te. Insegna Museologia del contemporaneo presso l’Accademia di Brera di Milano. Ha pubblicato This is contemporary! Come cambiano i musei d’arte contemporanea (2007) e Lo sboom. Il decennio dell’arte pazza tra bolla finanziaria e flop concettuale (2009), oltre a numerosi saggi in volumi
«Ma soprattutto si è cercato di raccontare il piacere dell’arte, il percorso di conoscenza, l’interrogazione di sé, il sapere dello sguardo, la passione accesa e vorace che assorbe molte energie […] la voglia di scommettere sul futuro, l’avventura che il far crescere una collezione può rappresentare nella vita di un individuo.» Dalla prefazione di Adriana Polveroni
collettanei e in cataloghi. Dal 2012 è direttrice di Exibart. Marianna Agliottone è curatrice e critica d’arte, da tempo svolge attività di consulenza per il collezionismo privato. Ha collaborato con numerose riviste di settore tra cui Arte e Critica e Frieze, attualmente è consulente editoriale per Exibart.
Polveroni – Agliottone Il piacere dell’arte
Adriana Polveroni è giornalista e critica d’ar-
Come un bacillo virulento che si propaga in modo incontrollato, il collezionismo può indurre chi ne è affetto a veri e propri eccessi, come sgomberare case per lasciare posto alle opere o dilapidare interi patrimoni per una voglia di possesso così forte da diventare difficilmente governabile. Che cosa ne accende la scintilla?
Il piacere dell’arte Pratica e fenomenologia del collezionismo contemporaneo in Italia
Propensione alla speculazione finanziaria, puro piacere intellettuale o il desiderio di diventare “qualcuno” poggiando sull’arte le fondamenta del proprio prestigio sociale? Se molti sono i motivi e gli approcci possibili, da quello militante a quello passionale, mettere insieme una collezione rappresenta comunque un percorso di conoscenza verso la scoperta di sé. Il piacere dell’arte offre un quadro del collezionismo contemporaneo in Italia, che in tempi recenti ha assunto un passo sempre più autorevole non solo per l’intraprendenza delle iniziative,
Adriana Polveroni Marianna Agliottone
ma anche per la crescente progettualità che caratterizza molte raccolte. Partendo da fondamentali cenni storici, indagando quindi l’humus in cui sono emerse figure di spicco come Giorgio Franchetti, Giuseppe Panza e Marcello Levi e lasciando infine la parola ai protagonisti contemporanei, il libro mira anche a identificare le cause di una “mancata modernità” del collezionismo italiano, imbrigliato da vincoli come la notifica e un’iva fra le più alte d’Europa. Se tali impedimenti burocratici e fiscali da un lato frenano il dialogo con le istituzioni (a differen-
Nella stessa collana:
za di quanto accade oltreoceano dove le dona-
1. Karine Lisbonne – Bernard Zürcher,
zioni ai musei sono incentivate da sgravi),
Arte contemporanea: costo o investimento?
dall’altra danno luogo a un forte sviluppo
Una prospettiva europea
dell’iniziativa privata favorendo l’apertura al pubblico di numerose fondazioni. È questo il
2. Olav Velthuis, Imaginary economics Quando l’arte sfida il capitalismo
€ 22.00
tratto più peculiare del panorama italiano, una
3. Paul Werner, Museo S.p.a.
realtà complessa e ricca di sfaccettature le cui
La globalizzazione della cultura
potenzialità risultano tanto più interessanti da
4. Alexander Alberro
indagare quanto più essa presenta una declina-
Arte Concettuale e strategie pubblicitarie
zione sociale e un carattere di organicità.
Adriana Polveroni – Marianna Agliottone
Il piacere dell’arte Pratica e fenomenologia del collezionismo contemporaneo in Italia
PARTE PRIMA Il collezionismo contemporaneo in Italia. Cenni storici
a cura di Adriana Polveroni
1 Anni quaranta. Le origini a Milano
La nascita del collezionismo italiano contemporaneo non è di facile datazione, tende a sfilacciarsi lungo date incerte, impasse che sottende una questione più complessa: che cosa si intende per collezionismo italiano contemporaneo e qual è l’episodio o il contesto che consente di fissarne l’origine, in modo tale da segnare una differenza qualitativa tra un prima e un dopo? Stando alla definizione convenzionalmente assunta di arte contemporanea, dovremmo datarne il collezionismo a partire dal 1968. Ma, come la genesi dell’arte contemporanea non si esaurisce in un episodio singolo, ma procede piuttosto per accumulazioni progressive, così la raccolta che a essa si riferisce si configura come un processo che ha un’origine “diacronica”, che si estende, vale a dire, in un orizzonte prospettico, piuttosto che essere rintracciabile in una puntualità “sincronica”. Il collezionismo, inoltre, è una pratica e di questa condivide il carattere processuale, quindi complesso e necessariamente diacronico. Tuttavia, non si può ignorare che nel Novecento anche all’interno di questa pratica vi sia stato qualcosa come una frattura, esattamente come una cesura è avvenuta nell’arte per cui si distingue tra moderno e contemporaneo. Secondo la testimonianza di alcuni protagonisti, come Giuseppe Panza e Marcello Levi, la data si situa a cavallo degli anni cinquanta, circa un decennio dopo, quindi, anche rispetto ai loro primi acquisti.1 Si tratta di un momento assunto da loro stessi come svolta, in qualche modo epocale, del loro rapporto con l’arte e, in particolare, con l’attitudine a collezionarla secondo modalità inedite. In realtà, già almeno un decennio prima si erano manifestati delle personalità e un interesse verso questa pratica che segnavano una discontinuità con il passato anche recente e che possono essere assunti come le origini storiche dell’attuale collezionismo. Questa nuova stagione ha un luogo di elezione: Milano. Il capoluogo lombardo non è l’unica città dove si respira il rinnovato interesse verso l’arte, ma, più che a Torino e, in seconda battuta, a Roma,
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è qui che si concentrano quelle figure identificabili come «i primi collezionisti degni di questo nome», secondo la definizione che ne dà il critico e attento osservatore dei fenomeni legati all’arte Giuseppe Marchiori. I nomi sono quelli di Riccardo Jucker, Emilio Jesi, Carlo Frua de Angeli, Lamberto Vitali, Gianni Mattioli, professionisti nei più disparati settori – Jucker, di origine svizzera, è industriale e banchiere, Vitali importatore di coloniali, Jesi mercante di caffè, Mattioli venditore di cotoni sodi, industriale tessile anche Frua de Angeli – che spesso uniscono la passione per l’arte a un’attenzione critica verso di essa (è il caso soprattutto di Lamberto Vitali) e alla protezione di alcuni artisti come facevano i mecenati di un tempo: Riccardo Jucker ed Emilio Jesi sostengono, tra altri, Marino Marini; Gianni Mattioli si lega fortemente a Depero; Carlo Frua de Angeli è vicino a Picasso, Braque, Klee, Matisse, de Chirico, Modigliani, Manzù (le cui opere vengono accatastate nelle case di Parigi e di Milano), senza tralasciare italiani di minore fama come Alfredo Chighine. È il momento in cui, in breve, la figura del collezionista si definisce come una stratificazione di più attività e competenze, che ruotano a vario titolo intorno alla nuova arte. Non è trascurabile, infine, che alcuni di questi personaggi siano di estrazione ebraica (Jesi e Vitali) – co16
sì come lo erano molti degli Amici di Brera, associazione soppressa nel 1939 dal governo fascista – elemento che rallenta quel processo di pubblicizzazione delle collezioni, impedendo per esempio di rivelare la provenienza delle opere esposte in alcune mostre: è il caso dei prestiti fatti da Jesi per la rassegna sul “Disegno contemporaneo” che nel 1940 il sovrintendente di Milano Gian Alberto dell’Acqua allestisce nella Pinacoteca di Brera, svuotata della maggior parte delle opere messe al riparo tra siti ritenuti sicuri nella stessa città e rifugi più lontani, come villa Fenaroli a Seniga d’Oglio e villa Marini Clarelli a Montefreddo, vicino a Perugia. Ma sono ancora altre le caratteristiche di questa prima generazione di collezionisti moderni che ci interessa osservare. Centrale è il ruolo delle gallerie che questi esponenti della borghesia milanese frequentano, pur avendo spesso un rapporto diretto con gli artisti di cui sono anche committenti, fatto che li porta a scavalcarle. Intrattengono relazioni piuttosto strette tra di loro che vanno oltre la consueta frequentazione d’amicizia. Gianni Mattioli, per esempio, realizza la propria collezione acquistando anche da altri collezionisti, come Pietro Ferodi e Carlo Frua de Angeli, comportamento che rimane immutato negli anni successivi, quando gli interlocutori saranno Beatrice Monti, Giuseppe Panza, Graziano Laurini e Italo Magliano, sempre provenienti dall’entourage milanese. Spesso collezionano in coppia, condividendo
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la passione per l’arte insieme alla propria compagna: Riccardo Jucker con la moglie Magda, Emilio Jesi con la moglie Maria e, per ora, sono assenti le figure femminili come espressioni di un collezionismo in prima persona, con l’eccezione, qualche decennio prima, della marchesa Luisa Casati Stampa, turbolenta e ingovernabile frequentatrice di arte e di artisti, nel cui mondo si ritaglia il ruolo di “opera d’arte vivente”.2 A volte ereditano un’attitudine appresa in famiglia: Jucker è alla seconda generazione di collezionisti e molto spesso è l’incontro con l’artista la scintilla che fa esplodere la passione. Così è per Gianni Mattioli che, in occasione della mostra di Fortunato Depero presso la Galleria centrale d’arte Moretti a Milano nel 1921, conosce Marinetti e, sebbene poco più che ventenne ma già affascinato da Boccioni, aderisce all’estetica futurista per poi rivolgersi in un secondo momento alla Metafisica, di cui diviene un collezionista fondamentale anche per l’affermazione dello stesso movimento.3 Ma c’è dell’altro. La caratteristica più rilevante e che segna la discontinuità cui abbiamo accennato è che in queste collezioni – il riferimento è soprattutto a Jesi, Jucker e Mattioli – «per la prima volta si vede un disegno dell’arte italiana moderna in netto contrasto con la storia ufficiale».4 Le scelte rivelano una netta vocazione internazionale, con interessi verso le avanguardie storiche straniere, come si nota in una delle prime mostre in cui il collezionismo italiano si espone, “La pittura moderna straniera nelle collezioni private” (1961). La mostra, allestita alla Galleria d’arte moderna di Torino, uno dei primi musei pubblici a intraprendere una ricerca sul collezionismo privato (la prima iniziativa risale addirittura al 1959, allorché viene presentata la collezione Mattioli), fornisce una lente alquanto nitida attraverso la quale osservare il fenomeno. Sfogliando il volume che accompagna la mostra, balzano agli occhi alcune peculiarità.5 Vi compaiono diverse collezioni, alcune delle quali destinate a rimanere scolpite nella memoria delle nostre raccolte d’arte: oltre a quelle già citate, figurano, tra le altre, quelle di Achille Cavellini, Giuseppe Panza, Antonio Mazzotta, Attilio Codognato e Aldo Zegna, e altre invece dimenticate o di cui non si sa più nulla. Ma il più delle volte non si trova indicazione della collezione: le opere in mostra rimangono per lo più anonime – elemento che continua a caratterizzare il collezionismo contemporaneo – e sono contraddistinte solo con il nome della città di provenienza, con una concentrazione che privilegia Milano, poi Torino, Venezia e Roma. Il Sud è completamente assente, fatto che pone una domanda: se si tratti di una scelta dell’autore o dovuta all’assenza del collezionismo al di sotto della capitale. Lacuna che, come vedremo tra poco, sarà colmata con la nascita di
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alcune importanti collezioni a Napoli e a Bari. Infine, il più delle pagine è occupato da opere straniere: di impressionisti, surrealisti, fauves, espressionisti e vi risuonano i grandi nomi di Picasso, Kandinsky, Van Dongen e di altri protagonisti dell’arte moderna. Forse non sempre si tratta di collezioni che presentano quel tratto di sistematicità che si sviluppa più decisamente in seguito – già in quegli anni Marchiori distingue tra “collezionisti passionali” e “collezionisti sistematici”, per i quali la raccolta è indirizzata prevalentemente a fare il punto su un certo movimento artistico con l’ambizione di acquisire quante più testimonianze possibili – ma l’impulso alla crescita e l’apertura verso quello che accade fuori dall’Italia e addirittura fuori dall’Europa, che comincia a non essere avvertita come il centro del mondo, sono molto nette (esemplare in questo senso è la collezione di Riccardo Jucker che, con Picasso, Braque, Mondrian, Klee e altri protagonisti d’inizio Novecento, corregge l’impostazione molto italiana data dal padre Carlo, primo collezionista della famiglia, che si era concentrato soprattutto sui Macchiaioli, Silvestro Lega e Fattori). Crescita e apertura forse favorite anche da quello che Franco Russoli, coautore insieme a Marchiori del catalogo, individua come spinta del nascente collezionismo: l’affermazione 18
del liberalismo come orizzonte culturale ed economico del mondo postbellico. È nell’ambito di un simile collezionismo che comincia a emergere un dato molto interessante che purtroppo non avrà carattere di continuità: il rapporto con le istituzioni, atteggiamento che in seguito, frutto di un’attitudine più elaborata, è stato ribattezzato come “responsabilità sociale del collezionismo”. Quasi tutte le raccolte che abbiamo citato oggi si trovano nei musei pubblici, donate a questi dopo la morte dei loro fondatori, sebbene le famiglie in alcuni casi mostrino insofferenza e accusino quelle stesse istituzioni di valorizzare scarsamente lasciti così importanti. Ma, al di là delle polemiche, non è un caso che la collezione Jesi si trovi a Brera, quaranta opere della Jucker figurino nelle Civiche raccolte d’arte che, insieme alle raccolte Grassi e Vismara, allocate prima presso la Galleria d’arte moderna di Milano, costituiscono oggi il cuore della collezione del Novecento ospitata nel nuovo museo dell’Arengario realizzato da Italo Rota. Ancora più significativa è la donazione della collezione Boschi Di Stefano, «una delle più colte e meno mercantili, creata con parametri precisi, interamente dedicata al Novecento, con un raro approfondimento dell’Informale naturalistico italiano e curata come un diario intimo dai suoi fondatori, i coniugi Antonio Boschi e Marieda Di Stefano, perché nessuna opera è stata venduta o scambiata» spiega Renata Chiazza, conservatore del museo del Novecento.6 Si tratta di duemiladuecen-
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tocinquanta opere, tra cui anche molti Fontana e Manzoni, venti delle quali oggi sono esposte all’Arengario, trecento nella Casa-Museo Boschi Di Stefano, mentre la maggior parte dei pezzi giace nei depositi. Ma ancora prima di diventare patrimonio della collettività, molte delle opere di queste raccolte erano state già esposte. Il collezionista più attento a dare una dimensione pubblica alla propria raccolta è Gianni Mattioli, figura atipica, e in un certo senso pionieristica, anche da altri punti di vista. Rispetto all’apertura internazionale, Mattioli compie una scelta molto precisa: fin dagli anni dell’infatuazione futurista, dove un ruolo importante lo gioca l’amicizia con Fortunato Depero che Mattioli sosterrà con convinzione per tutta la vita, il commerciante tessile comincia ad acquistare opere italiane con il progetto di tracciare un percorso storico della nostra arte quale si era manifestata nei primi anni del Novecento. Le scelte all’inizio vertono soprattutto sui futuristi, la cui quota viene incrementata allorché nel 1931 acquisisce parte delle opere di proprietà di Depero. Gli eventi bellici che seguono di lì a qualche anno frenano la sua attività, ma già nel 1943 Mattioli riprende la ricerca con un disegno ancora più meditato, estendendo i propri interessi fino a configurare un quadro quanto più completo dell’arte italiana. L’obiettivo è anche supplire alle evidenti carenze delle istituzioni pubbliche ferme all’arte del passato che, con questa posizione, non incentivano la conoscenza dell’arte del presente. Mattioli, invece, acquista Carrà, Campigli, De Pisis, Funi, Sironi, de Chirico, Martini, Marini, Manzù. Nel 1949, avvisato da Depero che la sorella di Boccioni, Amelia Callegari, intende vendere uno dei capolavori del fratello, acquista Materia, imponente dipinto del 1912. Nello stesso anno alcune opere della collezione vengono esposte per la prima volta al pubblico nella mostra “Arte italiana del xx secolo” curata per il moma di New York dal direttore Alfred J. Barr e dal critico James T. Soby, collezionisti a loro volta, con una discreta frequentazione della scena artistica del nostro paese. Quattro anni dopo la collezione realizzata fino ad allora viene esposta a palazzo Strozzi a Firenze. L’approccio sistematico, tratto realmente innovativo del modo di interessarsi all’arte, si manifesta anche quando Mattioli rivolge la sua attenzione alla Metafisica, incrementando la presenza di opere di de Chirico e Carrà acquistate qualche anno prima. Nel giro di un paio di decenni, mentre lui e la cugina Fernanda Wittgens, già soprintendente di Brera, diventano consulenti per le acquisizioni di arte moderna di alcuni musei e organizzano mostre dei nostri artisti del Novecento in Italia e all’estero, la collezione Mattioli diventa un progetto organico sull’arte italiana dettagliatamente documentato fino
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alla fine degli anni cinquanta. Non a caso aumentano i viaggi della collezione all’estero, dove tra il 1967 e il 1971 viene esposta nei più importanti musei di allora: il Musée d’art moderne di Parigi, la Tate Gallery di Londra, la Kunsthaus di Zurigo. E dopo l’Europa, cento opere, notificate dal sovrintendente Franco Russoli come «collezione unitaria indivisibile», volano di nuovo oltreoceano, da cui ritornano solo nel 1973. Ma prima di questo tour internazionale Mattioli l’ha già resa accessibile al pubblico milanese, aprendo negli anni cinquanta e sessanta la propria casa a quanti vogliono conoscere l’arte del loro tempo. È la prima volta che ciò accade a Milano e nella sua abitazione in via Senato si incontrano collezionisti, artisti, appassionati d’arte e amici. Questo il lucido commento di Giuseppe Marchiori: «La storia del collezionismo milanese è spesso mescolata all’idea di condivisione pubblica di un piacere nato come indiscutibilmente privato». Rammarica particolarmente che proprio questa collezione, considerata la più esauriente dell’arte italiana della prima metà del Novecento, non abbia trovato ospitalità in un museo italiano. Dopo trattative durate diversi anni e molti intralci burocratici, nel 1997 ventisei opere della raccolta Mattioli vengono accolte dal Guggenheim di Venezia nella forma di prestito a lungo ter20
mine. Già un anno dopo palazzo Venier dei Leoni organizza una mostra dove le espone accanto ai capolavori di Peggy e Solomon Guggenheim. Come è noto, una parte cospicua di un’altra prestigiosa collezione nata in Italia e realizzata da un italiano, Giuseppe Panza, non ha trovato accoglienza nel nostro paese ed è stata venduta a un museo americano, storia che ci introduce al collezionismo contemporaneo vero e proprio, quello che nasce negli anni cinquanta e di cui Panza è tra gli attori più noti, anche grazie alla corposa biografia a lui dedicata cui facciamo spesso riferimento. Ma per affrontare questo periodo occorre spostare l’attenzione sulla scena romana, che apre a ulteriori considerazioni.
2 Anni cinquanta. La capitale dà spettacolo
Lo sfondo è un dopoguerra che si allontana velocemente, illuminato da fasci di luce di colore diverso, quasi dei laser che si incrociano e scoprono nel loro tracciato realtà eterogenee. Intermittente è il raggio che scandisce il ritmo della città, tra ottimismo e cinica pigrizia, forze politiche in ascesa, cemento che comincia a dilagare, una chiesa bacchettona, “poveri ma belli” in lambretta e “vacanze romane” per rampolli americani, Togliatti e Pio xii. È sinistra la luce che mette a fuoco la Roma corrotta del delitto Montesi e cupamente grigia quella che rivela un’altra Roma, la periferia miseramente violenta del delitto di Annarella Bracci, appena undicenne. Accesa è quella che fa brillare uno scenario per certi versi unico: il grande palcoscenico delle arti visive che si sta apparecchiando, con un dettaglio significativo: gli anni cinquanta della Roma postbellica non sono esemplari per la storia del collezionismo, ma sono molto indicativi circa le condizioni che lo rendono possibile e ne consentono l’affermazione. In quegli anni si trascina lungamente un dibattito molto interno all’arte e intriso di politica, venato dalla volontà di rivendicare alla prima un ruolo e una motivazione fortemente sociali. Critici e artisti, ma soprattutto questi ultimi, si dividono tra “astratti e figurativi”. Il decennio sta per chiudersi quando, nel 1959, il dibattito è formalizzato nella rivista Ulisse di Maria Luisa Astaldi, ma sono quasi dodici anni che serpeggia neanche tanto sotterraneo. Fin dal 1947, quando Carla Accardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato danno vita alla rivista Forma, dove con una sintesi spregiudicata si proclamano “formalisti e marxisti”. Posizione problematica che quattro anni dopo rilanciano con L’Age d’or, bottega d’arte che organizza mostre e pubblicazioni, tra cui, in collaborazione con l’Art Club, la storica esposizione “Arte astratta e concreta” allestita alla Galleria nazionale d’arte moderna. Un anno dopo, nel 1952, il critico Lionello Venturi riunisce sotto l’etichetta “astratto e concreto” un gruppo di otto pittori: Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato e
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Vedova. Il bersaglio degli artisti che ora si riconoscono in Forma è duplice: il Neocubismo, reo di partorire un figlio bastardo, il Realismo, e l’arroganza politica che pretende di sottomettere la libera creazione artistica che sperimenta nuovi linguaggi. Il simbolo è Renato Guttuso, pittore del milieu comunista, accesamente figurativo, grondante emozioni e sentimenti nazional-popolari, ma omaggiato, nel suo studio a villa Massimo, da intellettuali autorevoli e di diverse sensibilità: Cesare Brandi, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Roberto Longhi e Giulio Carlo Argan. Eppure, questi stessi anni sono attraversati da fermenti e passioni, interessi e accadimenti che vanno ben al di là delle opposte fazioni espresse dagli astrattisti e dai figurativi. Basti pensare che sottotraccia corre un’altra polemica, destinata a fare più vittime e a gettare la sua ombra anche nei decenni successivi: la crociata antimodernista condotta da Giorgio de Chirico che scompagina le categorie appena citate. Ma più significativo è che, forse, bisogna tornare alla Roma di Giulio ii per ritrovarvi una stessa, così densa concentrazione di artisti, un’uguale centralità dell’arte, che all’epoca non è solo visiva, ma che comincia a trovare nel cinema, questo sì innovativamente neorealista, una sponda sicura, tra mondanità e radicale invenzione. 22
Oltre le già citate Ulisse e Forma, stupisce la quantità di riviste che nascono e magari durano una sola stagione, più spesso alcuni anni, intorno alle quali si coagulano intelligenze, volontà estetiche e politiche insieme: Civiltà delle macchine (1953-57) fondata da Leonardo Sinisgalli, ingegnere di formazione, critico e poeta per vocazione; Spazio (1950-55) diretta da Luigi Moretti che dall’arte apre all’architettura; Paragone fondata nel 1950 da Roberto Longhi; Arti visive (1952-57), nel cui comitato di redazione si incrociano, tra gli altri, Dorazio, Colla, Prampolini e Perilli, accanto a intellettuali come Emilio Villa, Angelo M. Ripellino e dove per la prima volta si parla di alcuni artisti italiani e stranieri: Alberto Burri, Saul Steinberg e Max Bill; Il contemporaneo (1954-56), preziosa sponda dei figurativi fondata da Antonello Trombadori e Carlo Salinari; Città aperta (1956) pensata da Renzo Vespignani per traghettare il Neorealismo al di fuori delle gelatine politiche; L’esperienza moderna (1957-59) fondata da Achille Perilli. Il mercato è in crescita, con trentadue gallerie, censite nel 1955 nel bollettino della Tartaruga di Plinio De Martiis, cui si aggiungono gli spazi anomali, tra circoli, bar e librerie, dove il tempo scorre a un ritmo serrato, con collezioni che nascono quasi per caso: un quadro scambiato per una cena, se si va dai Fratelli Menghi a via Flaminia o dal Re degli amici a via della Croce, e con urgenze incarnate da nuovi artisti e nuovi loro compagni di strada,
· Anni cinquanta. La capitale dà spettacolo ·
critici, poeti, letterati. A Roma ci passano tutti, da Orson Welles ad artisti sconosciuti e squattrinati: Rauschenberg e Twombly che già nel 1952 soggiornano nella capitale; Picasso che nel 1953 vi sbarca con una mostra curata da Lionello Venturi per la Galleria nazionale d’arte moderna; Rothko che ci si sposa; Matta, che, cileno di nascita, vi arriva dopo aver girato il mondo e poi Kline, de Kooning, Gottlieb, Francis e altri ancora. Nel 1953 è presente anche Magritte, ma della mostra fatta alla galleria L’Obelisco da Libero de Libero non si accorge quasi nessuno e l’anno dopo Dalí fa la sua comparsa sbucando da un cubo collocato al Casino dell’Aurora di palazzo Pallavicini al Quirinale. Il mondo dell’arte, tra moltissimi altri indirizzi, sciama da La Salita di via San Sebastianello, fondata da Gian Tomaso Liverani, dove a esporre sono, tra gli altri, Accardi, Novelli, Scialoja, Fontana, Vedova e poi la neo Scuola Romana; il Caffè Greco, che ogni tanto presta i propri spazi all’Art Club, fondato da Prampolini e culla dell’Astrattismo; La Margherita, piccola libreria diretta da Irene Brin, poi alla guida della galleria L’Obelisco, che nel 1947 tiene a battesimo Burri e dove Afro presenta Arshile Gorky; Rosati a piazza del Popolo, soleggiato caffè dove si incontrano tutti gli artisti del momento; la Galleria del Secolo diretta da Ettore Colla, dove nella curatela delle mostre si alternano Giuseppe Marchiori, Lionello Venturi e Palma Bucarelli; e quelle gallerie che diventeranno il laboratorio sperimentale di nuovi talenti e un pezzo di storia dell’arte: La Tartaruga di Plinio de Martiis e L’Attico di Bruno Sargentini prima e poi del figlio Fabio. Accanto a questi e ad altri spazi, c’è un luogo che merita un’attenzione particolare: lo studio di Ettore Colla, chiamato Origine dalla mostra che lo inaugura nel 1951 in cui compaiono Ballocco (che però lascerà ben presto il gruppo), Burri, Capogrossi e lo stesso Colla, che si riconoscono nel Gruppo Origine, sponda della rivista Arti visive, che un anno dopo si trasforma in fondazione. È con questi artisti, diversi tra loro per formazione, destini ed età – Burri ha trentacinque anni, circa cinquanta ne hanno Colla e Capogrossi – che matura qualcosa che avrà esiti decisivi. Intanto Origine si pone fuori dal dibattito che contrappone “astratti e figurativi” per una ragione molto semplice: la ricerca che intraprende, ed esemplare in questo senso è il giovane Burri, guarda altrove. Sperimenta materiali diversi che si allontanano dalla pittura, pone in questione il “segno, il gesto e la materia”, si indirizza verso quella che il critico francese Michel Tapié, pur non riferendosi all’Italia, definisce nel 1952 un art autre. Un’arte che fa a meno della tela e che avrà sensibili ricadute anche sul futuro collezionismo, con Novelli e Afro che già allora virano verso un’estetica informale; con Burri che fa «arte con la materia del mon-
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do: sacchi già macchiati e stampati», come afferma Fabio Mauri; Rotella che con i suoi décollages anticipa il New Dada. Così commenta Maurizio Fagiolo dell’Arco: «È incredibile come il nuovo verbo dell’Informel attecchisca a Roma: un “bacillo virulento”, almeno dal 1951. Altrettanto incredibile è che nessuno se ne sia minimamente accorto».1 E se tutto questo avviene nei nuovi circuiti dell’arte, a volte anche effimeri e affidati alla passione di artisti e critici, decisiva invece è l’azione istituzionale svolta da Palma Bucarelli, soprintendente alla Galleria nazionale d’arte moderna. Tralasciando gli altri meriti riconosciuti alla direttrice della gnam che, prima di ricoprire questo ruolo, aveva svolto un lavoro pionieristico di scouting collaborando con alcune gallerie, basta qui ricordare le mostre da lei promosse che pongono Roma al centro della scena artistica internazionale. Non solo quella già citata di Picasso nel 1953, omaggio quasi dovuto a un artista già celebre, ma soprattutto le rassegne dedicate alla “Pittura americana del xix secolo” e alla “Pittura brasiliana contemporanea” (1954), solo per citare qualche collettiva, e poi le personali di Mondrian (1956), Kandinsky, Richter e soprattutto di Pollock, che nel 1958 sceglie la Città Eterna per la sua prima mostra in Europa. 24
Tutto questo accade a Roma. Che «diventa una capitale del nuovo, accanto a New York e a Parigi, ma quasi tutti si trastullano con piccole scaramucce di retroguardia» osserva ancora Fagiolo dell’Arco.2 Il ruolo centrale che Roma svolge per l’affermarsi di un’arte nuova che avrà il suo sviluppo altrove è lucidamente sintetizzato da Fabio Mauri, non senza un tocco di ironia: «A Roma è stata un’arte pre-povera: era mi-se-ra-bi-le. Del resto l’Italia di quegli anni lo era».3 Eppure, in questo scenario per certi versi unico non nasce alcun collezionismo «degno di questo nome», per dirla con Giuseppe Marchiori. Non lo incentiva neanche la massiccia presenza delle gallerie, in realtà molto lontane dalla struttura commerciale che intendiamo oggi. Molte di esse erano più che altro luoghi di incontro, salotti aperti ad artisti, mondanità e intellettuali, che a volte ne erano anche i titolari poco versati al commercio: come è il caso di Irene Brin e di Plinio de Martiis. Soprattutto le gallerie erano poco rappresentative del mercato stesso, era costume diffuso che un artista vendesse la propria opera autonomamente, a volte anche al di là di una transazione in denaro. Le poche collezioni che si creano non durano: la raccolta di Pietro Campilli, ex ministro democristiano e stretto collaboratore di De Gasperi, pur annoverando tra molti altri pezzi importanti alcuni de Chirico e un Renoir, va dispersa. Altre volte, quando reggono nel tempo, come accade per la raccol-
· Anni cinquanta. La capitale dà spettacolo ·
ta di Cesare Zavattini, composta di molte piccole opere di 10 x 8 cm, si tratta quasi di capricci d’autore, sebbene Zavattini, come altri personaggi del milieu culturale dell’epoca, abbia affiancato alle sue miniature diverse opere regalategli da amici artisti, oltre ad alcuni acquisti fatti da lui stesso: Manzù, Fazzini, Ligabue, De Pisis, Marini fino ai più recenti Melotti, Mambor e Lombardo. Quasi mai si tratta di raccolte sistematiche e “organiche” al nuovo clima culturale, per dirla con un linguaggio mutuato dalla politica. Quando i collezionisti acquistano, l’attenzione è rivolta all’arte del passato, sia pure molto recente come il Futurismo o, come nel caso della collezione di Sophia Loren e Carlo Ponti che prende un assetto preciso negli anni sessanta, mischia prestigiose opere trasversali a varie epoche dove quel che conta è il nome dell’artista: Braque, Picasso, Canaletto, de Chirico, Morandi, Modigliani, Matisse, Kokoschka, van Gogh, Hepworth accanto a una serie di Bacon tra cui lo Studio per un ritratto ii, proveniente dal gruppo dei ritratti di Innocenzo x ispirati da Velázquez, acquistato dal collezionista milanese Riccardo Tettamanti e andato all’asta da Christie’s nel febbraio 2007. Inoltre, i collezionisti non si impegnano nel costruire un confronto con le istituzioni: l’unica mostra che getta uno sguardo sul collezionismo privato non riguarda una raccolta romana ma bresciana: “Pittori della collezione Cavellini”, ospitata nel 1957 presso la Galleria nazionale d’arte moderna per la cura di Giovanni Carandente. Soprattutto non incidono nel sistema dell’arte e non tesaurizzano il nuovo maturato in questi anni per altri versi così importanti. La ragione di questa lacuna è rintracciabile nell’assenza a Roma di una borghesia industriale, non segnatamente colta, ma necessariamente illuminata – alcuni notevoli collezionisti milanesi erano dei sarti, ricorda Giuseppe Panza 4 – dotata di una consapevolezza del proprio ruolo e di un respiro intellettuale che non si esaurisce nel salotto, per quanto mondano e attraente possa essere, e di sicuro i salotti romani che nascevano sotto i riflettori del cinema lo erano. La mancanza di questo collante sociale, pur in presenza di un circuito vivace e internazionale, risulta decisivo per la formazione di un’attività di sostegno alla maturazione del sistema dell’arte quale è il collezionismo. E forse la sua mancanza, il non esserci una sponda privata forte, capace di dialogare con la città e funzionare da incentivo per le istituzioni, ha prodotto la realtà culturalmente sfilacciata e per certi versi debole di Roma. Eredità che si è trascinata fino all’alba del terzo millennio, con la significativa eccezione degli anni settanta. Esistono, per fortuna, due forti anomalie: una squisitamente romana, Giorgio Franchetti, proveniente da una famiglia di collezionisti, e l’altra per
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la quale Roma costituisce solo una tappa di una vita tanto fortunata quanto tormentata, Riccardo Gualino, la cui vicenda esprime bene il legame tra il collezionismo e l’imprenditoria colta.
Giorgio Franchetti La passione per l’arte contemporanea del barone Franchetti (così era noto nell’ambiente dell’arte), nipote dell’omonimo zio Giorgio che nel 1916 aveva donato alla Serenissima la sua residenza veneziana Ca’ d’Oro dopo averla ristrutturata a spese dello Stato e trasformata in una casa-museo, si manifestò per la prima volta con l’acquisto di un quadro di de Chirico, «forse il più brutto che de Chirico abbia dipinto». Il barone Franchetti era un tipo eccentrico e, nella fattispecie, amava concludere il racconto dell’incipit della sua collezione aggiungendo che aveva perso il “brutto de Chirico” subito dopo nelle campagne di Ravenna, ripartendo in fretta e furia con la sua auto sul cui tetto aveva appoggiato l’opera per cambiare una gomma bucata. Giorgio Franchetti era pure un grande appassionato di automobilismo e di macchine da corsa, dettaglio che lo renderà
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amico, oltre che collezionista, di Scarpitta. Scomparso nel 2006 all’età di ottantasei anni, era anche uno squisitissimo ospite, pronto ad aprire la sua casa a Trastevere, in via degli Orti d’Alibert, a quanti volessero conoscere la collezione. Perché, dopo quel bizzarro episodio legato a de Chirico e nonostante facesse tutt’altro mestiere (era ingegnere e aveva lavorato in Africa e nel Sud Italia), il suo interesse per l’arte era cresciuto, cambiando però radicalmente tendenze. L’artista che gli fece abbandonare l’interesse per Turcato e Mafai, cui si rivolge dopo de Chirico, è Cy Twombly, conosciuto durante il suo primo grand tour mediterraneo. «A colpirlo era la rivisitazione geniale dei miti classici che Twombly faceva e mio padre ne intuisce subito le potenzialità» racconta Carlo Franchetti, figlio di Giorgio.5 «Esprime l’assoluto sublime risolvente. Sono diventato famoso per aver fatto scoprire al mondo Cy, il più grande artista concettuale» ripeteva spesso il barone. Franchetti, che era socio della Tartaruga fondata da Plinio de Martiis, inserisce Twombly nella galleria e tra il 1958 e il 1959 fa un viaggio a New York per esplorare la possibilità di una collaborazione con Leo Castelli e Ileana Sonnabend. È in questa occasione che conosce Rothko, Clyfford Still, Franz Kline, de Kooning e Pollock e si riporta indietro alcune tele arrotolate di questi artisti, in particolare di Kline e Rothko, «un anno prima di me» annota Giuseppe Panza nel suo libro Ricordi di un collezionista, definendo Giorgio Fran-
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chetti «un grande illuminato collezionista». Di lì a poco gli artisti che Franchetti aveva conosciuto negli Stati Uniti diventano delle star. «La sua collezione viene identificata con l’arte americana ed è qualcosa che un patriota come lui, pilota nella Seconda guerra mondiale, non tollera. Decide così di venderli a Panza» aggiunge Carlo Franchetti. Tutti tranne Twombly, che nel frattempo sposa la sorella del barone e che non è ancora un artista affermato: all’inizio degli anni sessanta fa una mostra alla Leo Castelli Gallery e non vende niente, negli usa diventa veramente noto dopo la morte di Andy Warhol, quando si scopre che il guru della Pop Art lo collezionava. La vendita degli americani a Panza schiude un nuovo capitolo nella vita di Franchetti, sulla svolta incide anche l’esito della Biennale di Venezia del 1964. Per la prima volta la nuova arte americana trionfa planetariamente, Rauschenberg, vecchio amico del nobile romano, vince il Leone d’oro. Ma è lì che il collezionista prende una decisione che fa riflettere sul significato più profondo del collezionare: non una passione cieca e interessata alla mera accumulazione, né appagata da scelte che, successivamente, possono anche risultare vincenti. Giorgio Franchetti intuisce la precarietà che caratterizza l’arte italiana oscurata da un mondo in espansione e culturalmente fertile. E cambia rotta. Da allora in avanti comincia a occuparsi sistematicamente di arte italiana con un approccio che diventa quasi militante, collezionando, come aveva fatto con gli americani, i suoi contemporanei. Lo aiutano anche alcuni galleristi, «figure molto diverse da quelle di oggi, che gestivano qualcosa che ora chiameremmo centri non profit, de Martiis era addirittura un comunista convinto» afferma Carlo Franchetti. Tra gli artisti più presenti nella raccolta del barone ci sono i protagonisti della neo Scuola Romana, detta anche “Pop Art sul Tevere”, dove la frequentazione professionale si mischia all’amicizia: «Sopratutto Tano Festa, di cui ha collezionato quasi duecento opere e che avvertiva come il suo alter ego, il più poetico e anche il più carismatico degli artisti, secondo mio padre, che si identificava molto nei personaggi forti e anticonformisti. Poi Pascali, Angeli, Schifano, Lo Savio, Rotella, ma anche Ceroli e Mondino. Riscopre anche il Futurismo, conosce Balla nella sua casa-studio di via Oslavia, comincia a collezionarlo e una parte la rivende ad Agnelli. In Balla rintraccia le radici dell’arte italiana, lo studio sulla luce e sullo spazio» racconta ancora Carlo Franchetti. L’interesse per l’arte italiana continua negli anni successivi. Investe negli artisti della futura Transavanguardia, soprattutto Chia e Paladino, e include outsiders come Gino de Dominicis e Ontani. Per ragioni di completezza e per auten-
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tica passione aveva comprato anche Castellani e Manzoni, ma chiunque sia stato nella sua casa-museo ha scolpita nella memoria una straordinaria serie di tele di Tano Festa di cui il barone Franchetti era orgogliosissimo. Oggi di questa raccolta rimangono molti pezzi e un archivio che testimonia l’intelligenza e il coraggio del suo iniziatore.
Riccardo Gualino La storia di questo personaggio versatile, nato a Biella nel 1879, si intreccia con le vicende della prima metà del secolo. Imprenditore (tra altre attività, fonda la snia, che poi diventa snia Viscosa, ed è vicepresidente della fiat), banchiere (sua la Banca agricola italiana) e mecenate, fin dagli anni venti ricopre un ruolo di primo piano nella Torino culturale. Stretto amico di Casorati, lo incarica, insieme all’architetto Alberto Sartoris, di realizzare un teatrino nella palazzina ottocentesca di via Galliari dove abita. Nasce un teatro d’avanguardia aperto alle compagnie straniere e che diventa punto di raccolta di artisti internaziona-
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li. Grazie ai consigli di Lionello Venturi, che fino al 1931 insegna Storia dell’arte all’università di Torino e che descrive l’amico-collezionista come dotato di un «gusto raffinato nel quale già balenavano sprazzi di modernismo che squassavano e demolivano il mio gusto vecchiotto», acquista opere moderne, interesse che coltiva accanto a quello per l’arte del passato: fondi oro del Tre-Quattrocento senese, una Venere di Botticelli acquistata a Parigi e poi Tiziano, Cézanne, Modigliani (di cui possiede ben sette quadri) e altri capolavori, alcuni dei quali sono stati donati alla Galleria sabauda dove si trovano tuttora. Nel 1928 affida agli architetti Busiri Vici la realizzazione di una residenza, villa Gualino, concepita come centro polivalente capace di ospitare un museo, un circolo sportivo e un’abitazione modello. Sempre a Torino realizza quella che forse è la sua azione più incisiva in campo artistico, appoggia il gruppo dei cosiddetti “Sei” (Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio, Enrico Paulucci) che, pur dipingendo nudi, nature morte e interni, tentano di aggiornare la figurazione italiana sulla base delle esperienze internazionali. Supporto essenziale della sua attività è la moglie Cesarina Gulgo Salice, artista (è presente nelle Quadriennali di Roma nel 1947, 1951 e 1955) e collezionista a sua volta. Secondo la testimonianza di Giuseppe Bertasso, che rileva la galleria La Bussola, «è a Gualino che Torino deve la sua impronta di città europea prima
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della guerra». Nel 1931 un rovescio finanziario gli cambia la vita, il regime fascista lo manda al confino a Lipari con l’accusa di bancarotta fraudolenta e la collezione realizzata fino ad allora si disperde. Di qualche opera è stato ricostruito il percorso: tra i diversi Modigliani, un Nudo sdraiato lo ritroviamo nella collezione Mattioli, Il riposo di Fattori è a Brera, La quiete di D’Ancona nella collezione della Banca d’Italia, La signora con l’ombrellino di D’Ancona alla gnam di Roma. Ma di molti altri, tra cui uno studio per l’Olympia di Manet, svariati Casorati, Soffici, altri Fattori e Boldini non si sa più nulla. Al ritorno dal confino, i Gualino si trasferiscono a Parigi, dove l’imprenditore fonda la Lux Film, azienda di produzione cinematografica che nel dopoguerra, quando Gualino può riprendere la sua attività trasferendola a Roma, diventa la prima casa di produzione del Neorealismo italiano che annovera collaboratori come Federico Fellini in qualità di sceneggiatore, Carlo Ponti e Dino de Laurentiis addetti alla produzione, mentre Luchino Visconti figura insieme ad altri registi. Nella capitale i Gualino ricominciano a collezionare e si legano agli artisti del rinnovamento, compiendo una scelta trasversale tra astratti e figurativi. Nella loro collezione si trovano Scipione, Mafai, Pirandello, De Pisis, Campigli, ma anche Manzù e Guttuso accanto a Scialoja, artisti che spesso si mischiano ad altri intellettuali nella loro casa ai Parioli. Nel 1964 la Lux Film chiude e lo stesso anno Riccardo Gualino muore a Firenze. La moglie Cesarina gli sopravvive a lungo, morendo a centodue anni nel 1992.
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