La collezione come forma d'arte

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«Esistono […] modi svariati di incrociare l’arte, di catturare la bellezza, anche, e talvolta meglio, dedicandosi ad altro; questa bellezza anzi ha vita e pensieri propri e diversi, sfumature e sentimenti, freschezza e potenza che non si ritrovano altrove. Anche in questo senso collezionare è un esercizio estetico e la collezione assimilabile a un tipo di “opera”.»

elio grazioli

In copertina: Karsten Bott, Uno di ognuno, veduta dell’installazione “Von Jedem Eins” alla Kunsthalle Mainz, 2011 Foto Norbert Miguletz © Kunsthalle Mainz © Karsten Bott, by siae 2012

Nella stessa collana: 1. Maria Perosino (a cura di) Effetto terra 2. Marco Tonelli Pino Pascali – Il libero gioco della scultura 3. Stefano Pirovano Forma e informazione – Nuove vie per l’astratto nell’arte del terzo millennio 4. Alberto Zanchetta Frenologia della vanitas – Il teschio nelle arti visive

la collezione come forma d’arte — elio grazioli

la collezione come forma d’arte

Elio Grazioli è critico d’arte, insegna Storia dell’arte contemporanea all’Università e all’Accademia di Belle Arti di Bergamo. È direttore artistico della manifestazione “Fotografia Europea” di Reggio Emilia e codirettore della collana “Riga” per l’editore Marcos y Marcos, per la quale ha curato i volumi dedicati a Marcel Duchamp (1993), Alberto Giacometti (1996), Pablo Picasso (1996), Constantin Brancusi (2001), Francis Picabia (2003), Kurt Schwitters (2009). Fra le sue pubblicazioni: Corpo e figura umana nella fotografia (1998), Arte e pubblicità (2001), La polvere nell’arte (2004), Piero Manzoni (2007), Ugo Mulas (2010).

ISBN 978-88-6010-072-6

€ 18,00

Se ogni epoca ha un suo modo di collezionare, quello contemporaneo è segnato da un reciproco legame con la pratica artistica, tanto che le due attività spesso si sovrappongono fin quasi a confondersi. Gli esempi abbondano: da Joseph Cornell, cacciatore di bizzarrie con cui compone scatole divinatorie, a Claes Oldenburg, che espone come opera propria una raccolta di oggetti d’affezione; da Marcel Broodthaers, per cui il collezionare è all’origine della scelta di diventare artista, a Hans-Peter Feldmann che, sulla scia di Malraux, da anni ritaglia, classifica e incolla immagini per un insolito museo. Il collezionismo non è più solo affare di chi, non artista, raccoglie oggetti in quantità rilevante, ma diventa modalità espressiva di chi li accumula per costruire opere d’arte secondo il principio warburghiano del montaggio. D’altro canto, lo stesso collezionista è un artista che accetta di esprimersi tramite immagini dotate di un forte potere simbolico, tanto da essere quasi un’estensione della sua persona. Appena l’occhio li cattura, gli oggetti si caricano di qualità supplementari: spogliati della loro funzione, un sapiente lavoro di accostamenti e rimandi crea fra loro dialoghi inattesi, dando vita a un insieme organico che non tollera mutilazioni. La collezione assume così lo statuto di opera d’arte. Eclettismo, trasversalità, soffio personale definiscono una tipologia di collezione agli antipodi rispetto a quella chiusa e preordinata dei musei. A questa dimensione più privata e creativa fa riferimento Elio Grazioli il quale, nel ricostruire il percorso che dalla Wunderkammer porta al collage e all’assemblage, racconta un collezionismo non utilitarista ma passionale, meno vetrina di rappresentanza e più gioco per intenditori che sappiano apprezzare le articolazioni impreviste. Pratica, questa, che ha molto da insegnare a quelle istituzionali: una maggiore libertà e una necessità più sentita.



Elio Grazioli

La collezione come forma d’arte



sommario

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Nota dell’autore

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i.

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ii.

31

iii.

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iv.

71

v.

91

vi.

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vii.

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Note

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Bibliografia essenziale

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Crediti delle immagini

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Indice dei nomi



ii.

Ogni epoca ha un suo modo di collezionare a partire già dalla raccolta di stranezze ed esoticità che accompagna il collezionismo fin dai suoi inizi, che è forse il senso scatenante del collezionismo vero e proprio, la sorpresa di fronte a mondi nuovi, e insieme il suo aspetto più privato, più personale. Meno vetrina di rappresentanza e autorappresentazione, essa è più ricerca e gioco per intenditori, cioè per amici che possano, condividendoli, comprendere e apprezzare le ragioni e il significato delle scelte, delle acquisizioni, degli accostamenti, nonché delle metafore e dei racconti aneddotici che le accompagnano. Che sia il “medioevo fantastico” raccontato da Jurgis Baltrušaitis o l’“antirinascimento” di Eugenio Battisti, esiste già da allora un mondo dentro il mondo, un’eterogeneità dentro una presunta omogeneità, una incongruità che apre ad altre possibilità e percorsi. Le sue modalità ci interessano, e che siano state scoperte ‒ o riscoperte e valorizzate ‒ nel xx secolo non apparirà come un caso. Il secolo della modernità e delle avanguardie ha coltivato al proprio interno l’interesse per le forme di deviazione, queste enclaves tuttavia numerose, queste follie individuali ma diffuse, che rompono l’idea riduttiva dell’unità e della categorizzazione di una cultura e di un sentire. Sono modalità estranee a quelle dei musei ordinati per cronologia condivisa di movimenti, secondo una storia semplificata per uso delle scuole e dell’informazione, o delle raccolte presunte rigorose di una linea artistica o di un ambito selezionati, di un modo o di un’idea stabiliti, figlie di un modernismo calvinista o d’assalto. Collezioni, queste, basate su una concezione, un punto di vista, una visione, venuti e sovrapposti dall’esterno, prefissati e poi seguiti con scrupolo burocratico, riempiti dalle opere che le comprovano e non le mettono in discussione, “collezioni puzzle”, come vengono giustamente chiamate,1 perché mirano a completare il disegno, cercano le tessere mancanti nell’incastro preordinato. In questo senso, le collezioni di oggetti hanno per molti versi varie cose da insegnare a quelle d’arte, una loro superiore libertà e insieme una loro necessità più sentita e reale, ma anche una maggiore vicinanza a un’espressione personale e a una logica in costruzione. Così gli studioli, i gabinetti 13

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Parmigianino, Ritratto di un collezionista, 1524 ca. François Chaveau e Robert Nanteuil, Ritratto del cardinale Mazarino, 1659.

di curiosità, le cosiddette Wunderkammern, stanze delle meraviglie in cui eccentrici signori, dal Rinascimento al xvii secolo, radunavano le loro stravaganti raccolte, pur seguendo in gran parte criteri dettati da un esoterismo anch’esso fondamentalmente precodificato, erano però ricche di spunti e di deviazioni che non rientravano più nel disegno stabilito. Che è anche il duplice senso della parola “meraviglia”, oggetto da ammirare, perciò ricercato per essere collezionato ed esposto, ma anche sentimento che è insieme causa prima ed effetto da suscitare nel visitatore, sorprendendolo rispetto alle sue aspettative e conoscenze. Ne consegue che l’oggetto principale della raccolta di meraviglie è quello dallo statuto ambiguo, perfino dalla difficile riconoscibilità, misto di artificiale e naturale, indecidibile se opera di uomo o di natura, d’arte o di altra misteriosa energia e materia. Krzysztof Pomian ne fa il polo opposto della collezione di statue antiche o moderne, che dà «il primato al marmo e al disegno, alla purezza del progetto di produrre opere belle», mentre la Wunderkammer «tende a spingere ai suoi limiti estremi il progetto di realizzarne di straordinarie», di prodigiose, di differenziate per materiali, tecniche e forme.2 Non vi vedeva, il collezionista, mondi altri su cui si interrogava e che lo spingevano a pensarne uno proprio? Come sono tenuti insieme questi oggetti diversi, le opere disparate e non legate da stile o da caratteri estetici? Quali i criteri della loro scelta? Adalgisa Lugli ha fatto notare alcuni meccanismi che hanno presieduto alla formazione delle Wunderkammern e che ci interessano ancora oggi da vicino (lei stessa ne ha peraltro spesso fornito il rimando a opere di artisti contemporanei). Così la proiezione di forme antropomorfe su oggetti di ogni tipo – in cui si scorgono forme umane per “analogia”, nel senso di Paracelso, vale a dire di segno che la natura lascia perché l’uomo lo riconosca e lo riconduca a sé – è dal nostro punto di vista leggibile come attribuzione di senso a partire da sé, da una propria pulsione o motivazione interna, piuttosto che da un progetto o da un siste-

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Interno del Museo Settala. Da Pier Francesco Scarabelli, Museo o Galeria del Sig. Canonico Manfredo Settala, Tortona, 1666. Benedetto Ceruti e Andrea Chiocco, Interno del Museo di Francesco Calzolari, Verona, 1622.

ma stabiliti. Allo stesso modo il culto della trasfigurazione e del gioco delle somiglianze – «permeabilità delle cose e loro possibilità di trasformazione» specifica Lugli3 – vogliamo intenderlo non tanto nel senso di un’interpretazione del mondo esistente, ma in quello di una sua messa alla prova, per così dire, di una sua verifica di esistenza e interpretabilità, e dunque di costruzione di un altro mondo da salvare. Niente di più alchimistico ed esoterico, del resto, cui le Wunderkammern sono sempre associate. 15

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Interno del museo di Ferrante Imperato, Napoli, xvii secolo. Interno del museo Cospi, Bologna, xvii secolo. Interno del Museo di Ole Worm, Copenhagen, xvii secolo.

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Questo modo di intendere si estende fino all’attenzione, sempre fatta notare da Lugli, che nella Wunderkammer viene riservata anche allo spazio, al luogo, alle modalità e posizioni in cui gli oggetti vanno conservati ed esposti; attenzione per posizione ed ex-posizione, cioè non solo per la rappresentazione e il simbolismo, ma anche per la presentazione, per come le cose stanno nel luogo che è loro e come vanno offerte in visione al visitatore per essere comprese nella giusta maniera e direzione, oltre che nel giusto contesto. Le Wunderkammern da questo punto di vista sono le antesignane delle esposizioni d’arte contemporanea e delle “installazioni”. Senza scordare infine le proprietà terapeutiche attribuite a tanti di quegli oggetti meravigliosi e meraviglianti: è il carattere e l’effetto di un mondo che ha senso, di un’opera, la collezione stessa, dove la bellezza è scoperta con stupore, dove la ricerca è insieme un esercizio di indagine e di libertà. Lo ribadisce in maniera che più convincente non si può – rifacendosi proprio a Lugli, oltre che a Stephen Greenblatt – l’inventore della più famosa Wunderkammer immaginaria contemporanea, il Museo della Tecnologia del Giurassico, Lawrence Weschler, che alla meraviglia come strumento di conoscenza dedica documentate pagine del suo Gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson. Ma ancor più efficacemente Weschler sintetizza il senso della collezione in due interventi del suo eroe, Mr. Wilson, appunto. Il primo racconta come l’idea, anzi la vocazione alla raccolta sia nata in lui da una vera e propria «folgorazione improvvisa», una «sensazione con contenuto mistico», che un giorno gli rivelò quale sarebbe stato il compito della sua vita: «un servizio reso, che consiste nel fornire alla gente le condizioni… nel propiziare un ambiente nel quale essa possa cambiare».4 Nel secondo intervento Mr. Wilson, dopo aver contestato che esista una differenza tra vita ed estetica, svela il senso stesso della collezione di meraviglie: «Vede, alcuni aspetti di questo museo si possono penetrare molto facilmente, ma, una volta rimossi i semplici strati superficiali, la realtà sottostante è ancora più sorprendente di quanto quelli lascino intendere. I primi strati sono solo un filtro…».5 Strati e filtri sono la struttura stessa del collezionare, ma non è tutto qui, prosegue infatti Wilson, specificando da un lato che «la natura è più incredibile dei prodotti dell’immaginazione», ma dall’altro che «abbiamo un altro motto, qui al museo: Ut translatio natura, la natura come metafora».6 Certo non si tratta di un museo di scienze naturali, ma dell’esercizio della metafora che prende la natura stessa come oggetto, le sue manifestazioni e stratificazioni come dispositivi di “traslazione”, per questo ancora più sorprendenti di qualsiasi sforzo fantasioso. Alla luce di questa traslazione si comprenderà bene che anche il “servizio” di cui Wilson parla nel primo intervento è tutt’altro che un compito puramente didattico e utilitaristico, ma è invece la creazione di un «ambiente nel quale cambiare». Da parte sua Paolo Thea giustamente riassume: «In quel contesto è esaltato l’aspetto cognitivo e sublime del fare artistico e si apprezza la genialità fuori dal comune, l’eccellenza e i voli della fantasia anziché il rispet17

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Hieronymus Francken (attr.), Cabinet d’amateur, 1621.

to di canoni artistici».7 Non si tratta cioè – in ogni caso per noi – di ricerca della vaghezza o dell’ambiguità come esaltazione della confusione degli ambiti, della rottura dei confini tra le discipline, tra arte e scienza e altro ancora, di contaminazioni e di trasversalità finalizzate all’immaginario o alla fede in una forma unica e pervasiva, originaria e formante, ma piuttosto dell’arte che c’è in ogni disciplina, di nodi che si creano tra gli ambiti, di studio esatto della loro forma, della bellezza e del senso che sconfinano dallo specifico e non si pongono come modello ma come incontro sul percorso e come risultato di una spinta. Un’altra forma speciale di collezione tipica del xvii secolo è il cosiddetto cabinet d’amateur, quadro che ha come soggetto appunto la raccolta del collezionista, ed è quindi la rappresentazione di una collezione. Anche in questo caso, come in quello della collezione stessa, la stragrande maggioranza dei quadri nasce dalla volontà di fare ordine, di catalogare, piuttosto che di esporre liberamente e cercare nessi imprevisti. Prevalgono così le Allegorie, che siano dei sensi, delle virtù e dei vizi, dei generi, perfino dei continenti e quant’altro, o i “quadri mnemotecnici”, organizzazione e disposizione di rimandi come guida per la memoria, secondo l’antica tecnica retorica. Ma non c’è ars memoriae senza ars oblivionis, come giustamente ricorda Victor Stoichita, e non c’è allegoria apologetica senza reazione iconoclasta.8

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David Teniers il Giovane, Galleria dell’arciduca Leopoldo-Guglielmo, 1813.

A noi interessa invece in modo particolare un altro tipo di cabinet d’amateur, quello più libero dalle tentazioni classificatorie, che si manifesta allora nelle Quadrerie o nelle cosiddette Conversazioni. La Quadreria o Galleria dipinta è il corrispettivo del moderno montaggio ed «è il risultato della contestualizzazione di immagini che differiscono per provenienza, per stile, per messaggio».9 Essa si presenta nella maniera nuova della “parete di quadri”, resa possibile dalla diffusione della tela come supporto, trasportabile e maneggevole, nonché dalla semplificazione delle cornici e dalla moda del formato ridotto rispetto alle grandi pale d’altare e agli inamovibili affreschi. Tale “parete”, al contrario dell’affresco che trasformava la parete reale in un’unica immagine, è una composizione di immagini diverse e comporta una nuova operazione che Stoichita definisce “intertestuale”, composta a sua volta di un duplice dispositivo di decontestualizzazione, cioè di prelievo da ambiti diversi, e di ricontestualizzazione in una nuova combinazione fatta di giustapposizioni e di incastonature.10 L’insieme dei quadri della collezione diventa cioè una «serie aperta», in contrapposizione ai sistemi chiusi dei programmi prestabiliti.11 La confusione e caoticità dei quadri appesi è dunque solo apparente, in realtà è un sapiente montaggio di accostamenti e rimandi, spesso anche un’occasione per suggestioni eterodosse, più o meno manifeste, quando non nascoste per sfuggire alle censure di vario tipo.

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Nelle Conversazioni questo è ancora più esplicito e dichiarato. In esse abbiamo i personaggi, il collezionista e i suoi ospiti, che contemplano le opere esposte e si intrattengono in piacevole discussione intorno a esse e, in qualche modo, alla collezione stessa, attraverso paragoni e, possiamo immaginare, alla ricerca di rimandi e connessioni, di altri nessi e di ordini non preordinati: «la collezione in quanto discorso», come giustamente lo definisce Stoichita, come «struttura dialogica» che attraversa la rappresentazione.12 Non si tratta quindi di una semplice descrizione di una galleria di quadri o di una storia da decifrare – visita del tale personaggio famoso al cabinet del talaltro personaggio –, ma «ci troviamo in presenza di un colloquium, di una disputatio, oppure, per utilizzare il termine allora più in voga, di un entretien».13 Questa indicazione sollecita anche lo spettatore non solo a immaginare il dialogo tra i personaggi, ma a sua volta anche quello tra i quadri, cioè lo esorta appunto a una lettura intertestuale. Gli stessi teorici dell’entretien come genere letterario l’hanno paragonato a volte, come nel caso del cavalier de Méré, alla presentazione in successione di alcuni quadri, i quali, una volta esaurita la conversazione, dovevano restare a formare un unico insieme. Quest’ultimo, cioè l’insieme, il quadro dei quadri, è dunque una particolare opera di tipo nuovo, un’immagine completa non riducibile alle sue parti né alla loro pura somma. Diventa un organismo “complesso”, come lo definiremmo oggi. Non assimilabile a un percorso lineare, costringe l’osservatore a procedere per blocchi, a passare da uno all’altro senza sosta, a rimbalzare da un punto all’altro, stabilendo correlazioni, senza potersi veramente arrestare su un’unica parte: «Il quadro, che in un primo momento appare come un mosaico di citazioni, si raggruppa e si riorganizza».14 Naturalmente questo genere di opere è anche un “museo in scatola” – una boîte-en-valise come l’avrebbe chiamata cinque secoli dopo Marcel Duchamp –, quadro-catalogo e quadro-museo, con cui, come ribadisce Stoichita, siamo di fronte alla nascita di tanti aspetti della modernità, dall’autonomia del quadro all’idea stessa di segno autonomo. Ma questa rischia di nuovo di essere quell’altra storia rispetto alla nostra, quella dell’ordine e del controllo, salvo forse fare un ultimo appello a un’altra delle interpretazioni contemporanee di questo tipo di quadri, quella di Georges Perec nel suo Storia di un quadro, il cui titolo originale è propriamente Un Cabinet d’amateur. Histoire d’un tableau. La particolarità dell’idea di Perec è innanzitutto quella di aggiungere all’interno della collezione dei quadri esposti alle pareti dello Studiolo dipinto da Heinrich Kürz una copia dello Studiolo stesso, innescando una mise en abîme vertiginosa su cui lo scrittore ricama abilmente, fino a fare anche del suo romanzo una collezione e una mise en abîme. Ma quest’ultima non è semplice e automatica, non un puro gioco di specchi, bensì complessa e articolata. Così ogni copia interna allo Studiolo, evidentemente sempre più piccola, sembra del tutto uguale ma in realtà contiene delle piccole varia20

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zioni che vanno dal giocoso al simbolico, fino addirittura all’anticipazione, per cui nel quadro si trova la versione finita di un dipinto che il pittore nella realtà ha appena abbozzato e non ancora portato a termine. Il gioco dei rispecchiamenti si riflette anche sulle figure del pittore e del collezionista attraverso uno scambio di sguardi dalle rispettive posizioni che sfiora a volte lo scambio di parti: anche il collezionista è artista, come l’artista è collezionista in questa rappresentazione di una collezione. E la collezione è opera a sua volta: quando il collezionista Hermann Raffke muore, lascia disposizioni per essere imbalsamato e conservato in una stanza che ricostruisce la disposizione dello Studiolo e sulla cui parete di fondo figura naturalmente lo Studiolo stesso. Il libro racconta tutta la storia della collezione, la sua formazione, la sua vendita, le monografie che l’accompagnano, una sul collezionista e l’altra sul pittore dello Studiolo. Una storia per la verità non particolarmente appassionante, “normale”, per così dire, senza slanci né dichiarazioni significative, finché, colpo di scena finale e nodo che aggiunge un elemento quasi sempre trascurato, anche l’erede entra in scena non solo nella parte passiva di chi riceve e, come spesso accade, smantella e vende la collezione che non sente sua, ma in maniera attiva e imprevista: i quadri venduti alle aste dopo la morte del collezionista sono in realtà quasi tutti falsi e l’erede ne è l’autore. Collezionista per procura, l’erede assume così anche il ruolo del pittore in seconda battuta, ma il gioco non è finito e si eleva anzi alla seconda potenza: l’operazione infatti è una vendetta concordata tra zio e nipote dopo la scoperta che i quadri della collezione, comprati su indicazione di sedicenti esperti, sono quasi tutti falsi o copie di scarso valore; la vendetta consiste nel realizzare dei falsi di falsi. Naturalmente il nipote erede, Humbert Raffke, non è altri che Heinrich Kürz, il pittore dello Studiolo, e la mise en abîme si chiude. Scrive Pomian: Nel xviii secolo i mercanti cominciano a mettere mano alla penna per dare consigli sulla scelta e la sistemazione di una collezione, scrivere dissertazioni sul commercio delle curiosità e sulle aste, e pubblicare manuali a uso dei collezionisti. Nello stesso periodo è la volta degli storici e dei critici d’arte.15

Ma, mentre sistematizza e ordina, commercializza e normalizza, il secolo galante ed erotico ha in una delle sue figure più rappresentative un vero e proprio tipo, per quanto del tutto speciale, di collezionista, non di opere d’arte o di oggetti particolari, ma appunto di amori. Ci riferiamo a don Giovanni – versione più collezionistica del visconte di Valmont delle Liaisons dangereuses, di Casanova e di De Sade – e naturalmente alla sua interpretazione mozartiana. «Madamina, il catalogo è questo / delle belle 21

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che amò il padron mio»: il don Giovanni di Mozart-Da Ponte non è infatti solo il collezionista mosso dal desiderio insaziabile, da un moderno desiderio “differente”, che ama la differenza nella sua forma della varietà e della quantità, e che differisce, rimanda il soddisfacimento finale, morte del desiderio; è anche, come ha stigmatizzato una volta per sempre Jean Starobinski, il libertino che sta storicamente per trasformarsi in libertario, l’amante cioè della libertà, colui che ama la e per la libertà, che colleziona “conquiste” per non fissarsi in una e rimanere libero, anzi per perseguire la libertà, costruirla di mano in mano secondo la passione dell’illimitato, che rifiuta di riconoscere i freni […]. Baudelaire ha ragione quando scrive che la Rivoluzione è stata fatta da dei voluttuosi: indica questi uomini che tutti i loro gusti legano all’universo che sta finendo e che, rivolgendosi contro quest’ultimo, diventati suoi nemici giurati, restavano i testimoni fedeli del suo disordine, delle sue libere speculazioni, dei suoi appetiti contraddittori.16

Ebbene il piacere non è qui un fine ma una sfida al disordine dell’universo e alle sue contraddizioni. Già Giovanni Macchia aveva caratterizzato la differenza del don Giovanni di Mozart da quelli precedenti parlando di un’energia del tutto “naturale”: Ma la forza poetica di questo personaggio per cui esso diventa pura espressione musicale sta nell’essere un personaggio del tutto “naturale”. Egli sprigiona la sua energia in modo elementare e istintivo. Come in certi animali, l’astuzia gli è utile soltanto per servire il senso, perché l’istinto insaziabile abbia la sua vittoria.17

Cabinet des verres, Castello di Rosemborg, Copenhagen, 1708 ca. Medardus Thoenert, Luigi Bassi come Don Giovanni, 1787 ca.

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“Servire il senso” è espressione alquanto forte, impegnativa, che dice qui come esso non è qualcosa che sta già prima, né che è un filosofico fine trascendente, bensì un compito tutto “terreno” e “credibile”. Prosegue infatti Macchia: «È l’incoscienza, la forza tutta terrena di don Giovanni, che non cede dinanzi al sovrannaturale, chiusa com’è entro il certo, la materia, il credibile, il senso».18 L’incoscienza – altro carattere tutto tipico del collezionismo – è di nuovo il rovesciamento di una pretesa consapevolezza che precede l’azione e il dare invece spazio all’inconscio, che ha un ruolo così importante nella formazione e nell’espressione del senso. Ma il collezionista più moderno e vicino a noi è quello dell’Ottocento. Secolo ufficiale e borghese, moderno e presto modernista, il xix secolo crea un nuovo tipo di collezionista descritto perfettamente nei romanzi dei suoi scrittori in indimenticabili figure come quella del cugino Pons di Honoré de Balzac, o il Gardilanne di Champfleury e altre ancora. È in particolare il collezionista a caccia di “occasioni”, appassionato di un ambito specifico, che passa in perlustrazione ogni luogo dove si possa trovare un “pezzo” e si concentra sull’informazione per scoprire ciò che può sfuggire al mercante generico o battere sul tempo perfino quello più astuto. Cambia quando è in azione, mostrando lati che non trapelano nella vita quotidiana. Per Champfleury si trasforma addirittura nel suo opposto: così lo scialbo e malaticcio Gardilanne, che diceva di non avere passioni, diventava «la persona più passionale che si potesse immaginare, più ardente del cacciatore, più inquieto di un innamorato al suo primo appuntamento, più schiavo di un ambizioso, più febbrile di un giocatore. Nessuna passione! Gardilanne le possedeva tutte, fuse in una sola, la più forte, la passione per le collezioni!».19

Honoré Daumier, L’amatore di stampe, 1857-60. Edgar Degas, Il collezionista di stampe, 1866.

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Charles Willson Peale e Titian Ramsay Peale, La sala grande, 1822.

Straordinarie diventano allora soprattutto le strategie per aggirare e distrarre i sospetti dei venditori: «Oh, l’astuccio è grazioso e potrebbe anche interessarmi, l’astuccio! perché, quanto al ventaglio…» mente lo spudorato Pons,20 e Gardilanne «si gabellava per robivecchi per entrare in possesso dello scranno in cui si era seduto forse il gran Condé».21 Sorprendenti sono le scoperte casuali o inattese negli angoli inesplorati o trascurati, nonché i veri e propri raggiri di proprietari bisognosi, come pure di eredi ignari dei tesori che hanno tra le mani. Sennonché durante lo svolgimento del maneggio perfino il patetico Pons rivela in fondo al proprio orgoglio offeso un moto che svela la pulsione artistica che governa la sua mania, in realtà sincera e genuina, che ama veramente ciò che coltiva, e che potrebbe anche rovesciare la situazione e farla fallire, se non fosse per la cronica penuria di mezzi, di denaro, o talvolta, nel suo caso forse più ancora, per mancanza di coraggio, di carattere. Tant’è che, ferito, non osa reagire, e Balzac ironicamente ma acutamente commenta: «Non osava abbandonarsi all’originalità che distingue gli artisti e che nella giovinezza anche lui aveva avuto, con caratteri assai fini, ma che l’abitudine di farsi da parte aveva allora quasi eliminata, e che veniva rifiutata, come un attimo prima, appena si riaffacciava».22 La contrapposizione artista-collezionista, con la conseguente insinuazione che il collezionista sia un artista mancato, corre lungo molta letteratura sull’argomento a partire dall’Ottocento. È, naturalmente, la conseguenza diretta e coerente del modo di intendere le due figure, schematiz-

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zate appunto al di là di ogni sottigliezza; ma è anche il sintomo altrettanto diretto che questo personaggio particolare e strano che è il collezionista comincia ad assumere un rilievo e un’autonomia che forse preoccupa l’osservatore o la sua comprensione del fenomeno. Così infatti diventa non solo protagonista di un racconto o di un romanzo, ma protagonista per identificazione dello scrittore stesso, dunque figura artistica a tutti gli effetti. Che sia il cosiddetto decadentismo a farlo con più decisione non è neppure questo un caso, ma è il segno che la questione è passata da sintomo a un’esasperata consapevolezza. Parliamo di Des Esseintes, il protagonista di A ritroso di Joris-Karl Huysmans, romanzo che è a sua volta una collezione di fatto, che consiste nel racconto e commento della selezione e raccolta effettuata dal protagonista-autore in ogni ambito del sapere e del piacere umano. Dopo aver saggiato ogni esperienza mondana nella capitale, dopo aver provato la totalità delle esperienze, Des Esseintes si ritira in una casa di campagna, completamente isolata, torre d’avorio che sistema e arreda «per il suo piacere personale e non per stupire gli altri»,23 come aveva invece fatto fino a quel momento. Libri, mobili, colori, pietre preziose, letture, tutto viene passato al vaglio della nuova esigenza per dichiarare una scelta consapevole e affermata; ogni cosa e argomento sono solo il pretesto per la ricostruzione di tale selezione in ogni ambito per una collezione assoluta. Il progetto generale: Aveva voluto, per il diletto del suo spirito e la gioia dei suoi occhi, alcune opere suggestive che lo gettassero in un mondo sconosciuto, gli rivelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero il sistema nervoso con eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni indifferentemente atroci.24

D’altro canto, nella seconda metà del secolo, in corrispondenza con la nascita della modernità artistica, il collezionismo si diffonde nella borghesia che ne fa un comportamento tutto suo. Le molle del collezionare si moltiplicano quanto i collezionisti, psicologia e psicoanalisi le studieranno in dettaglio: mania, nevrosi, ostentazione, stravaganza, orgoglio, compensazione? Comunque sia, «ogni collezione è una confessione pubblica, carte in tavola – comprese le carte truccate – di un uomo che non è, che non può essere come gli altri» stigmatizza il professor Langui.25 Il collezionista è un possessivo, ama il rischio e la competizione; antagonismo, rivalità, difficoltà acuiscono il suo appetito, eccitano le sue capacità combattive; non indietreggia di fronte a nessuna trappola, manovra o tribolazione: Perché, cosa sono in realtà gli oggetti ambiti dal collezionista, se non gli artifici di un eterno inseguimento di se stesso? Essere asociale per eccellenza, egli si sente sicuro solo in compagnia delle sue conquiste 25

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perché esprimono i rari momenti in cui ha potuto, in qualche modo, ingannare il destino.26

Cure e sollecitudini si moltiplicano, e le preoccupazioni per la loro sorte: Edmond de Goncourt chiederà nel testamento che le opere che hanno fatto la sua felicità vadano vendute all’asta affinché il piacere procurato da ognuna di esse sia offerto di nuovo ad altri; per una qualsiasi ragione, fondata o immaginaria, molti negheranno la loro collezione agli eredi diretti; Albert Barnes arriverà a proibire per testamento l’accesso alla sua collezione a qualsiasi visitatore. Inizia insomma un’epopea che prosegue fino a oggi. Il collezionista diventa un personaggio delle cui vicende si racconta il “romanzo”. Se da un lato collezionare diventa in ambiente borghese segno di buon gusto, di stato sociale e di cultura, per cui ogni magnate del commercio e della finanza assolda un consulente per avere anch’egli una casa arredata con i capolavori del momento o una collezione da paragonare a quella dei suoi pari, dall’altro lato che ne sarebbe di numerosi artisti dall’Impressionismo in poi senza i loro sostenitori? Il ruolo del collezionista si fa ambiguo e variegato, dall’investimento all’emulazione alla passione. Conclude Pierre Cabanne il nuovo corso: Il collezionismo non contribuisce soltanto alla fondazione o all’arricchimento delle istituzioni pubbliche, esercita un’azione profonda sulla gerarchia dei valori e influisce così sulle fluttuazioni del mercato, cioè sul posto del collezionista in questo ambito. Inoltre costituisce in una società collettivista una delle ultime individualità, la cui attrazione è proporzionale alla sua autorità; la sua singolarità, dal punto di vista Una stanza della collezione John Soane, Londra. Interno dello studio di Henri Rouart, Parigi, 1900 ca.

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Elio Grazioli


sociale, lo mantiene lontano da ogni dipendenza, lo isola, lo protegge, lo ripara.27

Intanto viene inventato un nuovo strumento, una “macchina”, che ha una grande ripercussione sull’idea di collezionismo, sul concetto stesso del collezionare, ovvero la fotografia. Appena la fotografia scopre di essere immagine fedele della realtà, ciò di cui vuole dare documentazione è subito sentito come qualcosa di diverso, singolare, raro, emozionante, qualcosa che alcuni o tutti vorrebbero o dovrebbero collezionare, siano essi i momenti e gli aspetti significativi della propria vita o dei propri cari, il luogo lontano ed esotico, la scenetta pittoresca o l’evento che si candida alla cronaca o alla storia. Scrive Susan Sontag: L’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare. […] Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione. Infine la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini. Collezionare fotografie è collezionare il mondo.28

La fotografia altera la modalità dell’esperienza del reale, non solo della sua visione ma anche della sua comprensione. Da un lato pare conferire realtà al reale stesso – reale solo se è fotografato –, dall’altro lo svuota, lo appiattisce, livella il significato degli eventi. Il lontano nel tempo e nello spazio, il raro, l’oggetto o essere in via di sparizione, questi che sono i temi principali della fotografia dell’epoca segnano fin dentro il suo statuto di documentazione: la fotografia, prima ancora che oggetto autonomo e artistico, porta con sé l’idea di un tempo che consuma le cose e le vite, le quali vanno per questo fermate, fissate almeno in immagine. Di fatto chiunque aspira a diventare collezionista di qualsiasi cosa, fin di se stesso, in immagine. Lo stesso duro giudizio di Charles Baudelaire che ammonisce la fotografia a non cercare di sfidare l’arte, ma ad accettare la sua condizione di strumento “al servizio di” altro (scienza o altra disciplina o utilità), può essere letto in questo senso non come una condanna alla sussidiarietà e all’artisticità mancata, ma al contrario come un richiamo alla sua specificità altra, diversa, quella che la lega intrinsecamente alla testimonianza, alla documentazione, all’archivio, nei suoi più diversi modi e risvolti. Quanti artisti oggi recuperano infatti in questa direzione una fotografia ostentatamente “oggettiva” e la legano alla serie, alla quantità, all’ordine, al programma, a ogni forma di archiviazione, una nuova archiviazione, certo, 27

La collezione come forma d’arte


Eugène Atget, Au Tambour, 63 Quai de la Tournelle, 1908.

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Elio Grazioli


segnata dal passaggio alla postmodernità? Non è il nostro senso del collezionismo, ma ci torneremo. Ci sono anche altri aspetti, per certi versi ancora più radicali, che la fotografia introduce all’interno delle problematiche collezionistiche. Così: che artisticità hanno, e ancor più di che estetica sono portatrici fotografie e archivi fotografici che non sono stati fatti con intenzioni artistiche? Sono “artisti” Timothy O’Sullivan, Samuel Bourne, Felice Beato, Auguste Salzman, Eugène Atget? In quale contesto si inseriscono? A quale “spazio discorsivo” – come dice Rosalind Krauss – fanno riferimento?29 Sono “opere” le loro fotografie? In un certo senso sì, ma in quale? Oggi infatti si prendono fotografie scattate dagli autori al seguito di spedizioni geografiche, per scopi scientifici o commerciali di diverso genere, senza alcuna intenzione artistica comprovata, le si isola dal loro contesto e le si espone bene incorniciate in gallerie e musei come “opere d’arte”. A che titolo lo si fa? Che cosa significa? Per noi significa innanzitutto che tra documento, archivio, serie, collezione, opera c’è un legame che la ricerca artistica ed estetica posteriore non ha voluto sacrificare o ignorare e di cui ha anzi voluto far fruttare le possibilità.30 Esistono infatti, al di là di specificità e formalismi, modi svariati di incrociare l’arte, di catturare la bellezza, anche, e talvolta meglio, dedicandosi ad altro; questa bellezza anzi ha vita e pensiero propri e diversi, sfumature e sentimenti, freschezza e potenza che non si ritrovano altrove. Anche in questo senso collezionare è un esercizio estetico e la collezione assimilabile a un tipo di “opera”.

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La collezione come forma d’arte


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