Il mondo-immagine è il grande film della nostra epoca. Ne siamo dentro e fuori, oggetti e soggetti, allo stesso tempo. Noi stessi siamo divenuti la pellicola dell’esistenza.
Federico Ferrari
L’insieme vuoto Per una pragmatica dell’immagine
Federico Ferrari L'insieme vuoto
Federico Ferrari (1969) insegna Filosofia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. Tra i suoi libri: Nudità (1999), Lo spazio critico (2004), Costellazioni (2006), Sub specie aeternitatis (2008), Il re è nudo (2011), Arte essenziale (2011) e, con Jean-Luc Nancy, La pelle delle immagini (2003) e Iconografia dell’autore (2006).
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isbn 978-88-6010-092-4
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©2013 Johan & Levi Editore Redazione Cinzia Morisco Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di febbraio 2013 isbn 978-88-6010-092-4 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.
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Federico Ferrari
L’insieme vuoto Per una pragmatica dell’immagine
Sommario
Preambolo — 9 Mondo-immagine — 13 Homo figurans o il cane alla finestra — 17 L’insieme vuoto — 20 Dell’essenza dell’immagine — 24 L’imprevisto — 31 Vedere non è leggere — 35 La configurazione o della parola critica — 39 L’immaginazione creatrice o della parola poetica — 42 Giustizia dell’immagine — 48 La nuda realtà — 49 Il forsennato — 54 Kleine Form — 56 Una gaia serietà o della rivoluzione — 59 Il ritmo sovrano della visione — 63 Filiazioni — 66 Note — 70 Ringraziamenti — 72
È impossibile pensare senza immagine […]. La memoria, anche quella degli intelligibili, non esiste senza immagine. Aristotele E sono proprio le immagini più significative – quelle sviluppate nella camera oscura dell’attimo vissuto – che ci è dato di vedere. E tutta la vita […] si compone esattamente di queste piccole immagini. Walter Benjamin
Preambolo
Che cos’è un’immagine? Perché le immagini hanno assunto un’importanza così grande nelle nostre vite? Cosa significa avere uno sguardo? Sono queste alcune delle domande a cui cercano di rispondere i brevi scritti che nel corso degli anni si sono imposti come una necessità a chi qui oggi li presenta. In fondo, in questo agile libretto si troveranno tentativi, sguardi furtivi gettati sulla complessità di un problema: la lenta ma progressiva trasformazione del mondo in immagine, trasformazione i cui confini restano oscuri a molti di noi, se non a tutti. Mi è parso che il problema di una pragmatica dell’immagine contemporanea – che, a mio avviso, è stato enucleato in modo originario e con straordinaria chiarezza nell’ancora fondamentale L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin, per poi essere ripreso e rivoltato, con altrettanta forza, dalla Società dello spettacolo di Guy Debord, fino a divenire negli ultimi trent’anni un tema centrale di tutti gli studi denominati visual cultures – potesse trovare una fertile sponda nelle riflessioni sul ritmo, sul rapporto ritmico tra immagine e
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parola, che gli imagistes, Ezra Pound in testa, ponevano all’inizio del secolo scorso (in realtà, il problema del ritmo è il problema stesso di ogni parola poetica, dai greci fino a Hölderlin). Ho creduto, infatti, che per comprendere il problema dell’immagine, così come oggi si configura, fosse necessario volgere l’attenzione alla dimensione del tempo, del tempo che l’immagine, attraverso il suo ritmo, scandisce nell’esistenza. In un certo senso, lo spazio dell’immagine poteva assumere contorni più chiari se esposto alla questione del tempo in cui ci è dato di percorrerlo, questo spazio. Detto altrimenti, la questione dell’immagine, dello spazio e del legame sociale che essa crea, si delineava, nello svolgersi dei miei pensieri, come la questione di un ritmo dell’immagine, di una sua cadenza o metrica «che non imita nulla e non può essere imitata», per dirla con Pound. Questa metrica mi è sembrata, dunque, che, nel mondo contemporaneo, si delineasse come una metrica libera, come una metrica il cui ritmo sfugge, alterandosi in continuazione e spostando l’accento, di volta in volta, dove meno lo si aspetta. In qualche modo, pensare la questione dello sguardo in una società delle immagini significava, ai miei occhi, saperne seguire o cogliere il ritmo; e questo tentativo ha dato vita all’abbozzo di una pragmatica dell’immagine, cioè a uno studio sull’uso delle immagini e sul mondo che esse creano o, per parafrasare la celebre formulazione di Austin, sull’how to do things with pictures. In fondo, questo tentativo di investigare una pragmatica dell’immagine ha, di fatto, significato esporsi alla questione di un’ontologia dell’immagine, di cui il ritmo o l’alternanza tra
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apparizione e scomparsa, tra visto e invisto, descriveva la struttura primaria. Gli scritti che seguono cercano, quindi, di scandire questo ritmo, alternando visioni alte a visioni da nulla, teoria e prassi, parola tecnica e parola poetica, biografia e storia. Questa varietà di ritmi mi è apparsa come la sola capace di rispondere alla complessità dell’immagine, il cui statuto ontologico non solo è decisamente mutato, ma resta oscuro e di difficile comprensione. Questa raccolta di saggi brevi si presenta più come un insieme di visioni possibili che come una visione del mondo, una Weltanschauung. Penso, però, che la frammentazione con cui si dovrà scontrare il lettore non sia solo dovuta alla fascinazione dell’autore per il romanticismo di Jena, ma corrisponda alla cosa stessa. Credo, infatti, che l’immagine contemporanea sia esattamente questa disseminazione dello sguardo nell’impossibilità di una sola visione del mondo, di una sola misura. Se si darà quindi una metrica di questa visione disseminata si tratterà di una metrica plurale o meglio, per usare un’espressione di Jean-Luc Nancy, una metrica “singolare plurale”. L’immagine contemporanea impone, quindi, una nuova metrica della visione che parta dalla singolarità di ogni visione ma sia anche capace di abbracciare la pluralità delle visioni possibili. Se, quindi, gli insiemi possibili, la quantità di visioni possibili, sono, come chiaro, infiniti, ciò che davvero conta e a cui l’attenzione sempre deve andare è ciò che sottende ed è quindi comune a tutte le visioni. Detto in altri termini, con i termini della teoria degli insiemi, è quell’insieme vuoto che si presenta come
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un nulla che è anche qualcosa. Questo insieme vuoto, come avremo modo di comprendere, è lo sguardo, è ciò che ci precede e che resta aperto al di là di ogni visione possibile, di ogni immagine data. L’insieme vuoto dello sguardo è la potenza del vedere. Guardare al ritmo, anche vertiginoso, in cui le immagini, ognuna secondo la propria misura, si susseguono e trasmutano le une nelle altre, e pensarle sullo sfondo dell’insieme vuoto da cui scaturiscono, è forse un modo per imparare a vedere meglio, percependo con una maggiore consapevolezza critica e sensibile, ciò che è impossibile osservare: il proprio sguardo.
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Mondo-immagine
Una sola immagine. Sapersi fermare su un’immagine. Arrestare lo sguardo e cominciare finalmente a guardare, a sfiorare la pelle dell’immagine. Esporsi senza pudore alla nudità del corpo che si ritrae sulla superficie dell’immagine. Deviare la speculazione verso il lato voyeur del pensiero, verso il suo desiderio, ponendolo però al di là di ogni petit secret. Accarezzare le forme attraverso le parole. Lasciare che le frasi si strutturino sui corpi e come corpi. Dar vita a un corpus di scrittura, a una scrittura per immagini. Cogliere ogni volta la singolarità di un’immagine e di un corpo. Restare a bocca aperta davanti al più elementare degli scenari: mani, piedi, seni, case, alberi, macchine, paesaggi, dolori, piccole gioie. Ogni volta di nuovo. E poi ricominciare. Un’altra immagine, un altro sguardo. Tutto ciò va ben oltre i limiti di un libro. Tutto ciò ha a che fare con il tentativo di ripensare in modo radicale il rapporto tra le parole, le immagini e l’idea di visione o l’idea come visione. In un certo senso, quando si intraprende questo cammino si è sempre solo all’inizio, un inizio attraverso il quale inoltrarsi nel campo ancora
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oscuro di quella disciplina che ha assunto il nome pacifico di iconografia, ma che si potrebbe anche chiamare critica dell’immagine o critica della visione, o quell’insieme di saperi che si riassumono nell’espressione anglosassone visual cultures. Disciplina i cui confini sono ben più ampi e incerti di quelli delle arti figurative e richiedono un sapere più duttile di quelli esclusivamente storici o filosofici. Ripensare la critica e il suo ruolo, dunque. Ripensarla da capo a fondo, giungendo a una inevitabile messa a nudo del suo argomentare e a una dismissione di tutto l’apparato concettual-decorativ-oppressivo di cui si è rivestito il discorso critico. Chiaramente, se si vuol davvero cercare di riformulare l’iconografia, portandola verso una più ampia critica o pragmatica della visione, occorrerà non solo ripensare in modo radicale i fondamenti su cui essa poggia, ma anche smascherare la povertà di ogni discorso della fine, di ogni post-, e di ogni -ismo. In una parola, si tratta di finirla con ogni visione depotenziata, epigona, astraente e separante e di cominciare invece finalmente a pensare l’atto della creazione e una scrittura capace di de-scrivere l’apparizione dell’immagine come una creazione ex materia – l’evidenza del nostro mondo-immagine. Il mondo-immagine ha certamente a che vedere con “il mondo concepito come immagine”, come lo chiamava Heidegger, anticipando e andando oltre “la società dello spettacolo”. Il mondo-immagine è un mondo in cui «la cosa sta così come noi la vediamo»,1 in cui la cosa è totalmente esposta e non rinvia più a nient’altro dietro la sua evidenza. Ed è in questo senso
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che il mondo-immagine «non [è] una raffigurazione del mondo, ma il mondo concepito come immagine».2 Il mondo-immagine non si accontenta né del disincanto nichilista di tanta semiotica dei media o dell’asfissiante neopositivismo universitario né dell’elitario catastrofismo vetero-platonico situazionista. Il mondo-immagine è il grande film della nostra epoca, che non segue più la struttura di una “storia”, non è più sorretto da una trama, ma è piuttosto un “movimento” composto dal concatenarsi dei fotogrammi delle nostre esistenze. Noi ne siamo dentro e fuori, oggetti e soggetti, allo stesso tempo. Non c’è più un supporto che ritrae, alienandole, le nostre esistenze: noi stessi siamo divenuti la pellicola dell’esistenza. Il mondo-immagine è il nostro spazio comune, sempre in bilico tra, da una parte, la possibilità di accedere a un nuovo statuto della visione e del mondo (che sia il luogo di tutti) e, dall’altra, l’espropriazione della nostra concreta vita comune. Per scrivere la pragmatica di questo mondo, del suo modo di vedersi, senza cadere nel feticismo spettacolare ma nemmeno rifugiandosi in una presunta autenticità che lo precederebbe, abbiamo bisogno di una scrittura paradossale, una scrittura che ci porti fuori della falsa alternativa tra cosa in sé e apparenza, tra autentico e inautentico, tra arte e tecnica, tra mondo e immagine, tra visibile e invisibile; che ci porti, quindi, anche fuori di sé. Non altrove, ma sulla superficie, sulla pelle delle cose. Nessuna fuga, nessun estetismo, ma un riportare tutto – davvero tutto – a portata dei sensi. Fare senso, dare una presenza al senso. Farne un’immagine totalmente esposta. Portare la parola alla resi-
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stenza dell’immagine, alla sua corporeità, al suo spessore, alla sua potenza. Liberare del possibile, tra la parola e l’immagine, tra l’ascolto e lo sguardo, tra la rabbia e l’amore, tra la salvezza e il naufragio, tra il desiderio e la ragione, tra un piede e una mano, tra me e te.
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Homo figurans o il cane alla finestra
È sera e fa buio. Passeggio per Milano. I televisori emettono immagini multicolori e le case si illuminano a intermittenza. Al terzo piano di una palazzina, un tempo sede dell’editore Mursia, qualcuno, da dietro i vetri, guarda in strada, mentre gli altri sono evidentemente immobili davanti allo schermo. Guardo meglio. Riconosco i tratti. Non è un uomo, ma un cane, un boxer. Lo vedo, mentre mi segue con lo sguardo. C’è un che di inquietante nello sguardo animale. Familiare ed estraneo allo stesso tempo, lo sguardo dell’animale è muto come nessun altro sguardo. Forse è proprio osservando questo sguardo che, più che in ogni altra situazione, diviene percepibile la differenza tra lo zôon lógon échon, l’uomo, e gli altri esseri viventi. Certo, come ci ricorda Berger, è proprio «il silenzio dell’animale, [a] garantirne la distanza, la sua diversità, la sua esclusione dall’uomo»,3 ma è nell’immagine del silenzio dello sguardo che la differenza uomo/animale davvero risuona. L’uomo e l’animale sanno inquietarsi l’uno con l’altro nello scambio degli sguardi, ma solo l’uomo, forse, sa creare un’immagine dell’animale, sa
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metterlo a distanza nell’immagine. Non è un caso che il primo soggetto della pittura sia stato l’animale. Come se nel momento in cui il lavoro dell’homo faber si emancipava da un fine unicamente utilitario, entrando nel dominio dell’arte, si originasse la progressiva scissione tra uomo e animale. Secondo le ipotesi avanzate da Bataille nelle sue riflessioni sulle pitture rupestri di Lascaux, con l’apparire delle prime immagini l’uomo diviene definitivamente sapiens: non tanto e non solo capace di produrre sapere, ma creatore, tramite il prodigio in pura dépense dell’arte, di immagini sensibili. Rappresentando (l’animale), l’uomo diveniva uomo, diveniva homo figurans o homo effingens. In un certo senso, l’uomo, rappresentandolo estasiato, cominciava a perdere l’animale, a non riconoscerne più lo sguardo, riducendolo al proprio guardare. L’homo figurans portava lo sguardo muto e spalancato dell’animale in un altro sguardo, il proprio, che si voleva all’altezza dell’eccesso animale o, meglio, oltre quell’eccesso, in un eccesso al quadrato che duplica il primo riassorbendolo nell’oggettività di un’immagine. Nel gioco di una rappresentazione che si avvicina, snaturandolo, all’illimitato far niente dell’animale, l’uomo si separava dal resto del mondo vivente. Questa messa a distanza dell’animale ha, agli albori dell’umanità, la caratteristica di un gesto sacro, essendo il sacro proprio ciò che è messo da parte, ciò che è separato, distinto. L’arte di creare immagini è dunque sempre per gli uomini delle caverne un sacrificio, un fare sacro. All’inizio, l’homo figurans e l’homo sacer coincidono. Naturalmente, la rappresentazione dell’animale ha progressivamente perso la propria forza originaria e la
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propria sacertà, tranne forse per il mondo dell’infanzia. «Fu nel xix secolo che le riproduzioni di animali divennero parte integrante dell’universo infantile delle classi medie – e poi, in questo secolo, con l’avvento di sistemi di comunicazione e vendita massificati come quello disneyano – di ogni tipo di infanzia.»4 L’animale, però, pur sopravvivendo nell’immaginario infantile e nell’inconscio umano, è ormai definitivamente scomparso dalla vita quotidiana: vi appare solo come figura quanto mai antropomorfa, oggetto di attenzioni e affetti più che umani, “troppo umani” (oppure rimane relegato al mondo, subumano, dell’allevamento e della carneficina dell’industria alimentare). Ma, in questa serata primaverile milanese, l’animale umanizzato, rinchiuso tra le mura domestiche, riesce ancora a inquietare lo sguardo, conservando negli occhi malinconici e curiosi traccia di quella separazione primordiale tra umanità e animalità. Davanti allo sguardo di quel cane alla finestra, però, una serie di domande restano senza risposta: perché l’animale guarda dalla finestra, ma non guarda le immagini che fuoriescono dal tubo catodico o si disegnano sul plasma e sui led? Perché segue con attenzione il mondo che sta fuori della finestra e non quello che sta dentro la finestra del televisore? Che differenza c’è tra il mondo-immagine e l’immagine del mondo? Forse in quello sguardo si conserva l’enigma dell’insopprimibile differenza tra il mondo-immagine e l’immagine del mondo. Potremmo anche dire l’enigma del reale, nella sua differenza dall’immaginario.
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L’insieme vuoto
L’insieme vuoto rinvia a un concetto paradossale. Si tratta, infatti, di un insieme che non ha elementi ed è quindi composto di nulla, ma che, in quanto insieme, è qualcosa. Non solo è un nulla che è qualcosa, ma è anche l’insieme a partire dal quale sono costruiti tutti gli insiemi finiti. L’insieme vuoto non è, quindi, un insieme come tutti gli altri o tra tutti gli altri, è un insieme unico, aperto e chiuso allo stesso tempo. A rigor di termini, non si può usare l’espressione “un insieme vuoto”, si può solo dire “l’insieme vuoto”. Per cercare di comprendere il concetto di pictural turn o, per dirla più semplicemente, l’enorme importanza che l’immagine e, di conseguenza, lo sguardo, il suo senso e la sua necessità, hanno assunto nelle nostre società, può essere utile perseverare sulla soglia di questo paradosso. Lo sguardo deve essere pensato come l’insieme vuoto della visione, come quell’orizzonte, aperto e chiuso allo stesso tempo, che sta alla base di ogni visione possibile. Lo sguardo è il luogo, lo spazio, la forma, l’insieme a partire da cui si può dare una visione, ogni singola visione, le n+1
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visioni possibili. Ma il suo spazio, lo spazio dello sguardo, è vuoto, deve anzi restare vuoto affinché possano darsi elementi, affinché tutti gli altri insiemi possano arricchirsi di sempre più elementi, siano anzi tendenzialmente aperti e infiniti, mai determinabili una volta per tutte. Nessuno sguardo può comprendere tutte le visioni. Nessuno sguardo potrà mai precludere la possibilità di una visione ulteriore, l’apparire di un nuovo elemento. Nessuna teoria dello sguardo potrà mai porsi come finale; potrà porsi, cioè, come quella teoria capace di afferrare lo sguardo primo o ultimo. Anche se è solo cercando di persistere nel paradosso dello sguardo primo, del primo sguardo, che si potrà forse comprendere che cosa significhi vedere e cosa siano le immagini che investono la vista, che riempiono lo sguardo, l’insieme vuoto dello sguardo. Per tentare questa riflessione paradossale, è necessario che lo sguardo – potremmo anche chiamarlo sguardo trascendentale, lo sguardo che si pone come condizione di possibilità di ogni visione possibile – conservi in sé uno spazio vuoto; è cioè necessario che questo paradossale sguardo primo sia capace di preservare le sue proprietà ontologiche o essenziali, prima fra tutte il suo essere non una sorta di superinsieme, che conterrebbe tutti gli altri (nessun mitologico sguardo di sorvolo, nessun cosmotheoros e neppure nessuno sguardo originario), ma semmai un sottoinsieme di tutti gli altri. L’insieme vuoto non contiene tutti gli altri insiemi (pur essendone il punto iniziale, il momento aprente), ma è anzi contenuto in ognuno di loro. Lo sguardo è un sottoinsieme delle visioni e ogni visione mostra il confine paradossale dello sguardo.
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Se si dà, dunque, un’ontologia dello sguardo questa riguarda un’essenza che non preesiste al proprio oggetto, la visione, ma che ne è come lo sfondo o il luogo, l’insieme in cui essa può apparire. Ma, questo spazio, questa essenza è in sé vuota. In questo senso, cercare di pensare il paradosso dello sguardo non significa cercare un’impossibile fondazione di uno sguardo originario, ma mettersi invece nella condizione di esporsi alla meraviglia della visione, al suo moltiplicarsi senza fine, in una pluralità incommensurabile di intersezioni possibili, di insiemi e sottoinsiemi la cui ricchezza delinea un orizzonte dalle frontiere imperscrutabili: solo guardando alla ricchezza infinita degli insiemi possibili si potrà comprendere l’altrettanto infinita potenza dell’insieme vuoto – l’infinita potenza dello sguardo. Per cercare, quindi, di comprendere la complessità della proliferazione di immagini della contemporaneità – proliferazione che ha portato alcuni a parlare di una trasformazione del mondo in una iconosfera – sarà dunque necessario abbracciare tanto la moltitudine germinante della produzione iconica del nostro tempo quanto il vuoto che lo sguardo è. Questa attenzione rivolta al vuoto, allo spazio vuoto dello sguardo, non sarà tesa all’instaurazione di una consolatoria metafisica della visione, vagheggiando una sorta di visione pura o purificata, ma al contrario cercherà solo, attraverso il vuoto, di vedere davvero cosa siano gli elementi, le particelle elementari che riempiono lo spazio dello sguardo. Pensare l’insieme vuoto significa aprirsi a una serie di sguardi elementari che possano cominciare a elaborare
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una nuova grammatica o tabella degli elementi di una cultura visiva non piĂš costruita su ormai obsolete categorie, ma su un nuovo sapere o una nuova teoria degli insiemi visivi. Questa teoria, se mai arriverĂ a una conclusione, non sarĂ fondata su una assiomatica ma su una pragmatica, una praxis della visione, delle visioni possibili.
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