Lartigue l'album di una vita

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Robert Rauschenberg Fotografie 1949-1962 Dino Pedriali Pier Paolo Pasolini. Fotografie di Dino Pedriali

Stefan Gronert La Scuola di Düsseldorf Mimmo Jodice Roma Moreno Gentili Do Not Cross Georgia O’Keeffe – John Loengard Dipinti e fotografie Dominique Laugé L’occhio incantato Candida Höfer Biblioteche

l’album di una vita 1894 1986

Giuliano Sergio Ugo Mulas. Vitalità del negativo

A soli otto anni Jacques Henri Lartigue (Courbevoie, 1894 - Nizza, 1986) prese in mano il suo primo apparecchio fotografico e da allora non smise più di raccogliere le immagini di una vita libera e spensierata: dai giochi d’infanzia, ai picnic, dalle donne eleganti al Bois de Boulogne, alle gite con gli amici, dalle corse automobilistiche ai primi aeroplani. Gli album messi insieme nell’arco di un’esistenza sono la cronaca accurata e minuziosa di una storia familiare e di un intero secolo. Lartigue si è impossessato della modernità come pochi hanno saputo fare, la sua opera ormai appartiene alla storia.

LARTIGUE

nella stessa collana

LARTIGUE l’album di una vita 1894 1986

€ 50 ,0 0


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Traduzione dal francese: Ximena Rodríguez Bradford Redazione: Margherita Alverà Impaginazione: Sara Cattaneo

La prima edizione di quest’opera è stata pubblicata nel 2003 in coedizione da Éditions du Seuil e Éditions du Centre Pompidou, con la partecipazione della Donation J.H. Lartigue, in occasione dell’esposizione “Jacques Henri Lartigue” tenutasi al Centre Pompidou dal 4 giugno al 22 settembre 2003 e successivamente alla Hayward Gallery di Londra, dal 24 giugno al 5 settembre 2004. Edizione originale pubblicata da Éditions du Seuil, Parigi, con il titolo: LARTIGUE, L’ALBUM D’UNE VIE © Éditions du Seuil, 2003, 2012 Per le immagini © Ministère de la Culture France/AAJHL. Tutti i diritti riservati Per la presente edizione italiana © Johan & Levi editore, 2012. ISBN: 978-88-6010-076-4

Il presente volume è coperto da diritto d’autore. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o per mezzo di apparecchiature elettroniche o meccaniche, compresi la fotocopiatura, registrazione o sistemi di archiviazione di informazioni, senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore e dell’editore. www.johanandlevi.com


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LARTIGUE L’ALBUM DI UNA VITA 1894 1986

A C U R A D I M A R T I N E D ’A ST I E R , Q U E N T I N B A J A C E A L A I N S AYA G T E ST I D I C L É M E N T C H É R O U X , M A RYS E C O R D E S S E , K E V I N M O O R E


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Renée all’Hotel Eden Roc, Cap d’Antibes, agosto 1931.


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SOMMARIO

PREFAZIONE

Bruno Racine Alfred Pacquement

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UN OCCHIO LIBERO E INNOCENTE

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Alain Sayag JACQUES HENRI LARTIGUE, LA MEMORIA DELL’ISTANTE

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Clément Chéroux

1 8 9 4 -1 9 1 9 L’IMPRESA AUTOBIOGRAFICA, L’INVENZIONE DEL PARADISO

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Martine d’Astier

1 9 2 0 -1 9 4 3 I GIOCHI MAGICI DI LARTIGUE: FOTOGRAFIA, PITTURA, SCRITTURA

130 132

Quentin Bajac

1 9 4 4 -1 9 8 6 LA FORTUNA CRITICA DI LARTIGUE

252 254

Kevin Moore IL FONDO JACQUES HENRI LARTIGUE

368

Maryse Cordesse BIOGRAFIA E DIDASCALIE BIBLIOGRAFIA FILMOGRAFIA ESPOSIZIONI

373 394 395 396


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PREFAZIONE BRUNO RACINE - ALFRED PAQUEMENT

Più di un quarto di secolo fa, Jacques Henri Lartigue ha donato allo Stato francese la totalità della propria opera. La moglie Florette ha contribuito ad arricchire questo prezioso corpus, che comprende non solo tutti i negativi e un cospicuo numero di stampe, ma anche gli scritti dell’artista e quello che costituisce il vero e proprio cuore della sua opera: i centotrenta spettacolari album che ripercorrono ogni singola tappa della sua lunga esistenza. Gli sforzi e il sostegno dell’ex presidente Valéry Giscard d’Estaing e dell’allora ministro della Cultura Jean-Philippe Lecat, nonché dei loro successori, hanno permesso al fondo di vivere nelle sale di esposizione permanente che il Grand Palais des Champs-Elysées ha dedicato a Lartigue. A Jean-Jacques Aillagon l’arduo compito di proseguire su questo solco con l’ambiziosa retrospettiva inaugurata dal Centre Georges Pompidou. Malgrado le numerose manifestazioni organizzate dal Fondo Jacques Henri Lartigue, infatti, gli album non avevano mai avuto modo di essere mostrati al pubblico. Troppo fragili e troppo difficili da esporre, non erano stati accessibili che a un ridotto numero di privilegiati. I miei ringraziamenti vanno dunque a Maryse Cordesse, presidentessa del Fondo Jacques Henri Lartigue, che ci ha permesso di concepire questa mostra in cui essi occupano un ruolo centrale. Negli album, ai quali l’artista si dedicò per tutta la vita, affiora in modo lampante il suo genio di “fotoamatore”. Se Lartigue tenette sempre a essere considerato tale, fu per poter registrare “di tutto e di più”, dalle ultime rappresentanti della Belle Époque ai primi aeroplani, dai salti alle cadute, dai tramonti ai piccoli profughi. Fu a soli otto anni, nel 1902, che quel bambino coccola-

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tissimo si vide mettere fra le mani il primo apparecchio fotografico: da quel momento non avrebbe più smesso di scattare immagini, vista l’impossibilità di «chiudere in un barattolo il nostro stupore». Questi album sono la cronaca accurata e minuziosa di una storia familiare. In essi non manca niente: i giochi d’infanzia, le gite, i picnic, le donne, gli amici – riflessi di una vita libera e spensierata, che a tratti non mancherà di essere sfiorata in prima persona dalle grandi tragedie nazionali. Ci troviamo di fronte all’opera di un grande artista o alla ricostruzione della storia di una famiglia francese? La scelta, a ben guardare, è vana. Le sue fotografie sono niente meno che l’album di un secolo: Lartigue si è impossessato della modernità come solo pochi hanno saputo fare, e la sua opera appartiene ormai alla storia. Bruno Racine Presidente del Centre national d’art et de culture Georges Pompidou

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Dopo altre grandi figure della fotografia del Novecento come Man Ray e Brassaï, il Musée national d’art moderne ha voluto rendere omaggio all’opera di Jacques Henri Lartigue. Una mostra che appariva tanto più necessaria dal momento che, su iniziativa dello stesso Lartigue e di sua moglie Florette, il corpus di opere e l’archivio del grande fotografo erano stati oggetto di un’importante donazione allo Stato francese ed era ormai giunto il momento che un’istituzione nazionale rendesse conto di quell’opera e di quell’eccezionale donazione. Per la prima volta, vengono esposti al pubblico i preziosi album conservati dal Fondo Jacques Henri Lartigue presieduto da Maryse Cordesse, che veglia con cura su quel grande patrimonio. Lartigue lavorò a questa “grande opera” per tutta la vita, accumulando anno dopo anno l’impressionante mole di scatti con cui documentava la propria quotidianità e che, pagina dopo pagina, si andavano ad affiancare in composizioni elaborate, corredate da didascalie in cui lui stesso precisava le circostanze di ogni singolo scatto e i nomi delle persone ritratte. Un diario per immagini che non ha equivalenti nella storia e che ha inizio nei primi anni del secolo, quando Jacques Lartigue è un bambino di meno di dieci anni, per concludersi negli anni ottanta del Novecento, con uno scatto in cui il fotografo immortala la propria ombra il giorno del suo novantesimo compleanno. A rendere eccezionale quest’opera, tuttavia, non è soltanto la sua longevità, né il suo indubbio valore di cronaca sociale e mondana. La preziosissima qualità grafica di queste immagini, la loro capacità di restituire il movimento, la varietà dei mezzi espressivi utilizzati da un uomo che a lungo amò considerarsi un pittore «che si divertiva a scattare foto», tutto ciò fa di Lartigue una figura capitale e al tempo stesso singolarissima nella storia della fotografia moderna. Il Museum of Modern Art di New York e il suo allora curatore John Szarkowski furono i primi ad accorgersene, dedicandogli una mostra “già” nel 1963 (Lartigue all’epoca aveva settant’anni). Una mostra che i curatori di questa retrospettiva hanno tenuto a ricostruire, tale e quale, in apertura. Lartigue verrà dunque rivisto dal pubblico del 2003 con gli stessi occhi con cui fu “scoperto” quarant’anni fa dai visitatori del MOMA. Parallelamente, la selezione di stampe – celebri per alcuni e per altri una vera rarità –, di vedute stereoscopiche, dei primi esemplari di fotografie a colori nonché di dipinti e di manoscritti, contribuirà a conferire alla nostra mostra un carattere unico, in grado di offrire una visione della sua opera. Ringrazio vivamente Maryse Cordesse per aver richiamato la mia attenzione su questo gigantesco patrimonio e per aver generosamente convogliato, accanto alla direttrice del Fondo

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Lartigue Martine d’Astier, le forze e le energie dell’Associazione in questo progetto. I curatori della mostra Alain Sayag, responsabile della sezione fotografia del Musée national d’art moderne, e Quentin Bajac, già curatore del Musée d’Orsay che ben entrerà a far parte del nostro museo, hanno realizzato grazie al supporto di Martine d’Astier un impressionante lavoro di ricerca e di installazione, nonché di valorizzazione dell’opera. I miei più sentiti ringraziamenti vanno dunque a loro e a tutto lo staff del Centre Pompidou coinvolto in questo progetto. Il mio augurio più sincero è che con questa iniziativa il Museo si sia rivelato all’altezza della grande possibilità che gli veniva offerta, quella di rendere un duplice e doveroso omaggio a Jacques Henri Lartigue per la sua opera colossale e a sua moglie Florette, che ha saputo vegliare su di essa e ha deciso con lui di donarla alle generazioni a venire. Alfred Pacquement Direttore del Musée national d’art moderne/Centre de création industrielle

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Fig. 1

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UN OCCHIO LIBERO E INNOCENTE ALAIN SAYAG

Fig. 1 “Aux temps héroïques de l’automobile par le peintre J.H. Lartigue”. Articolo apparso su Point de vue-Images du monde, 30 settembre 1954. Dalla rassegna stampa di J.H. Lartigue, Fondo Jacques Henri Lartigue. 1. J. Szarkowski, “Le MOMA d’emblée”, in AA.VV., Le Choix du bonheur de Jacques Henri Lartigue, Editions La Manufacture, Besançon 1992, p. 190. 2. Alcune immagini di cui Lartigue non reclama la paternità verranno scartate ritirate o sostituite: in totale saranno quarantatré le stampe donate al museo ed esposte nello spazio – l’alcova – destinato alla collezione di fotografia. 3. Il 29 novembre 1963, Life dedicherà a Jacques Henri Lartigue una decina di pagine, su cui verranno riprodotte diciotto sue fotografie. A detta di John Szarkowski, «una selezione mediocre, impaginata malissimo e corredata di didascalie puerili». 4. J. Szarkowski, “Le MOMA d’emblée”, cit., p. 190.

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Il 20 luglio 1962, nel corso di un’intervista, sperando di suscitare un qualche interesse per quella «collezione di vecchie foto di famiglia»,1 Charles Rado consegna a John Szarkowski, che da meno di un mese ha assunto la guida del dipartimento di fotografia del MOMA, due album e cinquantadue ristampe recenti di un fotografo di sessantanove anni e pressoché sconosciuto, affinché le esamini. Fondatore dell’agenzia Rapho nel 1936 e radicato a New York fin dai tempi della guerra, Rado è sembrato a Jacques Henri e a Florette Lartigue il miglior intermediario possibile per riuscire a “piazzare” quelle fotografie sul mercato americano. Rado, in effetti, si mostrerà all’altezza del compito: non solo il MOMA esporrà le stampe che gli sono state affidate,2 ma l’anno successivo, sull’ultimo numero di novembre, la rivista Life dedicherà un inserto speciale alle fotografie di Lartigue.3 A interessarci qui, comunque, non sono tanto le circostanze di quella scoperta quanto la reazione di John Szarkowski. A sorprenderlo, a entusiasmarlo più di tutto, sono «le immagini in sé». I due grandi album di cui gli hanno parlato rivelano, certo, un’alta dose di libertà «rispetto a qualsiasi tradizionale nozione di impaginazione, classica o moderna», ma Szarkowski non sembra apprezzare granché quel miscuglio «di piccoli provini ingialliti, di stampe di formato più grande e perfino di ingrandimenti su fogli diversi».4 Ciò che ha sotto gli occhi è in totale contraddizione con quel culto della stampa artigianale e curata così caro alla pure photography americana che lo porterà a occultare per diversi anni il ruolo centrale di questi album nell’opera di Lartigue. A


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sorprendere e a richiamare l’attenzione del giovane curatore del MOMA sono la semplicità e la grazia della struttura grafica di quelle immagini. Le quali, al pari di un bravo atleta, sembrano giungere con sobrietà, eleganza e precisione al risultato cercato. «Avevo l’impressione» scrive Szarkowski «di scoprire il primo lavoro ancora inedito del padre di Cartier-Bresson, naturalmente privo della sofisticatezza artistica e intellettuale del figlio, ma altrettanto dotato nel cogliere l’essenzialità del movimento».5 Un dato assolutamente rivelatore, nella ricostruzione che Szarkowski farà di quegli eventi parecchi anni dopo, è il suo aver messo in secondo piano, quasi si trattasse di un dettaglio trascurabile, il fatto che buona parte delle immagini che ha sott’occhio appartenga a quella che lui stesso chiamerà «la collezione Lartigue». Le immagini, in effetti, sono contenute negli album, ma Lartigue non sembra reclamarne la paternità. Szarkowski finirà per concludere che il giovane Lartigue «aveva uno sguardo da collezionista quasi altrettanto penetrante del suo sguardo da fotografo […] gran parte delle fotografie non scattate da lui rivelano non solo la sensibilità alla fugacità dell’istante che è al centro dell’opera personale di Lartigue, ma a tratti anche quella vivacità di espressione grafica che conferisce ai suoi lavori migliori il vero e proprio dono di sorprendere».6 L’essenziale, per lui, consiste dunque nel fatto che «la creazione di Lartigue non era dovuta soltanto al suo talento, ma anche al fatto di aver intuito le nuove, rivoluzionarie potenzialità dell’apparecchio fotografico moderno».7 Lartigue, in effetti, si colloca a pieno titolo nel solco di una storia della fotografia destinata a imporsi in tutto il mondo per una trentina d’anni. È uno dei precursori di quella modernità che il MOMA si è assunto la missione di difendere e illustrare. Creato, sulla scia delle istituzioni museali del secolo precedente, come un luogo votato a educare il pubblico, il museo di Szarkowski non sceglie di mostrare “modelli” atemporali, ma di rendere percepibili la genesi e lo sviluppo di un’arte chiamata “moderna”. E chiunque abbia avuto modo di visitare all’epoca le sale del MOMA e l’edificio sulla 47th Street, non può che restare scioccato dalla coerenza implacabile della dimostrazione. Niente a che vedere con il caos regnante nelle sale del Palais de Tokyo, in cui convivono su un fondale di velluto rosso i disegni di Dunoyer de Segonzac e i rappresentanti più raffinati della scuola di Parigi. Attraverso le sale del museo newyorkese, si assiste a un succedersi di movimenti più o meno radicali il cui esito inevitabile è uno sprigionarsi di energia pura,

Fig. 2 “Appel à tous les photographes par Albert Plécy”. Articolo apparso su Point de vue-Images du monde, 30 aprile 1953. Dalla rassegna stampa di J.H. Lartigue, Fondo Jacques Henri Lartigue. 5. 6. 7. 8.

Ibid. Ivi, p. 194. Ibid. J. Szarkowski, Conferenza stampa, MOMA, cit. in K. Moore, Jacques Henri Lartigue (1894-1986). Invention of an Artist, tesi non pubblicata, 2002, p. 283.

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Fig. 2 9. R. Thérond, “Trois fascinations. Lartigue le bienheureux”, in Une passion française. Photographies de la collection Thérond, Maison Européenne de la Photo/Filipacchi, Paris 1999, p. 275. 10. J.H. Lartigue, Mémoires sans mémoire, Robert Laffont, Paris 1975, 4 e 7 giugno 1918, p. 295. 11. J.H. Lartigue, Diario dell’anno 1922, dattiloscritto inedito, Associazione amici di Jacques Henri Lartigue (d’ora in avanti AAJHL), 48 fogli 27 × 27 cm, p. 18. 12. Nel 1932 vi esporrà trenta dipinti, nel 1933 venti, oltre che trenta al Martinez e dieci nella hall dell’hotel Miramar.

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quella dell’astrazione lirica della Scuola di New York. Allo stesso modo in cui la scienza è giunta alla scissione dell’atomo o i democratici hanno finito per trionfare sulla barbarie fascista, così l’arte è divenuta pienamente “moderna” sulle rive dell’Hudson. È in questa cornice che bisogna ricollocare la scoperta di Lartigue da parte del MOMA. Ogni complessità scompare a favore di un’interpretazione semplice, fornita dagli schemi concettuali elaborati dal modello della storia dell’arte. Lartigue, formalmente, appare come un precursore geniale. «Scattava fotografie che oggi appaiono come un’impressionante anticipazione del lavoro con apparecchi di piccolo formato tipico della nuova generazione. Esse rievocano le immagini realizzate un quarto di secolo dopo da Henri Cartier-Bresson, ma in realtà sono state scattate negli anni in cui Atget documentava ancora Parigi con la tecnica e l’approccio tipici dell’Ottocento.»8 Sarà proprio questa lettura dell’opera di Lartigue a imporsi. Ma essa non cela un’ambiguità di fondo, un malinteso fondamentale? Per Lartigue, la fotografia non è che un divertimento. Il divertimento ossessivo di un ragazzino che, con un pesante apparecchio a lastre 9 x 12 cm, immortala nelle sue istantanee la cronaca di una vita «all’insegna della gioia e della spensieratezza».9 Un modo sicuramente meraviglioso di conservare traccia dei momenti felici, ma che per lui non ha niente a che vedere con quell’«appagamento», con quella «gioia […] plasmata da un desiderio che via via rinasce».10 Per quanto riguarda la pittura, non si deciderà mai a trasformarla in mestiere («Detesto» scriverà nel 1922 «quelli che diventano pittori come si diventa telegrafisti o panettieri»),11 continuando a consacrarvisi con la volubile passione che lo contraddistingue. Una passione che trapela in diversi appunti del suo diario, ma di cui possiamo misurare appieno l’importanza nel suo libro d’oro, e che gli procurerà uno statuto sociale nonché un buon flusso di entrate. Nel 1922 Lartigue partecipa per la prima volta al Salon d’automne con sei piccole tele; fino al 1939, esporrà regolarmente in diversi Salon (Salon d’automne, Salon des Indépendants, Société nationale des Beaux-Arts, Salon des artistes français) ma anche in gallerie rinomate come la Petit, la Bernheim e la Charpentier. A volte le sue opere appaiono in luoghi più marginali come il casinò di Palm Beach,12 l’Hotel Martinez o il casinò di Biarritz. Le critiche che riscuote non sono sempre eccelse: nel 1924, per esempio, il cronista di Le Temps condannerà quei dipinti che «non vanno al di là della litocromia», quelle opere «di una mano che non sembra guidata da un cervello» e, qualche anno più tardi, non


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mancherà di denunciare dei ritratti «che trasudano improvvisazione e sconfinano […] nella caricatura».13 Ma il suo talento di pittore decoratore, che evoca da lontano i nomi di van Dongen e di Jean-Gabriel Domergue, viene spesso apprezzato. Nel 1937, infatti, il suo nome apparirà sulle pagine di Plaisir de France in margine ad alcuni disegni di cappelli, e sarà Laure Albin-Guillot a fornire l’immagine di apertura dell’articolo. La fotografia, all’epoca, non è che un passatempo, buono soltanto a fornire spunti per un quadro. Ci si potrebbe «appoggiare alla fotografia», scriverà sul suo diario, «per ricordare tutto il resto […] ma quel resto è tutto, e nessun apparecchio fotografico riuscirà mai a catturarlo».14 Riuscirà la guerra a porre fine a quella carriera di pittore decoratore? In effetti, il nome di Lartigue continua ad apparire sui giornali, ma dopo il 1947 si limiterà a riempire la rubrica mondana. Solo a partire dagli anni sessanta alcune sue fotografie avranno modo di uscire dal loro contesto per porsi come vere e proprie opere, ritagliandosi uno spazio all’interno della storia della fotografia. Il processo di rivalutazione avverrà, all’inizio, in sordina. Nel 1953, un numero di Point de vue-Images du monde diffonderà «la voce di una passione segreta del pittore» che, stando al giornalista, sarebbe «il primo fotoamatore di Francia». Nell’aprile e nel maggio dello stesso anno, grazie a una serie di articoli destinata a moltiplicarsi l’anno successivo, la sua figura viene inscritta a pieno titolo nel mondo della fotografia.15 Nel 1955, Lartigue accetta la vicepresidenza dell’associazione Gens d’images; il suo statuto diviene allora quello di un fotografo illustratore, sia che realizzi veri e propri reportage – per la stampa cattolica, come il volume illustrato dedicato a san Domenico Savio –, sia che sfrutti le proprie immagini come si farebbe con un archivio. L’atteggiamento di Lartigue in merito è altamente rivelatore. Nel giugno del 1962, per esempio, quando Raymond Grosset gli chiederà di mediare con Charles Rado per proporgli le proprie foto, azzarderà: «Anche io faccio foto […] fin dall’infanzia». Per poi precisare: «Faccio degli album […] A volte, dopo cena, li mostro agli amici, per farli divertire».16 Una modestia che non ha nulla di falso: all’epoca, Lartigue non ha alcuna velleità di essere riconosciuto in quanto “autore”. Al punto che, sul suo diario, finirà per mettere sullo stesso piano la mostra organizzata dal Museum of Modern Art e la pubblicazione di un inserto sulle automobili da parte della rivista Car and Driver. In realtà, sarà proprio la mostra organizzata dal MOMA nel 1963 a fare di Lartigue un fotografo a tutti gli effetti e a dotarlo dell’aura di un artista riconosciuto. La mostra insisterà però sulla

Fig. 3 “Le sport, vu par les artistes”. Articolo apparso su Match, 21 febbraio 1933. Dalla rassegna stampa di J.H. Lartigue, Fondo Jacques Henri Lartigue. 13. Le Temps, s.f., 24 marzo 1924. 14. J.H. Lartigue, Mémoires sans mémoire, cit., 12 novembre 1918, p. 388. 15. Sul numero di Point de vue-Images du monde del 3 settembre 1954, per esempio, verrà pubblicata per la prima volta la sua celebre immagine di macchina in movimento corredata di due doppie pagine estratte dal suo diario. 16. J.H. Lartigue, L’Œil de la mémoire, 1932-1985, Editions Carrère-Lafon, Paris 1986, p. 386. 17. Lartigue non si stancherà mai di arricchire i suoi album con immagini dalle provenienze più disparate.

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“ricostruzione storica”, finendo per oscurare l’effettivo valore dei suoi album fotografici. Gli album sono l’espressione individuale di una pratica collettiva, ed è precisamente questo il tratto peculiare di un’arte popolare e collettiva come la fotografia: quello di essere il veicolo espressivo di un’estetica, di un gusto la cui manifestazione è in grado di rivelare l’inconscio sociale e collettivo tanto quanto – se non addirittura di più – quello del suo autore. Lartigue terrà sempre a non essere considerato un fotografo professionista. Per lui, in effetti, la cosa essenziale non sono le singole immagini che riempiono in modo incessante i suoi album. Tanto che, a volte, la loro provenienza sembra essergli così indifferente da non esitare a inserire scatti non suoi, trovati qua e là.17 Quella che si esprime attraverso le pagine degli album è una narrazione, ed è precisamente questa narrazione a costituire l’opera vera e propria. Un’opera che rivela una genesi alquanto complessa. I primi album, così come li vediamo oggi, sono stati rimaneggiati negli anni settanta, in modo parziale per gli anni compresi fra il 1920 e il 1927 e decisamente più radicale per quelli precedenti. Alla parte sugli anni venti sono state dunque aggiunte numerose ristampe, spesso più grandi e sottoposte a nuova inquadratura, destinate a sovvertire una messa in pagina decisamente più convenzionale. Lartigue si serve delle immagini come di una materia bruta, da modellare e plasmare a seconda delle sue necessità. Uno stesso scatto può così dare vita a tre o quattro stampe diverse, al punto che le pagine degli album pullulano di quelle ripetizioni imposte dalle necessità narrative o grafiche dell’impaginazione. Potremmo citare svariati esempi, ma qui ci limiteremo a segnalarne alcuni che il lettore avrà modo di vedere nelle pagine che seguono. Nel giugno del 1904 (pp. 46 e 47), il gatto Zizi appare a piena pagina; la stessa immagine verrà ripresa, sottoposta a nuova inquadratura, nella pagina successiva. Una vera e propria tecnica di montaggio che vedremo utilizzare spesso: nel maggio del 1912, sarà il caso di un altro gatto (pp. 92 e 93), nel 1905 di un autoritratto (p. 49). Questo sforzo di subordinare le immagini alla volontà di costruire un racconto, che ricorre come una costante nel corso degli anni (per esempio, nel rievocare la demolizione della casa familiare in rue Cortambert), sarà lo stesso che nel 1914, per evocare la dichiarazione di guerra, lo spingerà a servirsi di un’immagine scattata nel 1911 (pp. 102 e 103). È questa libertà a costituire, oggi, l’immenso valore dell’opera di Lartigue. Lungi dall’essere il precursore di una modernità fotografica che la sua opera pittorica non fa che smentire e che lui stesso, del resto, si è sempre guardato bene dal rivendicare, Lartigue è a tutti gli effetti il diletFig. 3

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tante che rifiuta di abbracciare uno stile che rischierebbe di limitarlo. L’uomo è dilaniato fra due mondi: da un lato l’«artista parigino, lezioso, stucchevole», dall’altro tutto ciò che lo entusiasma ma «minaccia di uccidere ciò che ama».18 Una contraddizione che l’esercizio della fotografia si incarica di risolvere. Del resto, senza voler offendere nessuno, la fotografia non è forse l’ultimo luogo in cui sopravviva ancora l’accademismo pittorico? Geniale strumento prospettivistico, l’apparecchio fotografico è inseparabile da un sistema di immagini spesso assimilato all’accademismo, in quanto derivato da un realismo che è quello dell’«occhio libero e innocente».19 Esattamente agli antipodi rispetto alla modernità artistica, la bellezza “fotografica” rivela immancabilmente una leggibilità immediata, si tratti di un paesaggio o di una scena di genere. Il soggetto, il suo valore, il suo significato devono essere immediatamente percepibili. Un vincolo universale, che tutti i fotoamatori conoscono. L’arte non si è industrializzata come temeva Walter Benjamin: è divenuta una semplice merce. Incapaci di intervenire sul proprio destino, risucchiati dal processo universale di commercializzazione del processo creativo, gli artisti si ritrovano coinvolti in questa condanna delle vecchie élite e dei loro valori. E, suo malgrado, Lartigue si vede intrappolato in questo conflitto inesorabile. Come non mancherà di annotare sul suo diario nel marzo del 1962 – all’epoca ha sessant’anni –, potrebbe tranquillamente diventare «quel famoso pittore mondano capace di riempirsi il portafoglio. Con un ritratto al mese, a costo di comprare una bella gomma d’oro per cancellare le rughe»20 dei suoi ricchi clienti americani. Lartigue non si fa illusioni: quell’estetica, la stessa dei suoi amici pittori van Dongen, Jean-Gabriel Domergue e Vertès, non è all’altezza delle sue esigenze più profonde. Come riuscire a condividere lo stupore davanti alla bellezza di

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quel mondo che gli appartiene? Né la scrittura, né la pittura né tantomeno la fotografia sembrano soddisfarlo. Disperatamente, passerà tutta la vita a correre dietro a quell’ideale che gli «sfugge sempre ma che [crede] sempre di riuscire a catturare la prossima volta».21 Un dilettante sconfitto in partenza di fronte alla volgarità militante, alle «illusioni pretenziose» e alla banalizzazione commerciale del modello americano. Non può accettare quella visione riduttrice nella quale si vorrebbe ormai relegare un’opera sminuita, nel migliore dei casi, allo statuto di immagini da cartolina. Come far rivivere l’antica idea del Bello? Essa non sopravvive più, se non come l’eco di un’epoca ormai passata. Una nostalgia tragica che si annida nel cuore dell’opera di Lartigue e, che giorno dopo giorno, lo spingerà ad accumulare instancabilmente parole e immagini per riuscire a conservarne, malgrado tutto, la traccia.

Fig. 4 Max de Cazavent che insegue i suoi amori. Avenue du Bois de Boulogne, Parigi, 15 gennaio 1911. Tiratura d’epoca 11,8 x 9,1 cm. 18. J.H. Lartigue, Diario dell’anno 1922, p. 35. 19. N. Goodman, Langages de l’art, Éditions Jacqueline Chambon, Nîmes 1990, p. 36. 20. J.H. Lartigue, L’Œil de la mémoire, cit., p. 377. 21. Ivi, p. 548.

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JACQUES HENRI LARTIGUE, LA MÉMORIA DELL’ISTANTE CLÉMENT CHÉROUX

L’ingenuo che posasse per la prima volta lo sguardo sulle fotografie del giovane Jacques Henri Lartigue sarebbe tentato di credere che quest’ultimo, i suoi cari e i suoi animali domestici fossero tutti affetti da una strana patologia nervosa. Altro non vediamo, in effetti, che slanci convulsivi, bruschi allungamenti, improbabili balzi, voli d’angelo, capriole e ruzzoloni. Se guardiamo più attentamente, però, e al candore dello sguardo preferiamo la rigorosa lente dello storico, appare evidente che all’inizio del Novecento Lartigue è ben lungi dall’essere l’unico fotografo a immortalare la frenesia dei suoi contemporanei. Quell’iconografia trepidante e saltellante, in realtà, diverrà il tema ricorrente di un’intera generazione di fotoamatori venuta alla luce alla fine dell’Ottocento. Per capire il fenomeno di cui questi fotografi sono a tutti gli effetti il sintomo, occorre dunque smettere di considerare Lartigue come un’entità autonoma, protetta da una campana di vetro e assolutamente impermeabile alle sperimentazioni dei suoi colleghi o alle immagini della sua epoca, per ricollocarlo nel contesto da cui proviene, quello della fotografia amatoriale nei suoi primi decenni di vita.1 Nel campo della fotografia, gli anni ottanta dell’Ottocento sono segnati dall’avvento della gelatina-bromuro d’argento. La nuova emulsione sarà all’origine di una lunga reazione a catena destinata a modificare profondamente la tecnica, la pratica e l’iconografia fotografica. Due dei suoi maggiori punti di forza sono l’agilità di impiego e la maggiore sensibilità rispetto ai procedimenti del passato. Divenuta più semplice, la fotografia inizia a raccogliere nuovi adepti, vedendo

Fig. 1 Jacques Henri Lartigue, Una straordinaria virata di Roland Garros sul suo Blériot XI, Issy-les-Moulineaux, 15 maggio 1911. Fotografia apparsa sulla copertina di La Vie au Grand Air, 10 febbraio 1912. Associazione amici di Jacques Henri Lartigue. Per farlo, mi baso sull’unico studio scientifico a oggi esistente su Lartigue (K. Moore, Jacques Henri Lartigue (1894-1986). Invention of an Artist, tesi di dottorato, Princeton University, 2002), nonché sulle indagini di André Gunthert intorno alla fotografia istantanea alla fine dell’Ottocento (D. Bernard, A. Gunthert, L’Instant rêvé: Albert Londe, Jacqueline Chambon, Nîmes 1993; A. Gunthert, “Introduction à la photographie instantanée”, in La Révolution de la photographie instantanée, 1880-1900, Bibliothèque nationale de France/Société française de photographie, Paris 1996, pp. 4-10; id., La Conquête de l’instantané. Archéologie de l’imaginaire photographique en France, 1841 1895, tesi di dottorato, École des Hautes Études en Sciences Sociales (d’ora in avanti EHESS), 1999; id., “Esthétique de l’occasion. La naissance de la photographie instantanée comme genre”, in Études photographiques, 2001, n. 9, pp. 64-87). 2. Dato fornito da C. Gravier, “Les sociétés photographiques françaises”, in Le Moniteur de la photographie, aprile 1907, n. 4, p. 31. 1.

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Fig. 1

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crescere il numero di fotoamatori con proporzioni fino a quel momento sconosciute. Ma questa maggiore semplicità non deve lasciar credere che tutte le difficoltà tecniche siano state abolite. La fotografia è sicuramente più facile che ai tempi del collodio, ma non è ancora diventata un gioco da ragazzi. Per evitare i passi falsi del principiante, l’imbarazzo nella scelta degli apparecchi e dei prodotti, gli errori di manipolazione e i costosissimi esperimenti, il nuovo adepto avrà tutto l’interesse a cercare consiglio tra i fotoamatori più consumati ed esperti. Si diffonde allora una nuova forma di socialità incentrata sulla fotografia, che si manifesta attraverso il moltiplicarsi di associazioni, club e circoli di fotoamatori. Se nei primi anni ottanta dell’Ottocento le associazioni si contano sulle dita di una mano, nel 1907 sono già quasi centoventi.2 All’interno di alcune di queste associazioni – come in ogni gruppo elitario – si sviluppa una sorta di competitività, che spinge i fotoamatori a dimostrare una perfetta padronanza della tecnica nonché le proprie doti e la propria abilità fotografica. Un naturale processo di emulazione che finirà per ampliare il ventaglio dei virtuosismi: scatti realizzati in situazioni limite, effetti visivi, complicati montaggi, sovrapposizione di negativi (fig. 6) ecc. Con ogni probabilità, tuttavia, è nel più recente ritrovato della tecnica – l’istantanea – che lo spirito competitivo avrà modo di manifestarsi in tutta la sua forza. Fra i suoi più grandi vantaggi, la gelatina-bromuro ha infatti quello di aver liberato l’operatore dal calvario della posa, permettendogli finalmente di fotografare le cose “dal vivo”. Ed è precisamente su questo “dal vivo”, su tutto ciò che si muove e si agita – meglio se rapidamente –, che finiscono per concentrarsi le sfide dei fotoamatori, come testimoniano gli innumerevoli concorsi di fotografia istantanea di fine Ottocento (figg. 4 e 5). Più l’oggetto da fotografare è veloce, più l’operatore che riuscirà a restituirne un’immagine nitida sarà in grado di dimostrare il proprio virtuosismo. Il processo di emulazione scatenato dalla nuova emulsione spiega la comparsa di un repertorio di forme fino a quel momento inedito, composto essenzialmente da salti (fig. 7) di cavalli al galoppo, da automobili e locomotive a tutta velocità, onde che si infrangono sugli scogli ecc. Un vero e proprio repertorio di stereotipi formali destinati a segnare per lungo tempo l’immaginario visivo dei primi decenni del Novecento, sia nell’ambiente giornalistico sia in quello delle avanguardie. Gli esordi fotografici di Jacques Henri Lartigue nel 1903 sono segnati da un’analoga predilezione per i soggetti in movimento. Non sembra tuttavia che il giovane fotografo abbia mai frequentato i circoli di fotoamatori o affrontato la letteratura fotografica dell’epoca. Bisogna


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dunque spiegare in un altro modo l’impressionante somiglianza formale tra la sua primissima produzione e il registro visivo diffuso nell’ambiente delle associazioni. Che Lartigue venga iniziato ai rudimenti della fotografia dal padre, a sua volta reduce da quella prima ondata di entusiasmo per la fotografia amatoriale, costituisce in effetti un primo, probabile fattore di influenza. Altro aspetto, sicuramente più decisivo, è che Lartigue sarà fin dalla più tenera età un fervido consumatore dell’allora nuovissima generazione di riviste e giornali, che grazie ai recenti ritrovati della stampa meccanica sono ormai in grado di garantire una riproduzione diretta degli scatti fotografici. Come testimoniano gli appunti sparsi suoi taccuini, Lartigue all’epoca è un assiduo lettore di riviste come La Vie au Grand Air, Je sais tout, L’Auto, L’Illustration, Excelsior, dove le immagini di salti, tuffi, acrobazie, bolidi in movimento e aeroplani in fase di decollo erano normale amministrazione. La cosa non stupisce, se si considera che la maggior parte degli autori di quelle immagini si è fatta le ossa nell’ambiente dei fotoamatori. Quasi tutti i primi fotogiornalisti del Novecento, in effetti, possono vantare un passato da fotoamatore: cresciuti a suon di latte ed emulsione al bromuro, hanno semplicemente messo la loro abilità nello scatto al servizio dell’attualità.3 Lartigue, del resto, conoscerà personalmente alcuni di quegli ex fotoamatori, come il reporter Simons, noto per il suo amore della velocità e l’ineguagliabile virtuosismo del suo obiettivo (fig. 2). «Simons, il migliore di tutti i reporter della Vie au Grand Air, è mio amico»4 scriverà nel 1907. Nessun dubbio, dunque, che le imprese fotografiche e lo “stile istantaneo” di quei reporter costituiscano un modello per il giovanissimo fotografo tredicenne. Le prime fotografie che pubblicherà dopo il 1910 su La Vie au Grand Air si fondono in modo così armonioso con lo spirito di quell’iconografia dinamica che a volte, scorrendo le pagine, può perfino risultare difficile riconoscerle (figg. 1 e 3). Nutritosi delle immagini della stampa illustrata, formatosi sotto l’ala di alcuni fotoamatori della prima ora e affascinato dalle imprese dei reporter, è abbastanza logico che Lartigue finisca per fotografare le macchine in corsa, il decollo dei primi aeroplani e le acrobazie sportive dei suoi fratelli, cugini o amici; per usare la formula di Kevin Moore, insomma, Lartigue è «fotograficamente programmato».5 Se per capire le fotografie di Jacques Henri Lartigue è dunque necessario associarle all’iconografia della prima generazione di fotoamatori, bisogna però stare attenti a non assimilarle fino a confonderle. Occorre guardare con attenzione, concentrarsi su ciò che le distingue.

Fig. 2

Fig. 2 D. Pellerq, cartolina pubblicitaria per il reporter Simons, s. d. Société française de photographie. Fig. 3 J.H. Lartigue, Rouzat, 1911. Fotografia apparsa su La Vie au Grand Air, 9 marzo 1912. Associazione amici di Jacques Henri Lartigue. 3. Cfr. A. Gunthert, “Un laboratoire de la communication de masse. Le spectacle du sport et l’illustration photographique”, in L. Véray, P. Simonet (a c. di), Montrer le sport. Photographie, Cinéma, Télévision, INSEP, Paris 2000, pp. 29-35. 4. J.H. Lartigue, Mémoires sans mémoire, cit. p. 71. 5. K. Moore, Jacques Henri Lartigue (1894-1986), cit., p. 141. 6. J.H. Lartigue, Mémoires sans mémoire, cit., p. 71.

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Perché nelle sue immagini c’è qualcosa che eccede, che va al di là del semplice virtuosismo tecnico tipico dell’istantanea fotografica. Questo “qualcosa che eccede” in modo chiarissimo in un passaggio del diario di Lartigue datato 29 maggio 1910, nel quale descrive il modo in cui fotografa le donne in abiti eleganti che passeggiano al Bois de Boulogne: È là che me ne sto in agguato, seduto su una sedia di ferro, la macchina pronta a scattare. Distanza: da quattro a cinque metri; velocità: otturatore 4 mm; diaframma: questo dipenderà da dove Lei arriva. La distanza riesco a calcolarla perfettamente a naso. Meno facile è far sì che Lei abbia solo un piede in avanti al momento della messa a fuoco (la cosa più divertente da calcolare) […] Lei: è la donna alla moda, ridicolamente agghindata da capo a piedi… o una donna bellissima che sta per arrivare? […] Da lontano, fra la gente che passeggia, è come un fagiano dorato in mezzo a un pollaio. Si avvicina… Io inizio a tremare, intimidito… Venti metri… dieci metri… otto… sei… clac! L’otturatore del mio ingombrante apparecchio fa tanto rumore che la donna sussulta quasi quanto me. La cosa non avrebbe alcuna importanza, se un Signore dal vocione imponente che la accompagna non iniziasse a inseguirmi. Fuori, sorrido; ma dentro, certe volte, mi prende una bella strizza. Poco importa, in ogni caso; l’unica cosa che conta è il piacere di avere una nuova foto. Il vocione del Signore lo dimenticherò; la foto, può darsi che la conservi.6

Fig. 3

Doppia pagina seguente Figg. 4 e 5 Rougé, Sulla spiaggia, Le Havre, 17 novembre 1888. Le immagini, insignite del primo premio al concorso internazionale di fotografia istantanea organizzata dal Photo-Club di Parigi nel 1889, apparvero su diverse riviste per fotoamatori di fine Ottocento. Société française de photographie.

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Come testimonia questo passaggio, l’interesse di Lartigue per la fotografia è duplice. La prima metà della sua confessione esprime il suo piacere infantile di fronte ai preparativi tecnici: si tratta di predisporre ogni cosa per riuscire a cogliere il momento buono, l’istante parossistico in cui l’andatura femminile acquisisce tutta la sua eleganza. La seconda parte del brano, che si chiude con una nota maliziosa – «la foto, può darsi che la conservi» –, rivela più chiaramente il fine che lo anima davvero: il desiderio di preservare ciò che la sua memoria potrebbe dimenticare. Al di là della sfida dell’istantanea, è precisamente questo il principio cui sembra rispondere la sua frenesia fotografica. Nei suoi appunti personali, Lartigue non fa in effetti che ribadire la propria angoscia di fronte all’ineluttabile lavorio del tempo. Sapere che la matita


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con cui ha scritto il suo diario fino a quel momento sbiadirà progressivamente lo fa star male. «La cosa che mi butta giù» scriverà «è sapere che alcune cose possono svanire.»7 E così, all’età di sei anni, Lartigue inventa uno stratagemma che finirà felicemente per chiamare la sua «trappola dell’occhio». «Apro gli occhi, poi li richiudo, poi li riapro, li spalanco e… hop! imprigiono l’immagine e tutto il resto: i colori! la misura vera! E quello che mi resta è una cosa viva, che si muove e odora.»8 Qualche giorno dopo, accorgendosi che la sua «invenzione magica» non funziona come aveva sperato, il bambino sprofonda nella disperazione e si ammala. Sarà proprio durante la convalescenza che deciderà di offrire un piccolo sostegno alla sua memoria; e sarà dunque in modo assolutamente naturale che la macchina fotografica arriverà a sostituire la sua inefficace «trappola dell’occhio». «Vorrei conservare tutto» scriverà nel 1913. «L’amore di Simone, so che riesco a conservarlo; ma il resto? Mi consolo con le mie foto, che catturano quello che possono…»9 «Faccio foto perché mi sembra (per quanto possibile) di imbalsamare un po’ della mia felicità»10 annoterà ancora nel 1921. La fotografia (come del resto la scrittura e la pittura) risponde insomma, per Lartigue, a un bisogno sfrenato di salvaguardare la sua memoria. C’è qualcosa di proustiano, in Lartigue. Non perché Proust e Lartigue abbiano descritto e fotografato gli stessi luoghi – come quel celebre viale delle Acacie, al Bois de Boulogne, in cui si riuniva ogni giorno la Parigi mondana di fine secolo – né per la loro comune fascinazione ne confronti della velocità, ma perché condividevano uno stesso modo di rapportarsi allo scorrere del tempo e all’azione della memoria, che ne trattiene quel che riesce. Certo, Lartigue scoprirà Proust solo molto tardi, all’inizio degli anni settanta.11 Stando a sua moglie Florette, sarà il fotografo Richard Avedon a consigliargli la lettura della Recherche.12 L’opera lo entusiasmerà. Tra i faldoni dell’Archivio Lartigue è conservato un foglietto su cui compare un brano di Proust sulla memoria, che il fotografo ha dattilografato aggiungendovi una piccola nota a margine: «Senza saperlo, da piccolo, era dietro a questo che correvo con la mia “trappola dell’occhio”».13 I due “correvano” dietro alla stessa cosa: entrambi erano alla ricerca del tempo perduto. E nella loro ricerca, la fotografia appariva a entrambi uno straordinario supporto della memoria. Un’abitudine di Proust che ha ispirato diversi studi era quella di ricorrere alla fotografia per richiamare alla mente un volto o un luogo che voleva evocare nel suo libro.14 «La mia memoria stanca […] ha tali cedimenti che le fotografie mi sono molto preziose.»15 La frase è di Proust,

7. 8. 9. 10 11. 12. 13.

Fig. 4 Ivi, p. 93. Ivi, p. 32. Ivi, p. 146. Ivi, p. 372. J.H. Lartigue, L’Œil de la mémoire, cit., p. 405. Florette Lartigue, La Traversée du siècle, Bordas, Paris 1990, p. 38. Foglietto dattilografato e manoscritto conservato presso l’Associazione amici di Jacques Henri Lartigue. Il testo trascritto da Lartigue è tratto da una lettera di Proust ad Antoine Bibesco, ripubblicata nel 1971 sulla rivista Historia.

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Fig. 5

14. Brassaï, Marcel Proust sous l’emprise de la photographie, Gallimard, Paris 1997; W.C. Carter, The Proustian Quest, New York University Press, New York-London 1992; J.-F. Chevrier, Proust et la photographie, Éditions de l’Étoile, Paris 1982. 15. M. Proust, Correspondance 1910-1911, Plon, Paris 1983, vol. X, p. 40. 16. H. Cartier-Bresson, Images à la sauvette, Verve, Paris 1952, s.p., trad. it. Immagini al volo, Novecento, Palermo 2002.

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ma avrebbe potuto tranquillamente essere di Lartigue, tanto il fotografo condivideva con lo scrittore questa visione della fotografia come supporto della memoria. Con questa differenza: che Proust ricorreva alla fotografia a posteriori, per suscitare la rimemorazione, mentre Lartigue se ne serviva a priori, come antidoto all’oblio. Più previdente, il fotografo preparava insomma le sue madeleines in anticipo. Nelle istantanee di Lartigue, in definitiva, convivono due istanti. Da un lato l’istante tecnico, vale a dire tutti quei passaggi che il procedimento fotografico impone per riuscire a fissare un momento preciso della corsa del tempo, dalla regolazione della macchina all’abilità del fotografo nell’anticipare il modo in cui il reale finirà per organizzarsi; è «l’istante decisivo» di cui avrebbe parlato più avanti Henri Cartier-Bresson.16 Dall’altro l’istante sensibile: un momento privilegiato, carico di gioia o emozione, di cui bisogna a ogni costo conservare la traccia prima che il tempo lo dissolva. Più fluttuante, esso si colloca, al pari del ricordo, nel tempo dell’inquadratura. Se l’istante tecnico si struttura dunque attorno al rapporto fra l’operatore e il suo dispositivo, l’istante sensibile si definisce piuttosto nell’attaccamento del fotografo al suo soggetto. Due componenti che ritroviamo sempre nelle fotografie di Lartigue, ma in proporzioni diverse a seconda delle epoche. Se i primi anni, quelli dell’infanzia e dell’adolescenza, sono più segnati dall’istante tecnico e dai suoi soggetti dirompenti, il periodo della maturità, al contrario, lo vedrà impegnato in una cronaca proustiana degli istanti sensibili. Se la fase iniziale di Lartigue è largamente debitrice al retaggio iconografico della generazione di fotoamatori nata con la comparsa della gelatina-bromuro, a partire degli anni trenta la sua produzione si inscrive in un registro di fotografia amatoriale completamente diverso. A partire dal 1889, infatti, il lancio della Kodak n. 1 prefigura l’avvento di una seconda generazione di fotoamatori destinata a fiorire in tutta la sua ampiezza con l’arrivo del nuovo secolo e della società dello svago. Poco preoccupata dalla tecnica in quanto tale, quasi totalmente affrancata dalla preparazione e dallo sviluppo delle pellicole, questa nuova categoria di fotoamatori concentrerà il proprio interesse sull’inquadratura, all’unico scopo di registrare degli istanti di vita privilegiati. Operando più fra parenti e amici che all’interno dei club di fotografia, questi nuovi fotoamatori preannunciano quella che finirà per diventare, se non altro dal punto di vista quantitativo, la parte più significativa della produzione fotografica del Novecento: la fotografia familiare. Grazie a loro, l’apparecchio fotografico diverrà il compagno indispensabile dei grandi momenti dell’esistenza,


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il testimone delle piccole gioie quotidiane. «Un diario della vostra vita di tutti giorni: ecco cosa potrete fare con le foto Kodak»17 recita una pubblicità dell’epoca. Il crescente interesse di Jacques Henri Lartigue per il sensibile a scapito della tecnica corrisponde pienamente allo sviluppo di questa nuova forma di fotografia amatoriale, nella quale la foto ricordo prevale ormai sul virtuosismo tecnico. In questo senso, la sua figura è assolutamente emblematica dell’evoluzione che il fotoamatore subirà nel corso del Novecento. La sua produzione riassume quasi tutte le fasi principali della storia della fotografia amatoriale, i suoi grandi temi e le sue principali problematiche, rivelandone inoltre alcuni degli esiti più radiosi. Per questo, forse, ne ha rappresentato a lungo il modello indiscusso.

Fig. 6

Fig. 6 H. Fourtier, Fotografia pseudospiritica, 1891. Pubblicata in H. Fourtier, “Les joyeusetés de la photographie. Photographies spirites”, Photo-Journal, 1891, p. 268 recto. Société française de photographie. 17. Album pubblicitario Kodak conservato presso la Société française de photographie, s.d. (inizi del Novecento).

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Fig. 7

Fig. 7 M. Guibert, Salto, Parigi, 1889 ca. Tratta dall’album Ma vie photographique. Portraits, demeures et voyages de Maurice Guibert entre 1886 et 1895. Bibliothèque nationale de France.

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1900-1919: è il tempo dei “grandi debutti”. Lartigue ha solo sette anni quando riceve, nel 1901, il suo primo apparecchio, una fotocamera a lastre 13 x 18 in legno cerato che, appoggiata sul suo treppiede, appare molto più grande e pesante di lui. Il bambino si concentra sui fondamenti: impossibile, con quel fardello, scattare immagini alla leggera. Fortunatamente, il padre segue i suoi progressi tecnici e, a partire dal 1904, gli regala apparecchi più maneggevoli e di maggiore precisione: una Gaumont Block Notes 4 ½ x 6 e una Gaumont Stereo Spido a lastre 6 x 13. Con quell’apparecchiatura, tutto diviene possibile: Lartigue coglie al volo il minimo movimento, si serve dell’autoscatto per comparire nelle proprie foto, scatta istantanee a tre dimensioni. Felice e appagato, il piccolo fotoamatore si porta dietro la macchina ovunque vada. Incoraggiato da tutta la famiglia, ci rende partecipi del suo piccolo mondo. L’enfant prodige inizia dai suoi cari: i genitori, la tata, i cugini, il fratello Zissou e le sue mirabolanti invenzioni al castello di Rouzat. Poi, a poco a poco, inizia a offrire al mondo il proprio universo: le prime corse automobilistiche in strada, i primi voli di quegli arnesi «più pesanti dell’aria», i primi campionati di tennis, le donne in abiti eleganti sul Sentier de la Vertu al Bois de Boulogne, i primi sport invernali, le villeggiature in Costa Azzurra. È la Belle Époque. E non durerà. Lartigue ha vent’anni quando scoppia la guerra. Troppo esile per imbracciare le armi, mette a disposizione il suo tempo e la sua prima automobile, una “Pic-Pic” svizzera sportiva, per il trasporto dei feriti. I giorni spensierati, però, non cessano. I primi amori iniziano a comparire sui suoi negativi: la cugina Simone, che ama fin dall’infanzia, e la prima amante, la celebre cantante d’opera Marthe Chenal. Poi verrà l’incontro con Madeleine Messager, detta Bibi. La sposerà nella chiesa di Saint-Augustine il 17 dicembre 1919, prima di portarla in viaggio di nozze a Chamonix, «sotto un silenzio di piume». M. A.

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L’IMPRESA AUTOBIOGRAFICA, L’INVENZIONE DEL PARADISO M A R T I N E D ’A S T I E R

Tutto comincia con un’infanzia dorata in una famiglia agiata, armoniosa e poco conformista in cui ci si meraviglia di tutto. Fin dai primi anni, gli elementi che permetteranno all’opera di Jacques Henri Lartigue di sbocciare e fiorire ci sono già tutti: una salute cagionevole che fa del bambino un osservatore più che un attore, un nido familiare che lo stimola senza mai metterlo alla prova, la gioia di vivere unita alla consapevolezza della sua fragilità e al fervido desiderio di conservarla, nonché, ovviamente, lo strumento destinato a trasformare in immagini quel fervore inquieto: la macchina fotografica. Fin da giovanissimo, Lartigue sa che la sua gioia potrebbe scomparire e non gli resta dunque che fissare, costi quel che costi, quegli istanti miracolosi. A cosa servirebbe, altrimenti, viverli? Come tutti i bambini, vive il presente, una capacità che riuscirà a conservare fino alla morte, insieme al suo sguardo fresco e senza età. Ben presto intuisce che l’infanzia, come l’amore, è una condizione dell’anima. Una condizione che decide di coltivare per tutta la vita con dedizione ed entusiasmo. «Non sono pensieri quelli che vorrei intrappolare, ma l’odore della mia gioia! Vengo assalito da una volontà indefinibile…»1 Chi abbiamo di fronte, un bambino in stato di grazia o un piccolo adulto in miniatura? Un paradosso che Jeanloup Sieff ha egregiamente riassunto nel 1986: «Ogni volta che mi rendevo conto

Pagina precedente Papà e io, Pont-de-l’Arche, 1901. Tiratura d’epoca 21 × 16,8 cm. 1. Diario manoscritto, Neuilly, 25 gennaio 1928.

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della sua età, non potevo impedirmi di pensare alla sua morte, e tuttavia era qualcosa di inimmaginabile: impossibile pensare alla morte di un bambino, per quanto vecchio possa essere».2 Ci sono persone che nascono vecchie, altre che invecchiano naturalmente nel corso degli anni. Ben più rare sono quelle che conservano per tutta la vita la freschezza dell’infanzia, lo stupore di fronte a ogni cosa, l’insaziabile curiosità che caratterizzano gli anni della giovinezza.

IL NIDO: UN MONDO INCANTATO

Fragile, minuto, di costituzione debole, è a letto che Jacques fa i primi tentativi di catturare le proprie gioie e le proprie impressioni. Il piccolo sogna, disegna, scrive. Seduta al suo capezzale (fig. 2), la madre annota e gli legge i piccoli eventi che parecchi anni dopo diverranno il canovaccio per la stesura delle prime pagine del suo diario. «Quando la mamma mi dice: “Tu sarai sempre il mio bambino”, niente riuscirebbe a spiegare la dolcezza che leggo nella sua voce e nei suoi occhi. Come vorrei sentirmelo dire sempre! Mi ricordo, quando ero piccolo… quella gioia che mi avvolgeva, la sera, mentre mi addormentavo, e l’angoscia di sentirla andar via.»3 All’inizio del Novecento, molte malattie sono ancora letali. All’uscita dal Cinerama, Lartigue annota: «Quando le foglie cadono (succede in ottobre, nel periodo in cui muoiono i tubercolotici). Triste..».4 All’epoca, l’igiene e l’aria aperta sono gli unici rimedi per una salute cagionevole: la famiglia Lartigue intensificherà in ogni stagione i soggiorni in montagna o in riva al mare.

Fig. 1 Fig. 1 Zissou in divisa da corazziere, Courbevoie, 1896. Foto papà scattata con lampo al magnesio. Tiratura d’epoca 11,9 × 8,9 cm. 2. Intervista a Jeanloup Sieff dopo la morte di J.H. Lartigue, Libération, 13 settembre 1986. 3. Diario, Parigi, 1905. In Mémoires sans mémoires, cit., p. 58. 4. Diario, Parigi, 15 gennaio 1912. Ivi, p. 119.

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Il padre, Henri Lartigue, che nel corso degli anni ha messo in piedi l’ottava fortuna di Francia, rende possibili quelle villeggiature. Nato da una famiglia di inventori, quell’uomo, che sarà a turno direttore generale della Compagnia ferroviaria franco-algerina e poi della Cassa di risparmio francese, caporedattore di L’Express France e corrispondente per alcune testate straniere, non è soltanto un uomo d’affari ma un avventuriero eccentrico e curioso dotato di una bontà autentica. Investendo i figli di una missione – essere felici prima di ogni altra cosa –, provvede a dar forma ai loro sogni, costruendo attorno a loro un universo fiabesco. Lartigue non sbaglia


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poi molto quando dice: «Papà: somiglia al Buon Dio (non potrebbe essere lui travestito?).»5 Attento alla felicità di ciascuno dei figli, Henri individua subito lo strumento che aiuterà il piccolo Jacques a superare la sua angoscia morbosa: ha l’intuizione geniale di regalargli una macchina fotografica. Lartigue ha sette anni. È Natale. «Adesso potrò fotografare tutto. Tutto, tutto… Prima, dicevo a papà: “Fotografa questo, e questo, e questo…”. Adesso lo farò io».6 Raffinato fotoamatore (fig. 3), Henri Lartigue si accontenta di mostrare a Jacques il funzionamento degli apparecchi senza appesantire l’approccio con prescrizioni tecniche o estetiche, preservando così la freschezza del bambino. Potremmo ricostruire quell’apprendistato fotografico a quattro mani già solo leggendo le didascalie che accompagnano i primi scatti: Ritratto di famiglia a Pont-de-l’Arche, 1902: prima foto scattata assolutamente da solo con la mia fotocamera a lastre 13 x 18, sviluppata da me, aiutato da papà. Oppure: Mamma e Papà, Pont-de-l’Arche, 1902. Fotocamera a lastre 18 x 24 di Papà, preparata da lui, tappo tolto e rimesso da me, lastra sviluppata da lui. La simbiosi è tale che Jacques si appropria senza problemi di alcune fotografie scattate dal padre, cancellando la propria immagine dai negativi in tutta libertà (figg. 4 e 5). «Nella camera oscura, sotto una piccola luce rossa, vedo le mani di papà che fanno cadere la grande lastra verde, quasi bianca, nella vaschetta. Aspettiamo, poi di colpo ecco che succede: l’immagine inizia a comparire!»7 «È divertente sviluppare al buio, quando hai appena finito di correre sotto il sole. La cosa meravigliosa, soprattutto, è poter vedere, subito dopo, le foto che hai appena scattato: Zissou e il suo aeroplano, le carriole, i giochi nell’acqua…»8 È vero, i giochi dei grandi sono meravigliosi. Suo fratello Maurice, soprannominato Zissou e quattro anni più grande di lui, è il suo modello insuperato, il suo eroe. Con le mani perennemente

Fig. 2

Fig. 2 Io e il mio gatto Zizi. 40, rue Cortambert, Parigi, 1904. Otturatore azionato da Dudu, Gaumont Block Notes 4 ½ x 6. 5. 6. 7. 8.

Diario, Pont-de-l’Arche, 1901. Ivi, p. 34. Ivi, p. 35. Diario, Pont-de-l’Arche, 1901. In Mémoires sans mémoires, cit., p. 34. Diario, Rouzat, estate 1908. Ivi, p. 73.

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impegnate, questo futuro inventore solletica ogni giorno l’ispirazione di Jacques che, dal canto suo, lo guarda e ne registra le imprese. I due si completano alla perfezione e, sebbene non lo sappiano ancora, i ruoli sono già stati assegnati. «Qualche volta, mentre cerco di catturare le mie immagini, Zissou mi guarda con un’aria buffa e mi chiede che cosa ci faccio “lì impalato come un imbecille”.»9

Fig. 3

Fig. 3 Courbevoie – 20 agosto 1890. Maurice Lartigue (futuro “Zissou”), nato il 2 agosto. Foto Henri Lartigue. Cianotipo senza negativo. 9. 10. 11. 12.

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Diario, Pont-de-l’Arche, 1901. Quaderno “Ragioni per cui sono così felice”. Diario, Rouzat, 23 settembre 1911. In Mémoires sans mémoires, cit., p. 107. Diario, Rouzat, 1906. Ivi, p. 63.

I due fratelli non andranno mai a scuola. «Non studio molto… Le mie ore di studio sono piacevoli perché sono organizzate in modo da lasciarmi tempo per lo sport… Studio con dei professori molto gentili, a casa.»10 In vacanza, i bambini si divertono a verificare e mettere in pratica alcune leggi della fisica elementare o delle scienze naturali. Adorando le gare di salti, sulla cima del Puy de Dôme scoprono con immensa gioia che l’altitudine influisce sul peso e permette di battere ogni record. Un’altra estate, al castello di Rouzat, Zissou decide di riprodurre la grande attrazione americana che campeggia in rue de Clichy: «Zissou ha costruito delle “montagne russe” per le galline e i conigli. Li facciamo salire al secondo piano, li infiliamo in una cabina e da lì comincia la discesa verso il giro della morte. Prima della partenza e dopo l’arrivo guardiamo bene gli occhi del coniglio o della gallina: abbiamo constatato che l’occhio non è più dilatato dopo il giro della morte.»11 I due fratelli sono abbonati alle riviste L’Auto, La Vie au Grand Air ed Excelsior. Con passione, seguono le nuove invenzioni, vanno sul posto a documentare le imprese dei primi aviatori e i record dei campioni di corse automobilistiche. Meglio ancora, fabbricano da soli i loro marchingegni, costruiscono modelli in scala, girano filmini. «Spiccare il volo! Salire! Passare sopra gli ostacoli! Restare immobili nell’aria… In sogno è facile, lo faccio spesso… Mio fratello maggiore Zissou non sogna. Lui calcola, inventa e inizia ad allenarsi per spiccare il volo.»12 Allevato in una famiglia cattolica, Lartigue conserverà fino alla morte la fede degli umili, una fede ingenua e infantile impregnata della poesia dei pittori italiani del Rinascimento. A quattordici anni, con il candore di sempre – o tale, almeno, vorrebbe far apparire – invocherà l’aiuto di Dio per farsi forza: «Spesso, verso le quattro del pomeriggio, quando sono tutti nel parco accanto alla grande


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piscina, salgo di soppiatto in cima al castello per mettermi in ginocchio sul cuscino del mio letto, davanti al crocefisso. Ci vado per dire una preghiera speciale, per chiedergli di benedire il mio bagno (ho tanta paura dell’acqua ghiacciata…): “Fa’ che sia come quello di ieri!… Che possa scattare ancora delle foto formidabili…».13 Ma il nido caldo e accogliente in cui cresce non può proteggerlo da tutto. Jacques è roso dall’inquietudine. Quella vita dorata, così piena di immaginazione e di affetti, come fare a non perderla? Come conservarla, come farla durare, come ritrovarla ogni volta a piacimento? Fotografandola, naturalmente. Jacques non pensa che a questo.

Fig. 4

COME CONSERVARE TUTTO E RITORNARCI SU

Questa gioia, che non esiste a meno di non riuscire a conservarne la traccia, Jacques dovrà trattenerla attraverso la scrittura, la fotografia e gli album, ultima tappa nell’elaborazione dei suoi ricordi. Non ha ancora sette anni quando germoglia in lui la prima idea: «…Un pezzetto di carta con un segno misterioso. Se lo nascondo tra le fughe del parquet, resterà lì. Per sempre, protetto. E quando lo ritroverò, potrò ricordare questo giorno».14 Ma non è sufficiente, così escogita un secondo dispositivo: «Come spettatore mi diverto molto. Ma questa mattina, di colpo, un’idea ha iniziato a frullare nella mia testa, un’invenzione magica, grazie alla quale non potrò mai più essere triste o arrabbiato: apro gli occhi, poi li richiudo, poi li riapro, li spalanco e… hop! Imprigiono l’immagine e tutto il resto: i colori! la misura vera! E quello che mi resta è una cosa viva, che si muove e odora. Questa mattina ho catturato un sacco di immagini con la mia trappola dell’occhio».15 L’idea è portentosa, ma il “trucco” non funziona. Jacques ci rimane malissimo. «Oh, come sono infelice questa mattina!… Voglio dire, non infelice, desolato, amareggiato,

Fig. 4 et 5 Zissou e la mia grande palla. Villa Les Marronniers. Châtelguyon, 1905. Stereoscopia positiva (fig. 4). Tiratura d’epoca, nuova inquadratura dell’autore (fig. 5). 13. 14. 15. 16. 17. 18.

Diario, Rouzat, estate 1908. Ivi, p. 73. Diario, Pont-de-l’Arche, 1900. In Mémoires sans mémoires, cit., p. 23. Ivi, p. 32. Ibid. Le Point, 18 marzo 1985, dichiarazioni raccolte da Antoine Peillon. Diario, Parigi, 30 maggio 1910. In Mémoires sans mémoires, cit., p. 82.

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furibondo… come disperato: ho deciso di guardare quello che ho raccolto finora. Non credevo di poter mettere tutto sulla carta, dopo averlo intrappolato nella mia trappola dell’occhio… No, anche con le mie matite colorate, non funziona…»16 La prima macchina fotografica è l’oggetto magico che finalmente gli permetterà di realizzare il suo più grande desiderio: «chiudere in un barattolo» ciò che lo rende felice. Di fronte a questo obiettivo, niente può fermarlo. Jacques ha in mente un apparecchio fotografico. Scrive perfino: «La foto: una specie di sport, come intrappolare una farfalla in volo. Bisogna essere veloci. Sono stato un campione di tennis, per cui ho l’occhio svelto».17 Jacques non riflette, decide, e in fretta. Al pari del suo occhio, è tutto il suo corpo a vivere l’evento e a ordinare con esattezza il momento dello scatto. Ossessionato dal rischio di perdere ciò che ha deciso di conservare, sta altrettanto male all’idea di lasciarsi sfuggire un’immagine sotto il naso: «Rue Cortambert, prima di cena, faceva già un po’ buio e non avevo la mia macchina… All’improvviso, sul marciapiede, la donna più bella del mondo viene verso di me… Ha un grande manicotto e una silhouette così magnifica, sotto il suo grande cappello, che il rimpianto della foto mancata inizia a tormentarmi. Non è proprio un rimpianto… come una specie di dolore da cui non ti riesci a consolare…».18

Fig. 5

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Jacques ha l’ossessione di accumulare e di classificare. Perché è di una vera e propria collezione che si tratta. «Tutte le cose belle, insolite, bizzarre o interessanti mi danno tanto piacere che mi sento impazzire di gioia! E ancora di più perché posso trattenerne molte, grazie alle foto! Ho una collezione impressionante! Iniziata quando avevo sette anni! Una collezione che posso ingrandire a ogni minuto. Mamma dice: “Quando ti fermerai? Mi stai rovinando!…”. Non gliel’ho detto, ma ho deciso di continuare fino a diciotto anni! Se lo sapesse!»19


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Fin dai primissimi anni, del resto, i ritratti scattati in camera sua, le invenzioni di Zissou, le donne al Bois de Boulogne e i primi aviatori, tutto rientra già nell’idea di collezione: non deve mancare niente. Collezionare non è soltanto accumulare, è anche scegliere, comporre un insieme su cui si esercita l’esclusivo dominio. Così, quando Lartigue trova una fotografia che gli sarebbe piaciuto scattare, la compra e la incolla sul suo album: integrandola nella propria memoria, la fa sua. In questo modo realizza (esclusivamente a partire da foto acquistate) tre album ribattezzati “Riflessi della mia epoca”, sul modello dei suoi album personali, e un’ultima raccolta intitolata “Collezione d’autografi”, composta da ritratti con dedica di amici più o meno intimi, scattati da lui o da altri.

I SUPPORTI DELLA MEMORIA: DIARI E ALBUM

Riempire taccuini, agende e diari è un altro modo di tenere in vita (fig. 6) i ricordi del tempo che passa e del tempo che fa. Dal 1911 al 1918, Jacques si serve di agende su cui prendere appunti. Ossessionato dall’impiego del tempo, dopo aver disegnato il suo personale bollettino meteo (sole, pioggia, nuvole, vento, neve), prosegue con l’elenco completo delle attività quotidiane: ora del risveglio, preghiere, il momento del bagno e della vestizione, prima colazione, lezioni, pranzo, giochi, uscite e divertimenti, il momento di svestirsi, di lavarsi i denti e andare a letto. Queste occupazioni rituali da bravo bambino sono puntualmente intercalate dall’inevitabile: «4 di pomeriggio: merenda». Poi, a memoria, disegna prima ancora di averle sviluppate le fotografie che ha scattato per essere sicuro di mantenerne la traccia – la stampa, all’epoca, è un procedimento ancora incerto. «Per ricordarmi meglio di una giornata, in fondo alla pagina della mia agenda le darò un voto da 1 a 20 (10: giornata in cui sono successe cose belle e cose brutte a pari merito. 18: giornata quasi completamente felice).»20 Un lavoro che Jacques porterà instancabilmente avanti fino agli ultimi giorni della sua vita, annotando impressioni passeggere, intuizioni e sentimenti vari con quell’ansia di sincerità che sottolinea bene già nel 1914: «Visto che questo diario non è destinato agli altri, deve contenere tutte le mie verità. Non ho

Fig. 6 Doppie pagine dell’agenda 1912: 26 e 27 agosto 1912. 10 e 11 settembre 1912. 19. 20. 21. 22 23.

Diario, Parigi, ottobre 1907. Ivi, p. 71. Diario, Parigi, 9 gennaio 1911. Ivi, pp. 89-90. Diario manoscritto, 1914. Diario, Parigi, ottobre 1907. In Mémoires sans mémoires, cit., p. 71. M. Frizot, Le Passé composé. Les 6 x 13 de Jacques Henri Lartigue, catalogo della mostra, Centre national de la photographie, Paris 1984. 24. Ultime pagine dell’agenda del 1914, intitolate “Appunti dell’anno”. 25. P. Borhan, Voyons voir, Créatis, Paris 1980, p. 14.

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il diritto di dire che mi diverto in mezzo a un cataclisma, ma men che meno avrei il diritto di mentire raccontando il contrario».21 Parallelamente al diario, fin dalla più tenera età Jacques comincia quindi a comporre degli album che rimaneggerà più volte nell’arco della sua vita. «Siamo andati al Bon Marché a comprare dei piccoli album dove posso inserire le mie stampe 4,5 x 6 senza incollarle! semplicemente infilandole dentro le pagine.»22 I primi anni incollerà tutte le immagini che scatta, poi inizierà a selezionarle sempre di più: «Jacques Lartigue si costruisce un paradiso per album. La sua vera vita, certo, ma riveduta e corretta, la vita che vuole vedere e regalare a se stesso, a costo di silenzi, di soppressioni, di assenze… In certi punti, alcuni personaggi chiave vengono soppressi da inquadrature tutt’altro che innocenti; tutto dipende da ciò che Lartigue vuole mostrare, non nelle sue fotografie, ma nei suoi album, i quali, insieme alla pittura, al diario e alle inquadrature, costituiscono una sorta di quarto mezzo espressivo…» commenta Michel Frizot.23

«IL MIO PARADISO SENZA OMBRE»

Fig. 6

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La composizione di questo “un paradiso per album” presuppone anche un’altra scelta, altrettanto rigorosa di quella delle fotografie: isolare dalla vita i momenti di gioia e dimenticare gli altri. Con la sincerità che lo caratterizza, Lartigue rivendica questa decisione perfino nei momenti più cupi. Alla fine del 1914, scriverà: «La guerra ci ha resi per forza infelici… ma io sono stato comunque felice… Ho fatto sport, insomma, e comunque ci siamo divertiti molto».24 Qualche riga più sotto, ribadirà con tanto di firma: «Se essere uno struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia è l’unico modo di essere felici, allora ben venga!». Jacques sa ciò che vuole e ciò che non vuole: «La mia sola ricchezza è la libertà. Dunque evito ciò che non amo».25 Il bambino fragile è diventato non già un adulto coscienzioso ma, per sua stessa scelta, un bambino che fa di testa sua.


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«A volte sono tristissimo perché so che sto crescendo. Vorrei poter restare come sono (mi sento così felice, così pieno di gioia e di fiducia). Anzi, vorrei essere ancora piccolo.»26 Il modo migliore per riuscirci è tornare ai ricordi della sua infanzia come a una perduta età dell’oro. Un rituale che lo conforta e gli dà un immenso piacere: «Quel “come prima” è meraviglioso! Quando si rivive una cosa “come prima”, mi sembra che si provi una gioia doppia: quella attuale sovrapposta a quella della memoria».27 Decisamente simile a Peter Pan, questo elfo elegante trova mille vantaggi nel suo rifiuto di crescere. Quello di rimanere «uno spettatore che guarda senza preoccuparsi di niente, senza sapere se quello che accade è serio, triste, importante, divertente o no. Una specie di abitante dello spazio venuto sulla terra solo per gioire dello spettacolo. Lo spettatore per il quale tutto è un teatro di burattini, anche – e soprattutto – io».28 La sua autobiografia riflette il sentimento e la profonda consapevolezza di essere emotivamente assente. Le sue fotografie gli danno l’illusione di partecipare, “di esserci”, ma le serie dei fantasmi, delle trasparenze, degli ondeggiamenti (fig. 8) e dei riflessi non fanno in realtà che tradurne l’assenza. È forse per questo che realizza tanti autoritratti, spesso con la complicità dei suoi cari, per persuadersi che è davvero presente, che è davvero lui? Fare l’inventario del proprio universo (fig. 7) accumulandone incessantemente le immagini è una pratica che lo rassicura. Le immagini gli permettono di definirsi attraverso i soggetti fotografati, che divengono al tempo stesso il supporto dei suoi ricordi e la prova della sua esistenza. Poco ancorato alla vita reale e dotato di quella dose di indifferenza tipica dell’infanzia, Jacques in testa non ha che un’ossessione: le immagini da scattare, a esclusione di tutto il resto. Un resto che lo vede reagire con l’impassibilità del tiratore: «Questa mattina, dalla torre Eiffel, l’inventore, un certo signor Reichelt, un sarto, si butta dal primo livello con un paracadute di sua invenzione. Si schianta subito a terra e muore. Non c’ero. Peccato per le mie fotografie».29 Lartigue resterà per tutta la vita quel bambino inconsolabile, perennemente insoddisfatto, votato anima e corpo a una ricerca senza tregua. Come ogni opera, però, anche la sua oltre-

Fig. 7 (pagina accanto) Album 1911, vol. II, fol. 111 recto. 1911 – A riposo dopo l’estate – Aspettando la prossima estate (scatti fine settembre). Bob su ruote “ZYX 17”. Bob su ruote “Pic 2”. Copertoni bob. Elica aerea a pedali. Modello di aliante. Montagne russe. Sedia barca papà. Idroscivolante di Zissou. Carrello montagne russe. Binario montagne russe in acqua. Cabinetta montagne russe in acqua. Barca papà n° 1 “Pic-Bob”. A terra. Binario montagne russe in acqua. Timone idroplano. Aquilone per fotografie. Sedia barca. Timone subacqueo idroplano. Ruote per trasporto apparecchiatura. Pattini di ricambio idroplano. Argano aquilone. Idroplano“ ZYX 23”. Vela per nuotare a dorso. Modellino aeroplano. Stampe ai sali d’argento. 26. 27. 28. 29.

Diario, Parigi, 1905. In Mémoires sans mémoires, cit., p. 58. Diario manoscritto, 1918, pp. 15-16. Diario manoscritto, Royan, 20 agosto 1926. Diario, Parigi, 4 febbraio 1912. In Mémoires sans mémoires, cit., p. 122.

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passa le ambizioni di chi l’ha creata per vivere oggi di vita propria. Perché se Lartigue voleva acciuffare, immortalare le proprie gioie e rivelarne la grazia, in realtà ha fatto molto di più. L’improbabile decollo di un gigantesco aliante, Zissou che lievita al di sopra di un muro o Bichonnade colta all’apice del suo volo: tutte queste immagini luminose non ci toccherebbero tanto, se non fossero anche abitate dall’imminenza, ancora invisibile, ma ineluttabile dell’ombra e della caduta. Il giovane fotoamatore avido di esperienze ha voluto inventare e mostrare una vita senza tristezza, ma le sue fotografie, forse a sua stessa insaputa, svelano la vita intera, con il suo rovescio di dolore, ancora più bella di quella che lui aveva ostinatamente sognato.

Fig. 8 In piscina. Rouzat, settembre 1911. Foto scattata con la mia macchina da Jean o Louis.

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