Hitler e il potere dell'estetica

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© Ullstein Bild/Archivi Alinari

Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948 2. Clement Greenberg L’avventura del modernismo. Antologia critica 3. Ai Weiwei Il blog. Scritti, interviste, invettive, 2006-2009 4. Brian O’Doherty Inside the White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo 5. Marco Meneguzzo Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze)

«Una prospettiva sorprendente e sbalorditiva sull’epoca nazista e sullo stesso Hitler.» Financial Times «Un libro che troverà senz’altro il suo meritato posto tra gli studi più importanti sul nazismo… straordinario.» The New York Times

Hitler e il potere dell’estetica

Foto di copertina: Arno Breker, Il guardiano, 1936

«Ma allora chi è stato Hitler? Un maniaco omicida, un artista gentile, un artista brutale, un dittatore debole, un aspirante imperatore romano, un politico artista, un grandissimo attore, un rivoluzionario? È stato tutte queste cose, ma soprattutto è stato una catastrofe. Questa però, come scrisse Thomas Mann, non è una buona ragione per non trovarne interessante il carattere e il destino.»

Frederic Spotts

Frederic Spotts, americano classe 1943, ha già scritto altri quattro libri sulle vicende politiche e culturali dell’Europa. Il suo studio sul Festival di Bayreuth (Bayreuth. A History of the Wagner Festival, Yale University Press, 1996) ormai è considerato un classico imprescindibile sull’argomento. Hitler e il potere dell’estetica è stato scritto mentre Spotts era visiting scholar all’Università di Berkeley.

Su Adolf Hitler sono stati scritti innumerevoli libri. Anni fa, quando la cbs annunciò di voler produrre un film sugli anni della sua gioventù, si sollevò un coro di proteste quasi unanime, riassumibili nella domanda: «Sappiamo chi è e sappiamo che cosa ha combinato, cos’altro c’è da sapere?». Frederic Spotts apre su Hitler e il Terzo Reich una prospettiva del tutto inedita, offrendoci una sorprendente rivisitazione degli obiettivi del Führer e della grande macchina che allestì intorno a sé. Raramente si è parlato del ruolo della cultura nella sua visione di un Superstato

Frederic Spotts

Hitler e il potere dell’estetica

ISBN 9-7888-6010-036-8

ariano, dove invece aveva un’importanza fondamentale: non era il fine a cui doveva aspirare il potere, ma addirittura il mezzo per conquistarlo. Dagli spettacolari raduni di partito a Norimberga alle imponenti opere architettoniche, dai festival musicali e il travagliato rapporto con Wagner alle politiche di epurazione, dai suoi stessi acquerelli al sogno di aprire un’enorme galleria d’arte a Linz: così l’artista mancato riuscì a esprimere il proprio talento ipnotizzando la Germania e gran parte dell’Europa. Una volta finito il conflitto, poi, l’unico nemico che Hitler non avrebbe imprigionato ma «lasciato comodamente vivere in una fortezza, con la possibilità di scrivere le sue memorie e di dipingere», sarebbe stato Winston Churchill, ovvero l’ufficiale britannico che durante la Prima guerra mondiale ritraeva le rovine di un villaggio mentre il Führer, sulla sponda opposta del fiume, immortalava una chiesa. Probabilmente, quindi, aveva ragione Carl Burckhardt, commissario della Lega delle nazioni a Danzica che nel 1939 incontrò il Führer due volte: il dittatore aveva una doppia personalità, da un lato l’«artista ipergentile», dall’altro il «maniaco omicida». Da oltre cinquant’anni a questa parte, per ovvie ragioni, gli scrittori hanno raccontato il maniaco omicida. Spotts, senza voler in alcun modo ignorare il secondo Hitler, ci parla del primo.

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Saggi d’arte 6


©2012 Johan & Levi Editore Traduzione Ester Borgese Redazione Lucia Ferrantini Cinzia Morisco Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di settembre 2012 isbn 978-88-6010-036-8 Copyright © Frederic Spotts 2002 Titolo originale: Hitler and the Power of Aesthetics Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Per i crediti delle immagini si veda l’apposita sezione. L’editore è a disposizione degli aventi diritto che non è riuscito a contattare. Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

STAMPATO SU CARTA

Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.


Frederic Spotts

Hitler e il potere dell’estetica



Sommario

Introduzione

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Prefazione

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Fonti

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Ringraziamenti

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Il dittatore riluttante 1. L’esteta boemo

29

2. Una filosofia della cultura

43

3. Il grande paradosso

57

Un leader ad arte 4. L’artista nel ruolo di politico

71

5. Il politico nel ruolo di artista

97

L’artista della distruzione 6. La nuova Germania e il nuovo tedesco

119

7. La purificazione attraverso la morte

133

Il pittore mancato 8. L’acquerellista in lotta

143

9. Falsari e collezionisti

159

Il dittatore dell’arte 10. Il nemico modernista

169

11. Il fallimento del realismo nazionalsocialista

185

12. Il collezionista d’arte

199

Il wagneriano perfetto 13. Il Wagner di Hitler o l’Hitler di Wagner?

233

14. «Il Führer della Repubblica di Bayreuth»

257


Il maestro di musica 15. Il ratto di Euterpe

275

16. Il mecenate della musica

287

17. Direttori d’orchestra e compositori

301

Il costruttore 18. L’immortalità attraverso l’architettura

323

19. Architettura politica

341

20. Rimodellare la Germania

361

21. Estetica e trasporti

395

Postfazione

405

Note

409

Bibliografia

451

Crediti fotografici

461

Indice analitico

463


Quel tipo è una catastrofe; ma ciò non impedisce di trovarne interessante il carattere e il destino. Thomas Mann, Fratello Hitler



Introduzione

Di personaggi come Stalin, Mao e Pol Pot si può discutere con calma e ragionando. Ma è quasi impossibile parlare di Hitler in modo razionale. Quando nel 2000 la rivista Time dovette scegliere chi fosse stato l’“uomo del secolo”, le voci che davano il Führer tra i possibili candidati provocarono una piccola sommossa. Pochi storici avrebbero potuto negare che l’influenza di Hitler sul secolo scorso fosse stata maggiore di quella di chiunque altro. Ma l’evidenza storica dovette lasciare il passo all’emotività irrazionale, e così Time decise di ripiegare su Einstein. La scelta non fu scevra d’ironia. Era stato lo stesso Einstein, infatti, a minimizzare l’importanza del proprio lavoro, sottolineando come le sue teorie fossero sempre esistite in natura e non aspettassero altro che qualche fisico le presentasse al mondo; a suo dire, invece, un genio come Beethoven era unico. Anche Hitler è stato unico: ha dato un grande contributo alla storia, ma la storia non lo ha ricambiato. L’eccezionalità della sua ascesa, che lo portò dalla strada fino a diventare il dominatore dell’Europa, è stata riconosciuta da tutti. Ciò che non è stato accettato è che vi sia altro da dire sul suo conto. Quando la cbs annunciò di voler produrre un film sugli anni della gioventù di Hitler, sollevò le proteste di un eminente capo politico ebreo, che disse: «Sappiamo chi è e sappiamo che cosa ha fatto, cos’altro c’è da sapere?». Il fatto che anche Hitler abbia potuto essere umano, capace di gesti normali e rispettabili, è senza dubbio terrificante. Ammettere che abbia avuto comportamenti simili ai nostri insinua il sospetto di poter essere tutti come lui, avvalorando l’affermazione di Thomas Mann secondo cui «in tutti noi esiste forse un piccolo Hitler». In Hitler e il potere dell’estetica non s’intende, tuttavia, discutere dell’umanità dell’uomo, ma si vuole considerare l’idea che Hitler potesse essere due persone diverse: un uomo traboccante di odio, violenza e distruzione, ma anche capace di grandi slanci estetici, devoto alle arti sopra ogni cosa e desideroso di fondare, sulle ceneri di un’Europa ripulita dalle sue guerre e dal genocidio razziale, uno Stato di cultura nel quale le arti avrebbero regnato supreme. Sebbene sia convinzione comune che su di lui siano stati scritti più libri che su qualsiasi altra figura storica, soltanto la biografia di Joachim Fest e le me-

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· Frederic Spotts ·

morie e i diari segreti di Albert Speer hanno scavato sotto la superficie del suo carattere, suggerendo che in lui vi fosse qualcosa di più di uno spietato uomo politico. Hitler conferì al nazionalsocialismo un’identità estetica e ciò è stato riconosciuto già da Walter Benjamin. Ma, nell’arco di mezzo secolo, non sono mai stati esaminati o descritti, e neanche compresi, aspetti fondamentali come la sua propensione per l’arte e il modo in cui si servì del proprio talento estetico per giungere al potere e ipnotizzare la Germania e gran parte dell’Europa. Hitler e il potere dell’estetica è il primo libro che ha deciso di svelare tale lato nascosto di Hitler. E questi sono stati alcuni commenti con cui la critica lo ha accolto: «un’interpretazione radicalmente nuova», «una nuova e fondamentale prospettiva», «un saggio che offre idee insolite e finora inesplorate negli studi strettamente politici e biografici». Contemporary Review, per fare un esempio, ha scritto: «D’ora in poi dovremo rivedere l’idea che ci eravamo fatti di Hitler». Per quanto il libro fosse insolito ed eterodosso, non intendeva tuttavia risultare controverso e in effetti, non senza una certa sorpresa, non ha sortito questo effetto. Critici e lettori si sono detti stupiti, interessati, affascinati, turbati e colpiti dall’uomo Hitler. Lo stesso volume è stato descritto come rivelatorio, brillante, dal fascino cupo, sconvolgente, prezioso, pieno di sorprese e ironia, con punti di vista insoliti e provocatoriamente nuovo. Un critico l’ha perfino de12

finito, per certi versi, spiritoso. Ma soprattutto i lettori hanno trovato «inquietante» il complesso ritratto di Hitler che esso fornisce. Le pubblicazioni ebraiche non hanno fatto eccezione e si sono unite al coro. Anche la Stormfront White Nationalist Community lo ha giudicato «un’opera molto originale e coinvolgente», poiché ha dimostrato come l’interesse di Hitler per le arti fosse potente quanto il suo razzismo. Le riviste cattoliche hanno sottolineato le contraddizioni morali insite nell’estetica di Hitler, e su Christianity Today è apparsa una delle disamine più profonde di questo libro. Un giornalista dell’Independent lo ha elogiato come uno dei migliori libri del 2002. Un critico freelance lo ha inserito al cinquantunesimo posto della sua lista dei libri preferiti, e lo considero un enorme complimento considerando che al cinquantaseiesimo posto c’è Una storia tra due città di Dickens e al cinquantanovesimo 1984 di Orwell. Un giornalista della rivista nazionale studentesca ebraica è rimasto così impressionato da un acquerello di Hitler riprodotto nel volume che ha deciso di condurre un esperimento per confrontare le reazioni di altre persone con la propria: Ho mostrato il dipinto agli studenti della Yeshiva University che si trovavano su Amsterdam Avenue all’altezza della 185th Street, nel quartiere di Washington Heights di Manhattan. I ragazzi hanno apprezzato l’allegria dell’opera, la solarità e i “bei colori”. Quindi ho fatto vedere loro la firma: Adolf Hitler. A quel punto lo stato d’animo è passato dal piacere allo choc, all’orrore e all’imbarazzo.


· Introduzione ·

Sorprende che le critiche negative siano state così poche. In una recensione nel complesso favorevole ma un po’ perplessa, il critico del New York Times ha definito il libro «una lettura deprimente» ma che potrebbe «trovare posto a ragione tra gli studi fondamentali sul nazismo». In ogni caso, l’ha giudicato «una fatica avvilente», piena di «una quantità di particolari frastornante». Si è trattato di un comprensibile fraintendimento dello scopo del libro. Essendo state scritte molte cose prive di senso sul rapporto tra Hitler e le arti, ho deciso di includere nel volume tutto quello che di attendibile poteva essere detto sull’argomento. Una copertura così enciclopedica, talvolta tassonomica, può in alcuni punti portare alla noia. Il libro è stato utilizzato anche nei corsi universitari e nei seminari estivi di vari paesi. Oltre all’Italia, i diritti di traduzione sono stati acquistati in Polonia, Spagna e Brasile. Tuttavia, nessun editore tedesco è ansioso di pubblicarlo. Le motivazioni sono state contraddittorie: l’argomento è tabù, oppure esistono già troppi libri sull’argomento. Hitler e il potere dell’estetica è stato anche oggetto di dibattito in alcuni volumi successivi. Uno di questi è il controverso What Good Are the Arts? di John Carey, nel quale viene messo in discussione il valore morale e sociale della cultura, e Hitler e il potere dell’estetica viene additato come prova numero uno per dimostrare che non esiste una connessione diretta tra l’amore per le arti e i sentimenti umanitari e che l’alta cultura non ha necessariamente un effetto nobilitante su chi la pratica. Quindi, a voler seguire il ragionamento dell’autore, la Gran Bretagna e l’America non avrebbero probabilmente nulla da perdere se fossero governate da ignoranti. A parte Lincoln, che coltivò una sfortunata passione per il teatro, i nostri presidenti e i nostri primi ministri hanno palesemente rifuggito le arti. Hitler e il potere dell’estetica ha quindi offerto ai lettori una prospettiva nuova e più approfondita su Hitler, indagando recessi ancora inesplorati del carattere di uno degli uomini più universalmente odiati della storia. Suscitare interesse ed entusiasmo nei lettori è l’ambizione maggiore a cui un saggio possa aspirare.

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Prefazione

Lui se ne sta seduto, immerso nei pensieri, a studiare un grande modellino di Linz, la sua città natale, che mostra come apparirà dopo essere stata trasformata nel centro culturale dell’Europa. Il modellino gli è stato consegnato il giorno prima e, grazie all’installazione di luci speciali, si possono vedere gli edifici nelle diverse ore del giorno, oltre che al chiaro di luna. È il 13 febbraio 1945. Siamo nel bunker sotto la cancelleria del Reich a Berlino. I russi hanno raggiunto l’Oder, a centosessanta chilometri di distanza; gli inglesi e gli americani sono vicini al Reno, a circa cinquecento chilometri a ovest. Eppure Hitler trascorre le ore assorto nel suo modellino. Teme che la torre campanaria del centro sia troppo alta: non deve oscurare la guglia del duomo di Ulma, più a nord lungo il Danubio, perché ferirebbe l’orgoglio degli abitanti; ma deve essere alta a sufficienza da cogliere i primi raggi di sole al mattino e gli ultimi alla sera. «Sulla torre voglio un carillon che, non ogni giorno ma nelle occasioni speciali, suoni un motivo dalla Quarta sinfonia di Bruckner, la Sinfonia romantica» dice all’architetto. Nelle settimane e nei mesi che seguiranno, il modellino continuerà a offrirgli sollievo, anche mentre intorno a lui il suo Reich – perché era il suo Reich – starà crollando a pezzi.

Questo libro parla della vita di Adolf Hitler com’è riassunta in questa scena: la sua natura estetica, la convinzione del Führer che il fine ultimo dell’impresa politica dovesse consistere nell’affermazione artistica e il suo sogno di fondare lo Stato culturalmente più grandioso dall’antichità, o forse di tutti i tempi. «Sono diventato un uomo politico contro la mia volontà» disse più e più volte. «Se avessero trovato qualcun altro, non mi sarei mai dedicato alla politica, sarei diventato un artista o un filosofo.» Una volta nominato cancelliere nel 1933, il primo edificio che fece costruire non fu un monumento al proprio trionfo personale – paragonabile al Foro di Mussolini o alla Valle de los Caídos di Franco –, bensì una gigantesca galleria d’arte. Non essendo riuscito a convincere Churchill ad abbandonare il conflitto nel 1940, si lamentò con i suoi comandanti: «È un peccato che debba muover guerra a quell’ubriacone, invece di finanziare le opere

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· Frederic Spotts ·

di pace». Poco tempo dopo, commentò: «Alla fine, le battaglie militari saranno dimenticate. I nostri edifici, invece, resteranno». E, parlando delle meraviglie culturali che intendeva creare dopo la vittoria finale, assicurava ai suoi collaboratori: «I capitali che stanzierò per questi scopi saranno immensamente superiori alle spese necessarie per condurre questa guerra». Intendeva sul serio quello che disse? Sono credibili le sue parole alla luce della morte e della distruzione indescrivibili che causò? Nel 1939, poco dopo l’inizio del conflitto, la segretaria di Albert Speer lo sentì dire: «Dobbiamo porre fine velocemente a questa guerra. Noi non vogliamo combattere, vogliamo costruire». Anni dopo, la donna si sarebbe chiesta: «C’è da pensare che fosse una bugia anche quella?». Non si trattava di una bugia, come dimostrano le pagine che seguono, ma di una mezza verità. Hitler voleva sia la guerra sia l’arte. Vinto il conflitto e fondato uno Stato ariano che avesse un ruolo primario tra le potenze mondiali, si sarebbe dedicato alla realizzazione di monumenti culturali che avrebbero cambiato volto alla Germania e avrebbero reso lui immortale. Distruggere sarebbe stata la via per costruire. L’Adolf Hitler di questo libro è un uomo per il quale la cultura non fu soltanto l’obiettivo al quale il potere doveva aspirare, ma anche un mezzo per raggiungerlo e conservarlo. Nella sua Storia dell’arte E.H. Gombrich ha osservato che 16

l’Espressionismo ebbe origine dalla paura di «quella desolazione assoluta che regnerebbe se l’arte fallisse e ogni uomo restasse rinchiuso in se stesso». Hitler provò questa paura in modo profondo e personale, ma vide proprio nell’Espressionismo la malattia che questo cercava di curare. La sua intuizione più precoce fu forse quella di aver avvertito l’anomia della vita del xx secolo. Rimpiazzare il senso di sconfitta e di isolamento della Germania con l’orgoglio e la fiducia nei propri mezzi: questo fu il suo scopo e rappresentò un elemento cruciale nel suo carisma politico. La cultura, che storicamente aveva determinato l’identità tedesca a dispetto della disunità e dell’ambiguità dei confini, svolse un ruolo fondamentale. Il talento estetico di Hitler contribuisce a spiegare la sua misteriosa presa sul popolo tedesco. Quello che Stalin riuscì a ottenere con il terrore, Hitler l’ottenne con la seduzione. Adottando un nuovo modo di fare politica, con una combinazione di simboli, miti, riti, spettacoli e atteggiamenti teatrali, raggiunse le masse come nessun altro leader del suo tempo riuscì a fare. Pur avendo spazzato via ogni forma di governo democratico, diede ai tedeschi quella che con ogni evidenza considerarono una maggiore partecipazione politica, e li trasformò da spettatori in protagonisti nel teatro del nazionalsocialismo. Ciononostante, per oltre cinquant’anni i libri su Hitler hanno ignorato la centralità dell’arte nella sua vita e nella sua carriera. E per oltre cinquant’anni gli studi dell’uno o dell’altro aspetto della vita culturale nel Terzo Reich non hanno mai incluso il Führer. Perché? Con poche eccezioni di rilievo negli ultimi


· Prefazione ·

anni, la maggior parte degli storici dell’arte non sa o non vuole sapere nulla di questa imbarazzante connessione. Tra i biografi tale atteggiamento si spiega soprattutto con la loro spiccata preferenza per la storia tutta “trombe e tamburi”. La storia scritta nell’ultimo secolo, come ha osservato Fernand Braudel, è infatti quasi sempre histoire événementielle, storia politica focalizzata sulla drammaticità dei “grandi eventi”; in questo caso, “quello che Hitler fece dopo”. A nome della sinistra liberale George Mosse ha affermato: Non abbiamo saputo vedere che la stessa estetica fascista rifletteva bisogni e speranze della società contemporanea, che quanto abbiamo tralasciato definendolo sovrastruttura era in realtà lo strumento con cui gran parte della popolazione assimilò il messaggio fascista, trasformando la politica in religione civica.

Solo nelle memorie di Albert Speer sono rintracciabili alcuni apprezzamenti sul modo in cui Hitler applicò il proprio talento estetico alla vita pubblica, e soltanto nella biografia di Hitler di Joachim Fest, e nei suoi dialoghi con Speer, si accenna a questo aspetto. Ma anche per Fest e, più di recente, per Ian Kershaw, Hitler è rimasto essenzialmente «impalpabile». Per usare le parole del secondo, in confronto a Napoleone, Bismarck, Churchill e Kennedy, che furono «tutte figure di spessore fuori dalla vita pubblica», «al di là della politica la vita di Hitler era fondamentalmente un’assenza». Quest’affermazione è tanto ingannevole per Napoleone, Bismarck, Churchill e specialmente per Kennedy, quanto lo è per Hitler. Il suo interesse per l’arte fu profondo come il suo razzismo; ignorare l’uno è una distorsione altrettanto grave che tralasciare l’altro. Ma come si concilia questo lato di Hitler con quello fin troppo noto a tutti? Carl Burckhardt, commissario della Lega delle nazioni a Danzica, che incontrò Hitler due volte agli albori del conflitto, nel 1939, diede l’unica risposta possibile. Il dittatore aveva una doppia personalità, fu la sua conclusione, «la prima quella dell’artista ipergentile, e la seconda quella del maniaco omicida». Da cinquant’anni a questa parte, per ovvie ragioni, gli scrittori hanno raccontato il maniaco omicida. Questo volume, senza voler in alcun modo ignorare il secondo Hitler, si concentrerà sul primo. Poiché non si tratta di una biografia del Führer né di una storia dell’arte nel Terzo Reich, il libro tratta il materiale biografico e gli sviluppi culturali solo nella misura in cui essi sono direttamente pertinenti alla comprensione dell’inclinazione estetica di Hitler e al modo in cui questa si affermò nella sua vita politica e privata. Sebbene amasse guardare film, Hitler non si interessò al cinema come forma d’arte e lasciò a Joseph Goebbels il compito di sfruttarlo per scopi propagandistici. Per quanto nutrisse una discreta passione per il teatro, dopo essere diventato cancelliere vi dedicò scarsa attenzione. Pur avendo

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· Frederic Spotts ·

amato in gioventù le storie avventurose – non solo le fantasie western di Karl May, come spesso si racconta, ma anche opere come Robinson Crusoe, I viaggi di Gulliver, La capanna dello zio Tom, e specialmente Don Chisciotte –, la grande letteratura non suscitò il suo interesse. Per queste ragioni sono stati tralasciati tali argomenti.

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Fonti

Mezzo mondo crede in quello che l’altra metà inventa. Non sempre biografi e storici si sono distinti per il loro utilizzo delle fonti secondarie su Hitler. Considerata la scarsa documentazione esistente sulla sua vita privata, soprattutto in merito ai primi anni, gli scrittori si sono affidati a opere scritte parecchi anni dopo gli eventi di cui parlavano, e spesso da persone di dubbia preparazione culturale. Alcune opere sono fraudolente, come per esempio I diari di Hitler del 1983, eppure simili creazioni di fantasia sono state prese in considerazione e riutilizzate come fatti concreti. Con il risultato che ormai eventi fasulli e citazioni inventate abbondano. L’esempio più famoso è Adolf Hitler, mein Jugendfreund, di August Kubizek, che innumerevoli storici hanno citato e utilizzato come fonte principale sulla gioventù di Hitler. Kubizek frequentò il futuro Führer tra il 1905 e il 1908, a Linz e a Vienna. I due non si incontrarono più fino al 1938, quando Hitler, dopo l’Anschluß, tornò a Linz e lo invitò, allora segretario comunale a Eferding, per una chiacchierata. Poco tempo dopo, i funzionari del partito gli chiesero di scrivere le sue memorie degli anni vissuti insieme al compagno di gioventù. L’agiografia fu inevitabile. Un funzionario riferì alle alte sfere del partito quanto fosse sorprendente il punto di vista di Kubizek sul pensiero di Hitler: «La grandezza del Führer, che tutti noi troviamo così incredibile, era già evidente nella sua giovinezza». Kubizek, che pure non ne aveva bisogno, ebbe così l’imbeccata giusta. Contrariamente alla convinzione secondo cui avrebbe redatto un manoscritto tra il 1938 e il 1939, Kubizek non mise nulla su carta per molti anni. Certo, come lui stesso afferma nel suo volume e nella prefazione, più volte Martin Bormann e altri funzionari del partito lo sollecitarono a mettersi al lavoro. Nel luglio del 1943 anche Hitler sentì la necessità di autorizzare un pagamento una tantum, insieme a uno stipendio mensile, per convincerlo a scrivere il testo. Perfino il sindaco di Eferding gli fece pressioni e gli assegnò un assistente che lo aiutasse. Alla fine Kubizek cominciò a lavorare con continuità e scrisse la prima bozza di due Büchel, due “libretti”, come li chiamò, intitolati Erinnerungen an die mit dem Führer gemeinsam verlebten Jünglingsjahre 1904-1908 in Linz und Wien (“Ricordi dell’in-

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· Frederic Spotts ·

fanzia trascorsa con il Führer nel 1904-1908 a Linz e Vienna”). Completati poco prima della fine della guerra, ma mai presentati al partito, i libretti rimasero nascosti in un muro della casa di Kubizek, per evitare che le forze d’occupazione americane li confiscassero. Internato dopo la guerra a causa dell’amicizia con Hitler, nel 1948 Kubizek fu contattato da Franz Jetzinger, bibliotecario dell’archivio provinciale di Linz, che aveva iniziato a scrivere un resoconto dell’infanzia del Führer e cercava chiunque potesse fornirgli informazioni di prima mano. Kubizek fu molto felice di aiutarlo. Idolatrando ancora il suo vecchio amico, diede i suoi Ricordi a Jetzinger con la richiesta di trasformarli in una biografia o in un dramma che, così disse, potesse «distruggere la caricatura» di Hitler creata da scrittori ostili. I due uomini si incontrarono e si scrissero per quasi due anni. Kubizek diede lunghe risposte alle domande indagatrici di Jetzinger. Alcune risultarono credibili ma banali, altre sollevarono un forte scetticismo da parte di Jetzinger, al punto che Kubizek ne rimase ferito e disse: «Perché dovrei mentirle?». Kubizek dovette ammettere, però, che a differenza dell’approccio di Jetzinger, accademico e basato sui fatti, la sua cronaca confusa suonava inevitabilmente come «una storia, un racconto o un romanzo». Jetzinger, antinazista già negli anni trenta, fu sempre più esasperato dall’incrollabile ammirazione che Kubizek provava 20

per Hitler, descritto di volta in volta come «prima di tutto un grande idealista», «una delle novae più splendenti della nostra epoca», «un fenomeno unico nella storia del popolo tedesco» e così via. Alla fine i contatti furono interrotti. Nel 1953 uscì Adolf Hitler, mein Jugendfreund, annunciato come un resoconto unico e di prima mano sull’infanzia del Führer. La traduzione inglese fu pubblicata in Gran Bretagna come Young Hitler: The Story of Our Friendship e negli Stati Uniti come The Young Hitler I Knew. Già solo il fatto che tra gli eventi narrati e la pubblicazione fosse trascorso quasi mezzo secolo avrebbe dovuto essere un monito sufficiente per diffidare dell’opera. Ma gli storici, alla disperata ricerca di resoconti di quel genere, e in mancanza di informazioni su cui basarsi, vi attinsero a piene mani come da una biografica miniera d’oro. Per l’edizione inglese, Hugh Trevor-Roper, che in seguito avrebbe dichiarato autentici I diari di Hitler con la stessa ingenuità, scrisse addirittura un’introduzione piena di entusiasmo e di errori. Jetzinger rispose nel 1956 con il suo libro, Hitlers Jugend,1 in cui denunciò il lavoro di Kubizek definendolo «almeno al novanta percento bugie e favole mirate a glorificare Hitler». La descrizione era abbastanza veritiera, ma la verità più grande è che potrebbe addirittura non essere stato Kubizek a scrivere il libro. Come lui stesso affermò nelle lettere indirizzate a Jetzinger e come confermano i suoi contatti con le autorità naziste dopo il 1938, per Kubizek la scrittura era un incubo: «Scrivere è un peso terribile; è una cosa che non riesco a fare». Non si trattava solo del blocco dello scrittore, gli mancava proprio ogni abilità scrittoria, com’è evidente nella rudimentale prosa delle sue lettere. Kubizek stesso


· Fonti ·

aveva fatto notare a Jetzinger come i suoi scritti sarebbero stati «quelli di un vero poeta [ein Dichter], se dotati della forma necessaria per diventare efficaci». Peraltro, ciò che alla fine fu pubblicato era in contraddizione con i Ricordi. Questi ultimi erano stati indubbiamente scritti per accattivarsi le simpatie di Hitler e del Partito nazista, mentre il libro era un ovvio tentativo di riabilitare l’ultimo compianto dittatore agli occhi dell’opinione pubblica del dopoguerra. Nel primo testo, Hitler era ferocemente antisemita già nel 1907, mentre nella versione andata in stampa il suo antisemitismo appariva molto più blando. Le memorie citavano le parole di Hitler solo un paio di volte e brevemente, mentre nel volume pubblicato il Führer parla di continuo, con infinite citazioni formulate in un linguaggio pomposo. Un intero capitolo del libro è dedicato alla passione di Hitler per una ragazza di nome Stephanie, probabilmente nell’intenzione di dimostrare la sua normalità sessuale; nelle memorie, invece, Stephanie non veniva mai menzionata. E le discrepanze non si fermano qui. È dunque impossibile credere che, nel giro di un anno o poco più, un uomo che aveva difficoltà a scrivere e che aveva impiegato sei anni a produrre due libretti possa aver creato trecentocinquanta pagine a stampa di un testo completamente nuovo, sempre scorrevole e con tanto di passaggi elaborati e svolazzi letterari. La scrittrice austriaca Brigitte Hamann ha dichiarato di aver consegnato le «prime bozze» alla casa editrice Stocker Verlag, dove un fantasioso curatore le avrebbe riscritte e gonfiate, ma l’editore ha negato. Il direttore editoriale ha insistito nel dire che Kubizek «ha consegnato un manoscritto completo» e che «nulla è stato riscritto dalla casa editrice (fino a oggi) allo scopo di conservarne il valore documentario». Che sia stato un ghost-writer o un assistente editoriale, Kubizek trovò il suo «vero scrittore» e produsse un testo in cui i ricordi dubbi si mescolavano alle storie inventate allo scopo di idealizzare l’ultimo Führer. In accordo con un corollario della legge di Gresham, secondo cui i cattivi libri scalzano quelli buoni, il falso lavoro di Kubizek è stato tradotto in diverse lingue e continua a essere citato come fonte credibile. Ancora reperibile nelle librerie di lingua tedesca, è arrivato alla sesta edizione. La testimonianza di Kubizek non ha, quindi, alcun valore? Mix di possibili verità, probabili bugie e fantasie del ghost-writer, il libro non è niente di più di un romanzo storico e le citazioni riportate sono pura invenzione. I Ricordi sono invece una questione in parte diversa. Anche lo scettico Jetzinger ritenne «plausibili» alcuni brani del manoscritto, e le testimonianze contenute in questi casi specifici sono state citate nel presente libro. Una problematica simile riguarda i resoconti dei successivi anni di Hitler a Vienna. Anche qui, in assenza di informazioni affidabili, alcuni storici hanno compensato attingendo ai racconti pubblicati nei decenni seguenti da due mascalzoni: Josef Greiner e Reinhold Hanisch. Greiner non conobbe mai Hitler. Articoli firmati a nome di Hanisch uscirono postumi in inglese a New

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York, ma l’identità dell’autore è ignota, come il rapporto tra ciò che fu pubblicato e ciò che Hanisch scrisse veramente. Questi fu il più grande falsificatore dei dipinti di Hitler e molte sue dichiarazioni – come il presunto filosemitismo del Führer – sono senza dubbio altrettanto false. Questi scritti sono tra le fonti dei Diari di Hitler. Le gesta di Hitler dopo l’ingresso in politica raccontate da varie figure come Hermann Rauschning, Hans Frank, Ernst Hanfstaengl (che William Shirer definì «un grandissimo, nervoso e incoerente clown»), Johannes von MüllernSchönhausen, Henriette von Schirach, Heinz Heinz, Arno Breker e Friedelind Wagner rientrano nella categoria dell’“interessante se fosse vero”, dove spesso è impossibile separare i fatti da ciò che può essere smascherato come pura invenzione. In questa sede si è evitato di attingere a libri del genere, tranne quando il passaggio in questione si è rivelato coerente con altre fonti, e la paternità della testimonianza è stata esplicitata affinché ognuno possa fare le sue valutazioni. I due volumi di memorie di Albert Speer, Memorie del Terzo Reich e Diari segreti di Spandau, presentano alcuni problemi. Scritti con l’intento di discolpare ed esaltare l’autore e screditare chiunque altro, essi distorcono i fatti in più punti. Eppure il loro resoconto dell’operato e dei commenti di Hitler in ambito culturale è pienamente coerente con le testimonianze di fonti primarie, come le registra22

zioni dei monologhi di Hitler e i diari di Goebbels. L’altro grande architetto hitleriano che scrisse le sue memorie, Hermann Giesler, venerò il Führer sia prima sia dopo il 1945, ma i suoi resoconti sulle questioni architettoniche risultano in genere affidabili. Lo stesso si può dire degli scritti sull’arte di Hans Severus Ziegler, che conosceva Hitler fin dal 1924. Esiste però un’altra categoria di memorialistica del dopoguerra, scritta da membri dell’entourage e funzionari di governo, i quali, a differenza di Speer, hanno focalizzato l’attenzione su Hitler piuttosto che su se stessi e, a differenza di Giesler e Ziegler, hanno assunto un atteggiamento più distaccato – in alcuni casi addirittura critico – rispetto al tema trattato. In questa categoria rientrano i testi di Otto Dietrich, Christa Schroeder, Baldur von Schirach, Lutz Schwerin von Krosigk, Nicolaus von Below, Heinrich Hoffmann, Fritz Wiedemann, Heinz Linge, Friedrich Christian zu Schaumburg-Lippe e in qualche passaggio anche il testo di Alfred Rosenberg, per fare alcuni esempi. Il contributo di questi testi al presente libro riguarda argomenti in merito ai quali gli autori non avrebbero avuto motivo di distorcere i fatti, peraltro solitamente confermati da altri resoconti. È il caso anche degli imponenti diari di Joseph Goebbels, comprese le parti ritrovate a Mosca nel 1992, che ci dicono moltissimo sull’interesse e sulle attività di Hitler in campo artistico. Gli esuberanti commenti del Führer sulla cultura e sull’arte sono da rintracciare nel Mein Kampf, nei suoi discorsi, nei lunghi interventi durante le sessioni culturali dei raduni del partito e nelle conversazioni a tavola o monologhi. Per


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il Mein Kampf ho utilizzato la traduzione inglese di Ralph Manheim, anche se talvolta ho effettuato piccoli cambiamenti per avvicinare il testo all’originale.* Il resoconto dei commenti di Hitler durante o dopo i pasti sono stati pubblicati in diverse versioni; questo volume si affida soprattutto all’edizione curata da Werner Jochmann, ma occasionalmente anche all’edizione del 1976 curata da Henry Picker. Vale la pena citare le parole di Speer: «Quasi tutto ciò che Picker mette in bocca a Hitler l’ho sentito dire da Hitler con le stesse frasi o con simili». Le affermazioni di Hitler registrate nei monologhi oltre che da Goebbels, Speer, Schroeder e, in maniera più frammentaria, da altre persone della sua cerchia più intima quali Hoffmann e Dietrich, sono essenzialmente identiche e ciò rappresenta una solida prova della loro reciproca affidabilità. Questo libro attinge ai materiali d’archivio conservati presso l’Oberösterreiches Landesarchiv di Linz (le memorie di August Kubizek e la sua corrispondenza con Franz Jetzinger); l’Institut für Zeitgeschichte e il Bayerisches Hauptstaatsarchiv di Monaco di Baviera; il Bundesarchiv di Berlino; i National Archives di Washington (Relazione d’interrogatorio n. 4 “Linz: Hitler’s Museum and Library”; Relazione dell’Office of Strategic Services, oss, del 15 dicembre 1945; Relazione d’interrogatorio dettagliata n. 12 “Hermann Voss”; Relazione dell’oss del 12 settembre 1945; Supplemento del 15 gennaio 1946 alla Relazione d’interrogatiorio n. 4 “Linz”; Relazione d’interrogatorio dettagliata n. 1 “Heinrich Hoffmann”; Relazione dell’oss del 1° luglio 1945; Interrogatorio di Paula Wolf del 5 giugno 1946); il Germanisches Nationalmuseum di Norimberga (i diari di Hans Posse); l’American Army Military Museum di Washington (quattro acquerelli di Hitler); e il Richard Strauss Archive di Garmisch (la corrispondenza tra Richard Strauss e Winifred Wagner). Nel 1945, l’esercito americano sequestrò la documentazione superstite messa insieme dall’Archivio Centrale dell’nsdap, che, dopo essere stata microfilmata dalla Hoover Institution nel 1964, fu collocata nel Berlin Document Center e fa parte oggi del Bundesarchiv di Berlino. Le citazioni provengono dai microfilm. Nelle pagine che seguono, lo stesso Hitler è spesso citato, talvolta per passaggi piuttosto lunghi. Confrontarsi con le parole che pronunciò e la maniera in cui si espresse aiuta a immaginare la sua vera voce e a vedere la sua mente in azione in un modo altrimenti impossibile nei riassunti o nelle parafrasi.

* Per quanto riguarda il Mein Kampf, l’editore italiano ha scelto di fornire una traduzione inedita dell’originale tedesco: Mein Kampf (vol. i: 1925; vol. ii: 1927), Verlag Franz Eher Nachf., München 1943.[N.d.R.]

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Ringraziamenti

È un piacere ringraziare le persone e le istituzioni senza il cui aiuto questo libro non sarebbe stato possibile. Sono debitore in modo particolare a Harry Kreisler, direttore esecutivo dell’Institute of International Studies, della University of California di Berkeley, per avermi offerto un’accogliente dimora accademica dove svolgere il mio lavoro. Tra i curatori, i bibliotecari e gli archivisti la cui collaborazione è stata inestimabile, vorrei ricordare: Gerhart Marckhgott (Oberösterreiches Landesarchiv, Linz); Freifrau Andrian-Werburg (Germanisches Nationalmuseum, Norimberga); Gabriele Strauss (Richard Strauss Archive, Garmisch); Frau Hufeland (Federal Archive, Berlino); Michael Fritthum (Vienna State Opera); Max Oppel (Wittelsbacher Ausgleichsfond, Monaco di Baviera); Sven Friedrich e Gudrun Föttinger (Richard Wagner Museum, Bayreuth); Raimund Wünsche (Staatliche Antikensammlungen, Monaco di Baviera); Ernst van de Wetering (Kunsthistorisch Instituut, Amsterdam); Margaret Sherry (Princeton University Library); James Spohrer e Kathryn Wayne (University of California, Berkeley Library); Elena Danielson, Agnes Peterson e Linda Wheeler (Hoover Institution); Atti Vihinen (Sibelius Hall, Lahti); Trish Hayes (bbc Archives Centre); Hannelore Koehler (German Information Service); Jane Kallir (The Galerie St. Etienne, New York); Friedrich Mayrhofer (Archiv der Stadt Linz); Ursel Berger (Kolbe Museum, Berlino). Per l’aiuto supplementare e per il materiale illustrativo, ringrazio molto l’Institut für Zeitgeschichte di Monaco di Baviera; l’Institut für Zeitgeschichte di Vienna; Ilse Dvorak-Stocker, Stocker Verlag, Graz; i National Archives di Washington; Karen Tieth e Annette Samaras, Ullstein Bild, Berlino; il Bayerisches Hauptstaatsarchiv di Monaco di Baviera; Angelika Obermeier, Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera; lo Stadtarchiv di Linz; lo Stadtarchiv Landeshauptstadt München di Monaco di Baviera; l’Oberösterreiches Landesarchiv di Linz; Norbert Ludwig, Bildarchiv preußischer Kulturbesitz di Berlino; Barbara Schäche, Landesarchiv di Berlino; il Deutsches Historisches Museum di Berlino; il Goethe-Institut e l’Austrian Cultural Institute di New York.

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Le fotocopie dell’album di bozzetti architettonici di Hitler, i resoconti stenografici e le lettere di Lieselotte Schmidt, i verbali del processo di denazificazione di Wilhelm Furtwängler e pochi altri documenti sono stati forniti da fonti che hanno chiesto di restare anonime. Un particolare ringraziamento va inoltre a Hanns-Peter Frentz e alle seguenti istituzioni: Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera Bildarchiv preußischer Kulturbesitz di Berlino Institut für Zeitgeschichte di Vienna Richard Wagner Museum, Bayreuth Landesarchiv di Berlino Stadtarchiv di Monaco di Baviera Richard Strauss Archiv di Garmisch Ullstein Bilderdienst di Berlino Germanisches Nationalmuseum di Norimberga Stadtarchiv di Linz Bayerisches Hauptstaatsarchiv di Monaco di Baviera

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I miei ringraziamenti più sinceri vanno a Reinhold Brinkmann, Elizabeth Honig, Kathleen James, William Schaffer, Hermann Weiß, Theodor Wieser e Philip Wolfson per aver letto alcune parti del manoscritto. La mia gratitudine va anche a coloro che hanno risposto alle mie domande o che hanno contribuito in modi diversi: Barry Millington, Hans Hotter, Peter Selz, Klaus Harpprecht, Philipp Lichenthaler, Ulla Morris-Carter, Gesine Schaffer, Gordon Grant, Lindsay Newman, Roger Cardinal, Henri-Louis de la Grange, Anton Joachimsthaler, Paul Friedrich, Paul Jascot, Manfred Wagner e Ina Cooper. Nonostante il contributo delle persone citate, questo libro non avrebbe visto la luce senza l’aiuto del mio agente Anthea Morton-Saner e soprattutto del mio editor di Hutchinson, Tony Whittome. Per la pubblicazione negli Stati Uniti sono grato a Peter Mayer, editore di Overlook Press. A loro vanno i miei più sentiti ringraziamenti.


Il dittatore riluttante



1 L’esteta boemo

Non sorprende che sia stato proprio un artista, Thomas Mann, il primo a notare che anche Adolf Hitler fu essenzialmente un artista e che proprio grazie alla sua natura estetica riuscì a guadagnarsi quei poteri magici con i quali rese prigioniere del suo incantesimo una Germania e un’Europa all’apparenza inermi. «Non si deve riconoscere nel fenomeno, volenti o nolenti, un’espressione del talento dell’artista?» domandò Mann nel suo Fratello Hitler del 1938.1 Quindici anni prima, Houston Stewart Chamberlain, il grande evangelizzatore dell’antisemitismo tedesco, aveva conosciuto Hitler a Bayreuth e percepito subito in lui la stessa qualità. Chamberlain trovava che Hitler fosse «non un fanatico bensì […] l’opposto di un fanatico», non un politico «bensì l’opposto di un politico».2 Hitler colpiva al cuore, non alla testa, e il potere che esercitava sulla gente si esprimeva attraverso gli occhi e i movimenti delle mani. Più volte, in effetti, Joachim Fest, il suo biografo più acuto, si è chiesto se Hitler non sia stato solo un artista.3 La politica fu mai per lui qualcosa di più della retorica, della teatralità di processioni, parate e raduni di partito o della spettacolarità della guerra? Un enfatico no è stata la risposta di Albert Speer, che conosceva Hitler meglio di chiunque altro sopravvissuto al Terzo Reich. Dopo venti anni di riflessioni nel carcere di Spandau, Speer giunse alla conclusione che, per tutta la vita, Hitler fu sempre e con tutto il cuore fondamentalmente un artista. Queste affermazioni, perfino quella di Mann, avrebbero fatto piacere a Hitler. In effetti, esistono testimonianze e resoconti della sua reazione alle parole di Chamberlain, paragonata, secondo l’istintiva impressione di alcuni, alla gioia di un bambino che riceve un regalo prezioso.4 Anche l’autorevole presidente della Germania, Paul von Hindenburg – «di mente rigida e pensiero lento»5 –, si riferiva spesso a Hitler come al «caporale boemo».6 Sebbene nasca dall’equivoco che Hitler fosse nato in Boemia, invece che in Austria, tale definizione si deve al fatto che von Hindenburg percepiva nel Führer la qualità romantica di un artista, di un bohémien. Questa scintilla estetica, questo impulso artistico ispirarono Hitler e lo distinsero dagli altri, prima dai suoi compagni di scuola, poi dall’intera classe politica tedesca e, infine, da tutti gli statisti euro-

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pei. Più e più volte negli anni Hitler ripeté con insistenza davanti ad amici, colleghi e perfino ufficiali stranieri di non pensare a se stesso come a un politico, ma come a un artista. Da dove avesse avuto origine questa inclinazione estetica è un mistero. Non fu certo genetica, né ambientale. La sua famiglia non era colta. Il padre Alois era un rozzo funzionario doganale, la madre Klara una casalinga non istruita. Il suo unico incontro con la cultura furono le lezioni di canto e pianoforte, e la partecipazione al coro della chiesa locale, per un periodo molto breve. A Linz Hitler frequentò una scuola molto buona – tra gli studenti c’era Ludwig Wittgenstein –, ma nello studio non ebbe successo, forse per il suo atteggiamento fondamentalmente ribelle. Dopo l’improvvisa morte del padre nel 1903 Klara lo trasferì in un’altra scuola, ma i risultati furono altrettanto miseri. Eppure, in qualche modo, fu lì che si svilupparono le radici della sua disposizione artistica: l’amore per il disegno, l’inclinazione immaginativa, l’indipendenza di spirito, l’avversione per il lavoro disciplinato. Secondo la sorella Paula, aveva sviluppato uno «straordinario interesse» per argomenti come «architettura, pittura e musica».7 All’età di dodici anni, nel 1901, assistette alla prima rappresentazione teatrale, il Guglielmo Tell di Schiller, e poco dopo alla prima opera, Lohengrin, durante la quale ebbe un’esperienza estetica suprema, che lo avrebbe 30

reso prigioniero di Wagner per tutta la vita. A quell’epoca Hitler si diceva determinato a seguire la carriera artistica, dichiarando a familiari e compagni di scuola di voler diventare un pittore: e non uno qualsiasi, un pittore famoso. Visti gli insuccessi scolastici, nell’autunno del 1905, all’età di sedici anni, riuscì a convincere la madre a fargli abbandonare gli studi senza aver conseguito il diploma. Il suo sogno di vivere una vita libera da artista divenne realtà. Frequentatore abituale del teatro e dell’Opera, aderì a un’associazione musicale e si dedicò al disegno, alla pittura e alla lettura. La primavera seguente, la madre gli organizzò la prima visita a Vienna, in modo che potesse ammirare i dipinti delle collezioni asburgiche. Appena messo piede nella grande città, Hitler ne rimase talmente abbagliato da parlarne ancora con grande entusiasmo due decenni dopo, quando iniziò a scrivere il Mein Kampf. A sopraffarlo, più delle famose tele, furono soprattutto gli edifici pubblici. «Potevo restare per ore davanti all’Opera» ricordò «potevo fissare il Parlamento per ore; tutta la Ringstraße mi sembrò un incanto uscito dalle Mille e una notte.»8 Il suo entusiasmo fu tale che dovette condividerlo con l’amico più stretto che aveva a Linz, August Kubizek. In alcune cartoline – i documenti di Hitler più vecchi che siano giunti fino a noi –, descrisse le proprie impressioni sulle opere a cui aveva assistito e sull’acustica del teatro lirico. I divertimenti del Prater, delle birrerie e dei caffè non si addicevano alla serietà di questo ragazzo. Hitler rimase affascinato da ciò che vide al punto che, al ritorno a casa, provò a realizzare alcuni semplici bozzetti architettonici e disegnò addirittura l’e-


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sterno e il pianterreno di una villa che promise di costruire un giorno per Kubizek.9 Sono sopravvissuti anche un disegno a inchiostro di una villa di nuova costruzione,10 un acquerello del ristorante Pöstlingberg11 e due schizzi degli interni di un teatro lirico12 proposto per Linz. Nei mesi seguenti trascorse ore e ore in giro per la città, insieme all’amico, a osservare gli edifici e immaginare come singole strutture o intere zone potessero essere ricostruite. La spinta estetica, però, non era stata ancora soddisfatta, così Hitler decise di comporre un’opera teatrale, prese lezioni di piano, e in seguito pensò che gli sarebbe piaciuto diventare un compositore. Ma fu nel ruolo di pittore che vide il proprio destino e, nel 1907, compì il passo decisivo andando via di casa per cercare di entrare all’Accademia di belle arti di Vienna. Tuttavia, con suo grande sgomento, fu respinto. Non è chiaro che cosa fece nei mesi successivi. A giudicare dai commenti che avrebbe fatto anni dopo trascorse la maggior parte del tempo a disegnare chiese, scene di strada e edifici pubblici, e spese il poco denaro che gli era rimasto in biglietti per l’Opera. Un anno dopo, al secondo tentativo di entrare all’Accademia, fu nuovamente respinto e questo lo devastò. Secondo l’ortodossia biografica in quel periodo, ancor più che negli anni precedenti, Hitler non fu altro che l’incapace scansafatiche che conduceva «un’esistenza da parassita», «una vita da sfaccendato». In realtà, la sua vita non era molto diversa da quella che migliaia di altri giovani con inclinazioni artistiche hanno condotto nel corso della storia. I giovani aspiranti artisti passano anni a combattere per realizzare le proprie ambizioni. Quelli che raggiungono il successo vengono lodati per la loro perseveranza, quelli che falliscono sono considerati pigri fannulloni. Il problema di Hitler – e in un certo senso la sua tragedia – consistette nel confondere la spinta estetica con il talento per l’arte. Benché la differenza dovesse cominciare a diventargli chiara già nel 1908, non rinunciò a seguire la propria musa al meglio che poteva. Non si sa quasi nulla della sua vita nell’anno che seguì. Le poche informazioni sono state estrapolate dai moduli di registrazione di residenza conservati negli archivi della polizia viennese. Il ritratto che ne emerge è quello di un giovane allo sbando, che dormiva nei caffè, nei parchi, nelle pensioni economiche e alla fine in vari ricoveri per senzatetto. «Fu il periodo più triste della mia vita» commentò lui stesso nel Mein Kampf.13 Fu anche il periodo in cui, sempre secondo le sue stesse parole, si radicò in lui quella profonda crudeltà che «uccide la pietà» e «distrugge il nostro sentimento nei confronti della sofferenza di coloro che sono rimasti indietro».14 Privo di formazione artistica e con un talento limitato, Hitler non poté fare altro che sbarcare il lunario dipingendo e vendendo scene viennesi. A volte dovette barattare un dipinto in cambio di un pasto.15 Tuttavia, la sua vita cominciò a poco a poco a migliorare e, impratichendosi nel commercio, ricavò modesti

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guadagni producendo cinque o sei dipinti alla settimana. Contemporaneamente, stava accadendo qualcosa d’importante. Nei ritagli di tempo continuava a coltivare il suo passatempo preferito, ovvero la lettura: «Storia dell’arte, storia della cultura, storia dell’architettura».16 «Avevo un solo piacere: i miei libri»17 disse a proposito di quegli anni. Molto tempo dopo, la sua segretaria Christa Schroeder ricordò di averlo sentito dire che, durante la gioventù a Vienna, aveva divorato un’intera biblioteca cittadina di cinquecento volumi.18 Non si sa quali libri lesse – e gli storici si sono interrogati su quanti ne abbia realmente letti e assorbiti –, ma in seguito Hitler insistette nel dire che proprio in quegli anni si formarono in lui quelle che più tardi avrebbe definito come «le granitiche fondamenta delle mie azioni».19 Hitler iniziò a odiare Vienna e fu felice di lasciare quella disgustosa «Babilonia di razze»,20 come la chiamò. Più che lasciarla, in realtà, fuggì, e non nel maggio del 1912, come scrisse nel Mein Kampf, bensì un anno dopo. La ragione che addusse – appagare l’irreprimibile desiderio di riunirsi alla madrepatria tedesca – in un certo senso può essere veritiera, ma vi furono altri motivi, il più impellente dei quali fu l’incarcerazione per essersi sottratto al servizio militare. Il mese precedente aveva ricevuto la propria quota del patrimonio del padre, per cui, trovandosi in possesso di un po’ di soldi per il viaggio, probabilmente 32

pensò che in Germania avrebbe avuto prospettive di carriera migliori. In ogni caso, quando cominciò a scrivere il Mein Kampf si vide costretto a dare una serie di spiegazioni che gli evitassero la rovina politica per aver eluso il servizio militare. Retrodatò il suo rientro in Germania di un intero anno, nascose il fatto di essersi registrato come apolide per non permettere alla polizia austriaca di seguire le sue tracce e dichiarò di aver lasciato l’Austria per ragioni puramente politiche, per un «disgusto interiore nei confronti dello Stato asburgico».21 Fu significativa la scelta di Monaco, con la sua reputazione di centro culturale, come città in cui trovare rifugio. La vita e l’atmosfera che vi trovò lo incantarono. Riuscì a dipingere, a passare il tempo nei caffè e nei ristoranti di Schwabing, il quartiere degli artisti. «Il periodo prima della guerra fu il più felice e di gran lunga il più soddisfacente della mia vita» dichiarò.22 Da qual momento in poi, Monaco diventerà la sua città preferita – «sono più legato a questa città che a qualunque altro posto del mondo» –23 e, quando ne avrà il potere, la renderà Hauptstadt der Bewegung, capitale del nazionalsocialismo e centro culturale della Germania. A Monaco, Hitler continuò a dipingere e, pur facendolo con maggiore perizia e alla fine anche con ritorni economici più cospicui, la vita restò una lotta continua. Dovette apparirgli evidente che non stava diventando il grande pittore che aveva sognato di essere e che non sarebbe stato in grado di guadagnare granché. Lo scoppio della guerra nel 1914 gli offrì quindi un’emozionante via di fuga da una vita ormai giunta a un punto morto. Questo evento fu per lui «una liberazione»: «Mi gettai in ginocchio e ringraziai il cielo con cuore straripante


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per avermi concesso la fortuna di vivere in questa epoca».24 Come tanti altri giovani, Hitler fu entusiasta di arruolarsi. Pur essendo ancora cittadino austriaco, dietro presentazione di un’istanza, riuscì a entrare in un reggimento di fanteria bavarese e prestò un eccellente servizio come corriere sul fronte occidentale. Rimase ferito due volte e ricevette due decorazioni. Nei momenti liberi realizzava schizzi e dipinti con scene di guerra. Dopo il conflitto, e fino all’inizio degli anni venti, Hitler continuò a definirsi un artista, sebbene con una varietà di termini: Künstler (artista), Maler (pittore), Kunstmaler (pittore di quadri), Architektur Maler (decoratore di architetture) e talvolta anche Schriftsteller (scrittore). In realtà, alla fine della guerra si ritrovò completamente alla deriva. Da un lato, non vedeva prospettive nel riprendere la carriera da pittore; dall’altro, non era in grado di pensare a un’alternativa, tanto che nel Mein Kampf ammise di sentirsi talmente anonimo da non possedere alcuna base per una qualsiasi attività utile.25 Di conseguenza, rimase nell’esercito e fu infine reclutato dalle forze paramilitari del Reichswehr per unirsi a un gruppo di “ufficiali di formazione” il cui ruolo era quello di risollevare il morale delle truppe con discorsi d’incoraggiamento veementi e nazionalistici. Pur essendo stato con ogni evidenza un fervente sostenitore del nazionalismo pangermanista fin dai giorni viennesi, Hitler non dimostrava ancora alcun interesse per la carriera politica. Ma, grazie a una straordinaria abilità intuitiva nel comprendere e manipolare gli umori del pubblico, scoprì presto che i suoi discorsi istigatori ai soldati erano un vero successo. Alla fine aveva trovato la sua strada. Fu la politica ad andare da Hitler, non il contrario. Il suo ingresso nella vita pubblica non fu dunque quello di un uomo spinto da una missione ideologica, né quello di un leader con un programma visionario, bensì quello di un demagogico oratore per l’esercito. La possibilità di una carriera politica gli si aprì nel momento in cui comprese che l’arte non lo avrebbe portato da nessuna parte e gli fornì una via d’uscita da un momento di stallo della sua vita. Eppure, anche quando cominciò a muovere i primi passi in politica – aderendo nel 1920 al piccolo Partito dei lavoratori tedeschi –, dichiarava ancora di essere un “pittore”. E, almeno all’inizio, non fu tanto un obiettivo politico concreto a stimolarlo, quanto la carica elettrica di quel carisma magnetico che il perspicace Chamberlain gli avrebbe in seguito riconosciuto. In pochissimo tempo il suo talento retorico nel denunciare i bolscevichi, gli ebrei e gli accordi di pace del 1919 gli guadagnarono l’attenzione generale, mentre i suoi modi energici lo aiutarono a raggiungere una posizione di autorità. Quando prese congedo dall’esercito, nell’aprile del 1920, da insignificante attivista Hitler era diventato un agitatore da birreria dell’estrema destra bavarese. In breve tempo, trasformò un gruppo di bevitori di birra, sciovinisti antisemiti della Baviera, nel Partito nazionalsocialista dei lavoratori, del quale divenne leader nel luglio del 1921. Più simile a Mussolini che a Lenin, capì

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cinquant’anni prima dei democratici americani che la manipolazione psicologica può essere più potente di un’argomentazione ragionata o di programmi concreti. Senza dubbio grazie alla sua sensibilità artistica, Hitler fu il primo a intuire che il mezzo, come diremmo oggi, poteva essere esso stesso il messaggio. L’uomo che avrebbe stravolto e quasi distrutto l’Europa, quindi, entrò in politica solo a trentun anni, compiendo un passo che avrebbe poi definito «la più difficile delle decisioni» che avesse mai preso.26 Ciononostante, anni dopo commentò con il suo staff: Sono diventato un uomo politico contro la mia volontà. La politica per me è soltanto un mezzo per raggiungere un obiettivo. Alcuni pensano che sarà difficile per me non essere più in attività. No! Quando mi ritirerò dagli affari politici e mi lascerò alle spalle tutte le angosce, i problemi e le vessazioni, sarà il giorno più bello della mia vita […]. Se avessero trovato qualcun altro, non mi sarei mai dedicato alla politica, sarei diventato un artista o un filosofo.27

Durante tutta la sua carriera Hitler si lamentò più volte di aver dovuto sacrifi34

care i propri interessi artistici in nome delle incombenze di governo. Quando la crisi diplomatica con la Polonia stava per raggiungere il culmine, nell’agosto 1939, Hitler convocò Carl Burckhardt, commissario della Lega delle nazioni, a Danzica, al Berghof, il suo ritiro alpino nell’Obersalzberg, vicino Berchtesgaden. Dopo un’accesa discussione condusse l’ospite sulla terrazza per ammirare l’ampio panorama e disse: «Oh, quanto mi piacerebbe poter restare qui a fare l’artista. In fin dei conti, io sono un artista».28 Due settimane dopo, il Führer incontrò Sir Nevile Henderson, ambasciatore britannico a Berlino, che a Londra riferì: «Tra le diverse questioni menzionate da Herr Hitler, vi era il fatto che egli si sentiva per natura un artista, non un uomo politico».29 Infine, mentre completava i piani finali per l’attacco alla Polonia, ai capi militari lì riuniti disse: «Come vorrei starmene qui a dipingere».30 Lo stesso desiderio lo assalì di nuovo, un mese dopo l’inizio dell’invasione dell’Unione Sovietica. Mentre sedeva con i suoi compagni più vicini nel quartier generale militare, indirizzò la conversazione verso argomenti culturali e rievocò con calore le delizie della sua visita di Stato in Italia nel 1938, ricordando in particolare i paesaggi mozzafiato di Roma, Firenze e Napoli. «Allora l’unica cosa che desideravo era poter vagabondare per l’Italia come un pittore sconosciuto» concluse malinconicamente.31 Questo non fu un volo della fantasia momentaneo, perché durante quella visita Hitler aveva comunicato lo stesso desiderio ai suoi ospiti italiani. Secondo il famoso storico dell’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, che fu la sua guida italia-


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na – nonché, in segreto, membro del Partito comunista italiano –, il sogno di Hitler era quello di prendere in affitto una villa nei dintorni di Roma e passare le giornate a visitare musei senza che nessuno si accorgesse di lui. Bianchi Bandinelli aggiunse: Quando [Hitler] parlava così, si aveva l’impressione che quest’uomo avrebbe potuto alzarsi una mattina e dire: «Basta, mi sono ingannato, non sono più il Führer». Dinanzi a Mussolini un pensiero simile non veniva mai. […] Hitler aveva tutta l’aria di essere sincero.32

Nel corso degli anni, Hitler fece la stessa impressione anche ad altri, che lo sentirono insistere più volte sul fatto che il giorno in cui avesse potuto togliersi l’uniforme e dedicarsi esclusivamente alle arti sarebbe stato il più felice della sua vita.33 Come vanno interpretate queste affermazioni? Hitler non intendeva dire che rifiutava la guerra, che non voleva il Lebensraum – “spazio vitale” – a est o che non desiderava fare della Germania la potenza dominante in Europa. Quello che intendeva dire era che, una volta realizzate le proprie ambizioni militari e politiche, si sarebbe dedicato a ciò che lo interessava davvero e che per lui rivestiva la massima importanza: ovvero creare uno Stato culturale germanico, dove le arti fossero tenute nella più alta considerazione e dove lui stesso potesse costruire edifici, organizzare mostre d’arte, mettere in scena opere, incoraggiare gli artisti e promuovere la musica, la pittura e la scultura che amava. La serietà delle proprie intenzioni si palesò nella devozione che nutrì per l’arte non appena fu nominato cancelliere. Difficile dire, tuttavia, se un giorno si sarebbe davvero ritirato seguendo l’esempio di Carlo v, sebbene in uno studio artistico anziché in un monastero. Speer affermò di essersi chiesto a volte quale corso avrebbe seguito la vita di Hitler se fosse stato chiamato da un ricco mecenate come architetto personale.34 Alla fine giunse alla conclusione che le ambizioni architettoniche del Führer erano inseparabili dal senso profondo della sua missione politica, e che la sua realizzazione artistica sarebbe stata possibile soltanto attraverso il successo politico. Di qui l’enigma centrale della vita e della carriera di Hitler: come poterono conciliarsi in lui la sincera devozione per l’arte con il regime totalitario, la guerra e il genocidio razziale? Lo stesso Speer ebbe difficoltà ad affrontare l’argomento. Seduto nella sua cella, una sera del 1963, dopo diciotto anni di reclusione a Spandau, si chiese come fosse possibile che le «effettive, evidenti aspirazioni alla bellezza del regime» potessero andare d’accordo con la sua spietatezza e la sua disumanità.35 Secondo alcuni, si trattò di un travestimento estetico mirato unicamente a sviare l’attenzione delle masse oppresse. «Ma non fu così» insistette

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Speer. Vi fu anche un genuino e disinteressato slancio sociale, un desiderio di riconciliare l’inevitabile bruttezza della tecnologia moderna con le forme estetiche familiari, con la bellezza. Avendo osservato il dittatore in un momento cruciale, Carl Burckhardt riassunse la dicotomia in modo più semplice: Hitler rappresentava un caso di «doppia personalità, la prima quella dell’artista alquanto gentile, e la seconda quella del maniaco omicida».36 Così, nei primi anni venti, era emerso l’Hitler Künstlerpolitiker, l’artista-politico, che Chamberlain e von Hindenburg avevano intuito e che Mann aveva chiaramente riconosciuto. I capi totalitari hanno sempre proclamato la loro devozione all’arte, e spesso ne hanno dato prova. È stato evidenziato come tutti i dittatori, Hitler non meno di Stalin, abbiano dedotto da Marx la convinzione che il controllo della cultura è tanto importante quanto il controllo dell’economia.37 Se da un lato, infatti, compresero che l’arte conferiva loro rispettabilità, contribuiva al senso di unità nazionale, aiutava a mantenere alto il morale nei momenti di difficoltà e forniva una cortina affrescata dietro cui nascondersi per commettere ogni sorta di orrore, dall’altro, però, si resero conto del suo effetto potenzialmente sovversivo. Come osservò Osip Mandel’štam, uno Stato che giustizia le persone perché scrivono poesie è uno Stato che riconosce il potere della poesia. Sebbene Hitler avesse compreso tutto ciò e agito di conseguenza, le sue azioni furono radi36

calmente diverse da quelle di Stalin, Lenin, Mussolini, Mao Zedong e altri leader dello stesso genere. A differenza di Lenin, che non mise mai piede in una galleria d’arte, o di Stalin, la cui collezione artistica era costituita di immagini tratte da riviste illustrate, o di Mussolini, che disprezzava l’arte, Hitler nutrì un reale e profondo interesse per la musica, la pittura, la scultura e l’architettura. Per lui fu la politica, e non l’arte, il mezzo per raggiungere un obiettivo, e questo obiettivo era appunto l’arte. Di qui il paradosso di un uomo che aspirava a essere un artista ma non aveva talento e che odiava la politica pur essendo un genio politico. In effetti, la politica nel senso convenzionale del termine – intesa come l’interazione tra istituzioni e persone impegnate nella sfera pubblica – non lo interessò mai. Al contrario, Hitler costruì la sua carriera di statista sul rifiuto di tutto ciò che quel tipo di politica implicava: libertà, dibattito e compromessi; partiti, parlamenti e istituzioni di una società pluralista. Appena poté farlo, abolì tutto. Ad attirarlo era l’autorità e, a suo modo di vedere, l’autorità seguiva gli stessi princìpi evolutivi della cultura. Il suo punto di vista apparve chiaro in un discorso del gennaio 1928, in cui si interrogava sui meccanismi della cultura. Il processo interno a una nazione è il seguente: il creatore è sempre l’individuo, dalla massa non viene niente […]. Ciò che noi definiamo cultura non nasce dalla maggioranza dei voti. No. È il prodotto di individui, dell’atto creativo di singole persone, che si sono innalzate al di sopra della moltitudine e hanno seguito la direzione delle menti migliori.38


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Perciò Hitler stabilì un legame diretto tra la sua nozione di governo e il concetto di creatività artistica. Ma questo legame non va sopravvalutato. Molte sue decisioni politiche, come il genocidio razziale o l’occupazione militare dell’Europa, non derivarono dai suoi ideali estetici. A volte l’Hitler dominatore e l’Hitler artista coincisero, altre volte no. È tuttavia indubbio che utilizzò sempre la cultura per consolidare il proprio potere, mentre il potere gli aprì la strada per realizzarsi attraverso grandiosi progetti culturali. Potere e arte si fusero fino a questo punto e Hitler poté definire la propria missione storica in termini artistici, come fece ripetutamente. In tal senso gli interessi culturali non rappresentarono soltanto una fase passeggera della gioventù che sfociarono poi nell’appariscente ambizione di un artista dilettante entrato in politica. Hitler avrebbe potuto dire con Schopenhauer – i cui cinque volumi dell’opera omnia dichiarò di essersi portato dietro nello zaino durante tutta la guerra –39 che la cultura rivestì sempre un ruolo chiave nel suo universo mentale. In questo fu erede della tradizione romantica dell’Europa centrale. I romantici avevano idolatrato l’artista e le sue imprese come l’incarnazione delle più alte aspirazioni sociali di un’epoca. Allo stesso tempo, come disse Isaiah Berlin pensando a Napoleone, erano impazziti per «l’artista infausto il cui materiale sono gli uomini – distruttore delle vecchie società e creatore delle nuove – e che non bada al costo umano: il capo superumano che tortura e distrugge con l’obiettivo di costruire nuove fondamenta…».40 Hitler fu un romantico in entrambi i sensi. Durante i migliori e i peggiori anni delle sue campagne militari, trovò sempre il tempo per le questioni culturali, non importava quanto urgente potesse essere la situazione. Christa Schroeder notò che, tranne quando partecipava alle riunioni militari, i suoi argomenti di conversazione vertevano molto spesso sull’arte.41 Questa osservazione è confermata dalle cosiddette conversazioni a tavola, ovvero commenti che il dittatore faceva durante i pasti e nelle serate che seguivano le cene, raccolti a sua insaputa. Anche i diari di Goebbels ne forniscono numerosi esempi. «Non saprei contare tutti gli argomenti culturali di cui abbiamo discusso» afferma una sua nota citazione.42 In effetti, in quasi tutte le occasioni in cui i due uomini si incontrarono, fino agli ultimi mesi della guerra, Hitler sollevò questioni relative all’arte. «L’intensità del desiderio del Führer verso la musica, il teatro e lo svago culturale è enorme» riportò il ministro della Propaganda dopo avergli fatto visita sul fronte orientale nel gennaio 1942. «Mi ha detto che non ne parla mai con gli altri, ma la vita che conduce in questi giorni è culturalmente vuota e insignificante, per questo deve riempire le giornate con il lavoro e altre attività. Quando la guerra sarà finita, potrà rifarsi dedicandosi più che mai agli aspetti più belli della vita.»43 Quattro mesi dopo, alla vigilia di quella che si sarebbe rivelata l’operazione militare decisiva in Russia, i

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due trascorsero un intero pomeriggio a discutere di questioni culturali.44 Ad attirare l’interesse di Hitler in quell’occasione era la proposta di girare un film su re Ludovico i di Baviera. Nonostante gli impegni urgenti, Hitler aveva trovato il tempo per studiare il copione del film e annunciò a Goebbels di non approvare né la sceneggiatura né la scelta dell’attore protagonista, insomma di voler ricominciare da capo. Un altro argomento che affrontò fu la competizione culturale tra Vienna, Linz e Monaco, discutendo delle possibili soluzioni per trovare un equilibrio tra le città. Continuò poi affermando che la nuova tecnologia di registrazione su nastro gli permetteva di essere più informato sui recenti sviluppi musicali, giacché poteva ascoltare le ultime performance sinfoniche e operistiche. E doveva averle sentite con molta attenzione, dal momento che giudicò gli archi della Filarmonica di Berlino più bravi – «più giovani» – di quelli di Vienna. Aggiunse anche che le registrazioni lo avevano lasciato entusiasta riguardo alla direzione d’orchestra dell’Opera di Monaco. Allo stesso tempo, era del parere che alcuni famosi cantanti stessero conoscendo un declino vocale e formulò alcune riflessioni sui loro possibili successori. Trovò anche il tempo per spettegolare su Richard Wagner e i suoi discendenti, per dare istruzioni affinché gli artisti ritiratisi dalle scene ricevessero lauti stipendi e per autorizzare la circolazione di una quantità limitata di valuta estera al fine di acquistare dall’Italia una collezione di rari strumenti a corda. Questi furono gli argomenti principali 38

di una sola discussione. Sei mesi dopo questa conversazione, Goebbels andò a trovare Hitler nel suo quartier generale militare a Rastenberg, nella Prussia orientale. Sebbene infuriasse la battaglia di Stalingrado, il ministro notò che «nonostante la gravità della situazione, il Führer rimane come sempre devoto all’arte e non vede l’ora di poterle dedicare più tempo».45 In questa occasione, la conversazione cominciò con l’apprezzamento di Hitler per le sinfonie di Bruckner e si concluse con un confronto tra le filosofie di Kant, Schopenhauer e Nietzsche. Ai primi di maggio dello stesso anno, mentre i bombardamenti aerei stavano devastando le città tedesche, la Wehrmacht si ritirava dalla Russia e l’esercito tedesco era stato cacciato dall’Africa, Hitler tornò per breve tempo a Berlino e incontrò Goebbels per quattro giorni consecutivi, parlando sempre di «diverse questioni culturali e artistiche».46 Che cosa aveva in mente stavolta? Sentiva il bisogno di incoraggiare gli individui nel campo delle arti visive ad acquistare dipinti per se stessi e a non lasciare che li acquisissero i musei d’arte. Voleva anche che le gallerie fossero gestite dalla comunità e non dal Reich. Continuò esprimendo il proprio giudizio su architetti e scultori. Dopo aver discusso dei problemi del teatro di Berlino passò al mondo della musica: ordinò che venisse accresciuto il prestigio dell’orchestra sinfonica di Amburgo, di quella del Gewandhaus e di quella della Deutsche Oper di Berlino, e che la neonata Orchestra Bruckner di Linz diventasse una delle migliori del Reich. Stroncò sul nascere la proposta di aumentare il


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prezzo dei biglietti del teatro e dell’Opera. Si lamentò della mancanza di sensibilità culturale da parte dei capi locali del partito, molti dei quali, nonostante la competenza politica, erano «un fallimento completo nel campo artistico».47 Si amareggiò anche riguardo alla tomba di Federico il Grande, ripromettendosi di spostarla a San Souci o in un nuovo mausoleo di Berlino dopo la guerra. Al loro quarto incontro, discusse delle teorie filosofiche di Kant, Hegel, Schopenhauer e Nietzsche. «Non desidera niente con tanto ardore come togliersi la giacca grigia [militare] per indossare quella marrone [del partito]»: il suo sogno, sottolineò Goebbels, era di riprendere le attività culturali e non avere più nulla a che fare con i generali.48 Una conversazione non meno sorprendente ebbe luogo nel settembre 1943.49 La situazione militare era più che mai grave: le forze angloamericane si trovavano in territorio italiano, l’Italia si era arresa, la Wehrmacht stava ripiegando a est e i bombardamenti delle città tedesche avevano raggiunto un livello catastrofico. Eppure, nel corso di una lunga discussione sulla possibilità di negoziare un accordo di pace Hitler non riuscì a non dilungarsi in discussioni di natura artistica. Questa volta parlò dell’attività operistica e teatrale a Berlino e Monaco, dell’inaffidabilità politica degli artisti, dell’erronea concezione artistica di Göring, della deplorevole interferenza di Frau Göring nel teatro di Berlino e della qualità di varie compagnie operistiche. E discussioni del genere furono ripetute incontro dopo incontro. Per dirla con un’altra nota osservazione, datata 25 gennaio 1944: Continuiamo a parlare di mille e una questione riguardante la vita culturale e artistica che affascinano così tanto il Führer. Sono stupito dall’accuratezza delle sue informazioni su centinaia di dettagli.

La conversazione più straordinaria, però, forse ebbe luogo alla vigilia del D-Day, nel giugno 1944, quando durante il pranzo al Berghof Hitler intrattenne a lungo i suoi ospiti disquisendo di arte: «Parlammo dei problemi dell’Opera e del teatro, di film, di letteratura e Dio sa di che cos’altro» annotò Goebbels.50 Quando il ministro della Propaganda dichiarò di aver da poco letto il saggio di Schopenhauer sulla scrittura, Hitler rispose che in passato lo aveva studiato con attenzione, traendone giovamento. Alle dieci di sera dello stesso giorno, gli ufficiali dei servizi segreti tedeschi cominciarono a riferire che, in base alle intercettazioni radio, l’invasione degli Alleati avrebbe avuto inizio il mattino seguente. Ma Goebbels scrisse: «Più tardi guardammo gli ultimi cinegiornali […] e parlammo a lungo di film, Opera e teatro […]. Sedemmo quindi davanti al fuoco fino alle due del mattino, scambiandoci ricordi […]». Sei mesi dopo, con il Terzo Reich sull’orlo del collasso, Hitler convocò all’improvviso Goebbels a mezzanotte alla cancelleria e lo trattenne a parlare per cin-

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que ore e mezzo dei suoi piani militari, politici e culturali. «La vita culturale continua ovviamente ad attirare il suo profondo interesse» sottolineò il ministro della Propaganda.51 Tra gli argomenti affrontati da Hitler: alcuni film, il comportamento di attori famosi, la cattiva influenza di Frau Göring sul teatro, i piani di progettazione del palcoscenico operistico che intendeva attuare dopo la guerra e cose simili. Un’altra annotazione del 25 gennaio 1945 suonò per l’ultima volta il leitmotiv che Hitler aveva periodicamente ripetuto nel corso degli anni della sua carriera politica: Si lamenta dell’amara ironia che il destino abbia scelto lui, uomo devoto all’arte, per condurre la guerra più difficile del Reich. Ma lo stesso accadde a Federico il Grande. Anche costui, infatti, non era tagliato per una guerra di sette anni, ma per una vita semplice, per la filosofia e per il flauto. Ciononostante, non ebbe altra scelta che adempiere alla sua missione storica.

L’arte aveva ormai un significato diverso per Hitler. Da quando aveva lanciato l’attacco all’Unione Sovietica, aveva scoperto di non riuscire a dormire senza aver prima trascorso molte ore a guardare libri illustrati sulla pittura e sull’architettura.52 Via via che la catastrofe militare si avvicinava e, soprattutto dopo 40

l’attentato di luglio, che lo spinse a chiudersi sempre più in se stesso, l’arte diventò per lui l’unica via di fuga dal destino incombente. Un ospite sempre ben accetto al quartier generale fu Benno von Arent, il suo scenografo preferito, che lo intratteneva con le più recenti indiscrezioni sul milieu artistico. Nel dirgli addio, Hitler gli strinse calorosamente la mano e disse: «Sono contento che di tanto in tanto sia venuto a farmi visita nella mia solitudine. Lei è per me un ponte verso un mondo più bello».53 Anche nei momenti migliori, Hitler aveva sempre descritto l’arte come «un polo fisso nel flusso di tutti gli altri fenomeni», «una fuga dal caos e dalla sofferenza»,54 una fonte di «eterna, magica forza […] per controllare la confusione e ricreare nuovo ordine dal caos».55 In altre parole, l’arte gli fornì sempre un rifugio dalla dura realtà. Benché gli mancassero molte peculiarità convenzionalmente attribuite agli artisti, la spinta estetica fu un elemento essenziale della sua personalità, che segnò in modo indelebile la sua vita e la sua carriera. Chi ritrae Hitler come un individuo che si servì dell’arte con cinismo solo per il suo valore di propaganda ideologica lo ha frainteso al pari di chi lo raffigura come un rivoluzionario nichilista mosso dall’unico obiettivo di conquistare potere per sé e fine a se stesso. In ogni atto della sua carriera politica, che fosse imporre la dittatura totalitaria in Germania, portare la guerra nel mondo o intraprendere il genocidio di massa, Hitler si considerò sempre contemporaneamente dominatore supremo, comandante militare supremo e autorità culturale suprema. Ripensando a quegli anni, nel 1952 Lutz Schwerin von Krosigk, ministro del-


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le Finanze dal 1932 sino alla fine del Reich, scrisse che era impossibile non avere l’impressione che l’interesse principale della vita di Hitler fosse stato quello di creare monumenti culturali.56 Alcuni suoi collaboratori, come Arno Breker, Albert Speer e Hermann Giesler, ma anche alcuni biografi tedeschi che hanno studiato la sua vita, per esempio Joachim Fest e Werner Maser, giunsero tutti alla conclusione che in definitiva, per Hitler, il potere non fu altro che uno strumento per soddisfare le proprie ambizioni culturali.

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È difficile pensare a un altro leader nella storia che abbia dato tanta importanza alla cultura e che ne abbia parlato così a lungo. Il Mein Kampf, i discorsi tenuti ai raduni di partito e in altre occasioni, le conversazioni con il suo entourage e le infinite chiacchierate dopo cena ne erano totalmente permeati. Come tutti i dittatori – e gli scocciatori comuni –, Hitler affermava le proprie opinioni non con ragionamenti e argomentazioni, ma presentandole come verità dogmatiche, che non ammettevano repliche. E aveva un’opinione su tutto. Una volta Speer dichiarò che, se avesse dovuto riassumerlo con una frase, avrebbe detto: «Era proprio un genio del dilettantismo».1 Nelle sue memorie, Leonard Woolf raccontò che alla fine di una grande battuta di caccia nella giungla di Ceylon, quando gli animali furono trucidati e fuoriuscì dai loro stomaci il contenuto parzialmente digerito, quella vista lo fece pensare inevitabilmente alle cervella di un suo collega pazzo. Anche Hitler mandò giù, senza mai digerire completamente, bocconi di letteratura, arte, storia, musica, teatro, politica, filosofia e tutto ciò che c’è in mezzo. E quello che emergeva dalle sue conversazioni era un indigesto guazzabuglio di fatti, pseudo-fatti e non-fatti. Eppure, nelle sue riflessioni dimostrò di avere anche un reale buon senso e arrivò a esaminare alcune fondamentali questioni sui rapporti tra cultura e Stato, tra artista e società, tra arte e politica. Dalla fiumana delle sue parole affiorò una serie di pensieri che andò a delineare una filosofia della cultura imperniata sulla razza, la quale stabilì un nesso inscindibile tra le sue idee politiche e quelle culturali. È significativo che Hitler abbia formulato contemporaneamente le sue teorie a proposito di razza, politica e cultura, proprio all’inizio della sua carriera politica, in un discorso tenuto a Monaco nel 1920 a cui diede l’appropriato titolo Perché siamo antisemiti? e nel quale fece propria l’interpretazione della storia intesa come “sfida e risposta”, all’epoca molto in voga.2 All’alba dei tempi, disse, i popoli che vivevano nei rigidi climi del Nord erano costretti a lavorare duro: proprio da essi trasse origine la razza ariana, forte e creativa. La gente del Sud, dove la vita era più facile, diventò invece degenerata e molle.

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Quindi la razza che etichettiamo come ariana è stata l’ispiratrice di tutte le successive grandi culture […]. Sappiamo che l’Egitto è stato portato al suo apice culturale dagli immigrati ariani, così come la Persia e la Grecia. Tali immigrati erano ariani biondi e con gli occhi azzurri, e sappiamo che oltre a questi Stati non ve ne furono altri dello stesso livello culturale […].

Ma la cultura non era solo il prodotto di una razza, necessitava anche di un ambiente politico dinamico. E quindi: […] l’arte fiorisce soprattutto laddove un grande movimento politico glielo permette. Sappiamo che le arti in Grecia raggiunsero l’apice dopo il trionfo del suo giovane Stato sull’esercito persiano […]. Roma diventò una città di cultura per la prima volta dopo le guerre puniche […]. Sappiamo che l’arte, com’è riflessa, per esempio, nella bellezza delle nostre città tedesche, è sempre dipesa dallo sviluppo politico di queste città […].

Che cosa c’entra “l’ebreo” con tutto questo? chiedeva allora Hitler nel suo discorso. Non avendo partecipato alla lotta creativa degli ariani

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l’ebreo non ha mai avuto una sua arte. Anche i suoi templi sono stati costruiti da stranieri, prima dagli assiri e poi, in un periodo successivo, dai romani. Non ha lasciato nessuna eredità artistica, niente nella pittura, nessun edificio, niente.

In più Hitler era convinto che l’obiettivo degli ebrei fosse quello di distruggere la cultura di una nazione come si esprimeva nella musica, nella pittura, nella scultura e nella letteratura moderniste. Per “l’ebreo”, concluse Hitler, l’arte era solo un oggetto di commercio, un mezzo per fare soldi. Un corollario delle sue idee sulla razza fu la convinzione che identità nazionale e identità culturale fossero le due facce della stessa moneta. «Tutta la grande arte è nazionale» affermò in un discorso tenuto a Norimberga nel gennaio 1923.3 «I grandi musicisti come Beethoven, Mozart, Bach hanno dato vita alla musica germanica che era profondamente radicata nello spirito germanico e nel pensiero germanico […]. Lo stesso vale per gli scultori, i pittori e gli architetti tedeschi.» A prescindere da quanta verità vi fosse in quest’affermazione, Hitler intendeva dire che la cultura di una nazione doveva esistere nell’isolamento. Di conseguenza, l’arte «internazionale» – e citò il Cubismo e il Futurismo – era essenzialmente distruttiva e «sinonimo di kitsch». Inoltre, bastava anche solo uno sguardo per rivelare come essa derivasse da «una mentalità straniera, ebraica». Quando l’anno seguente cominciò a scrivere il Mein Kampf Hitler affrontò un altro argomento, che avrebbe avuto profonde conseguenze politiche dopo la nomina a cancelliere. Perché, si chiese, nel xx secolo la cultura aveva sofferto


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lo stesso improvviso declino conosciuto dalla politica? Come si poteva invertire questa tendenza? Nel capitolo intitolato “Cause del crollo” rispose agli interrogativi dichiarando che la caduta del Reich di Bismarck nel 1918 non era scaturita da fattori economici o militari, bensì sociali. Una «peste morale» aveva colpito le grandi città e infettato tutte le arti.4 La diffusione del Cubismo e del Dadaismo, ovvero «arti bolsceviche», aveva rischiato di indurre la gente «nelle braccia della pazzia spirituale».5 I loro interpreti erano «lunatici e criminali» e il loro unico obiettivo consisteva nel distruggere le opere del passato.6 Di conseguenza, le fondamenta della civiltà occidentale erano in rovina e ciò appariva evidente soprattutto nell’arte. «Se l’età di Pericle si incarnava nel Partenone» scrisse in uno dei suoi brani migliori «il presente bolscevico si incarna in una mostruosità cubista.» La conclusione era inevitabile: «Teatro, arte, letteratura, cinema, stampa, perfino manifesti e vetrine vanno ripuliti da tutte le espressioni del nostro mondo in decomposizione e devono essere poste al servizio dell’ideale etico, politico e culturale».7 Un altro sintomo del declino culturale, che faceva disperare Hitler, era la trasformazione delle città da «siti culturali» in «meri insediamenti umani», privi di coesione sociale e di grandi opere architettoniche.8 In passato, le strutture monumentali non erano state di natura privata, bensì civile, per esempio i templi e le cattedrali costruiti per il piacere e il vanto dell’intera comunità. Queste strutture caratterizzavano la città in modo unico e mantenevano vivo l’orgoglio civico. Al contrario, gli edifici contemporanei erano costruiti per l’ostentazione privata ed esprimevano denaro invece che bellezza e cultura: ne erano prova gli orrori architettonici della fine del xix secolo a Berlino, Monaco e in altre città. Se il destino di Roma dovesse toccare a Berlino, le generazioni future si ritroverebbero un giorno ad ammirare i grandi magazzini di qualche ebreo come modello delle più importanti opere della nostra era e gli alloggi di qualche corporazione come esempio tipico della cultura dei nostri tempi.9

Nei secoli precedenti i principi germanici erano stati mecenati esemplari delle arti, ma i loro successori si erano rivelati «ridicoli». Hitler commentò con disgusto che il vecchio governo imperiale aveva speso in una singola battaglia il doppio di quanto era stato necessario per costruire il nuovo edificio del Reichstag, una struttura pensata per riflettere la gloria del nuovo Reich. Questo grossolano materialismo aveva distrutto «l’animo artistico» del paese.10 In un altro capitolo, “Nazione e razza”, Hitler sviluppò il suo concetto delle fondamenta razziali dell’arte. L’intero regno animale, scrisse, era diviso in forme alte e forme basse; laddove queste si mescolavano, la razza più alta veniva danneggiata: «Il mescolamento del sangue ariano con quello di persone inferio-

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ri ha come risultato la fine del popolo colto».11 Continuò poi dividendo il genere umano in tre gruppi: fondatori di cultura, portatori di cultura e distruttori di cultura. Gli ariani erano fondatori di cultura: «Tutta la cultura umana, tutte le arti, la scienza e la tecnologia che vediamo oggi sono quasi esclusivamente il prodotto della creatività ariana».12 I giapponesi erano un esempio di portatori di cultura, in quanto adattavano ai propri usi le conquiste degli ariani. Con il tempo, scrisse Hitler, «tutto l’Est asiatico possiederà una cultura il cui fondamento più lontano è ellenico nello spirito e germanico nella tecnologia». La cultura tradizionale avrebbe continuato a «determinare il colore della vita», ma le attività quotidiane avrebbero poggiato sulle «enormi conquiste tecnico-scientifiche dell’Europa e dell’America: vale a dire degli ariani». Se l’influenza ariana si fosse esaurita, il Giappone sarebbe stato destinato a regredire, poiché il suo popolo mancava di impulso creativo indipendente. Quanto agli ebrei, trattandosi di una tribù disorganizzata senza un territorio proprio erano privi delle «basi su cui una cultura può sorgere da sola».13 Di conseguenza, «il popolo ebraico, nonostante le apparenti qualità intellettuali, non ha una vera cultura, e soprattutto non ha una cultura propria».14 E certamente «le due regine delle arti, l’architettura e la musica, non devono nulla di originale agli ebrei». Il loro mestiere era l’imitazione, non la creatività, per questo si distinguevano nell’arte meno ori46

ginale di tutte, ovvero la recitazione. Di qui deriva un secondo elemento nella sua teoria sul rapporto tra ebrei e cultura. Privi di creatività e originalità, «ciò in cui riescono nel campo artistico è la mescolanza o il furto intellettuale».15 Perché «l’ebreo […] è sempre e solo un parassita nel corpo di altre persone».16 Si arriva allora al punto decisivo per Hitler: l’ebreo non solo ruba dalla cultura altrui, ma […] contamina l’arte, la letteratura, il teatro, si fa scherno del sentimento naturale, sovverte ogni concetto di bello e sublime, di nobile e buono, e trascina l’uomo nei bassifondi della sua natura.17

Hitler sostenne di essersi reso conto, durante gli anni trascorsi a Vienna, che gli ebrei erano responsabili di «nove decimi di tutto il lerciume letterario, dell’immondizia artistica e delle idiozie teatrali».18 Grazie al controllo che esercitavano sulla stampa promuovevano opere d’arte internazionali, moderniste, bolsceviche e cosmopolite invece che germaniche. A metà degli anni venti, Hitler aveva già spiegato in questi termini la sua filosofia culturale, e i discorsi successivi avrebbero semplicemente ampliato o specificato il suo punto di vista. Uno di questi discorsi – tenuto a Monaco nel gennaio 1928, dal titolo Nazionalsocialismo e politica artistica – analizzò lo scopo sociale dell’arte e il ruolo culturale dello Stato con un’impostazione che recava in


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Hitler mostra agli ospiti d’onore – tra cui Gerdy Troost e Arturo Marpicati, vicesegretario del Partito fascista italiano – la sua scultura preferita, il Discobolo di Mirone, alla Glyptothek di Monaco nel luglio 1938. Il Führer non invitò nessun esponente del proprio partito poiché li considerava culturalmente inadeguati.

nuce le politiche che il Führer avrebbe messo in atto una volta conquistato il potere.19 Diventato cancelliere, si servì dei raduni del partito a Norimberga per salire in cattedra e impartire ogni anno una lezione culturale rivolta al partito e alla nazione. Queste lezioni rivestivano enorme importanza, al punto che veniva convocata una sessione speciale – la Kulturtagung – dedicata esclusivamente alla cultura, nella preparazione della quale Hitler impegnava moltissimo tempo e profondeva immani sforzi per comporre questi «vertici della mia oratoria», secondo quanto riportato da Speer.20 Somministrandosi una massiccia dose di Wagner ogni agosto a Bayreuth, Hitler si ritirava esaltato nella grandiosità alpina del Berghof e metteva nero su bianco i suoi pensieri. Uno dei suoi argomenti preferiti riguardava il fatto che la civiltà occidentale avesse raggiunto la sua maggiore fioritura nel bacino del Mediterraneo con le civiltà egizia, greca e romana. Hitler nutrì in particolare un’ammirazione sconfinata per i greci e, sotto diversi aspetti, le sue posizioni ricordano molto quelle del grande Johann Joachim Winckelmann. Non c’è modo di sapere se Hitler, famoso borseggiatore al mercato delle idee, avesse davvero preso spunto dal pioniere della storia dell’arte, ma l’affermazione di Winckelmann secondo cui «l’unico modo che abbiamo di diventare grandi […] è imitare i greci» fu certamente

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ripetuta da Hitler quasi parola per parola in diverse occasioni. Il Führer vedeva nella cultura greca un ideale estetico impareggiabile:21 Ciò che fa del concetto greco di bellezza un modello è la meravigliosa combinazione della più straordinaria bellezza fisica con una mente brillante e un’anima nobilissima.22

I greci avevano dunque raggiunto la perfezione in ogni campo. Per Hitler il Partenone era sublime e lo stile architettonico che lui stesso in seguito avrebbe promosso fu all’inizio un pastiche dello stile neodorico. A suo modo di vedere, la scultura greca non era mai stata superata e uno dei pezzi più pregiati in suo possesso fu la più bella copia sopravvissuta del Discobolo di Mirone, acquistata nel 1938. Nell’esporla, Hitler lo glorificò come un modello estetico per ogni epoca: «Potete comprendere quanto già allora l’uomo fosse glorioso nella bellezza fisica» disse una volta al suo uditorio.23 «Possiamo parlare di progresso solo se abbiamo ottenuto la perfezione o se cerchiamo di superarla.» Il dittatore ammirò i greci anche per «l’eccellenza del loro pensiero»24 e sostenne che «a essi mancò soltanto la nostra tecnologia». Pur non essendo credente, apprezzò anche la religione greca, e probabilmente il suo entourage stentò a credere alle proprie orecchie quando lo sentì dire: «Non dovremmo correre nessun pericolo 48

oggi a pregare Zeus».25 Hitler oppose la serenità e la forza dell’iconografia pagana all’immaginario cristiano di dolore e sofferenza: «Basta guardare la testa di Zeus o Atena e metterla a confronto con una scena medievale di crocifissione o di qualche santo».26 La differenza era visibile anche nell’architettura: «Quanta diversità tra una buia cattedrale e un antico tempio luminoso e aperto». In conclusione, la civiltà greca rappresentava «una bellezza che supera tutto ciò che è visibile oggi». Questo entusiasmo non lo abbandonò mai. Nel 1941, quando la Wehrmacht oltrepassò il confine greco dopo aver devastato la Jugoslavia avanzando attraverso i Balcani, Hitler espresse davanti a Goebbels la propria ammirazione per il coraggio dell’esercito greco: «Forse in loro rimane ancora una traccia dell’antica stirpe ellenica». Il Führer, ricorderà il ministro, proibisce di bombardare Atene […]. Roma e Atene sono le sue città sante. Gli dispiace molto dover combattere contro i greci. Se gli inglesi non si fossero insediati là, egli non si sarebbe mai mosso in aiuto degli italiani.27

Poche settimane dopo, Goebbels trovò Hitler di nuovo rammaricato di aver dovuto attaccare la Grecia, come prima cosa. I greci non hanno fatto nulla per meritarselo. Ha intenzione di trattarli il più umanamente pos-


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sibile. […] Guardiamo la nostra entrata in Atene, al cinegiornale. Il Führer non riesce quasi a godersela, tanto è commosso dal destino della Grecia.28

La stima di Hitler per i romani fu di natura diversa. Ammirava la loro «grandezza», il loro «impero mondiale», la loro «potenza imperiale».29 L’epoca di Augusto era lo zenit della civiltà occidentale.30 «L’antica Roma fu uno Stato straordinariamente importante. I romani furono ispirati da ideali grandiosi.»31 Hitler idolatrò soprattutto l’architettura e la sua duratura influenza sull’Italia. Anni dopo la visita nel Bel Paese, era ancora estasiato: «Roma mi ha toccato profondamente. E il cortile del palazzo Reale a Napoli, che splendide proporzioni, ogni elemento è bilanciato da un altro».32 A Roma rimase in soggezione davanti alla grandezza delle rovine, in particolare davanti al Colosseo e alle Terme di Caracalla. Ma ancora di più lo impressionarono il Pantheon e il Mausoleo di Adriano. Con il tempo, la sua ispirazione architettonica si spostò dai greci ai romani, con i loro palazzi, le volte, gli archi e i colonnati. Hitler compianse sempre la caduta dell’Impero romano e, avendo riflettuto a lungo sulle sue cause, giunse infine alla conclusione che «Roma fu distrutta dalla cristianità e non dai teutoni o dagli unni».33 Commentando la rappresentazione della Passione a Oberammergau, cui assistette nel 1930 e nel 1934, sembrò addirittura giustificare la crocifissione di Gesù: Raramente la minaccia ebraica all’antico mondo romano è stata illustrata in modo così vivido come nel Ponzio Pilato di questa rappresentazione; costui appare come un romano così superiore dal punto di vista intellettuale e della razza da stagliarsi come un masso in mezzo alla feccia e allo sterco ebraici.34

Se non fosse stato per i cristiani, affermò in un’altra occasione, Roma avrebbe mantenuto il controllo su tutta l’Europa e le sue legioni avrebbero distrutto le tribù unne, imprimendo un corso completamente diverso alla storia europea. «Si sarebbe dovuto parlare di “Costantino il Traditore” e di “Giuliano il Fedele”, invece che chiamarli uno “il Grande” e l’altro “l’Apostata”.» Hitler pronunciò l’affermazione sugli unni in presenza di Himmler – che il Führer si divertiva a deridere – e fu senza dubbio una frecciata intenzionale. Razzista ancor più primitivo di Hitler, Himmler glorificava le antiche tribù germaniche e promuoveva scavi archeologici nei loro siti preistorici, suscitando l’aperto disprezzo del dittatore. Speer ricordò di avergli sentito dire una volta: Cos’è questo voler dimostrare a tutto il mondo che non abbiamo un passato? Non basta che si sappia che i romani costruivano dei grandi edifici quando i nostri an-

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tenati si accontentavano di capanne di fango: Himmler vuol farle proprio vedere, queste capanne di fango, e cade in ammirazione davanti a ogni coccio d’argilla e a ogni ascia di pietra che gli capita tra i piedi. In tal modo non facciamo che proclamare a tutto il mondo che, quando la Grecia e Roma avevano ormai raggiunto un livello culturale altissimo, noi eravamo bravi soltanto a lanciare asce di pietra o a starcene accoccolati intorno ai fuochi all’aperto. Avremmo tutti i migliori motivi di lasciar dormire nel silenzio questo nostro passato. Ecco invece che Himmler lo strombazza ai quattro venti! I romani di oggi devono farsi belle risate di scherno davanti a simili ritrovamenti!35

Ma come faceva Hitler a conciliare l’ascendente culturale dei popoli del Mediterraneo con quel concetto di supremazia ariana alla base di ogni sua convinzione? Riprendendo la vecchia teoria del dominio dei popoli del Nord su quelli del Sud, espresse l’opinione – di per sé storicamente rispettabile – secondo cui i dori erano barbari del Nord che avevano invaso la Grecia nella Völkerwanderung postminoica. Argomentò, quindi, che le tribù germaniche si erano divise in due, un gruppo di uomini di mare migrò verso sud, dove diede vita a «un’arte eterna: l’arte greco-nordica»,36 mentre un altro gruppo rimase nelle capanne di fango. 50

I teutoni devono andare in un clima assolato per sviluppare le proprie capacità. Lo spirito teutonico fiorì davvero per la prima volta in Grecia e a Roma. […] I teutoni che rimasero nell’Holstein erano ancora zotici dopo duemila anni, mentre i loro fratelli emigrati in Grecia si elevarono alla cultura.37

Al tempo di Hitler, invece, la cultura si poneva in contrasto con i grandi modelli classici. Non fu l’unico a dire che i barbari, ovvero i modernisti, erano già dentro le mura. In un’epoca in cui i valori erano venuti meno, l’economia era in crisi e la politica versava in stato confusionale – il bestseller internazionale Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, uscito negli anni venti, catturò bene il diffuso senso di fatalità –, il movimento modernista rifletteva e consolidava un sentimento popolare di cinismo e ansia. Il fascino che Hitler esercitò sulle masse consistette per lo più nella sua promessa di ordine, sicurezza e protezione dalla vita moderna e dalle sue insoddisfazioni. Discorso dopo discorso, incoraggiò e aizzò la gente a opporre resistenza al decadimento culturale. Com’è stato ben sottolineato, espresse in modo crudo e brutale le paure e le avversioni di coloro che non si sentivano a proprio agio nel mondo moderno, che erano ossessionati dall’idea di decadenza e declino, e che erano convinti che un atto di volontà potesse riaffermare il controllo su quella che consideravano una storia europea sbagliata.38


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Hitler parlava dunque con il cuore, ma si rivolgeva direttamente anche al cuore di molti altri. Il Modernismo aveva sollevato ostilità ovunque, da New York a Londra, da Budapest a San Pietroburgo. Ovunque c’era qualcuno che lo considerava una forma di pazzia diffusa da un mondo sinistro di anarchici depravati. Ma solo in Germania il fenomeno si sviluppò fino a trasformarsi da problema estetico in disputa ideologica e da disputa ideologica in vera e propria guerra politica. Quel che avvenne fu letteralmente un Kulturkampf, una “battaglia culturale”, sulla scia della titanica lotta tra conservatori e modernizzatori seguita all’unificazione del 1871. In ambito culturale, la disputa iniziò apertamente nel 1893 quando Max Nordau, pioniere del sionismo, pubblicò il suo famoso libro Degenerazione, in cui applicava il concetto di degenerazione biologica al declino culturale. A suo modo di vedere, le società erano organismi viventi, soggetti al normale processo umano di nascita, crescita, decadimento e morte. Su questa base, la degenerazione della pittura diventava il prodotto della degenerazione biologica dei pittori, i quali, tra gli altri disturbi, soffrivano di debilitazione cerebrale e difetti della vista. Gli impressionisti, per esempio, erano vittime di disturbi al sistema nervoso e alla retina. Simili degenerati erano nemici della società, «parassiti antisociali»39 che andavano «schiacciati senza pietà». Nordau propose di trattarli alla stessa stregua dei criminali o di rinchiuderli nei manicomi. Rifacendosi a idee simili, il popolare scrittore Julius Langbehn sostenne che le arti riflettevano lo stato di salute della società; nel campo artistico, infatti, i cambiamenti di stile e le mode non erano solo antiestetici, ma anche antisociali. Nordau e Langbehn conobbero entrambi una nuova giovinezza grazie all’architetto e storico dell’arte Paul Schultze-Naumburg, che negli anni della Repubblica di Weimar sintetizzò il loro pensiero in un credo politico-culturale. «Nell’arte si sta combattendo una lotta per la vita, proprio come accade nell’ambito politico»40 scrisse nella sua opera dall’appropriato titolo Kampf um die Kunst (“Battaglia per l’arte”). Nel 1928 pubblicò Kunst und Rasse (“Arte e razza”), dove ampliò il concetto di Nordau di degenerazione artistica, affermando per esempio che l’Espressionismo era un sintomo patologico, una malattia. Per diffondere le proprie idee, nei primi anni trenta Schultze-Naumburg viaggiò per il paese mostrando diapositive di deformità cliniche e confrontandole con le opere di artisti quali Barlach, Kirchner e Nolde. Il lessico usato da Nordau, Langbehn e Schultze-Naumburg è rintracciabile nei discorsi di Hitler e nelle sue osservazioni private. Accanto a una Germania illuminata e umana c’era una Germania che, dopo l’unificazione del 1871, idolatrava il sangue e il ferro, apprezzava l’irrazionalità e l’intuito, rifiutava gli ideali dell’Illuminismo, respirava sciovinismo e antisemitismo. Hitler approfittò di questo sentimento e lo traspose nella quotidianità della politica, e poi nei teatri lirici, nelle sale da concerto e nei musei. Le forme d’arte modernista furono insultate in termini politici come “bolscevismo culturale”, “bolscevismo artistico” e “bolscevismo musicale”. Quale fosse il portato di queste espressioni di

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largo uso e quale la reale ampiezza delle diffamazioni fu ben espresso dal pubblicitario Carl von Ossietzky sulle pagine della rivista Weltbühne, nell’aprile 1931: Quando un direttore d’orchestra detta i tempi in modo diverso dal suo collega Furtwängler, quando un pittore dà al tramonto un colore differente da quello che si può vedere anche in piena luce nella Bassa Pomerania, quando qualcuno favorisce il controllo delle nascite o costruisce un tetto piatto, tutto questo è bolscevismo culturale, proprio come la rappresentazione di un parto cesareo in un film. Il bolscevismo culturale è promosso dall’attore Chaplin, e quando il fisico Einstein dichiara che il principio della velocità costante della luce si applica solo in assenza di un campo gravitazionale, anche questo è bolscevismo culturale e costituisce un favore personale a Stalin. Il bolscevismo culturale è la democrazia dei fratelli Mann, il bolscevismo culturale è una composizione di Hindemith o Weill, considerate alla stessa stregua delle richieste rivoluzionarie di un pazzo che sostenga una legge che gli permetta di sposare sua nonna. Tutte queste cose, che siano fatte a pagamento o a titolo gratuito, sono servizi resi a favore di Mosca.41

Le parole di von Ossietzky esprimevano l’umore di Hitler e di moltissimi altri tedeschi convinti che modernisti, liberali, internazionalisti, bolscevichi ed ebrei – i 52

termini erano equivalenti – stessero distruggendo la cultura occidentale. La degenerazione politica e il decadimento culturale camminavano mano nella mano. Hitler enunciò pubblicamente quest’idea nel 1935, in un discorso carico di emotività tenuto durante la sessione culturale del raduno del partito.42 In un prologo dalla retorica violenta, sfogò la rabbia a lungo repressa contro la moderna vita politica e culturale. Vantandosi di aver fatto in modo che le istituzioni dell’era prenazista venissero «abbattute», «distrutte», «colpite e inseguite», «annientate» ed «eliminate», Hitler minacciò conseguenze simili anche nel mondo dell’arte. I fautori del Modernismo erano «criminali del mondo della cultura», «distruttori della nostra arte», «banali imbrattatele», «stupidi o furfanti», «imbecilli degenerati» che meritavano «la prigione o il manicomio», «incompetenti, imbroglioni e pazzi» che non potevano essere lasciati liberi di circolare, «miseri sfortunati che soffrono chiaramente di difetti della vista» e che dovrebbero essere consegnati alla polizia o al tribunale. Le loro opere erano «crimini», «creazioni di un’immaginazione malata», «scimmiottatura giudeo-bolscevica dell’arte», «pazzia bolscevica» e così via. La cultura modernista, insomma, era perversione: aveva distorto la natura e la verità, e quanto aveva prodotto a livello visivo e uditivo era sgradevole, incoerente, incomprensibile, scioccante, deprimente, grottesco. Lo stile e la sostanza della grande arte erano radicati nelle «realtà storiche» e seguivano «princìpi eterni». Ma rompendo volontariamente con il passato, avventurandosi in territori sempre nuovi e andando alla ricerca costante di nuovi modi per interpretare il mondo, il Modernismo era allo stesso


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tempo frivolo e rivoluzionario. La grande arte doveva unire la gente, non dividerla. Il Modernismo, invece, non era altro che «un argomento di conversazione tra esteti tubercolotici». Una simile «attività artistica dadaista» non solo era stata rifiutata, ma anche ignorata da quasi tutti, con il risultato che cultura e società si erano sviluppate separatamente. Dopo il suo sfogo, Hitler si placò, dedicando gran parte del proprio discorso al tema che più lo interessava in quel periodo: la cultura contrapposta al denaro. Affrontò così – come sempre, con grande forza di persuasione – un problema che tutti i governi, e perfino tutte le dittature, devono affrontare: quale giustificazione dare allo stanziamento di fondi pubblici per l’alta cultura? Anche il dittatore sentiva la necessità di spiegare perché la Germania dovesse dedicare ingenti somme alle arti e ai progetti di grandiosi edifici pubblici, proprio quando aveva appena iniziato a riprendersi da una guerra devastante, da un’inflazione catastrofica e da una crisi economica mondiale. Hitler formulò allora la domanda: È giusto avviare la costruzione di opere ingegneristiche e edifici monumentali invece che limitarci solo a quanto c’è di pratico e assolutamente necessario in questo momento? […] Possiamo permetterci sacrifici nel nome dell’arte in un periodo in cui viviamo circondati da povertà, sofferenza, miseria e malcontento? In ultima analisi, l’arte non è forse solo il lusso di una piccola minoranza? Che cosa ha a che fare tutto ciò con l’approvvigionamento di pane alle masse?

In risposta elencò quattro punti, il primo dei quali affermava che non si doveva osare interrompere l’attività artistica, nemmeno per un periodo limitato. In tempi difficili, non era possibile mandare in pensione gli artisti tanto quanto non era fattibile farlo con i matematici e i fisici. Sarebbe stato un danno non solo per un settore della società, ma per l’intera nazione. Proviamo a fare un esempio. L’opera può essere considerata come il frutto più caratteristico del teatro neoclassico. Se le attività coinvolte nella produzione operistica dovessero essere sospese per un periodo più o meno breve – anche se temporaneamente, con l’intenzione di restituire l’opera ai suoi antichi fasti –, quale sarebbe la conseguenza? Le prove di palcoscenico e altre operazioni necessarie verrebbero sospese. E le conseguenze non finirebbero qui, ma si estenderebbero al pubblico generale. Al pari degli interpreti, anche il pubblico ha bisogno che la propria capacità di apprezzare gli spettacoli sia sempre in evoluzione e in esercizio, e ciò richiede che l’opera sia sempre a disposizione.

Le arti, e in realtà tutti gli atteggiamenti creativi, sono interconnessi, affermò Hitler. L’artista ispira il pubblico e il pubblico produce l’atmosfera in cui le forze creative possono manifestarsi.

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Ciò conduce Hitler a un secondo punto: poiché lo stato delle arti e lo stato della società sono direttamente connessi, è proprio quando le persone sono «oppresse da preoccupazioni e problemi» che necessitano della nobilitante ispirazione culturale per avere riassicurazioni sulla propria grandezza nazionale. «L’arte è il fondamento di un popolo, perché lo solleva dalle preoccupazioni insignificanti del momento e gli mostra come, in fin dei conti, le disgrazie personali non sono poi di grande importanza.» Di qui, l’argomentazione successiva: la povertà è sempre esistita e spendere denaro per l’arte non avrebbe alterato questo fatto. Qualcuno crede forse che, se i greci non avessero costruito l’Acropoli, allora ad Atene ci sarebbero state meno miseria e povertà? O che il Medioevo non avrebbe conosciuto sofferenza umana se si fosse rinunciato a costruire le cattedrali? […] Non c’erano poveri in Baviera prima che Ludovico [i] cominciasse a pianificare il suo grande edificio?

Il concetto che il commercio dovesse prevalere sull’estetica era per lui un anatema. In conclusione, Hitler tornò a formulare l’accusa secondo cui l’arte era un 54

lusso per l’élite. La stessa obiezione, sostenne, può essere sollevata allo stesso modo, e sulle stesse erronee basi, nei confronti di altre attività in campi diversi. Nessuno può dire che le masse siano in grado di apprezzare gli sviluppi teorici della chimica o della fisica né qualsiasi altra ricerca scientifica o intellettuale. In realtà, insisteva il dittatore, le arti esercitano un’attrazione ben più ampia delle scienze. L’arte riflette l’immagine più chiara e immediata della vita spirituale di un popolo. Essa esercita un grandissimo ascendente sulle masse a livello consapevole e inconsapevole […]. Nelle sue migliaia di manifestazioni e influenze, giova all’intera nazione […].

Erano argomentazioni forti, anche se importava poco che persuadessero o meno la gente, giacché venivano pronunciate da un dittatore. Ma perfino un dittatore non poteva alterare il fatto che la loro solidità veniva seriamente minata se si ignorava il divario, enorme e crescente, tra cultura alta e cultura di massa. Radio, grammofono, fotografia, riviste illustrate e cinema avevano creato nuove forme di arte che godevano di un pubblico vasto e variegato. Si erano sviluppate due culture diverse: quella alta e quella bassa, quella di élite e quella popolare. Hitler guardava con ammirazione al mondo prima del xx secolo, quando la cultura alta era davvero la forma d’arte dominante e i gusti erano dettati dai mecenati colti e dall’élite culturale. Ma negli anni trenta quei tempi erano già


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andati. E Hitler non riusciva ad accettarlo. Di conseguenza, la sua politica culturale si basò su una grande contraddizione: da un lato, esortava gli artisti a rendere la loro arte accessibile al pubblico; dall’altro, voleva che al pubblico piacesse lo stesso tipo di arte che piaceva a lui. Così, per tutta la vita, a prescindere che fossero condivisi o meno, Hitler cercò di imporre al popolo tedesco il proprio gusto e i propri ideali estetici.

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