissima variante di Valerio Adami (Et in Arcadia ego, 1976) commuta il teschio in una falce, inequivocabile attributo della Morte. Nel quadro profondamente autobiografico di Adami appaiono le reminiscenze dell’infanzia, associate al ping-pong, a una ragazza e a una vacanza al mare. L’allegoria di Poussin viene qui sovvertita da una morte che entra nel “giardino d’infanzia” dell’artista, e idealmente in quello di ogni uomo. A commento dell’opera l’artista scrive: «Per me erano Arcadia le vacanze estive della mia infanzia, i pomeriggi passati a giocare a ping-pong. Per me è una partita con me stesso, intimamente collegata ai miei ricordi. È un viaggio nella mia verità personale». L’omissione del teschio viene compensata da un quadro dipinto l’anno precedente, in cui è raffigurato un corpo ignudo di cui solo la testa è visibilmente ischeletrita. Più che esplicativo il titolo, Il ruolo dell’artista è rappresentare il tragico (1975), che sulla tela si accompagna alla scritta Selbstbildnis (“autoritratto”). Questa volta il biografismo non riguarda solo Adami: il viso irriconoscibile del teschio è il volto di tutti gli artisti. Meglio: è il volto stesso dell’Arte. «Si pensi alla riflessione tomista che attribuisce il principium individuationis alla materia signata, cioè alla presenza di un determinato corpo. Per Tommaso si può dunque affermare che si è se stessi e non un altro solo perché si vive in uno specifico corpo».3 Je est un autre avrebbe detto Rimbaud, un “altro” che ci appartiene intimamente. Questo “altro” è il tragico, cioè la morte. «Il tragico – scriveva Kierkegaard – si manifesta nell’impossibilità di avere qualcuno che ci comprenda, 28
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ciò che è espresso così bene nella Genesi, quando Adamo dà un nome a tutti gli animali, ma non ne trova uno per sé».4 Poiché l’Eden biblico non differisce dall’Arcadia, il quadro di Adami ci aiuta a comprendere come gli artisti si riservino l’agnizione più delicata, quella della propria identità (Selbstbildnis), nella speranza di essere riconosciuti in funzione della Storia dell’arte. Viceversa, il congolese Chéri Samba usa «il tono della commedia, mai quello della tragedia cui ci ha abituato l’arte sociale».5 Il carattere stilizzato di Samba mira a un realismo asciutto, a tratti caricaturale, condividendo con Adami la volontà di rifarsi agli stilemi della cartellonistica e del fumetto, inserisce inoltre nell’immagine testi che ironizzano sui contenuti dell’opera, ma che in realtà esprimono un giudizio sui problemi sociali, economici, politici, religiosi e culturali che affliggono il continente africano. La povertà, la mortalità, la malattia, la guerra, sono Valerio Adami, Et in Arcadia ego, 1976.
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Chéri Samba, Un Crâne parlant dans le bois, 1997.
alcuni dei principali dibattiti affrontati da Samba, specificità che l’artista riassume in una più ampia condizione umana, in cui ritroviamo i problemi razziali e il difficile rapporto di integrazione tra la cultura negra e il modello dominante della civiltà europea. Egemonia che il postcolonialismo cerca di combattere, rivendicando una propria specificità, nonostante la sua precisa identità che l’occidente individua comunemente seppur erroneamente in forme di primitivismo o di esotismo. Samba riflette sull’innesto della tradizione coloniale nel Terzo mondo, e quindi sul meticciato con cui attualmente convive la realtà africana; questioni che ritroviamo nell’opera Un Crâne parlant dans le bois (1997), una delle più deferenti rivisitazioni dell’Et in Arcadia ego. La scena è ambientata in un bosco: indumenti intimi sono sparpagliati nella fitta vegetazione, poco lontano un teschio si rivolge a una coppia formata da un uomo di razza bianca e una donna di pelle nera. I personaggi sono vestiti con abiti moderni, così come aveva fatto Manet nel Déjeuner sur l’herbe (1863). Trasposto ai giorni nostri, il tema conserva la sua atmosfera elegiaca e l’importanza di un momento dialettico tra la vita e la morte, innescando pur tuttavia un conflitto tra la verità e l’ipocrisia. Di fatto il teschio pone domande cui riesce difficile dare una risposta,
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facendoci arrovellare sui grandi misteri dell’umanità – da dove veniamo? dove andiamo? Nel quadro di Chéri Samba troviamo un teschio assai loquace, 6 forse uno degli ultimi e più espliciti esempi offerti dall’arte contemporanea, quantomeno da quella che ancora si impegna a impartire una morale. Quasi tutte le recenti teste di morto sembrano invece scese dal pulpito, hanno smesso di insegnare, rinunciando alla loro autorità intellettuale. Autorità grazie alla quale le figure dell’opera (e di rimando anche lo spettatore) imparavano a meditare sulla vita, paventando sì la morte ma solo per gioire maggiormente delle meraviglie dell’esistenza. La ciclicità della Storia rischia insomma di riproporre ciò che è già avvenuto nei quadri di Poussin? Nelle recenti interpretazioni dell’Et in Arcadia ego non è quasi più possibile interloquire con la Morte, almeno non direttamente. È quanto accade in Untitled (In the Garden, Et in Arcadia ego), un grande quadro che Robert Longo ha realizzato nel 2009, dove un bosco in controluce accoglie la fugace presenza di una figura umana che avanza lungo un crinale scosceso. La nebbia inebria di luce il paesaggio, serpeggiando tra i tronchi degli alberi, ma del teschio non vi è traccia. In noi resta viva la speranza che prima o poi l’uomo incappi in una testa ischeletrita, dobbiamo cioè rifiutarci di credere che “quel tempo dell’Arcadia sia morto” soltanto perché la cultura contemporanea se ne occupa malamente o non se ne cura affatto.
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Sic transit gloria mundi Le mostre sono dure a morire
La prima decade del Terzo millennio volge al termine all’insegna del macabro con numerose mostre dedicate al tema della morte. La mostra “Barrocos y Neobarrocos – El infierno de lo bello”, tenutasi nel 2005 a Salamanca, ha toccato i temi della vanitas e del memento mori insiti nella realtà odierna, orientando però lo sguardo anche verso il futuro dell’umanità. A cavallo fra il 2007 e il 2008 la Kunsthalle Wien e il Centro Atlántico de Arte Moderno de Las Palmas de Gran Canaria hanno allestito la mostra “¡Viva la Muerte!”, ponendo l’accento sull’immanente rapporto tra vita e morte che contraddistingue le popolazioni dell’America Latina. I curatori dell’esposizione hanno prestato particolare attenzione ai riti religiosi e pagani (è questo il caso del Día de los muertos, celebre festività latinoamericana), per poi denunciare le piaghe sociali – il traffico di droga colombiano, il colonialismo spagnolo, il dramma dei desaparecidos e la violenza dei dittatori – che affliggono questi paesi. “¡Viva la Muerte!” ha così puntato il dito sullo spaccato sociale e culturale di una popolazione che, suo malgrado, ha familiarizzato con la morte. La mostra “Six Feet Under”, tenutasi al Kunstmuseum di Berna nel 2006-07, ha invece fatto il punto su un atteggiamento decisamente più generico, finanche ancestrale. Il titolo, “sei piedi sotto”, riprende un adagio popolare che gli organizzatori recuperano in ragione del rinnovato interesse che la cultura di massa nutre per la morte. Sembra quasi che le persone vogliano ristabilire un contatto diretto con il culto dei morti, quel rapporto che la società contemporanea aveva scoraggiato, fin quasi a proibirlo perché ritenuto uno dei grandi tabù dell’epoca moderna (atteggiamento alquanto paradossale se pensiamo al fatto che i mezzi di comunicazione continuano a mostrarci scene di violenza, di crimini e nefandezze varie, e lo stesso dicasi per la fiction cinematografica e per quella televisiva, che fanno leva su aspetti truculenti e morbosi). Suddivisa in sei sezioni, la mostra al Kunstmuseum di Berna coinvolgeva artisti provenienti da tutto il mondo, offrendo allo spettatore un’ampia panoramica sulla concezione della morte, secondo 32
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l’interpretazione in auge presso civiltà e continenti che sono tanto lontani quanto diversi tra loro. Mentre le istituzioni pubbliche cercano di offrire un vasto e più che mai variegato resoconto sui temi del macabro, indagandone le implicazioni sociali, filosofiche, religiose o scientifiche, le gallerie private preferiscono restringere il loro campo d’indagine. Molte sono le occasioni di rilettura della vanitas nel contemporaneo, sovente identificata nel solo teschio. Un caso esemplare risale al settembre del 2007, quando la galleria Cheim&Read di New York inaugurò l’esposizione “I Am As You Will Be”1 che aveva per soggetto lo scheletro umano. Il curatore della mostra, Xavier Tricot, aveva radunato una trentina di opere, coprendo un lasso temporale che si snodava dalla fine dell’Ottocento sino al contemporaneo. Opere grafiche di Munch e Ensor facevano da incunabolo alla prima metà del Novecento, dove ritrovavamo incisioni di Picasso, Delvaux, Leon Spilliaert e dipinti di Dalí e Alice Neel. Assai ampio il repertorio sull’attualità, con nomi noti e meno noti, tra cui spiccavano i dagherrotipi di Adam Fuss, sulla cui superficie metallica lo spettatore vedeva la propria immagine sovrapporsi alla silhouette di un teschio. Sostanzialmente analoga era l’installazione Pictures with Mirror (1998) di Katharina Fritsch, che invitava lo spettatore ad affacciarsi su un grande specchio per confrontare la propria immagine con un teschio in porcellana posto su un attiguo basamento. Di particolare interesse anche una grande opera su carta di Jannis Kounellis, gremita fino all’orlo di teschi stilizzati che urlano o che indugiano in un religioso silenzio. In Pyramid of Skulls (2002) Sherrie Levine inanellava dodici fotografie in bianco e nero che riproducevano, con un minimo scarto linguistico, i teschi dipinti da Paul Cézanne. Nei Sad Skulls (2003) di Tony Matelli il beffardo sorriso dei teschi si inarcava verso il basso, trasformandosi in una smorfia di dolore: era come se le teste di morto avessero finalmente smesso di ridere alle nostre spalle e fossero state costrette ad accettare – mestamente – la loro tragica condizione. McDermott & McGough, che si divertono a retrodatare le loro opere, 2 avevano invece proposto un Flames of Jealousy (datato al 1964), vale a dire un teschio privo di mandibola che addenta dei fumetti d’amore, sfogando su di essi la rabbia e la gelosia che ancora prova per i piaceri della carne. Concepito in rapporto alla craniometria dell’artista, Still Alive (2005) di Kris Martin è un teschio in bronzo cromato; contravvenendo all’enunciato della mostra – quel “sono come tu sarai” che sembra pronunciato dalla testa di un morto – il titolo di Martin ci rassicura che lui è “ancora vivo”. La dichiarazione dell’artista esorcizza così la (presunta) posterità del suo autoritratto. Esposizioni temporanee a parte, vale sicuramente la pena visitare la collezione del Museum für Sepulkralkultur di Kassel, aperta al pubblico nel 1992, che ripercorre la storia dei monumenti funebri e dei cimiteri dal 33
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Medioevo fino ai giorni nostri. La collezione di opere, costumi, gioielli, bare, carri funebri, affronta in modo specifico i temi della morte, rivelando le contiguità e i cambiamenti culturali incorsi nella concezione dell’Apocalisse, dell’ascesa al paradiso o della caduta nelle spire dell’inferno. La nazione che più d’ogni altra si è prodigata sul tema della morte è probabilmente la Francia. A Parigi negli ultimi anni sono stati pubblicati due libri, il più recente è Le Livre des Vanités3 di Élisabeth Quin che affronta il genere del memento mori contestualmente al tema della vanitas, offrendo una disinvolta cronistoria dell’arte, dal passato fino alla contemporaneità, con incursioni nella musica, nella moda, nel cinema e più diffusamente nella cultura popolare. Les Vanités dans l’Art contemporain4 di Marie-Claude Lambotte, Catherine Grenier, Christine Buci-Glucksman e Doris Von Drathen si avvale di testi critici e di un apparato iconografico decisamente più scientifico, grazie al quale le autrici affrontano la vasta casistica della vanitas contemporanea. Benché il volume non sia strettamente legato all’immaginario delle teste di morto, sfogliandone le pagine ci si imbatte assai di frequente sia in teschi sia in scheletri. Il taglio critico circoscrive le ricerche macabre agli ultimi cinquanta-sessanta anni circa, compensando il più possibile le lacune che ancora gravano sull’argomento preso in esame. Sempre oltrealpe, nel 2010, è stato pubblicato il catalogo della mostra “C’est la vie!” tenutasi al Musée Maillol di Parigi.5 I curatori hanno focalizzato l’attenzione quasi esclusivamente sul memento mori, inanellando opere antiche, come il celebre mosaico raffigurante un teschio e un archipendolo della metà del i secolo d.C. rinvenuto sul pavimento di un triclinio pompeiano. Spiccano poi per importanza e interesse iconologico alcune opere del Quattrocento e del Cinquecento, insieme a diversi topoi del xvi secolo. Una piccola cernita di opere copre il periodo tra Settecento e Ottocento, ivi compreso il quadro Les Trois crânes (1812-19) di Théodore Géricault, che solo in anni recenti è stato riconosciuto come opera autografa dell’artista. L’esposizione prosegue quindi con una ricca proposta di opere moderne e contemporanee (se ne contano un centinaio circa). Poiché molti artisti presenti in mostra sono gli stessi che approfondiremo nelle pagine a seguire, ci limitiamo qui a ricordare soltanto una minima parte delle opere esposte al Musée Maillol. È il caso dell’Ofrenda (1927-28) di Tina Modotti, una fotografia che ritrae un altarino messicano che appartiene alla tradizione del Día de los muertos. Ci sono poi gli scheletri caracollanti di un ameno dipinto di Max Ernst dal titolo Quasimodo genetis (1956); il teschio di Mickey Mouse (2006) realizzato in resina da Nicolas Rubinstein; The Fear of Death (Half Skull) (2007), cranio umano che Damien Hirst ha ricoperto di mosche; le fotografie scattate nel 1861 da Nadar all’interno delle catacombe di Parigi; The Skull (1997) di Francesco Clemente, acquerello in cui un teschio schiacciato longitudinalmente si pone in antitesi al 34
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Adam Fuss, Untitled, 2002.
McDermott & McGough, Flames of Jealousy, 1964, 2007.
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Kris Martin, Still Alive, 2005.
volto dell’artista (gli occhi chiusi di Clemente non gli permettono di vedere la sua controparte scheletrica, può però immaginarsela, e forse questo è il motivo della deformazione anamorfica del cranio antistante); l’Hitlerfresse (1933) di Erwin Blumenfeld, un foto-collage del volto di Adolf Hitler cui viene sovrapposta una testa di morto – in trasparenza si riescono a riconoscere i tratti somatici del Führer, con l’occhio che si inscrive nell’incavo orbitale del cranio e la calotta che si ricopre di capelli lisci e corvini, con la tipica scriminatura a destra. Un breve approfondimento spetta alle opere di Douglas Gordon esposte per l’occasione. Nei due monitor di Iles flottantes (2008) vediamo alcuni teschi galleggiare su un piccolo laghetto; l’affioramento della sola calotta fa sembrare i teschi delle sfere-palloncini che ondeggiano sulla superficie d’acqua increspata da una lieve pioggerella. Se in questo video6 l’artista pare essersi ispirato alle ninfee di Monet, tocca invece alla Tonsure duchampiana (1919) fare da modello per la scultura Forty One (2007). Com’è noto, Duchamp si era fatto rasare sulla nuca 36
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una stella a cinque punte, marchio astrale che allude al “raggio di luce intellettuale” che ci guida verso la conoscenza. Ponendo l’attenzione sulla testa, che è la sede del cervello, Duchamp voltava le spalle allo spettatore per dirci che sono i pensieri, e non i tratti somatici, a rivelarci chi sia veramente una persona. Nella scultura di Gordon la stella cometa ha perso la sua scia luminosa ed è deflagrata in piccoli meteoriti che hanno impattato sulle ossa di un teschio. La calotta cranica di Forty One assomiglia infatti a un pianeta crivellato da un “firmamento di idee”, folgorazioni, illuminazioni, epifanie.7 Rispetto ad altre esposizioni analoghe, “C’est la vie!” si distingue per l’elegante critica alla seduzione del mondo materiale, con apposite sezioni dedicate alla collezione di gioielli della galleria Yves Gastou e agli stravaganti “preziosi” dei Codognato, storici gioiellieri veneziani i cui collier, pendenti, orecchini e anelli si ispirano all’iconografia macabra. Non mancano neppure i pomelli di bastoni da passeggio del xix secolo, con teschi scolpiti nell’avorio, così come sculture in osso, cera e bronzo raffiguranti i transi del xvi secolo. Lo svolgimento diacronico della mostra al Musée Maillol propone una sorta di biografia artistica del teschio, attestandosi quasi sicuramente come una delle più importanti esposizioni contemporanee in materia, merito ovviamente della vastità divulgativa e delle problematiche iconografiche affrontate. Al carattere scientifico delle mostre dobbiamo altresì affiancare le numerose collezioni private consacrate ai temi macabri. Un ottimo esempio è la collezione Olbricht, visibile presso gli spazi della Me Collectors Room di Berlino. Per quanto riguarda l’Italia, la collezione di Luigi Koelliker non ha assolutamente eguali; in essa compaiono numerosi supplizi mitologici e religiosi, oltre a un’ampia casistica di decapitazioni (preludio a un’inevitabile decomposizione che si risolve nell’ischeletrimento della testa). In questo generoso assortimento di atrocità e crudeltà è facile imbattersi in corpi putrefatti o in teschi umani, come nel caso di una splendida Vanitas [s.d.] di Domenico Fetti. Considerando che l’Italia è sempre stata prodiga di opere di gusto macabro – e che continua a esserlo tutt’oggi – sorprende il fatto che manchi ancora una sistematica riflessione sul contemporaneo nostrano. Qualche timido tentativo è stato fatto da parte di alcune gallerie private, mentre le istituzioni museali tardano ancora a dar risalto a quello che potremmo definire il “memento italiano”. In attesa di veder accolta questa richiesta, tenteremo di riprendere il discorso lasciato in sospeso dopo la pubblicazione dei pregevoli saggi di Alberto Tenenti8 e di Alberto Veca,9 confidiamo cioè di colmare con questo libro una buona parte degli studi iconografici sul tema della vanitas e del memento mori in seno al xx e al xxi secolo, tenendo però presente che non è possibile dire e di-mostrare tutto in una volta sola.
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