Infinity Net. La mia autobiografia di Yayoi Kusama

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© Yayoi Kusama Studio.

Nella stessa collana: 1. Mark Stevens – Annalyn Swan de Kooning. L’uomo, l’artista 2. Calvin Tomkins Robert Rauschenberg. Un ritratto 3. Bernard Marcadé Marcel Duchamp. La vita a credito 4. Gail Levin Edward Hopper. Biografia intima 5. Hunter Drohojowska-Philp Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana 6. Annie Cohen-Solal Leo & C. Storia di Leo Castelli 7. Daniel Farson Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi 8. James Westcott Quando Marina Abramović morirà 9. Ambroise Vollard Memorie di un mercante di quadri 10. Luca Ronchi Mario Schifano. Una biografia 11. Heiner Stachelhaus Joseph Beuys. Una vita di controimmagini 12. Alastair Brotchie Alfred Jarry. Una vita patafisica 13. Flaminio Gualdoni Piero Manzoni. Vita d’artista

«L’intensità della pressione psicologica che attraversa la scrittura di Kusama Yayoi, la descrizione della vita lungo il confine tra realtà quotidiana e mondi estremamente inusuali conferiscono alla sua opera un’impronta realistica fuori dal comune.» Murakami Ryū «C’è qualcosa di fresco, di una freschezza ristoratrice, qualcosa di irrimediabilmente sincero, quasi magico… in questo libro, come in tutti i lavori e le opere di Yayoi Kusama.» Los Angeles Review of Books

Infinity Net. La mia autobiografia

Foto di copertina: Yayoi Kusama, 2003.

«Quando mi sentivo triste, salivo sull’Empire State Building. […] In cima al più alto grattacielo esistente all’epoca sentivo che ogni cosa era possibile. Un giorno, lì a New York, avrei stretto tutto ciò che volevo in quelle mie mani vuote. […] Il mio impegno per attuare una rivoluzione nell’arte era tale che sentivo il sangue ribollire nelle vene, e dimenticavo la fame.»

Yayoi Kusama

Yayoi Kusama è una delle artiste più note a livello mondiale, ma anche scrittrice, regista, coreografa e stilista. Ha collaborato con personalità come Murakami Ryū (Tokyo Decadence), Marc Jacobs, Peter Gabriel (Love Town) e Louis Vuitton. Dopo un ventennio di successi artistici negli Stati Uniti e in Europa, nel 1975 ha fatto ritorno nel suo paese natale, dove è riuscita a conquistare anche i compatrioti più retrivi, fino a rappresentare il Giappone alla Biennale di Venezia del 1993. Dal 1977 risiede per sua volontà nell’ospedale psichiatrico di Seiwa, ma continua a lavorare, tutti i giorni, nel suo studio a Shinjuku.

Yayoi Kusama

Infinity Net La mia autobiografia

ISBN 978-88-6010-099-3

IS BN 97 888

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9 788860

100993

Un mare color argento di sfere riflettenti, distese smisurate di candidi falli, una proliferazione di pois che tracimano dalle tele fino a invadere l’intera stanza. Al centro, inghiottita dalla sua stessa arte, una minuta giapponese dai capelli neri come la pece, Yayoi Kusama. Nata a Matsumoto nel 1929 da una famiglia tradizionalista, appena può la piccola Yayoi fugge nelle piantagioni del nonno materno dove, tra nuvole di malvarosa, si abbandona alle più stravaganti visioni che poi fissa su tela. La pittura è l’unico sollievo ai precoci patimenti esistenziali, e Yayoi è decisa a coltivarla fino in fondo, a costo di porre un intero oceano tra sé e chi cerca di impedirglielo. Sbarcata ventottenne a New York, l’inferno in terra, ancora una volta è l’arte a salvarla: supera la povertà e i ripetuti collassi nervosi esorcizzando le proprie fobie con i celebri Infinity Nets e le soft sculptures. Dall’arte “psicosomatica” alle folli performance con orge e partouzes il passo è breve: sul finire degli anni sessanta Yayoi cavalca lo tsunami hippie e i Kusama Happenings diventano gli eventi clou della rivoluzione pacifista. «Preferisci la guerra o il sesso libero?» chiede a un agente la sacerdotessa dei pois. I suoi proseliti la chiamano sister, “monaca”, perché – al contrario di quanto pensano i suoi scandalizzati compatrioti – lei dirige le danze, ma non partecipa. Il sesso, infatti, le fa letteralmente orrore. Ben più della morte, che in fondo, come diceva il suo amico Joseph Cornell, «è come spostarsi nella stanza accanto». Raccontate in prima persona con spiazzante sincerità e ricche di momenti autenticamente comici, queste pagine ricostruiscono la parabola di una delle personalità più eccentriche, ambivalenti e incantevoli che l’arte giapponese abbia mai conosciuto.

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Biografie 14


©2013 Johan & Levi Editore Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Studiopaola Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano (mi) Prima edizione (Sakuhinsya): © Yayoi Kusama 2002 Seconda edizione (Shinchosha): © Yayoi Kusama 2012 Titolo originale: Mugen No Ami Immagini © Yayoi Kusama Studio Finito di stampare nel mese di agosto 2013 isbn 978-88-6010-099-3 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

STAMPATO SU CARTA

Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint edizioni.


Yayoi Kusama

Infinity Net La mia autobiografia

Traduzione di Gala Maria Follaco



Sommario

Prologo

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1. A New York. Il mio debutto come artista d’avanguardia (1957-1966) Una folle partenza

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New York, l’inferno in terra

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All’attacco con una singola goccia

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Il grande successo del mio debutto newyorkese

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Soft sculptures di forma fallica

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Creare e obliterare

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Lungo un’autostrada infinita

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2. Prima di lasciare il mio paese. La presa di coscienza della mia personalità artistica (1929-1957) La voce delle violette

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Avanti e indietro tra realtà e illusione

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Faccia a faccia con una zucca

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Invece di Parigi, Tokyo

52

Il carteggio con O’Keeffe

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E lo spirito si separa dal corpo

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Verso un mondo libero e vasto

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3. Regina del pacifismo. Istigatrice di performance d’avanguardia (1967-1974) Nell’occhio del ciclone hippie

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Il sesso a New York

65

Il potenziale creativo di un corpo nudo

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Body Painting Happenings in tutta Europa

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La sacerdotessa dei pois

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Dal Way-Out Dress ai musical

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Body Paint Enterprises

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Gli anni sessanta: la grande svolta

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In Giappone dopo tredici anni

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L’immutabile società maschilista giapponese

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Sbattuta dentro in piena notte

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4. I miei incontri, i miei amori. Georgia O’Keeffe, Joseph Cornell, Andy Warhol e altri ancora Georgia O’Keeffe. La mia prima benefattrice, la più importante

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L’influenza del nihonga su O’Keeffe

Joseph Cornell. Incontro con uno sconosciuto

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Un’infinita persecuzione d’amore

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Pura misantropia

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La giovinezza con sua madre e il fratello invalido

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L’ultima fatale telefonata

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Un’arte che avvicini a Dio

Donald Judd. Incontro tra poveri

Il leader del Minimalismo

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Andy Warhol, David Smith, Herbert Read

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Andy, mio buon rivale

112

Smith, il generoso

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Read, l’aristocratico inglese

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Gottlieb, il gentile

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5. Ritorno in Giappone. Yayoi Kusama: dal Giappone al mondo (1975-2002) Le differenze tra il Giappone e New York

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L’arcano paesaggio innevato della mia infanzia

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Grandi artisti

124

Ritrovare la lingua giapponese

126

Per qualcuno che ci sarà tra cent’anni

129

Un modello di pensiero per la crescita culturale del mio paese

133

Kusama Renaissance

136

Produrre arte che duri in eterno

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I miei libri

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Crediti delle immagini

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Indice dei nomi

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Prologo

Nel 2001, l’anno che ha aperto il nuovo secolo, dal 2 settembre all’11 novembre Yokohama è stata il palcoscenico della Yokohama Triennale. I principali spazi espositivi erano quelli del Pacifico Yokohama e del Red Brick Warehouse n. 1, ma ogni punto della città ospitava opere d’arte, compresi l’Archivio storico, lo Yokohama City Port Opening Memorial Hall, la Minatomirai Gallery e la Machizukuri Gallery. Yokohama Triennale 2001 è stata la prima mostra internazionale di arte contemporanea su larga scala mai tenutasi in Giappone, un’iniziativa che ha messo insieme circa centodieci artisti provenienti da trentotto paesi. Negli anni sessanta, quando vivevo a New York, girai il mondo esponendo le mie opere in diverse mostre d’arte. Mi domandai spesso perché mai il Giappone fosse così in ritardo: c’erano i soldi, c’erano gli spazi, ma mancava un reale interesse per l’arte contemporanea. Di ritorno dagli Stati Uniti mi resi conto che il mio paese era indietro di cent’anni, e ancora oggi non riesco a dimenticare lo choc provato in quel momento. In seguito, andando e venendo dall’estero, ho sentito che il Giappone cominciava poco a poco a rinnovarsi. Ma siamo tuttora in ritardo. La fisionomia del mondo artistico, il sistema museale: in ogni settore ci sono molti aspetti che andrebbero migliorati. Nel periodo della bolla economica, per esempio, l’incredibile eccesso di liquidità favorì sprechi di ogni genere, eppure i musei d’arte di tutto il paese erano con l’acqua alla gola, e lo sono ancora oggi, per la totale mancanza di fondi. Una situazione così assurda negli Stati Uniti non si è mai verificata, nemmeno nei periodi di maggiore povertà. Il motivo è che lì, come in Europa, è ben salda la consapevolezza dell’importanza delle arti. In Giappone invece si pensa che l’arte sia un semplice passatempo, un lusso, ed è questo il motivo per cui non si riesce a crescere. Questo modo di pensare può solo dare origine a una visione superficiale dell’arte. Ma alla fine il governo ha cercato di porre rimedio organizzando una grande mostra internazionale di arte contemporanea, e di questo dobbiamo essere con-

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· Yayoi Kusama ·

tenti. Il tema dell’edizione è stato “Mega Wave. Towards a New Synthesis”. Dipinti, sculture, fotografie, filmati, installazioni: le diverse espressioni dell’arte contemporanea raccolte nell’idea di una nuova sintesi per formare una mega wave, un’onda gigante, che avrebbe investito il mondo intero. Era meraviglioso che proprio Yokohama, proprio il Giappone ne fosse il punto di origine. In occasione di questa storica prima edizione di Yokohama Triennale ho esposto alcune mie opere, sia al chiuso sia all’aperto. Al chiuso, nella sala del Pacifico Yokohama, ho presentato Endless Narcissus Show rivestendo un’intera stanza di specchi. Ho fatto poi appendere delle sfere riflettenti al soffitto e con altre sfere ho ricoperto tutto il pavimento. Chi entrava vedeva la propria immagine in millecinquecento sfere, e riusciva a percepire l’infinito mutamento di prospettiva generato dai propri movimenti, in un’esperienza di repetitive vision. Lungo la passeggiata Kishamichi, che collega la stazione ferroviaria di Sakuragichō all’area portuale di Shinkō, ho presentato invece Narcissus Sea: duemila sfere riflettenti bagnate in acciaio inossidabile, del diametro di trenta centimetri ciascuna, galleggiavano in una sezione del canale. Ricordo che, lavorando a questa installazione, mi emozionavo molto ogni volta che sentivo lo sciaf sciaf della sfera che rimbalzava sulla superficie dell’acqua. Infinite sfere a specchio as10

secondavano i movimenti delle onde, riflettevano il bagliore intermittente della luce e lo spettacolo del cielo, delle nuvole e del paesaggio circostante. E un mare color argento si apriva davanti agli occhi degli spettatori. Le infinite palle a specchio si avvicinavano e poi si allontanavano, tornavano ogni volta a mutare il proprio aspetto in risposta al movimento continuo e senza posa del canale. Emettevano suoni delicati, ora un ticchettio, ora un cicalio. Era una visione stupefacente: creature enigmatiche che si moltiplicavano nell’acqua. Si dice che i giapponesi non abbiano ancora grande familiarità con l’arte contemporanea. Ed è senz’altro vero che quella giapponese non si è ancora sviluppata a sufficienza. Storicamente Yokohama è stata la prima città del paese ad aprirsi al mondo esterno, e anche la più sensibile agli stimoli provenienti dall’estero. Trovo estremamente significativo che la prima mostra di arte contemporanea su larga scala del Giappone sia stata organizzata proprio qui. Vorrei che ne facessero una ogni anno, non ogni tre. Con le mie sfere a specchio luccicanti ho reso omaggio a questo nuovo inizio dell’arte contemporanea e all’inizio del xxi secolo. A ben pensarci, ho percorso una lunga strada per arrivare fin qui. La mia strenua battaglia con l’arte è cominciata nei lontani giorni dell’infanzia, ma è stato quando decisi di lasciare il Giappone e di andare negli Stati Uniti che è divenuta una scelta definitiva, il mio destino.


· Prologo ·

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Narcissus Sea, Yokohama Triennale, 2001.



1 A New York Il mio debutto come artista d’avanguardia (1957-1966)

Una folle partenza Partii per gli Stati Uniti il 18 novembre 1957. Come altri miei coetanei cresciuti durante la guerra, non avevo imparato l’inglese a scuola, ciononostante andare all’estero non mi preoccupava. Cercavo un modo per sottrarmi ai vecchi vincoli, volevo allontanarmi dal Giappone a ogni costo. A quei tempi, però, c’erano delle restrizioni rispetto all’esportazione di valuta straniera, quindi portai con me solo sessanta kimono e i circa duemila fra disegni e dipinti che avevo prodotto sino ad allora. Li avrei venduti per tirare avanti. Non dimenticherò mai il mio primo volo per gli Stati Uniti. Mi colpì il fatto che, oltre a me, ci fossero soltanto due ufficiali dell’esercito americano e una sposa di guerra, per il resto la cabina era vuota. Naturalmente all’epoca non si partiva con la leggerezza d’animo di adesso. Mi attendevano numerose difficoltà, e dovetti superare ogni sorta di ostacolo, primo fra tutti l’opposizione della famiglia: ci vollero ben otto anni per convincere mia madre a lasciarmi andare. Sono originaria di Matsumoto, nella prefettura di Nagano, una città circondata dalle Alpi giapponesi, dove il sole ha sempre una gran fretta di andarsi a nascondere dietro le montagne. Mi chiedevo che cosa ci fosse oltre quelle cime che risucchiavano la luce. Un semplice precipizio? Oppure qualcosa a me sconosciuto? Sì, ma che cosa? La curiosità verso quei luoghi ignoti si è trasformata poco per volta nel desiderio di vedere come fossero fatti, oltre quelle nere montagne, gli altri paesi del mondo. E così, un giorno, ho spedito una lettera indirizzata al presidente della Repubblica francese. Diceva: «Caro presidente, mi piacerebbe conoscere la Francia. Aspetto sue notizie». Il contenuto era molto ingenuo, faceva tenerezza. Poco dopo, benché non avessi alcuna aspettativa in tal senso, mi arrivò una risposta. Breve, di appena cinque righe, ma arrivò.

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Mi fa piacere che abbia interesse per il mio paese. Ci sono vari enti per la cooperazione e lo scambio tra Giappone e Francia. Ho predisposto l’invio di materiale informativo. Come prima cosa, impari il francese e sostenga l’esame. Le auguro che vada tutto a buon fine.

In seguito ricevetti molti consigli dall’ambasciata di Francia. Il francese, però... che tormento! Ero molto confusa e intanto, nello stesso periodo, morivo anche dalla voglia di visitare l’America. Mi venne in mente il volto esotico di una ragazzina di colore con le treccine che avevo visto anni prima su un libro illustrato. Ecco! Lì, dove quei ragazzini vivevano a piedi nudi, doveva esserci anche una qualche foresta vergine inesplorata. L’azzurro limpido, trasparente del cielo e, sotto, infinite piantagioni di sorgo. Praterie imbevute di sole. Un’esplosione di spazio illimitato. Volevo vedere tutto questo con i miei occhi. Volevo vivere lì. Se qualcosa fosse andato male, avrei potuto continuare a dipingere lavorando come contadina. Volevo andare in America, a ogni costo. Ma in che modo? Non conoscevo nessuno, come avrei fatto? All’epoca non si poteva partire per gli Stati Uniti senza una lettera di presentazione da parte di un garante. Rientrava nella politica restrittiva di esportazione del dollaro. Ci 14

pensai su. Subito dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale avevo trovato, in un negozio di libri di seconda mano a Matsumoto, un testo con i dipinti di Georgia O’Keeffe. Non so come abbia fatto ad arrivare in un posto sperduto come Matsumoto, fatto sta che per me quel libro è diventato un elemento di contatto con gli Stati Uniti. Sfogliandolo, mi dissi che se mai ci fossi andata quella persona mi avrebbe dato una mano. O’Keeffe era l’unica pittrice americana di cui avessi mai sentito parlare. Avevo sentito dire da qualcuno che era la pittrice più famosa d’America. In ogni caso, decisi che le avrei scritto una lettera. Dopo un viaggio di sei ore arrivai a Shinjuku e raggiunsi l’ambasciata degli Stati Uniti. Con le mani che mi tremavano sfogliai il Who’s Who e trovai l’indirizzo di O’Keeffe. Nell’istante in cui lo scovai fui presa dall’eccitazione. All’epoca non immaginavo neanche lontanamente che, a distanza di dieci anni, io stessa sarei apparsa su quelle pagine. Presi nota dell’indirizzo e, una volta tornata a Matsumoto, le scrissi una lettera, anche se non la avevo mai vista. Georgia O’Keeffe era una figura di spicco del panorama pittorico americano e una delle maggiori artiste del xx secolo. Inoltre era la moglie dello storico maestro della fotografia americana: Alfred Stieglitz. Allontanatasi dai trambusti della città, conduceva una vita da eremita in una tenuta circondata dalle misteriose Montagne rocciose del New Mexico dove dipingeva i teschi di bovini


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disseminati nel paesaggio. Questa era la donna a cui scrissi la lettera quando desideravo a ogni costo andare negli Stati Uniti. Infilai nella busta anche alcuni acquerelli, ma non mi aspettavo affatto una risposta. E invece, con mia grande sorpresa, la risposta di O’Keeffe arrivò! Fui incredibilmente fortunata. La grande O’Keeffe ebbe la gentilezza di rispondere all’improvviso slancio di una modesta ragazza giapponese mai vista prima. In seguito mi avrebbe inviato molti altri messaggi di incoraggiamento. Fu così che in me crebbe la voglia di andare in America, ma mi restava ancora da trovare qualcuno che garantisse per me. E non era facile. A quel punto una sola via era possibile: la mia famiglia era imparentata con l’ex segretario di Stato e ministro dell’Interno Uehara Etsujirō, il quale mi presentò a una sua cara amica. Questa era la vedova di un certo Ōta, un immigrato che nel corso di una generazione era riuscito a fondare una banca a Seattle e a fare affari su più fronti, compreso quello alberghiero. La signora Ōta si offrì di farmi da garante. Poi, grazie all’interessamento di molte persone, a cominciare da Uchimura Yūshi e Nishimaru Shihō, riuscii a ottenere il visto. Come motivo del soggiorno indicammo una mostra personale a Seattle. Presso la Continental Brothers, un’azienda americana che aveva una filiale a Tokyo, cambiai in dollari un milione di yen, la somma che mi sarebbe servita durante il viaggio, nonostante fosse contro la legge. A quei tempi con un milione di yen si sarebbero potute costruire chissà quante case. Partii per l’America con tutti quei soldi cuciti nella fodera dei vestiti e infilati nelle scarpe. La prima città in cui misi piede fu Seattle. Con l’aiuto dei pittori di Who’s Who, infatti, ero riuscita a far esporre le mie opere alla gallerista Zoë Dusanne, che aveva lanciato artisti come Mark Tobey e Kenneth Callahan. In quella città non conoscevo nessuno, fatta eccezione per la vedova di Ōta, che avevo incontrato a Tokyo, e George Tsutakawa, docente all’Università di Washington. Mi si prospettava una vita assurda, piena di difficoltà. Pensai di avere davanti a me un avvenire disastroso. Ma la gioia di essere riuscita ad arrivare in America, procurandomi dal nulla una serie di contatti, superava di gran lunga qualsiasi possibile avversità. Nel dicembre 1957 inaugurammo una personale presso la galleria Dusanne. Furono esposti ventisei pezzi, tra acquerelli e pastelli, compresi Spirit of Rocks, Ancient Ceremony, Ancient Ball Gown, Fire Burning in the Abyss, Flight of Bones, Small Rocks in China. Fui anche invitata a una trasmissione radiofonica intitolata Voice of America, in occasione della quale parlai della mostra e della mia esperienza negli Stati Uniti. La mia prima personale americana si concluse con un successo, ma Seattle era solo la tappa iniziale del mio folle viaggio e avevo già da tempo scelto New York come base per l’esplorazione del mondo. Giunta alle pendici della montagna, desideravo scalarla. Dovevo dire addio a chi cercava di convincermi a restare a Seattle, dovevo partire per una nuova avventura.

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New York, l’inferno in terra Il mio aereo fu sballottato dai temporali, e mentre sorvolavamo le Montagne rocciose me la sono vista brutta: ero sicura che fosse la fine. Da qualche parte, lì sotto, doveva esserci il New Mexico e il tranquillo ranch che O’Keeffe mi aveva invitato a visitare. Alla fine atterrammo a New York con lo stato d’animo di chi era appena scampato a una tragedia. Senza nemmeno rendermene conto mi ritrovai a recitare le preghiere che tante volte avevo sentito pronunciare dai miei amici di Seattle prima di ogni pasto e di ogni tazza di caffè: «Dio Padre, che sei nei cieli, ti ringrazio dal profondo del cuore per la benedizione di questo pasto caldo che mi concedi oggi, qui, insieme ai miei amici e fratelli. Mi impegno a preservare la grazia di questo momento, con la Tua benevolenza e la Tua guida». A New York all’inizio soggiornai presso un alloggio per studenti stranieri gestito da un monaco zen della Buddhist Academy. Dopo tre mesi presi una stanza per conto mio; in seguito affittai un loft. Non pagavo molto, ma all’epoca gli Stati Uniti erano già avviati verso la recessione. Di lì a breve il presidente Kennedy avrebbe tirato fuori lo slogan del “New Frontier Spirit”, ma le spese per la guerra in Vietnam erano davvero onerose e l’economia del paese ne stava risen16

tendo. Il prezzo degli alimenti aumentava sempre di più e a New York, diversamente da Matsumoto nel dopoguerra, si percepivano ovunque rabbia e ostilità. Era una situazione di grande stress, che mi provocò un esaurimento nervoso. Paragonata a Seattle, dove avevo vissuto fino ad allora, New York era un inferno. Le mie giornate erano dedicate soltanto allo studio, e in breve tempo bruciai tutti i dollari che avevo con me, finendo in uno stato di povertà estrema. Mi ritrovai a dover fronteggiare numerose difficoltà: procurarmi da mangiare quotidianamente, mettere da parte quanto bastava per i colori e le tele, problemi di passaporto con l’Ufficio Immigrazione, malattie... Le finestre dell’atelier erano rotte da tempo e dormivo su una vecchia porta trovata per strada. Avevo soltanto una coperta. Poiché l’edificio si trovava in un quartiere di uffici, dopo le sei del pomeriggio spegnevano i riscaldamenti. New York si trova alla stessa latitudine di Sakhalin. Il freddo mi arrivava alle ossa e i crampi per la fame non mi lasciavano dormire, così non potevo fare altro che stare in piedi e dipingere. Non c’era altro modo di allontanare la fame e il freddo. Fu così che il mio spirito creativo raggiunse picchi di maggiore intensità. Un giorno qualcuno venne a bussare alla porta del mio atelier. Quando aprii, in piedi davanti a me vidi l’allora sconosciuto Sam Francis, che abitava nel palazzo accanto. Preparai un caffè e glielo offrii. Mi chiese se avevo un po’ di latte. Arrossii per l’imbarazzo. Non solo non avevo il latte per il caffè, ma non avevo cibo, dalla mattina non avevo ancora mangiato niente. Anzi, c’era piuttosto da meravigliarsi che avessi il caffè.


·  A New York  ·

In quel periodo le mie cene consistevano in una manciata di castagne avvizzite rimediata da qualche amico. Con una grossa sacca a tracolla mi recavo nei pressi di una pescheria e dalle cassette di rimasugli raccoglievo le teste dei pesci, le mettevo in una pentola che avevo comprato per dieci centesimi da un robivecchi e preparavo una zuppa facendole bollire insieme alle foglie più esterne dei cavoli, quelle scartate dai supermercati. Era così che ingannavo ogni giorno la fame. Qualche volta, quando mi sentivo triste, salivo sull’Empire State Building. New York era la roccaforte del capitalismo e portava ancora i segni dell’Età dell’oro americana, della prosperità precedente la guerra in Vietnam: un sontuoso, sconfinato panorama dove, tra il luccichio di pietre preziose, si svolgeva il grande dramma della vita umana, vorticosa confusione di lode e infamia. In cima al più alto grattacielo esistente all’epoca sentivo di essere sulla soglia di ogni ambizione terrena, che ogni cosa era possibile. Un giorno, lì a New York, avrei stretto tutto ciò che volevo in quelle mie mani vuote. Lo desideravo furiosamente, con tutta me stessa. Il mio impegno per attuare una rivoluzione nell’arte era tale che sentivo il sangue ribollire nelle vene, e dimenticavo la fame. Poi, più o meno nello stesso periodo, ricevetti un’altra visita improvvisa da una signora un po’ avanti con gli anni. Georgia O’Keeffe, di passaggio a New York, era talmente preoccupata per me da prendersi il disturbo di passare a ve-

Nel mio studio, New York, 1959.

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dere come me la stessi cavando. Avevo scoperto i suoi dipinti di teschi bovini in un negozio di seconda mano della provincia giapponese. Ora, trovandomi faccia a faccia con quella leggendaria artista, mi chiesi se stessi sognando. Per darmi una mano, O’Keeffe mi presentò alla sua mercante, Edith Halpert, con cui lavorava fin dall’inizio della carriera e che alla Downtown Gallery aveva lanciato solo artisti di altissimo livello, tra cui Kuniyoshi Yasuo, John Marin, Stuart Davis e la stessa O’Keeffe. Comprò uno dei miei lavori. Usai ogni centesimo per acquistare tele e pennelli, e dipinsi più che potevo. Portai nello studio una tela tutta nera, così grande da doverci arrivare con una scaletta, e sull’intera superficie dipinsi una rete bianca composta di una miriade di particelle quasi impercettibili, con gradazioni di colore minime. Mi alzavo ogni mattina che era ancora buio e continuavo a lavorare fino a notte fonda interrompendo solo per mangiare o per andare in bagno. Presto lo studio fu invaso da tele in cui non si vedeva altro che reti. Nel frattempo i miei amici avevano iniziato a preoccuparsi per me e mi scrutavano timorosi, con i loro occhi azzurri, dicendomi: «Ehi, ma stai bene? Perché passi intere giornate a dipingere sempre la stessa cosa?». In verità, ero spesso vittima di crolli nervosi. Quando ero davanti alla tela a dipingere tutti quei puntini finivo per riempire anche il tavolo e il pavimento, 18

persino il mio corpo. Ripetevo sempre gli stessi movimenti, la rete si allargava all’infinito. Mi dimenticavo di me stessa e mi lasciavo catturare da quella specie di ragnatela. Le braccia, le gambe, i vestiti che indossavo e tutto ciò che si trovava nella stanza era ricoperto dalla rete. Una mattina mi alzai e trovai appesi alla parete i quadri che avevo dipinto il giorno prima. Confusa, mi avvicinai e li sfiorai con una mano, al che quelli me la riempirono all’istante, e anche il cuore prese a battere più velocemente. Ebbi un attacco di panico e chiamai un’ambulanza che mi portò al Bellevue Hospital, dove mi dissero: «Per la sua patologia non è a noi che deve rivolgersi, ma a un reparto di psichiatria. Deve farsi ricoverare in un ospedale psichiatrico». Ormai piombavo lì in ambulanza ogni tre giorni, iniziavano ad averne abbastanza: «Ancora lei?» mi dicevano. Ciononostante, continuai a insistere con la pittura, dimenticandomi perfino di mangiare. Mi trovavo nella città più cara al mondo, una città che sembrava nutrirsi di denaro, e mi capitava persino di non avere i quindici centesimi necessari per comprare un biglietto dell’autobus o di non toccare cibo per due giorni di fila, ma non pensavo ad altro che a dipingere. Ero impaziente, come se dentro di me avessi una fiamma viva che mi bruciava le ossa. Ero una torcia umana, quella roccaforte dell’americanismo mi aveva cambiato completamente. In momenti come quello, se solo avessi avuto un’auto sportiva tutta rossa, mi sarebbe piaciuto sfrecciare a velocità pazzesca su un’autostrada sotto il cielo azzurro. Avrei portato con me dollari nuovi di zecca e mi


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sarei comprata un’intera, immensa, prateria texana. Se pure fossi finita contro un albero non me ne sarebbe importato un bel niente. Ma c’era dell’altro. Volevo provare a uscire ogni sera con un uomo di colore diverso, di faccia diversa, neri, bianchi, gialli, marroni, come facevano le mie amiche. E continuavo a fantasticare su queste cose, borbottando tra me e me che volevo sì essere ricca, ma anche un po’ di fama non mi sarebbe dispiaciuta. Da questo punto di vista non volevo essere seconda a nessuno, in quella concentrazione di giovani sconosciuti che era New York. Ma la realtà era ben diversa: un tozzo di pane secco sul mio tavolo e un malridotto cane di pezza sul divano. E quelle reti bianche che rischiavano di farmi finire all’ospedale psichiatrico. Che roba era? Più e più volte mi era venuta voglia di prenderle a calci. Il giorno del concorso al Whitney Museum presi un quadro più alto di me e lo portai in spalla per quaranta isolati. Il Whitney, che oggi è un museo d’avanguardia, allora era inguaribilmente conservatore, quindi feci tutta la strada dicendo a me stessa che quegli incapaci del direttore e del suo entourage non avrebbero mai compreso il mio lavoro. Come mi aspettavo, fui scartata, quindi ripresi quella tavola grande quanto un tatami*e rifeci a piedi i quaranta isolati che mi separavano da casa. Tirava un vento molto forte e la tela minacciava continuamente di farmi volare via. Alla fine, esausta, dormii per due giorni come morta. All’epoca era l’Action Painting ad andare per la maggiore e tutti, ma proprio tutti, si buttavano su quello stile di pittura, che aveva raggiunto un altissimo valore di mercato. Per me, invece, la cosa più importante era fondare la mia carriera su un tipo di arte che fosse espressione esclusiva del mio mondo interiore, e i quadri che dipingevo andavano nella direzione opposta alla loro.

All’attacco con una singola goccia Nell’ottobre 1959 finalmente si inaugurò la mia prima personale newyorkese, “Obsessional Monochrome”, presso la Brata Gallery sulla 10th Street, dove si concentravano gli studi di artisti ancora molto influenti come de Kooning e Kline e di altre figure di spicco della prestigiosa New York School. In mostra c’erano diversi Infinity Nets bianchi su sfondo nero privi di struttura e di centro. La monotonia derivata dalla ripetizione di un’operazione perpetua confondeva l’osservatore, mentre le atmosfere suggestive e immobili trasportavano il suo spirito nell’illusione del “nulla”: presagio, in parte, del movimento Zero che si *  Il tatami è una stuoia di paglia dalle dimensioni standard di 90 x 180 cm che ricopre il pavimento delle case tradizionali e costituisce inoltre l’unità di misura per le stanze. [N.d.T.]

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sarebbe sviluppato in Europa di lì a poco e di quello che sarebbe diventato l’orientamento dominante dell’astrattismo in America, ovvero la Pop Art. Mettendo insieme le singole particelle quantiche, negativi di gocce che costituivano le maglie della rete, aspiravo a predire l’infinità dello spazio, a misurarla dal punto in cui mi trovavo. Quanto era profondo il mistero dell’infinito oltre lo spazio? Sulla base di questa percezione volevo osservare la mia vita, la vita di una goccia d’acqua. Una goccia d’acqua in mezzo a milioni. Il candido nulla di una rete tenuta insieme da un corpo celeste di gocce, che avrebbe cancellato me, gli altri e l’intero universo: era questo il mio manifesto. La rete bianca raccolse nelle tenebre dietro il nulla le nere gocce del silenzio della morte, e prima che potessi accorgermene raggiunse i dieci metri di altezza, superando i confini stessi della tela e andando a riempire ogni angolo della stanza, sino a divenire l’azione che avrebbe elaborato una sintesi di tutta me stessa. Le gocce d’acqua e la maledizione delle maglie della rete, con la loro potenza invisibile e straordinaria, mi portarono dietro un magico sipario che finì per inghiottire anche me. Un giorno venne a trovarmi un artista che, reduce dal successo a Parigi, godeva ormai di fama internazionale. Un francese dal temperamento energico che aveva saputo ottenere e conservare il successo grazie a spiccate abilità di 20

autopromozione e a un vero talento nel cavalcare tempi e tendenze: sembrava stare al mondo con il solo scopo di vincere premi. Mi gridò: «Yayoi, guardati intorno! Perché non ascolti un po’ di Beethoven o Mozart? Leggi Kant e Hegel. Sei piena di qualità eccezionali. Sono anni che continui a fare queste cose senza senso, da mattina a sera! È una perdita di tempo». Ma il filo maledetto della rete ormai mi aveva catturato. Non mi importava di Picasso o Matisse. Sarei partita all’attacco con quelle gocce. Ne ero convinta, e non prestai orecchio alle sue parole. Mi sarei giocata il tutto per tutto, avrei issato lo stendardo della rivolta contro la Storia. La mia prima personale a New York ebbe una risonanza e un successo inaspettati. Gli elogi da parte dei critici più eminenti furono unanimi. Dore Ashton scrisse un pezzo per il New York Times. Yayoi Kusama, della Brata Gallery (89 East, 10th Street), è un’artista giapponese da qualche tempo attiva a New York. I suoi quadri provocano turbamento per la ripetizione maniacale e priva di sentimento. Questa sensazione prende forma delicatamente, a partire da piccoli punti grigi su una gigantesca tela bianca, mentre alcune zone tornano a decolorarsi per via di sottili membrane bianche. Il risultato è una composizione proiettata verso l’infinito che si affida alla capacità di ricerca del paziente osservatore, chiamato a confrontarsi con impercettibili variazioni di colore e ritmo. Sono convinta che la sua opera sia un sorprendente tour de force, ma nel rigore di quella forma gelosamente protetta si nasconde qualcosa in grado di destare inquietudine.


·  A New York  ·

Su Arts Magazine, invece, Sidney Tillim mi recensì così: Questa mostra possiede una forza tranquilla capace di dominare il visitatore facendolo trasalire, ed è stata definita l’evento più sensazionale della stagione, inauguratasi appena un mese fa. Io credo che resterà tale sino alla fine. [...] L’osservatore è posto dinanzi a un’enorme rete bianca che ricopre uno sfondo nero, ma il contrasto tra i due colori è dominato, nell’economia dell’opera finita, dal sottile strato di bianco steso sull’intera superficie. La rete è dipinta interamente con tocchi accurati, direi rettangolari, mentre la trama prodotta dalle sue maglie, per via di un’alterazione di sfumature nella base del colore, fa sì che l’occhio stesso determini una sorta di variazione di quei movimenti e quelle forme appena percettibili. Uno sfavillio elegante e dotato di grande qualità attraversa l’intero quadro. [...] Negli ultimi dieci anni Kusama si è cimentata in svariati “tentativi”, non solo dimostrando di saper perseverare, ma anche imponendosi, grazie a questa elasticità, come l’artista più promettente del momento. Se saprà sfruttare il suo talento, con molta probabilità la vedremo calcare le scene newyorkesi nel giro di pochi anni.

Donald Judd fu la prima persona degli ambienti artistici di New York con cui strinsi amicizia, e fu anche il primo a comprare una mia opera, in occasione della personale. Su Art News scrisse: Yayoi Kusama è una pittrice originale. Le cinque grandi tele bianche esposte in questa mostra possiedono una marcata tendenza progressista, decisamente ben rappresentata. Quello spazio poco profondo, vicino alla superficie del quadro, prende forma a partire da un numero infinito di minuscole curve, dipinte di bianco e distribuite su uno sfondo nero. L’effetto è insieme complesso e semplice. [...] Nella sua totalità il quadro è grande e delicato, ma il disegno della rete è inciso con decisione, come un’acquaforte, e ricorda una sorta di gigantesco e immacolato merletto. Questo genere di espressione esula da qualsiasi interrogativo sul presunto carattere orientale o americano dell’opera. Di sicuro li comprende entrambi, o almeno Rothko, Still e Newman, ma, lungi dal rappresentarne una sintesi, è completamente indipendente.

Ma adesso voglio provare a ridefinire con parole mie le opere che esposi in quell’occasione. Nei quadri, uno spazio statico, indivisibile e bidimensionale attecchisce perfettamente sulla tela, la cui superficie ha una consistenza il più possibile concreta, determinata da una sequenza di grumi microscopici che assumono l’aspetto di un bizzarro e voluminoso accumulo di massa. La

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reiterazione continua, nel tempo, delle singole pennellate, fa sì che gli strati di pittura bianca, una volta che questa si è seccata, conferiscano allo spazio una qualità tangibile illimitata pur nei limiti di un campo visivo squisitamente reale. Questo ritmo ripetuto all’infinito, come la superficie monocroma, risulta impossibile da definire mediante strutture e metodologie fisse e predeterminate, e i due elementi insieme rappresentano un tentativo in direzione di un tipo di pittura inedito, fondato su un nuovo concetto di “luce”. I quadri, inoltre, ricusano l’idea di coincidenza di punto focale e centro. Questa era la mia creazione, il pensiero su cui avevo fondato la mia produzione artistica già nei dieci anni precedenti, quando ancora mi trovavo in Giappone. Circondata dalle alte montagne dello Shinshū, avevo individuato una forma di espressione soltanto mia: concentrazioni di minuscoli puntini d’inchiostro a china su fogli di carta bianca 25 x 30, infinite linee circolari tracciate a penna senza soluzione di continuità, che sembravano sezioni ingrandite di steli. Nei giorni bui della guerra, quando ero solo una ragazzina, il greto del fiume dietro casa mia si trasformò nel luogo di una misteriosa visione: mi resi conto che quei ciottoli bianchi che vedevo ogni giorno a milioni, esaminabili uno per uno sotto il sole dell’estate inoltrata, esistevano per davvero. 22

Ma se pure non avessi ricevuto simili rivelazioni da parte del mondo naturale, le immagini della mia psiche sarebbero bastate a trascinarmi in un territorio conturbante, nonostante la vaghezza delle mie motivazioni e certe coincidenze inspiegabili. Volevo sbarazzarmi di quel “qualcosa di sconosciuto”. Desideravo che il mio spirito abbandonasse le acque venefiche dei sentimenti per alzarsi in volo oltre l’infinito. E ora, dopo tanta attesa, ero riuscita a liberarlo in mezzo all’assoluto vuoto del caos. Si era aperta una strada capace di conferire unità alle migliaia di quadri che avevo dipinto negli anni, era cresciuta poco per volta e aveva fatto tesoro anche delle espressioni negative. Così prese forma la mia identità artistica, e arrivò per me il tempo di presentare al mondo il monumento, memoria visibile di quel processo durato una decade.

Il grande successo del mio debutto newyorkese Debuttai a New York con soli cinque quadri, pitture monocrome, semplici ma allo stesso tempo complesse, sulle quali si spalancava, come in risposta a un impulso inconsapevole, lo spazio infinito di un universo fatto di accumuli di luci microcosmiche. A prima vista, potevano apparire insignificanti e noiose tele bianche, grandi oltre quattro metri. La Brata Gallery, palcoscenico di questo debutto, era un piccolo spazio espo-


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