«Oggi è impossibile allestire una mostra senza perlustrare la parete come un ispettore sanitario: bisogna tener conto dell’estetica che inevitabilmente trasformerà in arte l’opera [...]. La maggior parte di noi “legge” un allestimento come mastica un chewing-gum: inconsapevolmente e per abitudine.»
Brian O’Doherty
«Questi saggi segnano una svolta decisiva nella percezione dell’arte.» Barbara Rose «I saggi di O’Doherty sul white cube sono, ancora oggi, una ventata di aria fresca e stimolanti come quando bucarono le pagine di Artforum.» Jan van der Marck
Inside the White Cube
Brian O’Doherty, noto fino al 2008 anche come Patrick Ireland, è artista e scrittore. Famoso per gli inconfondibili rope-drawings e il Ritratto di Marcel Duchamp, le sue opere sono state esposte a Documenta e alla Biennale di Venezia. In Europa e negli Stati Uniti gli sono state dedicate più di quaranta personali e numerose retrospettive. Fra i suoi libri si ricordano American Masters: The Voice and the Myth, Christo’s Running Fence, The Strange Case of M.lle P. e The Deposition of Father McGreevy, candidato nel 2000 al National Book Award. O’Doherty e sua moglie, la storica dell’arte Barbara Novak, trascorrono parte dell’anno a Todi, in Umbria, nella loro Casa Dipinta, che con i suoi affreschi e installazioni è aperta al pubblico.
Brian O’Doherty
Inside the White Cube L’ideologia dello spazio espositivo
Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948 2. Clement Greenberg L’avventura del modernismo. Antologia critica 3. Ai Weiwei Il blog. Scritti, interviste, invettive, 2006-2009
C’era una volta il quadro da cavalletto, con una massiccia cornice e un sistema prospettico completo in cui era incassata un’illusione di realtà. Poi, all’orizzonte, spuntano i paesaggi impressionisti e iniziano a dare istruzioni all’osservatore: dove deve stare, qual è la distanza giusta da cui guardare, che atteggiamento assumere. Ma non è finita qui. Le enormi tele degli espressionisti astratti, cariche di tensione vitale, si espandono ancora di più lateralmente e arrivano a sfondare il margine. La cornice, ormai una parentesi, si dissolve liberando l’illusione e come per magia la sua funzione si trasferisce allo spazio espositivo. I tempi sono maturi perché Marcel Duchamp, nel 1938, appenda al soffitto della Galerie Beaux-Arts 1200 sacchi di carbone e i visitatori si ritrovano a testa in giù. Per la prima volta lo spazio espositivo viene trattato come una scatola, una vetrina da manipolare. Con un unico affondo il gesto di Duchamp «sbaraglia il toro della storia dell’arte»: gli anni passano e, come in una camera d’eco, esso apparirà sempre più riuscito. Il white cube inizia a divorare l’oggetto, il contesto ruba la scena all’opera esposta e diventa una “camera di trasformazione” che rende arte qualunque cosa vi entri. La galleria può anche restare vuota, riempirsi d’immondizia, rimanere chiusa per tutta la mostra, simulare uno spazio della vita reale, essere impacchettata insieme all’intero edificio del museo con incerata e corda, ospitare tableaux vivants o happenings scioccanti. Quelle stesse scene, fuori dal white cube, probabilmente non desterebbero la minima attenzione, ma al suo interno anche la nostra quotidianità – il bar, la camera da letto, la stazione di servizio – diventa arte, un’esperienza che va oltre il guardare. Come a bordo di un’astronave, scrutando la Terra che si allontana all’orizzonte, Brian O’Doherty ricostruisce una storia dell’arte del Novecento dalla prospettiva dell’evoluzione dello spazio espositivo, da considerare ormai «l’arena incontestata del discorso».
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Brian O’Doherty
Inside the White Cube L’ideologia dello spazio espositivo
Traduzione di Irene Inserra e Marcella Mancini
1 Osservazioni sullo spazio espositivo
Una scena ricorrente dei film di fantascienza mostra la Terra che si allontana dall’astronave fino a diventare un orizzonte, un pallone, un pompelmo, una pallina da golf, una stella. Questo cambiamento di scala si accompagna a un passaggio dal particolare al generale. All’individuo si sostituisce la razza, rispetto alla quale noi siamo un’inezia, un brulicare di bipedi mortali ammassati quaggiù come un tappeto steso per terra. Vista da una certa altezza, generalmente la gente appare buona. La distanza verticale favorisce questa generosità, mentre l’orizzontalità non sembra avere la stessa qualità morale. Le figure che si profilano in lontananza potrebbero avvicinarsi e noi prevediamo le incognite dell’incontro. La vita è orizzontale, un avvenimento dopo l’altro, un nastro trasportatore che ci trascina verso l’orizzonte. Ma la storia – la visione dall’astronave che si allontana – è diversa. Con il mutamento di scala gli strati del tempo si sovrappongono, e noi proiettiamo su di essi le prospettive che ci consentono di recuperare e correggere il passato. Non c’è da stupirsi se in questo processo l’arte si ritrovi messa parecchio male: la sua storia, percepita attraverso il tempo, è confusa dall’immagine che abbiamo di fronte, un testimone pronto a cambiare la sua deposizione alla minima provocazione percettiva. Al centro della “costante” che chiamiamo tradizione, la storia e lo sguardo vivono un profondo conflitto. Ormai sappiamo tutti con certezza che la pletora di storie, voci e testimonianze che compongono la cosiddetta tradizione del modernismo è circoscritta da un orizzonte. Guardando in basso, scorgiamo più chiaramente le “leggi” della sua evoluzione, la sua armatura forgiata a partire dalla filosofia idealista, le sue metafore militari di avanzata e conquista. Che spettacolo si presenta – o si presentava – ai nostri occhi! Schieramenti ideologici, razzi trascendenti, bassifondi romantici in cui il degrado e l’idealismo si accoppiano ossessivamente, truppe che corrono avanti e indietro combattendo guerre convenzionali. I rapporti sulle operazioni militari, ben rilegati e abbandonati sui tavolini, non rendono granché l’idea di quelle gesta eroiche. Quegli exploit paradossali si accumulano laggiù in attesa delle revisioni che ingloberanno l’avanguardia nella tradizione o, come a volte temiamo, ne suggelleranno la fine. Via via che l’astro-
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nave si allontana, in effetti, anche la tradizione sembra un altro ninnolo posato su un tavolino, un mero assemblaggio cinetico tenuto insieme da riproduzioni e alimentato da piccoli motori mitici, in cui fanno bella mostra di sé modellini di musei. E in mezzo a tutto questo, spicca una “cellula”, illuminata in maniera uniforme, che svolge un ruolo cruciale per far funzionare il tutto: lo spazio espositivo. La storia dell’arte moderna è strettamente inquadrata in quello spazio; o meglio, essa può essere messa in relazione con i cambiamenti che hanno investito quello spazio e il nostro modo di considerarlo. Oggi siamo arrivati al punto di vedere prima lo spazio e poi l’arte (entusiasmarsi per esso entrando in una galleria d’arte è un cliché dei nostri tempi). L’immagine che viene in mente è quella di uno spazio bianco ideale che, più di qualunque dipinto, potrebbe costituire l’archetipo dell’arte del Novecento: esso si definisce attraverso il processo dell’ineluttabile necessità storica solitamente associato all’arte che contiene. La galleria ideale priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere “arte”. Essa è isolata da tutto quello che potrebbe nuocere alla sua autovalutazione. In questo modo lo spazio acquisisce una presenza che è tipica dei luoghi in cui le convenzioni si preservano attraverso la ripetizione di un sistema chiuso di valori. La sacralità di una chiesa, il formalismo di un’aula 22
di tribunale, il fascino di un laboratorio sperimentale si uniscono all’eleganza del design per produrre una camera dell’estetica unica. All’interno di questa camera, il campo di forze percettive è così potente che, una volta fuori, l’arte può scadere in una dimensione terrena. Al contrario, le cose diventano arte in uno spazio in cui potenti idee sull’arte si concentrano su di esse. In realtà, l’oggetto diventa spesso il mezzo attraverso cui queste idee si manifestano e alimentano il dibattito, in una forma popolare dell’accademismo tardomodernista (“le idee sono più interessanti dell’arte”). La dimensione sacrale dello spazio diventa allora evidente, e con essa una delle grandi leggi proiettive del modernismo: più invecchia, più il contesto diventa contenuto. Con un singolare rovesciamento, è l’oggetto introdotto nella galleria a “inquadrare” la galleria stessa e le sue leggi. Una galleria è costruita in base a leggi rigorose, come quelle che presiedevano all’edificazione di una chiesa medievale. Poiché il mondo esterno deve restare fuori, in genere le finestre sono sigillate; i muri sono dipinti di bianco; il soffitto diventa fonte di luce. Il pavimento di legno è così tirato a lucido che si avverte distintamente il rumore dei passi, oppure è coperto da un tappeto che attutisce quel suono, permettendo di riposare i piedi mentre gli occhi prendono d’assalto la parete. Qui l’arte è libera di “vivere la sua vita”. Una scrivania discreta è forse l’unico mobile. In questo contesto, un portacenere a stelo diventa quasi un oggetto sacro, così come una manichetta antincendio in un museo moderno non evoca tanto una manichetta antincendio quanto un enigma estetico. La trasposizione della percezione – dalla vita verso i valori formali – avvia-
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ta dal modernismo trova qui il suo completamento. E questa, naturalmente, è una delle sue sciagure. Questo spazio senza ombre, bianco, pulito, artificiale, è dedicato alla tecnologia dell’estetica. Le opere d’arte sono montate, appese, distanziate per essere studiate. La loro superficie intatta non è intaccata dal tempo e dalle sue vicissitudini. L’arte esiste in una specie di eternità dell’esposizione e benché vi si distinguano diverse caratteristiche “di periodo” (il tardomodernismo), non conosce tempo. Questa eternità fa della galleria uno status comparabile al limbo; per accedervi bisogna essere già morti. In effetti, la presenza di quello strano mobile, il nostro corpo, sembra superflua, è un’intrusione. Lo spazio fa pensare che mentre gli occhi e le menti sono ben accetti, i corpi non lo sono, oppure vengono tollerati solo in quanto manichini cinestetici da sottoporre a un’ulteriore analisi. Questo paradosso cartesiano è rafforzato da uno degli emblemi della nostra cultura visiva: la foto dell’installazione senza figure, dove l’osservatore è stato finalmente eliminato. Siamo lì senza esserci: è uno dei più grandi servigi resi all’arte dalla sua antica rivale, la fotografia. La foto dell’installazione è una metafora dello spazio espositivo. In essa l’ideale si realizza con la stessa potenza con cui si realizzava in un dipinto del Salon negli anni trenta dell’Ottocento. Il Salon, in effetti, definisce implicitamente una galleria, una definizione appropriata all’estetica dell’epoca. Una galleria è un luogo dotato di un muro, a sua volta ricoperto da un muro di dipinti. Il muro in sé non ha un’estetica propria: è una semplice necessità per un animale eretto. La galleria del Louvre di Samuel F.B. Morse (1833) sconvolge l’osservatore moderno: una tappezzeria di capolavori, non ancora separati l’uno dall’altro e isolati nello spazio a mo’ di trono. Tralasciando l’accozzaglia di periodi e stili – per noi orrenda –, quello che l’allestimento impone all’osservatore va al di là della nostra comprensione. Dobbiamo noleggiare dei trampoli per sollevarci fino al soffitto o metterci a quattro zampe per annusare quello che si trova sotto allo zoccolo? Tanto l’alto quanto il basso sono zone ingrate. Gli artisti si lamentano spesso di essere stati messi “troppo in alto”, ma mai “rasoterra”. Quantomeno i dipinti vicini al pavimento erano accessibili e potevano accogliere lo sguardo “ravvicinato” del conoscitore prima che si portasse a una distanza più prudente. Possiamo immaginare i visitatori ottocenteschi che gironzolano per la sala, scrutano, avvicinano il volto ai dipinti e poi si allontanano in gruppetti con sguardi inquisitori, puntano un bastone verso una tela, riprendono a girare, perlustrano la mostra opera per opera. I quadri più grandi – più facili da vedere da una certa distanza – si elevano verso l’alto e a volte sono inclinati rispetto alla parete per rispettare il piano dell’osservatore; le tele “migliori” occupano la zona intermedia, quelle piccole finiscono in basso. L’allestimento perfetto è un ingegnoso mosaico di cornici che non lascia libero nemmeno un pezzetto di muro. Quale legge percettiva potrebbe giustificare, ai nostri occhi, una simile bar-
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Samuel F.B. Morse, La galleria del Louvre, 1831-33. Foto © Terra Foundation for American Art, Chicago.
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barie? Una e una soltanto: ciascun dipinto era considerato un’entità autonoma ed era totalmente isolato dal suo incombente vicino da una massiccia cornice esterna e, al suo interno, grazie a un sistema prospettico completo. Lo spazio era discontinuo e categorizzabile, allo stesso modo in cui le case in cui questi quadri erano appesi avevano stanze diverse, con diverse funzioni. Lo spirito ottocentesco era tassonomico, e il suo sguardo ottocentesco sapeva riconoscere le gerarchie di genere e l’autorità della cornice. In che modo il quadro da cavalletto è diventato una porzione di spazio così accuratamente confezionata? La scoperta della prospettiva coincide con il successo del quadro da cavalletto, che a sua volta conferma la promessa illusionistica propria della pittura. C’è un rapporto singolare tra un murale – eseguito direttamente sulla parete – e un quadro: una parete dipinta è sostituita da un pezzo di parete trasportabile. I suoi limiti sono stabiliti e incorniciati; la miniaturizzazione diventa una convenzione potente che, anziché contrastarla, favorisce l’illusione. Lo spazio nella pittura murale tende a essere poco profondo; anche quando l’illusione fa parte del progetto, l’integrità del muro è rafforzata e al contempo negata dagli elementi architettonici dipinti. La parete stessa è sempre identificata come un limite alla profondità – non la possiamo attraversare –, allo stesso modo in cui gli angoli e il soffitto, spesso in tutta una gamma di modi fantasiosi, limitano l’ampiezza. Visti da vicino, i murali tendono a esibire apertamente i propri stru-
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menti: l’illusione svanisce in un chiacchiericcio sul metodo. Abbiamo l’impressione di osservare lo strato sottostante della pittura e spesso non sappiamo “dove” posizionarci. In effetti, i murali proiettano una rete di vettori ambivalenti e instabili rispetto ai quali l’osservatore cerca di allinearsi. Il quadro da cavalletto sulla parete, invece, gli indica immediatamente dove guardare. Il quadro da cavalletto è una specie di finestra trasportabile che, una volta fissata al muro, lo attraversa in profondità. Questo tema è ripetuto all’infinito nell’arte dell’Europa del Nord, dove una finestra all’interno del dipinto non solo inquadra una distanza più remota, ma conferma anche i limiti della cornice. L’aspetto di scatola magica di certi quadri da cavalletto di formato più piccolo è legato all’immensa distanza che contengono e alla perfezione dei particolari che rivelano a un esame attento. La cornice di questo tipo di opere è un contenitore psicologico per l’artista quanto lo è per lo spettatore la sala in cui si trova. La prospettiva colloca tutto ciò che il dipinto racchiude lungo un cono spaziale che la cornice seziona come una griglia, riecheggiando la ripartizione interna tra primo piano, piano intermedio e distanza. A seconda della tonalità e del colore, si entra in questo dipinto “a piè pari” o vi si scivola senza sforzo. Più forte è l’illusione, più forte è l’invito rivolto all’occhio dello spettatore, che si astrae dal suo ancoraggio corporeo ed è proiettato nel dipinto come un sostituito in miniatura per abitarne e metterne alla prova le articolazioni spaziali. Per questo processo, la stabilità della cornice è necessaria quanto la bombola di ossigeno al sub. La sicurezza dei suoi contorni definisce in maniera compiuta l’esperienza che si svolge all’interno. L’assolutezza del limite fissato dal margine resta la regola nella pittura da cavalletto fino all’Ottocento. Se il margine tronca o elide il soggetto, lo fa in modo da rafforzare il bordo. È il modello classico della prospettiva presentato nella sua cornice accademica a permettere che i quadri possano essere allineati come sardine. Nulla suggerisce che lo spazio all’interno del dipinto possa prolungarsi ai suoi lati. Nel corso del Settecento e dell’Ottocento una simile indicazione è presente, seppur in maniera sporadica, quando l’atmosfera e il colore corrodono la prospettiva. Il paesaggio è il progenitore di quelle foschie traslucide che mettono la prospettiva in contrasto con la tonalità-colore, perché ciascuna rimanda a una diversa interpretazione del muro su cui il quadro è appeso. Cominciano ad apparire dipinti che fanno pressione sulla cornice. Qui la composizione tipo è la linea dell’orizzonte che corre da un margine all’altro separando il cielo e il mare; spesso è sottolineata dalla spiaggia, magari con una figura rivolta, come chiunque di noi, verso il mare. La composizione formale è superata, le cornici nella cornice – coulisses, repoussoirs, il Braille della profondità prospettica – sono svanite. Resta una superficie ambigua che la linea dell’orizzonte inquadra parzialmente dall’interno. Dipinti di questo genere – Courbet, Caspar David Friedrich, Whistler e stuoli di piccoli maestri – si collocano tra profondità infinita e
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piattezza e tendono a essere visti come modelli. La potente convenzione della linea dell’orizzonte si sposta con facilità attraverso i limiti della cornice. Questi e altri dipinti che, focalizzandosi su un frammento indeterminato di paesaggio, spesso sembrano “sbagliare” soggetto introducono l’idea di un occhio che scruta. Questo sguardo “accelerato” sfida il carattere assoluto della cornice rendendola una zona incerta. Una volta saputo che un frammento di paesaggio è frutto della decisione di escludere tutto ciò che lo circonda, cominciamo a prendere coscienza dello spazio al di fuori del quadro. La cornice diventa una parentesi. La separazione dei dipinti lungo la parete, come per una sorta di repulsione magnetica, diventa inevitabile. Il fenomeno venne accentuato e in larga misura innescato dalla nuova scienza – o arte – dedicata a estrarre il soggetto dal suo contesto: la fotografia. In una fotografia, la collocazione del margine è una decisione prioritaria poiché esso compone o scompone quello che inquadra. Inquadrare, ritoccare, tagliare – fissare dei limiti – diventano in fin dei conti gli atti essenziali della composizione. Ma non è stato sempre così. In parte il lavoro di incorniciatura continuava a essere compito di quel che restava delle convenzioni pittoriche: i punti di sostegno interni erano forniti da alberi e colline creati ad hoc. Le migliori fotografie degli esordi reinterpretano il margine senza ricorrere alle con26
venzioni pittoriche. Esse allentano la tensione sul margine permettendo al soggetto di comporsi da solo, anziché cercare di allinearlo con il margine stesso. Forse questo è tipico dell’Ottocento, un secolo che si preoccupava del soggetto e non di quello che gli stava intorno. Diversi campi erano studiati all’interno dei loro limiti. Studiare non il campo ma i suoi limiti, e definire questi ultimi allo scopo di ampliarli, è invece un’abitudine novecentesca. Abbiamo l’illusione di ampliare un campo quando lo estendiamo lateralmente, e non quando ci addentriamo in esso, per riprendere il linguaggio prospettico caro all’Ottocento. Persino le scienze dell’uno e dell’altro secolo hanno un senso diverso del margine e della profondità, del limite e della definizione. La fotografia ha imparato subito a rifuggire le cornici pesanti e a montare una stampa su un foglio di cartone. La cornice poteva circondare il cartone solo dopo un intervallo neutro. La fotografia degli esordi riconosce il margine ma ne elimina la retorica, ne attenua l’assolutismo e lo trasforma in una zona anziché nel puntello che è diventato in seguito. In una maniera o nell’altra, il margine in quanto solida convenzione che incatenava il soggetto all’interno del dipinto, era diventato fragile. Tutto questo si ritrova ampiamente nell’Impressionismo, che fece spesso del margine un arbitro tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori dal dipinto. Ma questa tendenza si combinava con una forza infinitamente più importante, l’avvio della spinta decisiva che avrebbe finito per trasformare il concetto stesso di quadro, la maniera di appenderlo e, in definitiva, lo spazio espositivo: il mito
· Osservazioni sullo spazio espositivo ·
della piattezza che divenne il potente stratega nella lotta della pittura per l’autodefinizione. Lo sviluppo di uno spazio letterale privo di profondità – che conteneva forme fittizie, in opposizione alle forme “reali” rivendicate dal vecchio spazio illusionista – iniziò a esercitare una pressione ulteriore sul margine. Qui il grande inventore è, naturalmente, Monet. La portata della rivoluzione che questi mise in moto è tale che è lecito domandarsi se le sue realizzazioni siano state all’altezza. Monet fu senza dubbio un artista limitato (o, se si preferisce, un artista che si poneva dei limiti e vi si atteneva). Spesso sembra che Monet abbia notato i suoi paesaggi mentre andava o tornava dal soggetto vero e proprio. Si ha come l’impressione che abbia optato per una soluzione provvisoria: l’assenza di tratti salienti rilassa l’occhio e lo invoglia a guardare altrove. Si insiste sempre sull’aspetto informale del soggetto impressionista, ma non sul fatto che quel soggetto è colto attraverso uno sguardo casuale, da un occhio non troppo interessato a ciò che guarda. Quello che è interessante in Monet è “guardare questo sguardo”: il tegumento di luce, la formulazione spesso irrazionale della percezione attraverso un codice puntinato di colore e tocco che resta – quasi fino alla fine – impersonale. Il margine che eclissa il soggetto sembra frutto di una decisione fortuita che avrebbe anche potuto spostarlo qualche metro più a destra o a sinistra. Uno dei tratti distintivi dell’Impressionismo è il modo in cui la scelta casuale del soggetto attenua il ruolo strutturale del margine nel momento stesso in cui questo subisce pressioni da parte di uno spazio sempre meno profondo. Questo vincolo duplice e per certi versi contrastante esercitato sul margine prelude alla definizione del dipinto come oggetto autosufficiente – il contenitore di una realtà illusoria diventa adesso la realtà principale – che ci conduce verso emozionanti vertici estetici. Piattezza e oggettualità trovano in genere la loro prima espressione ufficiale nella celebre dichiarazione di Maurice Denis del 1890, secondo la quale un dipinto, prima di essere un soggetto, è essenzialmente una superficie ricoperta di linee e colori. È una di quelle tautologie che appaiono brillanti o stupide a seconda dello Zeitgeist. Oggi che abbiamo riscontrato l’impasse a cui può condurre il rifiuto della metafora, della struttura, dell’illusione e del contenuto, essa suona un po’ ottusa. Il piano pittorico – quel tegumento sempre più sottile dell’integrità modernista – sembra talvolta pronto per un film di Woody Allen, e ha di fatto suscitato la sua parte di ironia e arguzie. Ma in questo modo si ignora che il potente mito del piano pittorico si è rafforzato nei secoli in cui era confinato in sistemi illusionistici immutabili. La sua eroica trasformazione nell’era moderna ha comportato una visione del mondo totalmente diversa, che è stata banalizzata nell’estetica e nella tecnologia della piattezza. La resa letterale del piano pittorico è un tema sconfinato. Via via che il recipiente del contenuto diventa meno profondo, la composizione, il soggetto e la metafisica traboccano tutti dal margine finché, come Gertrude Stein disse ri-
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guardo a Picasso, lo svuotamento è totale. Ma tutto il carico che viene buttato via – le gerarchie della pittura, l’illusione, lo spazio localizzabile, le innumerevoli mitologie – è rimbalzato indietro sotto mentite spoglie e, attraverso mitologie nuove, si è attaccato alle superfici letterali, che apparentemente non gli offrivano nessun appiglio. La trasformazione dei miti letterari in miti letterali – oggettualità, integrità del piano pittorico, livellamento dello spazio, autonomia dell’opera, purezza della forma – resta un territorio inesplorato. Senza questa trasformazione l’arte sarebbe diventata obsoleta. Di fatto i suoi cambiamenti sembrano spesso anticipare l’obsolescenza, e da questo punto di vista la sua evoluzione imita le leggi della moda. La coltivazione del piano pittorico ha prodotto un’entità dotata di lunghezza e larghezza ma priva di spessore, una membrana che, per proseguire con la metafora organica, era in grado di generare le proprie leggi. La prima, naturalmente, era che questa superficie, sottoposta alla pressione di enormi forze storiche, restasse inviolata. Uno spazio sottile costretto a rappresentare senza rappresentare, a simboleggiare senza il vantaggio delle convenzioni stabilite, ha generato una pletora di nuove convenzioni al di fuori di qualsiasi consenso: codici cromatici, firme pittoriche, segni privati, idee di struttura formulate intellettualmente. Il concetto di struttura del Cubismo manteneva lo status quo 28
della pittura da cavalletto: i dipinti di questo movimento sono centripeti, si raccolgono verso il centro e si dissolvono verso il margine (è forse per questo che tendono a essere piccoli?). Seurat è riuscito a definire molto meglio i limiti di una formulazione classica in un periodo in cui i margini erano diventati incerti. Spesso i suoi bordi dipinti, composti da un agglomerato di puntini colorati, si dispiegano verso l’interno per separare e descrivere il soggetto. Il bordo assorbe i movimenti lenti della struttura interna. Per attenuare la rigidità del margine, a volte egli cosparge tutta la cornice di puntini in modo che l’occhio possa uscire dal dipinto – e rientrarvi – senza scosse. Matisse ha capito meglio di chiunque altro il dilemma del piano pittorico e il tropismo che lo spingeva a estendersi verso l’esterno. Le dimensioni dei suoi dipinti andarono via via aumentando come se, in un paradosso topologico, la profondità fosse trasposta su una superficie piana. Il luogo era espresso dall’alto e dal basso, dalla destra e dalla sinistra, dal colore, da un disegno che di rado chiudeva un contorno senza invitare la superficie a contraddirlo, e dal pigmento applicato con una sorta di allegra imparzialità sulla totalità di quella superficie. Nei grandi dipinti di Matisse non abbiamo quasi mai coscienza della cornice. Egli ha risolto il problema del contenimento e dell’estensione laterale con tatto perfetto: non privilegia il centro a discapito del margine o viceversa, i suoi dipinti non rivendicano con arroganza porzioni di parete vuota, fanno un bell’effetto quasi ovunque. La loro solida struttura informale, abbinata a un senso accorto della decorazione, li rende quasi autosufficienti. Sono facili da esporre.
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L’allestimento è in effetti un aspetto del quale vorremmo sapere qualcosa in più. La storia delle convenzioni dell’allestimento da Courbet in poi è ancora da esplorare. Il modo di appendere un dipinto fornisce molte indicazioni su ciò che viene esposto. Esso esprime un’interpretazione e un giudizio di valore, ed è inconsapevolmente influenzato dal gusto e dalla moda. Segnali subliminali indicano al pubblico come orientarsi. Si dovrebbe poter collegare la storia interna dei dipinti a quella esterna delle modalità espositive. Anziché analizzare una forma di allestimento approvata collettivamente – come il Salon –, potremmo cominciare a soffermarci sui capricci dell’intuizione individuale, su quei dipinti che raffigurano il collezionista del Seicento e del Settecento circondato dalle sue opere. In epoca moderna, la prima occasione in cui un artista radicale creò uno spazio e vi espose i propri dipinti fu – mi pare – il Pavillon du Réalisme personale che Courbet allestì all’esterno dell’Exposition del 1855. Com’erano esposti i quadri? In che modo Courbet ne concepì l’ordine di successione, i rapporti reciproci, gli spazi che li separavano? Probabilmente non fece nulla di straordinario, eppure era la prima volta che un artista moderno – che poi risultò il primo artista moderno – si ritrovò a ideare il contesto della sua opera e, di conseguenza, a pronunciarsi sul valore di quest’ultima. Se i dipinti in sé avevano una portata rivoluzionaria, non poteva dirsi lo stesso per la maniera in cui vennero incorniciati e appesi all’inizio. Forse il senso del contesto implicito in un’opera si comprende sempre a posteriori. Alla prima mostra del 1874, gli impressionisti appesero le loro tele una incollata all’altra, proprio come avrebbero fatto al Salon. Le opere impressioniste, che pure affermavano la loro piattezza e i loro dubbi rispetto al ruolo di limite svolto dal margine, erano ancora prigioniere della cornice accademica, che ne indicava lo status finanziario e la discendenza dai grandi maestri. Quando, in occasione della grande retrospettiva di Monet tenutasi al Museum of Modern Art nel 1960, William C. Seitz fece togliere le cornici, all’inizio le tele messe a nudo sembrarono delle riproduzioni, finché non ci si rese conto di quanto dominassero la parete. Benché non privo di stravaganze, l’allestimento interpretava correttamente il rapporto tra i dipinti e la parete e, con un raro atto di audacia curatoriale, ne seguiva le implicazioni. Seitz collocò anche alcuni Monet a filo della parete. In continuità con quest’ultima, i dipinti assunsero un po’ la rigidità di piccoli murali. Via via che il piano pittorico veniva “sovraletteralizzato”, le superfici si indurirono. La differenza tra il quadro da cavalletto e il murale era così esplicitata. Il rapporto tra il piano pittorico e la parete è strettamente collegato all’estetica della superficie. Quel minimo spessore del telaio equivale a un abisso formale. Il dipinto da cavalletto non è trasferibile sulla parete, e vorremmo capire perché. Cosa si perde nel trasferimento? I margini, la superficie, l’essenza e il mordente della tela, la separazione dalla parete. Non si può neppure dimenticare che il tutto è appeso o sostenuto, è valuta mobile o trasferibile. Dopo secoli di
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illusionismo, sembra ragionevole affermare che le sue ultime tracce si concentrano in questi parametri, per quanto piatta possa essere la superficie. La pittura da cavalletto domina l’arte fino al Color Field e la “letteralizzazione” del piano pittorico è praticata contro i requisiti dell’illusionismo. Queste tracce, in effetti, rendono la sua “letteralizzazione” interessante: sono l’elemento segreto del meccanismo dialettico che ha dato energia al dipinto da cavalletto tardomodernista. Se copiassimo quest’ultimo su una parete e poi ci appendessimo accanto l’originale, potremmo valutare il grado di illusionismo contenuto nel suo impeccabile pedigree letterale. Al tempo stesso, la rigidità del murale metterebbe in risalto l’importanza della superficie e dei margini nel dipinto da cavalletto, che adesso sembra un’oggettualità definita dai residui “letterali” dell’illusione, un’area instabile. Gli attacchi sferrati alla pittura negli anni sessanta hanno trascurato di specificare che il problema non era la pittura in generale, bensì il quadro da cavalletto. Il Color Field fu dunque conservatore nel senso positivo del termine, ma non per coloro che pensavano che la pittura da cavalletto non potesse sbarazzarsi dell’illusione e rifiutavano il principio per cui qualcosa può stare appeso al muro senza per forza ingannare lo sguardo. Mi ha sempre colpito il fatto che il Color Field – o la pittura tardomodernista in genere – non abbia mai cerca30
to di impadronirsi della parete, né abbia tentato una riconciliazione tra il murale e il quadro da cavalletto. All’epoca, invece, quel movimento si è conformato al contesto sociale in maniera piuttosto preoccupante. È rimasto una pittura da Salon: aveva bisogno di grandi pareti e di grandi collezionisti, e non poteva evitare di passare per il non plus ultra dell’arte capitalista. Il Minimalismo, al contrario, ha riconosciuto le illusioni proprie della pittura da cavalletto e non si è fatto illusioni sulla società. Non si è alleato con la ricchezza e il potere, e il suo tentativo abortito di ridefinire il rapporto tra l’artista e le diverse istituzioni è rimasto perlopiù inesplorato. A prescindere dal Color Field, la pittura tardomodernista ha avanzato alcune ingegnose ipotesi su come spremere qualcosa di più da questo recalcitrante piano pittorico, ormai diventato così stupidamente “letterale” da farci impazzire. Qui la strategia usata è stata la similitudine (fingere), non la metafora (credere): dire che il piano pittorico è “come…”. I puntini erano riempiti da oggetti piatti che si fondevano con la superficie letterale su cui sono piacevolmente adagiati: le Flags di Jasper Johns, i blackboard paintings di Cy Twombly, gli enormi “fogli” di carta a righe dipinti di Alex Hay, i “taccuini” di Arakawa. Poi c’è stato il “come un avvolgibile”, “come una parete”, “come un cielo”. Sulle soluzioni “come…” riferite al piano pittorico si potrebbe scrivere una bella commedia di costume. A questo si collegano molte questioni, compresa quella dello schema prospettico risolutamente appiattito in due dimensioni per evocare il dilemma del piano pittorico. E prima di abbandonare questa zona di intellettualismo di-
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sperato, segnaliamo le soluzioni che consistono nell’incidere il piano pittorico – la risposta di Lucio Fontana al problema gordiano della superficie – fino a far sparire la tela e attaccare direttamente l’intonaco della parete. Di natura analoga era l’escamotage che staccava la superficie e i bordi da quel letto di Procuste che è il telaio e appuntava, incollava o tendeva la carta, la fibra di vetro o la tela direttamente sulla parete per spingere ancora oltre il processo di “letteralizzazione” del piano pittorico. È così che una buona parte della pittura realizzata a Los Angeles rientra chiaramente – e per la prima volta! – nella corrente dominante, sebbene risulti un po’ strano vedere questa ossessione per la superficie, per quanto camuffata da machismo locale, liquidata come impudenza provinciale. Tutto questo armeggiare frenetico ci fa capire una volta di più fino a che punto il Cubismo sia stato un movimento conservatore. Esso ha prolungato la vitalità della pittura da cavalletto posticipandone il crollo. Esso era riducibile a un sistema, e poiché i sistemi si comprendono più facilmente dell’arte, dominano la storia accademica. I sistemi sono come pr che, tra gli altri compiti, hanno quello di propagandare l’odiosa idea di progresso, ovvero quello che avviene una volta eliminata ogni opposizione. Nell’arte moderna, tuttavia, la potente voce dell’opposizione fu quella di Henri Matisse, il quale formulò alla sua maniera, razionale e un po’ in sordina, una visione del colore che di primo acchito paralizzò il grigiore cubista. In Art and Culture Clement Greenberg racconta come gli artisti newyorkesi si siano disintossicati dal Cubismo puntando astutamente gli occhi su Matisse e Miró. I dipinti dell’Espressionismo Astratto hanno seguito la strada dell’espansione laterale, si sono liberati della cornice e gradualmente hanno cominciato a concepire il margine come un’unità strutturale attraverso cui il dipinto entrava in comunicazione con la parete. È qui che entrano in scena l’agente e il curatore. La maniera in cui entrambi, con la collaborazione dell’artista, esponevano queste opere ha contribuito, tra la fine degli anni quaranta e i cinquanta, alla definizione della nuova pittura. Nel corso degli anni cinquanta e sessanta viene a delinearsi un nuovo tema di cui si acquista una progressiva consapevolezza: di quanto spazio ha bisogno un dipinto per – come si diceva allora – “respirare”? Se i dipinti dichiarano implicitamente le proprie condizioni di occupazione, diventa più difficile ignorare il sordo mormorio di ostilità tra di essi. Cosa può essere accostato e cosa no? L’estetica dell’allestimento si evolve secondo i suoi costumi, che si trasformano in convenzioni e poi in leggi. Inizia l’era in cui le opere d’arte concepiscono la parete come una terra di nessuno su cui proiettare il loro concetto di imperativo territoriale. E non siamo molto lontani da quel tipo di guerriglia di confine che spesso balcanizza le collettive nei musei. È particolarmente spiacevole vedere le opere che cercano di conquistarsi un territorio anziché uno spazio nel contesto della moderna galleria aspaziale.
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Frank Stella, veduta dell’installazione, Leo Castelli Gallery, New York, 1964. Kenneth Noland, veduta dell’installazione, André Emmerich Gallery, New York, 1967.
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Tanto trambusto sulla parete ha reso quest’ultima una zona tutt’altro che neutrale. Non più mero supporto passivo ma protagonista dell’arte, la parete è diventata la sede di ideologie contrapposte, e ogni nuovo sviluppo doveva essere corredato da una visione di essa (i microdipinti di Gene Davis, esposti in una marea di spazio, ne mostrano una versione ironica). Una volta diventata una potenza estetica, la parete ha trasformato qualsiasi cosa vi fosse esposta. Da contesto dell’arte, si era arricchita di un contenuto e lo regalava sottilmente a quest’ultima. Oggi è impossibile allestire una mostra senza perlustrare la parete come un ispettore sanitario: bisogna tener conto dell’estetica che inevitabilmente trasformerà in arte l’opera, spesso diffondendone le intenzioni. La maggior parte di noi “legge” un allestimento come mastica un chewing gum: inconsapevolmente e per abitudine. La potenza estetica della parete ha ricevuto un impulso finale da una presa di coscienza che, a posteriori, ha tutta l’autorità dell’inevitabilità storica: il dipinto da cavalletto non doveva essere per forza rettangolare. Le prime tele sagomate di Stella piegavano o tagliavano il margine a seconda delle esigenze della logica interna che le generava. (In questo caso, la distinzione tra struttura induttiva e deduttiva delineata da Michael Fried resta uno dei pochi strumenti pratici aggiunti alla valigetta nera del critico.) Ne risultava una potente attivazione della parete su cui l’occhio vagava in maniera tangenziale cercandone i limiti. Le tele a strisce tagliate a forma di t, u e l che Stella espose da Castelli nel 1960 “sviluppavano” ogni piccola porzione di parete, dal pavimento al soffitto, da angolo ad angolo. Piattezza, margine, formato e parete intrecciarono un dialogo senza precedenti in quella piccola galleria dell’uptown. La presentazione faceva oscillare quelle opere tra un effetto d’insieme e un senso d’indipendenza. L’allestimento era rivoluzionario quanto i dipinti: poiché era parte integrante dell’estetica, si era evoluto insieme a questi ultimi. La rottura del rettangolo confermò formalmente l’autonomia della parete, alterando una volta per tutte il concetto di spazio espositivo. Parte della mistica associata al piano pittorico privo di profondità – una delle tre grandi forze che hanno modificato lo spazio della galleria – era stata trasferita al contesto dell’arte. Tutto questo ci riporta a quell’archetipo, ovvero alla foto dell’installazione con le sue soavi estensioni spaziali, la sua chiarezza cristallina, i dipinti allineati come una fila di lussuosi bungalow. Il Color Field, un riferimento inevitabile, è il più imperiale dei movimenti nella sua esigenza di Lebensraum. I dipinti si susseguono con la rassicurante regolarità delle colonne di un tempio classico. Ciascuno richiede uno spazio sufficiente perché il suo effetto sia concluso prima che entri in gioco quello del vicino. Diversamente, i dipinti costituirebbero un unico campo percettivo, un insieme pittorico che sminuirebbe l’unicità rivendicata da ogni tela. La foto dell’installazione Color Field dovrebbe essere
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William Anastasi, Main Gallery, West Wall, “Six Sites”, Dwan Gallery, New York, 1967.
considerata uno dei vertici teleologici della tradizione moderna. C’è qualcosa 34
di splendidamente sfarzoso nel modo in cui i dipinti e la galleria dimorano in un luogo che gode di un ampio riconoscimento a livello sociale. Siamo consapevoli di assistere a un trionfo della serietà e della produzione manuale, come se la Rolls Royce esposta in un salone in origine fosse un macinino cubista in un fienile. Cosa potremmo dire di tutto questo? Un commento è già stato formulato, in una mostra di William Anastasi alla Dwan Gallery di New York nel 1965. Anastasi fotografò la galleria vuota, rilevò i parametri della parete dall’alto in basso e da destra a sinistra, l’ubicazione di tutte le prese elettriche, l’oceano di spazio nel mezzo. Dopodiché serigrafò tutti questi dati su una tela leggermente più piccola della parete e la appese su quest’ultima. Coprire la parete con un’immagine di se stessa significa posizionare un’opera d’arte proprio nella zona in cui superficie, murale e parete hanno intrecciato un dialogo di importanza centrale per l’avanguardia. Questa storia era appunto il tema dei dipinti di Anastasi, un tema affrontato con un’intelligenza e un’efficacia di cui le nostre esegesi scritte sono generalmente sprovviste. Almeno per me, la mostra ebbe uno strano effetto a posteriori: quando i dipinti furono smontati, la parete diventò una sorta di murale readymade che avrebbe condizionato tutte le altre mostre organizzate successivamente in quello spazio.
Postfazione
Commentare a distanza di anni ciò che si è scritto in passato ci avvicina più di qualunque altra cosa a un ritorno dal regno dei morti. Assumiamo un falso senso di superiorità sul nostro io precedente, quello che ha svolto tutto il lavoro. Rileggendo questi articoli riesumati dalle loro cartelline, quindi, cosa devo aggiungere? Molto. Negli ultimi dieci anni parecchie cose sono state sepolte come se non fossero mai successe. Le arti visive non progrediscono grazie alla buona memoria. E New York è votata a un’amnesia radicale. Si può reinventare il passato mascherandolo come più ci conviene, se nessuno lo ricorda. Questa è l’originalità, quel feticcio patentato dell’io. Cosa è stato sepolto? Uno degli sforzi più lodevoli mai intrapresi dalla comunità artistica, ovvero la messa in discussione – concertata da tutta una generazione attraverso una matrice di stili, idee e movimenti più o meno abbozzati – del contesto della sua attività. L’arte di un tempo era al servizio dell’illusione, oggi è fatta di illusioni. Negli anni sessanta e settanta tentare di rinunciarci era pericoloso e quasi intollerabile, perciò da allora ogni tentativo in questo senso è stato denigrato. Le illusioni sono tornate, le contraddizioni vengono tollerate, il mondo dell’arte è lì al suo posto e tutto va per il meglio. Quando si interferisce con un settore economico o lo si sovverte, il suo sistema di valori va in tilt. Il modello economico che vige da cent’anni in Europa e in America è un prodotto, filtrato dalle gallerie, offerto ai collezionisti e alle istituzioni pubbliche, commentato sulle riviste in parte finanziate dalle gallerie, e poi convogliato verso il mondo accademico che stabilisce la “storia” certificando, come fanno le banche, il valore dei beni custoditi nel suo principale deposito, il museo. La storia dell’arte, in fin dei conti, vale denaro. Pertanto noi non abbiamo l’arte che meritiamo ma l’arte per cui paghiamo. Nessuno ha mai osteggiato questo sistema di comodo, nemmeno il suo protagonista principale, ovvero l’artista. Il rapporto dell’artista d’avanguardia con il suo contesto sociale è intessuto di contraddizioni perché l’arte visiva ha un barattolo di latta attaccato alla
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coda. Fa delle cose. E, di contro, per citare Emerson, l’uomo monta in sella e le porta in banca. Nel suo zigzagare dallo studio al museo le vicissitudini di questo prodotto ogni tanto suscitano qualche commento, in genere con un vago retrogusto marxista. L’idealismo insito nel marxismo non attecchisce molto sugli empiristi inveterati, categoria di cui faccio parte. Ogni sistema definisce la natura umana in funzione dei propri obiettivi, ma ignorarne o mascherarne gli aspetti più sordidi è l’attrattiva principale di qualsiasi ideologia, che cerca di convincerci che siamo migliori di quanto non sia. Le diverse versioni del capitalismo riconoscono quantomeno il nostro egoismo di base, ed è questo il loro punto di forza. Le commedie dell’ideologia e dell’oggetto (che si tratti di un’opera d’arte, di un televisore o di una lavatrice) si svolgono su un terreno in cui proliferano le solite false speranze, menzogne e megalomania. In tutto questo, è ovvio, è coinvolta anche l’arte, di solito come spettatrice innocente. Nessuno infatti è più innocente dell’intellettuale di professione, che non ha mai dovuto decidere tra due mali e agli occhi del quale il compromesso è un atto di disonore pubblico. È stata l’avanguardia a elaborare, nell’intento di proteggersi, l’idea della portata mistica e redentrice del valore estetico, sociale e morale della sua produzione. Questa idea è nata dalla fusione dei residui della filosofia idealista con i programmi sociali idealisti agli esordi del modernismo. 130
Probabilmente non c’è testo migliore per giustificare qualsiasi avanguardia, di destra o di sinistra, futurista o surrealista, del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill. Collocare l’energia morale in un oggetto commerciabile, però, è come vendere indulgenze, e noi sappiamo bene quali riforme ciò ha provocato. A prescindere dalle sue virtù eroiche, il concetto di avanguardia ha – oggi ce ne rendiamo conto – non poche responsabilità. Il suo peculiare rapporto con la borghesia (citato per la prima volta da Baudelaire nella prefazione al Salon del 1846) è interdipendente e in fin dei conti farsesco. Il culto dell’originalità, la determinazione del valore, l’economia della scarsità, della domanda e dell’offerta si applicano con singolare pregnanza alle arti visive, le uniche in cui la morte dell’artista provochi un profondo scossone economico. La marginalità sociale dell’artista d’avanguardia e il lento spostamento della sua opera, simile a un’imbarcazione senza equipaggio, verso i centri della ricchezza e del potere sono perfettamente in linea con il sistema economico dominante. Qualsiasi produzione di valore, infatti, implica in primo luogo che si dissoci il prodotto dal produttore. Il programma sociale del modernismo, se così lo si può chiamare, ha ignorato il suo contesto immediato per invocare grandi riforme sulla base del fatto che parlava da una posizione privilegiata. (È la fallacia della “celebrità”: come chiedere a Babe Ruth delle soluzioni per la grande depressione.) Oggi sappiamo che il produttore ha un controllo limitato sul contenuto della propria arte. È la ricezione di quest’ultima che ne determina il contenuto, e quel contenuto, come apprendiamo dai teorici revisionisti, è paurosamente retroat-
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tivo. Anzi, l’attribuzione retroattiva di un contenuto all’arte ormai è diventata un’industria a domicilio. E anche un’attività cumulativa. Ciascuno deve fare un abile uso del calzare per riuscire a infilare la sua piccola parte di contenuto. Quanto a quello originale, se analizziamo la storia del modernismo esso non ha un effetto ideologico di grande impatto. Il modernismo ha trasformato la percezione, ma la politica della percezione è ancora da scrivere. Negli anni sessanta e settanta, quando la comunità artistica espresse il proprio dissenso sulla questione Vietnam e Cambogia, si impose una nuova visione: il sistema dell’arte andava rimesso in discussione. È questo per me l’indicatore essenziale di ciò che maldestramente – la morte è forse una post-vita? – viene chiamato postmodernismo nelle arti visive. Fu qualcosa di radicale. A volte è più sicuro fare sproloqui su grandi temi politici che pulire a fondo la propria cucina. Il coraggio politico si misura dal grado in cui la nostra posizione, se raggiunta in modo cauto, può nuocerci. Avviare il processo politico a casa propria è molto meno agevole. Gli artisti americani del dopoguerra, salvo qualche eccezione (per esempio Stuart Davis e David Smith), non capivano granché del ruolo giocato dalla politica nell’accoglienza dell’arte. Viceversa, non pochi artisti degli anni sessanta e settanta, in particolare la generazione minimalista/concettuale, lo coglievano benissimo. Ciò implicò una curiosa trasposizione: l’analisi che l’arte conduceva su se stessa divenne, praticamente dall’oggi al domani, un’analisi del suo contesto sociale ed economico. Diverse furono le cause di questo processo. Molti artisti erano irritati dal pubblico di riferimento: sembrava insensibile a tutto tranne che alla questione della connoisseurship. E la sua voce era smorzata dal costoso circuito (galleria, collezionista, casa d’aste, museo) attraverso cui l’arte era inevitabilmente offerta. L’evoluzione interna di quest’ultima iniziò a premere contro diversi limiti convenzionali, sollecitando letture contestuali. Tutto ciò accadeva in un quadro sociale inquieto in cui proteste e formulazioni radicali erano all’ordine del giorno. La situazione era potenzialmente rivoluzionaria. Com’era inevitabile, quella quasi-rivoluzione fallì. Certe sue intuizioni e insegnamenti però sono rimasti anche se, come accennavo prima, qualcuno ha un interesse personale a farli cadere nell’oblio. Una domanda resta senza risposta, e probabilmente non ne troverà mai una: le reazioni dell’arte a questa situazione erano di ordine teleologico o politico? Se l’elemento chiave del discorso, tanto estetico quanto economico, è l’opera, allora eliminiamola, perché no, e il sistema si richiuderà in un ultimo spasmo attorno a un vuoto. Non c’è più nulla o quasi nulla da comprare, laddove “comprare”, è ovvio, è la parola sacra. Rendiamo l’arte difficile, ciò ne ritarderà l’assimilazione. Se l’arte vive attraverso la critica, facciamo un’arte più critica, trasformiamola in parole che rendano la critica stessa un’assurdità. E poi troviamo persone che paghino per questo. Indaghiamo sul collezionista, sull’origine del
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suo conto in banca; sondiamo quello che Nancy Hanks era solita chiamare il più grande nemico del museo: il consiglio di amministrazione. Analizziamo la deriva affarista del museo, la maniera in cui il suo direttore – il rappresentante più perseguitato della borghesia – diventa uno zingaro in giacca e cravatta. Studiamo il destino economico dell’arte, il protezionismo che circonda i grandi investimenti. Osserviamo il funzionamento delle case d’asta in cui l’artista, finché è vivo, può assistere alla propria autenticazione senza tuttavia parteciparvi. Prendiamo atto delle contraddizioni insite nel luogo in cui le opere vengono esposte e vendute. E notiamo l’autoselezione connaturata a questo sistema in cui l’arte dei musei è molto diversa da quella di cui parlava Cézanne quando voleva rifare l’Impressionismo. Come il formalismo ha portato a un’arte fabbricata su ordinazione (e allo stesso modo il New Criticism ha finito per generare i propri esemplari poetici), così i musei hanno promosso una sorta di arte da museo – in questo senso, una vera e propria arte ufficiale – adatta allo sguardo delle masse. Non sono certo di poter contrapporre a essa uno scenario di buona arte alla deriva immune a questo processo. Il pensiero che dietro vi sia molto più di quanto la nostra arroganza non ci permetta di vedere, però, resta inquietante. E come spieghiamo la passione per l’effimero che ha cercato di anticipare il futuro? Prima di ogni altra cosa, ci veniva ricordato, dobbiamo essere consapevoli dei modi arbitrari e manipolatori di assegnazione del valore. 132
Di cosa si nutriva questa curiosa esplosione di idee? A parte il solito riferimento al socialismo blando, essa nasceva dal desiderio dei produttori di arte di controllarne il contenuto? O forse era un tentativo di separarla dai consumatori? Uno dei suoi aspetti fu, nel corso degli anni settanta, il frantumarsi (intenzionale o meno) della tendenza dominante in una molteplicità di stili, movimenti e attività. Questo pluralismo risultava intollerabile ai puristi dell’estetica, la cui passione per la tendenza dominante favorisce tuttavia il marketing – e non è la prima volta che l’idealismo estetico e il commercio si sovrappongono perfettamente. Il sistema mantiene anche la sicurezza di disporre sempre di un nuovo prodotto grazie a quell’imperativo particolare, proprio delle arti visive, che io chiamo “assegnazione di spazi riservati”. Molti artisti vengono identificati con il momento culminante della loro attività e non sono autorizzati a distaccarsene. Il presente prosegue la sua corsa, lasciandoli a gestire il loro investimento, da tristi imperialisti del loro io estetico. Anche i cambiamenti sono vietati: sono considerati un fallimento morale, a meno che la loro moralità non possa essere dimostrata in maniera convincente. Esclusi dal discorso contemporaneo, questi artisti attendono aleatorie boccate d’ossigeno dal presente. L’originalità è reificata, e così il suo creatore. La scena artistica di tutti i grandi centri è sempre una necropoli di stili e di artisti, un colombario visitato e studiato da critici, storici e collezionisti.
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Per una clamorosa ironia, questa grande intuizione ha finito per portare, negli anni ottanta, a una riconferma di tutto ciò che era stato messo a nudo e spazzato via. Prodotto e consumo sono tornati con una sovrabbondanza di contenuti per coloro che ne avevano sentito la mancanza. Le nuove opere si difendono assumendo maschere diverse da cui trapela una rete sottile di allusioni ironiche; il soggetto sfrutta se stesso e riappaiono alcuni dei paradossi del Pop, spesso serviti da una critica che mette briosamente in discussione i fondamenti dei giudizi di valore. Lo spazio espositivo è tornato a essere l’arena incontestata del discorso. Ma è proprio questo, appunto il tema del libro. L’arte pericolosa e inafferrabile del periodo che va dal 1964 al 1976, insieme ai suoi insegnamenti, sta sprofondando lontano dal nostro sguardo: così vuole la cultura del nostro tempo. Brian O’Doherty New York, 1986
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