Inside the White Cube

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«Oggi è impossibile allestire una mostra senza perlustrare la parete come un ispettore sanitario: bisogna tener conto dell’estetica che inevitabilmente trasformerà in arte l’opera [...]. La maggior parte di noi “legge” un allestimento come mastica un chewing-gum: inconsapevolmente e per abitudine.»

Brian O’Doherty

«Questi saggi segnano una svolta decisiva nella percezione dell’arte.» Barbara Rose «I saggi di O’Doherty sul white cube sono, ancora oggi, una ventata di aria fresca e stimolanti come quando bucarono le pagine di Artforum.» Jan van der Marck

Inside the White Cube

Brian O’Doherty, noto fino al 2008 anche come Patrick Ireland, è artista e scrittore. Famoso per gli inconfondibili rope-drawings e il Ritratto di Marcel Duchamp, le sue opere sono state esposte a Documenta e alla Biennale di Venezia. In Europa e negli Stati Uniti gli sono state dedicate più di quaranta personali e numerose retrospettive. Fra i suoi libri si ricordano American Masters: The Voice and the Myth, Christo’s Running Fence, The Strange Case of M.lle P. e The Deposition of Father McGreevy, candidato nel 2000 al National Book Award. O’Doherty e sua moglie, la storica dell’arte Barbara Novak, trascorrono parte dell’anno a Todi, in Umbria, nella loro Casa Dipinta, che con i suoi affreschi e installazioni è aperta al pubblico.

Brian O’Doherty

Inside the White Cube L’ideologia dello spazio espositivo

Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948 2. Clement Greenberg L’avventura del modernismo. Antologia critica 3. Ai Weiwei Il blog. Scritti, interviste, invettive, 2006-2009

C’era una volta il quadro da cavalletto, con una massiccia cornice e un sistema prospettico completo in cui era incassata un’illusione di realtà. Poi, all’orizzonte, spuntano i paesaggi impressionisti e iniziano a dare istruzioni all’osservatore: dove deve stare, qual è la distanza giusta da cui guardare, che atteggiamento assumere. Ma non è finita qui. Le enormi tele degli espressionisti astratti, cariche di tensione vitale, si espandono ancora di più lateralmente e arrivano a sfondare il margine. La cornice, ormai una parentesi, si dissolve liberando l’illusione e come per magia la sua funzione si trasferisce allo spazio espositivo. I tempi sono maturi perché Marcel Duchamp, nel 1938, appenda al soffitto della Galerie Beaux-Arts 1200 sacchi di carbone e i visitatori si ritrovano a testa in giù. Per la prima volta lo spazio espositivo viene trattato come una scatola, una vetrina da manipolare. Con un unico affondo il gesto di Duchamp «sbaraglia il toro della storia dell’arte»: gli anni passano e, come in una camera d’eco, esso apparirà sempre più riuscito. Il white cube inizia a divorare l’oggetto, il contesto ruba la scena all’opera esposta e diventa una “camera di trasformazione” che rende arte qualunque cosa vi entri. La galleria può anche restare vuota, riempirsi d’immondizia, rimanere chiusa per tutta la mostra, simulare uno spazio della vita reale, essere impacchettata insieme all’intero edificio del museo con incerata e corda, ospitare tableaux vivants o happenings scioccanti. Quelle stesse scene, fuori dal white cube, probabilmente non desterebbero la minima attenzione, ma al suo interno anche la nostra quotidianità – il bar, la camera da letto, la stazione di servizio – diventa arte, un’esperienza che va oltre il guardare. Come a bordo di un’astronave, scrutando la Terra che si allontana all’orizzonte, Brian O’Doherty ricostruisce una storia dell’arte del Novecento dalla prospettiva dell’evoluzione dello spazio espositivo, da considerare ormai «l’arena incontestata del discorso».

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