Leo & C. Storia di Leo Castelli

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Foto di copertina: Leo Castelli nella sua galleria di New York, 1974. Foto Michael Tighe/Hulton Archive/Getty Images

«Un libro serio, appassionato e ben documentato: senza dubbio una magnifica lettura.» Dwight Garner, The New York Times

Leo & C. Storia di Leo Castelli

Annie Cohen-Solal è nata in Algeria e ha conseguito un dottorato in letteratura francese alla Sorbona. Autrice della biografia Sartre (1986), già docente all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, alle università di Berlino, Gerusalemme, Paris xiii e Caen, attualmente è visiting professor alla Tisch School of the Arts (New York University), dove tiene seminari di politica culturale e globalizzazione delle arti visive. Arrivata a New York nel 1989 come consigliere culturale dell’Ambasciata di Francia, rimane segnata dall’incontro con Leo Castelli, tanto da virare il proprio campo d’interessi verso l’arte contemporanea. L’edizione francese di Leo & C. ha vinto l’Artcurial Prize per il miglior libro di arte contemporanea nel 2010. Vive fra New York, Parigi e Cortona.

«Paradossalmente, i due galleristi più influenti in America negli ultimi cinquant’anni sono di origine europea. L’uno, Leo Castelli, nato a Trieste; l’altra, Ileana Sonnabend, nata a Bucarest. Loro due hanno capito l’importanza della nuova arte americana come modello estetico che avrebbe dominato la scena mondiale. Anche il mercante più potente di questi anni (Larry Gagosian) è in fondo un erede della loro visione.» Gian Enzo Sperone

Annie Cohen-Solal

ebraica trova proprio nel Jewish Museum, dopo il moma, l’istituzione che lo sancirà come paladino dei grandi movimenti dell’arte americana – dal Pop al Concettuale – che sono l’imponente lascito di Leo Castelli.

Annie Cohen-Solal Nella stessa collana: 1. Mark Stevens – Annalyn Swan De Kooning. L’uomo, l’artista 2. Calvin Tomkins Robert Rauschenberg. Un ritratto 3. Bernard Marcadé Marcel Duchamp. La vita a credito 4. Gail Levin Edward Hopper. Biografia intima 5. Hunter Drohojowska-Philp Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana

Leo & C.

Storia di Leo Castelli Traduzione di Manuela Bertone

«Non sono un mercante d’arte, sono un gallerista» amava ripetere Leo Castelli. Per i suoi artisti è stato molto di più: un mecenate. Dall’apertura della prima galleria nel 1957 fino alla morte nel 1999, Castelli domina la vita culturale newyorkese ed eleva lo status dell’artista americano, che in quegli anni raggiunge la vetta più alta nel panorama artistico mondiale. Con lui si afferma la figura del gallerista polivalente. Imprenditore e infaticabile scopritore alla perenne ricerca del nuovo, è pronto a correre rischi e a servirsi delle strategie commerciali più efficaci per dare visibilità ai suoi protetti. Affiancato da Ileana Sonnabend – ex moglie con cui mantiene un rapporto di grande complicità – Castelli incoraggia i talenti emergenti e li promuove presso le istituzioni museali. Tramite una vasta rete di rapporti internazionali reinventa le regole del mercato e rivoluziona la cultura artistica stessa. La scoperta di Jasper Johns, suo artista feticcio, e la consacrazione di Robert Rauschenberg alla Biennale di Venezia del 1964 sono solo i primi colpi messi a segno. Si susseguono numerose altre epifanie – Frank Stella, Roy Lichtenstein, Andy Warhol, James Rosenquist, Cy Twombly, per citarne solo alcuni – che lo confermano come creatore di miti. Ma chi è Leo Castelli, l’uomo che ha atteso i cinquant’anni per aprire la sua prima galleria? Dietro il carisma di europeo affabile e mediatico si nasconde un uomo dalle molteplici identità.

€ 33 ,0

Nato nel 1907 a Trieste da genitori ebrei, Leo trascorre i primi trent’anni nelle grandi città d’Europa – Vienna, Milano, Budapest, Bucarest, Parigi. La sua traiettoria professionale inizia con l’esodo rocambolesco nel Nuovo Mondo per fuggire al drammatico contesto politico-sociale delle leggi razziali naziste e degli sconvolgimenti che ne seguiranno. Annie Cohen-Solal affonda le radici del suo racconto nel passato remoto della famiglia Castelli, ne rintraccia gli antenati nella Toscana rinascimentale e ricostruisce una storia fitta di persecuzioni, guerre, rotture, spostamenti, che offre sorprendenti analogie con il passato più recente della famiglia e con la parabola stessa di Leo. Ironia della sorte: un uomo sempre reticente sulla propria identità

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Annie Cohen-Solal

Leo & C.

Storia di Leo Castelli

Traduzione di Manuela Bertone



15 New York, 1° febbraio 1982, venticinquesimo anniversario della Castelli Gallery al CafÊ Odeon. In piedi, da sinistra a destra: Ellsworth Kelly, Dan Flavin, Joseph Kosuth, Richard Serra, Lawrence Weiner, Nassos Daphnis, Jasper Johns, Claes Oldenburg, Salvatore Scarpitta, Richard Artschwager, Mia Westerlund Roosen, Cletus Johnson, Keith Sonnier. Seduti, da sinistra a destra: Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Leo Castelli, Ed Ruscha, James Rosenquist, Robert Barry.



Prologo Nato su una polveriera

Muoio di noia e di freddo […] Tocco con mano la barbarie […] La bora soffia due volte alla settimana e il ventaccio altre cinque. Chiamo ventaccio quello che costringe a starsene continuamente aggrappati al cappello, E bora quella che mette addosso la paura di rompersi il collo.1 Stendhal a Madame Ancelot

«Leo Castelli, lei è stato definito “il Vollard della Pop Art”: una definizione di questo tipo le può dar fastidio?» «No, non mi dà affatto fastidio, anzi ne sono abbastanza fiero. Ma credo che l’analogia non sia perfetta.» «Posso proporle un’altra definizione, altrettanto approssimativa: Leo Castelli è “il Metternich dell’arte”, pensa con anticipo di quattro o cinque mosse, come nelle partite a scacchi, rispetto agli altri operatori culturali, galleristi ecc. Questa definizione quanto le calza?» «Be’, senta, Metternich, siccome ho studiato anche un po’ la storia, era un uomo di stato straordinario e sarebbe bene se ne avessimo uno competente come lui in questi giorni così difficili! Comunque, naturalmente, fare dei piani, occuparsi di artisti, d’arte, esposizioni ecc., ci vuole una certa strategia, non sono cose che si improvvisano. Penso che l’analogia non è proprio adatta, ma insomma…» «Signor Castelli, la ringraziamo moltissimo, ci auguriamo di riaverla quantomeno come ospite al telefono se non è possibile la presenza fisica.» «Senta, mi ha fatto molto piacere di poter parlare con la mia città natale, che amo moltissimo e che ricordo sempre con grandissimo affetto.»

Con questi convenevoli d’uso finiva la conversazione telefonica del 12 febbraio 1984: Nadia Bassanese, dagli studi della Rai di Trieste, intervistò Leo Castelli,

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in linea dal suo appartamento di New York. L’intervista andò in onda il giorno successivo sulla rete Rai-Venezia Giulia, nell’ambito di una serie di trasmissioni dedicate all’arte contemporanea, prodotte dalla Bassanese, direttrice di una galleria a Trieste. Alla fine dell’intervista la conversazione telefonica si protrasse per alcuni minuti: prima di agganciare il ricevitore, Castelli fece alla Bassanese un’ultima domanda. Una domanda possibile solo fra triestini, un chiaro segno di appartenenza che nemmeno i cinquantadue anni che aveva trascorso lontano dalla città natale avevano potuto scalfire: «C’è bora, oggi?» chiese. New York, 12 febbraio 1984, ore nove. Nell’appartamento di Fifth Avenue, all’angolo con 77th Street, Leo Castelli posa la cornetta. Con gesti sicuri, procede nel rituale mattutino. Caffè, New York Times, telefonata a Ileana, conversazione con Toiny su Jean-Christophe, che ormai è a Harvard, una carezza a Paddy, il dalmata di casa. Pochi minuti dopo, come ogni giorno, prenderà la bmw al parcheggio per andare alla galleria di SoHo. Come al solito, un appuntamento dietro l’altro: pranzo con il conte Panza di Biumo di passaggio a New York, incontro con un giornalista tedesco, ritorno alla galleria di Greene Street dove è in allestimento la mostra “Jasper Johns: Paintings. January 28th-February 25th”, la prima personale dell’artista dal 1976 nonché la prima nella sua galleria downtown, visita di Jasper che poi parte per Saint Martin, cena di gala per il New Museum. 18

Alla mostra, Castelli espone Racing Thoughts, 1983, Racing Thoughts, 1984, Untitled (Leo Castelli), 1984, tre riferimenti alla biografia del gallerista. Johns, il più enigmatico degli artisti di Castelli, nonché quello a lui più vicino, aveva cripticamente inserito in questa serie tutti i pezzi del puzzle che costituiscono la personalità del gallerista. Si direbbe che la fotografia lacerata di Leo, il sorriso misterioso della Gioconda, il gioco anatra/coniglio delle Investigazioni filosofiche di Wittgenstein vogliano tramandare la complessità della vicenda di Castelli. La precisazione chute de glace, in francese e in tedesco, il titolo Racing Thoughts, sembrano entrambi riferiti al talento dello scalatore Castelli, amante delle Dolomiti, le cime più difficili d’Europa, ma potrebbero anche essere una metafora di Trieste, città perturbante, dove non è certo banale essere nati. Il 28 gennaio, giorno dell’inaugurazione, Castelli ha venduto Racing Thoughts, 1983, a Jane e Bob Meyerhoff per ottocentocinquantamila dollari, la cifra più alta che sia mai stata scritta fino a quel momento su un assegno intestato alla Castelli Gallery. Il martedì mattina, quando l’assegno è arrivato alla galleria, Castelli, pazzo di gioia, ha mandato un fattorino a portarne una fotocopia alla moglie, uptown.2 «Non sono un mercante d’arte, sono un gallerista» ripeteva sovente con enfasi. Castelli attese di aver compiuto cinquant’anni prima di spiccare il volo, aprire una galleria sua e diventare il grande Leo Castelli, il gallerista capace di rivoluzionare le regole del mercato mondiale negli ultimi quattro decenni del Novecento. Precedentemente, nella prima parte della sua esistenza, era stato


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un uomo dai molti volti, dai tanti paesi e dalle tante città, sempre vicino a personalità forti che lo influenzavano e lo proteggevano. Trieste e suo padre, Ernesto Krausz. Bucarest e la prima moglie, Ileana, e il padre di lei, Mihai Schapira. Parigi e il primo socio in affari, René Drouin. Infine New York e il collezionistagallerista Sydney Janis. «[…] avviene spesso» scrive Stefan Zweig «che usando distrattamente l’espressione “la mia vita”, io mi domandi involontariamente: quale vita?»3 Come quella di Zweig, la vita di Castelli contiene in sé tutti gli avvenimenti occorsi nei paesi dell’Europa centrale nel primo Novecento. Castelli si lascia raramente andare all’evocazione della città natale. «Il fatto che sia nato a Trieste e abbia trascorso lì i primi anni della mia vita ha una certa importanza, anche se è un passato lontano»,4 dichiara sbrigativo quando lo intervistano. Trieste, lasciata all’età di ventiquattro anni, è per lui soltanto una città di provincia, distante e desueta e, sopra ogni cosa, un discorso chiuso. Dietro lo schermo della sua leggendaria affabilità, Castelli conserva molti segreti: Trieste è uno di questi. Durante le mie ricerche ho capito che, in realtà, il discorso non era del tutto chiuso. Riaprendo gli archivi, intervistando i protagonisti della vita del gallerista, trasformandomi insomma in investigatore, ho scoperto che Castelli, esattamente come Stefan Zweig, era un uomo dalle molte vite, un punto di incontro, una convergenza. Ecco dove stava il nocciolo del mistero: chi era veramente Leo Castelli? Chi poteva saperlo? Non si dilunga mai a spiegare che lì ha passato quasi un quarto della sua esistenza e, con un’altra identità, quella di Leo Krausz, ha vissuto una storia spensierata, felice, ma anche complessa e tragica, segnata da tutti i rivolgimenti politici del suo tempo. Il cambiamento da Krausz a Krausz-Castelli e infine a Castelli (il cognome della madre da nubile) avvenne nel contesto politico dell’Italia fascista, che imponeva l’italianizzazione dei cognomi. Fu ufficializzato per Regio Decreto emanato a Roma il 3 dicembre 1934, trascritto nei registri del comune di Trieste il 9 gennaio 1935: «Krausz Leo e suo padre Ernesto sono stati autorizzati ad aggiungere al cognome “Krausz” quello di “Castelli” e a fare uso del doppio cognome “Krausz-Castelli”».5 È indubbio che nel primo Novecento Trieste fu per l’intera Europa una sorta di immensa piattaforma di scambi e un’«eccellente cassa di risonanza»; per la famiglia Krausz, fu certamente una città dotata «di una sensibilità sismografica fuori del comune»:6 scosse di natura storica, politica, geografica, economica, razziale, spostamenti, rotture, adattamenti – non le fu risparmiato niente. Grazie alle ricchissime raccolte documentarie e alla letteratura triestina, oggi conosciamo bene la vicenda molto particolare della città chiave dell’Impero austroungarico, desiderabile e desiderata da tanti uomini politici per la sua collocazione geografica, a lungo al centro di spietati giochi di potere su scala europea. Conosciamo la sua storia tormentata di porto commerciale florido sotto gli Asburgo e poi, dopo la Prima guerra mondiale, di territorio annesso

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al Regno d’Italia e destinato a un lento declino, fino a diventare una semplice cittadina di provincia isolata e spenta. Conosciamo i paradossi della città imperiale, splendidamente adagiata sulle sponde dell’Adriatico, con i suoi edifici imponenti, ormai smisurati e incongrui; conosciamo i suoi caffè storici – San Marco, Tommaseo, Stella Polare, Specchi – celebri centri di scrittura, conversazione e convivialità; conosciamo la sua posizione incantevole tra mare e monti, fra Austria, Slovenia e Croazia, la giustapposizione delle comunità – greca, slava, ebraica, austriaca; conosciamo il suo fascino e il tedio che la avvolge. E conosciamo anche la sua forza procreatrice, perché ha dato alla luce scrittori famosi,7 e ha ispirato con la sua malìa altri grandi “di passaggio”.8 Conosciamo, beninteso, la bora, il vento che è solo suo e soffia dalle montagne fredde del Nord-Est per precipitare in refoli pazzi a centocinquanta chilometri all’ora verso l’Adriatico, costringendo i triestini ad aggrapparsi alle corde tese per le vie del centro onde evitare cadute rovinose. È difficile resistere alla tentazione di associare questi due aspetti della vulnerabilità triestina. La Trieste devastata, maltrattata dagli elementi nei giorni di bora forse non è altro che un’allegoria dell’altra Trieste, quella investita dalle tempeste politiche, la Trieste tallone d’Achille dell’Europa. Alcuni esperti hanno avanzato ipotesi più o meno azzardate esaminando l’impatto del fenomeno 20

naturale sul comportamento degli abitanti, sulla psicologia del “popolo della bora”.9 Umberto Saba annota in proposito un pensiero di Giacomo Debenedetti: «Voi Triestini – mi diceva ieri Giacomo Debenedetti – siete veramente figli del vento. È per questo che amate tanto moralità e apologhi, favole e favolette. È perché sei nato nella città della bora che scrivi Scorciatoie […]».10 In realtà, è pressoché impossibile raccontare Trieste senza leggere i testi dei suoi figli (prodighi), gli scrittori. Se Saba e Svevo ne fanno il «centro sismografico dei terremoti dell’umanità»,11 Scipio Slataper la celebra come «pacifica e tollerante, città del sì dello ja e del da, [capace di ridiventare] la sintesi del mondo»,12 mentre Ara e Magris cercano di capire come si sia costruita, nei secoli, la sua «identità di frontiera».13 Alle prese con questa Trieste vulnerabile e mercuriale, gli scrittori allestiscono costruzioni simboliche, mentre gli stranieri, scrittori-viaggiatori, ne parlano con un certo disagio nei diari di viaggio. «Questa città, armoniosamente costruita, è posta sotto un bel cielo, ai piedi di una catena di monti aridi; non possiede monumenti. L’ultimo respiro d’Italia si frange su queste rive dove inizia la barbarie», annota Chateaubriand.14 «Non è l’Italia, è solo un’anticamera», scrive invece Stendhal.15 Gérard de Nerval la definisce «una città molto triste»16 e Rilke «odiosa per i suoi gusti».17 Si potrebbero prendere in prestito da Dostoevskij i qualificativi di città «astratta e premeditata » che utilizzò per descrivere San Pietroburgo, « perché, come San Pietroburgo, è cresciuta per decisione d’un governo anziché per un processo di sviluppo organico».18 Oppure


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potremmo utilizzare il diario di viaggio di Herman Bahr, il quale annota, precisamente nell’anno in cui nasce Leo Krausz, che Trieste: «[…] non è una città. Si ha l’impressione di non essere in alcun posto. Ho provato la sensazione di essere sospeso nell’irrealtà».19 In questo “spazio irreale”, di fatto un’autentica polveriera, cresce Leo Krausz: quando Trieste passa di mano, inizia il mutamento del suo destino economico, del suo statuto politico, della sua lingua e perfino della sua moneta. Fino alla Prima guerra mondiale Trieste è ancora la città delle grandi sfide politiche, economiche, finanziarie e strategiche che impegnano l’Impero austroungarico e il Regno d’Italia, ma è anche la città che ispira a James Joyce il rinnovamento della forma-romanzo e strappa a Filippo Tommaso Marinetti il grido esaltato della rivoluzione permanente: «Trieste! Tu sei la nostra unica polveriera! In te noi riponiamo ogni nostra speranza!».20 Trieste è la città che, nello stesso decennio, vede nascere Ulisse, il manifesto del Futurismo e Leo Castelli. Il 4 settembre 1907 nasce a Trieste Leo Krausz, secondogenito di Ernesto Krausz e Bianca Castelli. È il frutto dell’unione, probabilmente propiziata dal rabbino, tra un dirigente di banca austroungarica, arrivato da poco, e una ragazza della borghesia locale. Vale a dire dell’incontro tra due comunità ebraiche che nulla hanno in comune: gli ebrei ungheresi, ashkenaziti, aperti alla modernità, mobili, che scelgono Trieste perché attratti dal suo dinamismo finanziario, e gli ebrei italiani, sefarditi, ancora segnati dal ricordo del ghetto, che si rifugiano a Trieste per sfuggire alle persecuzioni religiose. Dal xv secolo Trieste è la città-rifugio di tutti i sefarditi cacciati dalla Spagna, dalla Grecia, dalla Turchia e dalle città italiane, ed è nota nel Mediterraneo come uno dei pochi comuni che concede ai residenti ebrei alcuni privilegi ai quali «nemmeno un cristiano poteva accedere».21 Così, nel 1799, dalla cittadina toscana di Monte San Savino, arriva a Trieste Giacobbe Castelli, di anni venti, figlio di «Aronne Castelli, ebreo» e di sua moglie Anna, nonché fratello di Sabato, Vitale e Sara, cacciato dalla terra natale a seguito delle persecuzioni del gruppo Viva Maria. Il 3 giugno 1803, nella sinagoga di Trieste, Giacobbe Castelli sposa Susanna di Davide Jacchia. Secondo l’uso ebraico, darà al primogenito il nome di suo padre, Aronne. Questo secondo Aronne Castelli sarà lo spumeggiante bisnonno materno di Leo Castelli. Nel 1867, «anno dell’esecuzione dell’imperatore Massimiliano in Messico», vince il primo premio alla “Signoria” (la lotteria di Trieste), ben trentamila guilde d’oro. Si compra cavalli e carrozza, vive da gran signore, con tanto di domestici in guanti bianchi e precettori a domicilio per i figlioli, dilapidando così nel giro di pochi anni le favolose ricchezze che il caso gli aveva recapitato. Il gallerista newyorkese ricordava talvolta, divertito, la figura mitica dell’avo pittoresco, e aveva sentito dire che la famiglia materna era originaria di Monte San Savino, ma non cercò mai di procurarsi dettagli su queste storie, preferendo

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lasciare ad altri (per esempio a chi scrive) l’onere dell’approfondimento. «Dovresti dare un’occhiata dalle parti di Monte San Savino, il paese dei miei antenati, vai a vedere se ci sono tombe al cimitero con il nome Castelli…», mi aveva suggerito un giorno Leo, con quell’aria provocatoria, leggera e fascinosa che caratterizzava la sua personalità. D’estate era venuto a trovarmi a Cortona, una prima volta nel 1991 insieme a Catherine Morrison, poi nel 1994 e nel 1995 in compagnia di Barbara Bertozzi. Voleva visitare la chiesa Santa Maria del Calcinaio, costruita nel 1475 da Francesco di Giorgio Martini, voleva vedere e rivedere l’Annunciazione (1445?) di Fra Angelico, quella con le parole dell’angelo curiosamente scritte alla rovescia. Gli era piaciuta la casa di Pietro Berrettini detto Pietro da Cortona, eravamo andati a Città di Castello a vedere il Cristo deposto (1528) di Rosso Fiorentino e, naturalmente, ad Arezzo, alla chiesa di San Francesco, e a Borgo Sansepolcro, a rivedere gli affreschi di Piero della Francesca. Durante le nostre gite tra Umbria e Toscana, nei paesini della Val di Chiana, distanti pochi chilometri gli uni dagli altri, avevamo sfiorato tante volte Monte San Savino ma, curiosamente, Leo non aveva mai espresso il desiderio di recarsi nella cittadina dei suoi antenati. Le tracce della comunità ebraica erano scomparse, certo, ma a volte capitava che gli abitanti indicassero ai visitatori di passaggio dov’era «l’antico borgo della Sinagoga»: nell’estate del 1990 l’avevo 22

scoperto proprio così, e avevo visto la porta della sinagoga, i cardini dei portoni incastonati nella pietra che segnavano il confine del ghetto; con un gesto, mi avevano fatto capire dove si trovava l’antico cimitero israelita ormai coperto di rovi: «laggiù, in fondo al paese, dalla parte del Campaccio, oltre il torrente che noi si chiama il Ghisio». E così, in forma di libro nel libro, ecco la storia dei Castelli e dei Krausz. Una storia che inizia a Monte San Savino, nel Rinascimento, quando gli antenati di Castelli hanno ridato lustro a una piccola città italiana grazie al loro talento spiccato per il commercio all’ingrosso. Li accompagneremo durante lo spostamento forzoso a Trieste, dove otterranno nuove libertà e riusciranno a creare nuove imprese commerciali di grande successo. Poi scopriremo i Krausz, gli avi paterni di Castelli, sudditi dell’Impero austroungarico, legati alla famiglia imperiale, grandi proprietari terrieri fino al giorno in cui Ernesto, il padre di Leo, lascia il villaggio ai confini della Croazia e se ne va a cavallo fino a Trieste, dove diventerà uno dei banchieri più in vista della città. Trieste, la città natale di Leo, è uno spazio-soglia, un luogo rivolto verso l’interno e verso l’esterno, un centro e una periferia, è il sismografo del Vecchio Continente da cui Leo trarrà la percezione del mutamento continuo: Trieste è la sua origine, la sua eredità, il suo patrimonio familiare. In questo senso, anche se perennemente turbato dai suoi miti personali, Castelli potrebbe assurgere a emblema moderno dell’ebraismo. «Non ho mai capito appieno l’ebraismo di mio padre» mi ha spiegato ultimamente il figlio Jean-Christophe.


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Trieste, 1927. Leo Krausz ventenne al mare con gli amici, mentre commenta il Corriere dei piccoli.

Siccome viveva a New York, partecipava regolarmente ai barmitzvah e alle festività di Pessah a casa degli amici, visto che tre quarti dei miei amici erano ebrei. Mia madre chiedeva a mio padre: “perché non gli racconti un po’?” Ma mio padre non mi confidava mai granché del suo passato. Se gli facevo una domanda puntuale, rispondeva premuroso e talvolta parlava a lungo. Ma, per la verità, tutti i suoi aneddoti e i suoi ricordi avevano un qualcosa di vago. Era difficilissimo cogliere un elemento intimo nelle sue storie. Forse il suo essere ebreo era per mio padre il terreno più intimo e pertanto il più difficile d’accesso anche per lui. Si è costruito un mito, lo ha proposto, e sono rarissimi coloro che non lo hanno accettato.22

Leo Castelli non ha mai raccontato la sua storia per intero. Ma mi ha dato un numero sufficiente di indizi per iniziare l’inchiesta. Ecco qui, per Leo, quello che ho scoperto di Monte San Savino, la storia dei Castelli ebrei di Toscana, antenati del grande Castelli. È un’epopea fatta di erranze e persecuzioni che prende avvio nella Toscana del Rinascimento e finisce con un successo straordinario nel Nuovo Mondo, agli albori del xxi secolo.

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New York, 1946-1956 Gli anni della metamorfosi



17 Tra Pollock e de Kooning: apre la galleria?

Ho deciso di aprire una galleria per il semplice motivo che dovevo guadagnarmi da vivere. Ho capito che non avevo nessun altro mezzo e che dovevo farlo sul serio se volevo pagare l’affitto e il droghiere.1 Leo Castelli

Era l’estate del 1952, l’estate dei miei sedici anni. Sono stato a cena varie volte da Leo e Ileana, nella casa di Jericho Lane, a East Hampton. C’erano anche de Kooning con la moglie, la madre di Ileana, Marianne, che si era risposata con John Graham, Michael Sonnabend, che avrebbe sposato Ileana alcuni anni dopo, e tanti altri.

Robert Reitter, il nipote di Castelli, ricorda. Tutti si divertivano a imitare i presentatori televisivi di allora, con le loro frasi fatte e gli stereotipi ridicoli. Era una valanga di frasi, sparate da questo e quello, per prendere in giro l’ingenuità americana di quegli anni, finché uno dei presenti ha tirato fuori un «From Coast… to Coast!» e tutti sono scoppiati a ridere.2

Nell’ambiente da bohème della periferia-bene di New York, si sbeffeggia l’avvento della cultura di massa rappresentata dalla televisione, ma anche l’immagine rassicurante e artificiale della famiglia americana che, in apparenza, gode di ottima salute. Da due anni, la vita politica statunitense è dominata dal delirio del senatore McCarthy, che denuncia le ingerenze dei comunisti nell’amministrazione americana, instaurando così nel paese un clima inquisitorio particolarmente pesante, che sfocerà nell’incriminazione e nell’esecuzione dei Rosenberg.

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È un linciaggio legalizzato – scrive Sartre nel giugno del 1953 – che copre di sangue un intero popolo e dimostra una volta per sempre, e in maniera eclatante, il fallimento dell’alleanza atlantica e la vostra incapacità di assumervi la leadership del mondo occidentale […]. C’è decisamente del marcio in America […]. Non stupitevi se lanciamo un grido che attraversa l’Europa: attenzione, l’America ha la rabbia […]. Recidiamo tutti i legami che abbiamo con l’America, sennò anche noi saremo morsi e avremo la rabbia.3

Nella casa di legno di Jericho Lane, i coniugi Castelli e gli invitati si divertono a prendere in giro i burattini della televisione adulati dal pubblico. Come tutti, anche i Castelli cedono al fascino delle spiagge di Amagansett e di Georgica Pond, degli uccelli selvatici che pullulano al largo di Accabonack Creek e di Barcelona Point. Anche loro fanno il bagno a Louise Point, al lido che, dall’Ottocento, ha accolto artisti come Thomas Moran, Childe Hassam e Augustus SaintGaudens. È stato Motherwell, che si è fatto rifare la casa dall’architetto francese Pierre Chareau, a trascinarli in questo paradiso ancora intatto, a tre ore da New York, dove Jackson Pollock e Lee Krasner si sono trasferiti nel 1954, seguiti a ruota da Marca-Relli, Franz Kline e dal critico Harold Rosenberg. Grazie ai rapporti che si sono stretti durante le serate al Club, i Castelli hanno conosciuto meglio de Kooning e la moglie Elaine, e li hanno invitati due anni di seguito a 208

trascorrere l’estate nella casa di East Hampton. Non è affatto un periodo facile per il rivale di Pollock, notoriamente lento sul lavoro: da un anno e mezzo, si dedica caparbiamente a Woman, e c’è voluta una visita di Meyer Schapiro nel suo studio per convincerlo che ormai l’opera è ultimata. Sul terrazzo coperto di casa Castelli è stata costruita una parete per creare uno spazio isolato trasformato in studio, ma la produzione estiva è rimasta scarsa. D’altro canto, per la coppia di artisti l’ambiente dei nuovi ricchi di East Hampton permane scontroso e umiliante. Una volta, una vicina dei Castelli vede de Kooning in bicicletta con indosso gli abiti da lavoro, crede sia il domestico tuttofare dei Castelli e gli affida un messaggio per il “padrone”, lagnandosi del cane che abbaia troppo spesso. Scontento di Charles Egan, il mercante che gestisce i suoi interessi, de Kooning si lamenta con Castelli. «Volevano andare tutti da Janis» spiega Castelli «perché era la galleria che aveva presentato i grandi pittori cubisti, oltre a Duchamp, Léger, Klee e Mondrian. Era la galleria giusta. Ho accettato di parlarne a Janis: “Ti lamentavi di non avere abbastanza roba sostanziosa dall’Europa?” gli ho detto. “Perché non prendi de Kooning? È scontento di Egan.” Janis conosceva il suo lavoro, abbiamo concluso l’affare.»4 In veste di intermediario tra artisti e mercanti Castelli entra nell’ingranaggio dell’ambiente artistico newyorkese, tanto più che i rapporti con Pollock, dopo i primi incontri, hanno preso una piega decisamente personale. Da quando sono arrivati a New York, Castelli e la moglie seguono con fervore la sua attività e assistono a tutte le sue mostre, poi cominciano ad acqui-


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stare le sue opere. Poco a poco, insieme a John Graham e Marianne Schapira, si avvicinano a Pollock e alla Krasner, sia a New York che a East Hampton. Pollock era una persona magnifica – racconta Leo Castelli. – Mi ricordo di serate straordinarie a Springs, quando Lee preparava una delle sue splendide ed elaboratissime cene. Quando era di buon umore, si dimostrava intelligente, interessante, e passavamo una serata quasi raffinata. Era molto sicuro di sé, aveva la certezza incrollabile del proprio talento di pittore e, quando ne parlava, lo faceva con una forza di convinzione impressionante, ma mai in modo violento. Gli volevo molto bene, ma nemmeno io, che pure ero suo amico, potevo far nulla per combattere la sua disperazione. Quando beveva, lo vedevamo arrivare e poi correre per tutta la casa in uno stato pietoso. Eravamo terrorizzati, mia moglie Ileana cercava di mettere in salvo i vasi più fragili. Senza contare che cercava di ammaccare con la sua Ford A una scultura di Larry Rivers che addobbava l’ingresso del nostro giardino, perché non gli piaceva.5

Nella casa di Fireplace Road, l’estate 1952 non è certo radiosa per Jackson Pollock. Lee Krasner non riesce a farlo smettere di bere né a nascondere le sue crisi al mondo esterno. Tre anni prima, un articolo impressionante di Life, pubblicato con un titolo altisonante, «Is He the Greatest Living Painter in the United States?», gli ha dato una notorietà insperata per un artista americano, e gli è valso sia elogi spropositati che rancori da parte dei suoi colleghi. Anche se Pollock ha avuto periodi positivi, per esempio l’estate del 1950, il suo percorso professionale è globalmente accidentato, fragile e caotico, tra sobrietà e alcolismo. Nel 1947, quando Peggy Guggenheim ha lasciato New York, Pollock ha perduto un solido sostegno, ma anche il famoso mensile che gli assicurava almeno la stabilità economica. Con la nuova gallerista, Betty Parsons, Pollock firma un contratto di un anno, rinnovabile, ma il rapporto non è confrontabile. Della Parsons si dice che è passiva, di Pollock che è caratteriale, e la mostra del dicembre 1950 è un fallimento dal punto di vista commerciale. A quale galleria rivolgersi? Egan? Kootz? Tibor de Nagy? Grace Borgenicht? Pollock si consiglia con Castelli. Non appena Bill [de Kooning] è stato preso dalla galleria di Janis, Jackson è venuto a dirmi: “Tu hai fatto entrare Bill alla galleria, vorrei andarci anch’io”. Allora ho parlato di nuovo con Janis, che ha risposto: “Sai quanto ammiri il lavoro di Pollock. Di certo è un pittore notevole. Ma che carattere! È sempre ubriaco, non so proprio come costruire un rapporto con lui”. Ho insistito e Janis ha accettato di prendere Jackson.6

Quindi Pollock esporrà da Sidney Janis, insieme a Kline, Gorky, Baziotes e de Kooning. Ma Castelli è davvero intervenuto come sostiene? Oppure è stata una scel-

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ta di Lee Krasner? In quegli anni, e particolarmente nel periodo di crisi dell’estate 1952, mentre è in gioco precisamente il rapporto tra l’artista e il gallerista, Pollock lavora seriamente per preparare la prima mostra da Janis, prevista per il novembre successivo. Quell’estate, insomma, a casa di Castelli e dintorni, è in corso uno strano conflitto tra i due grandi artisti del momento, un conflitto alimentato dalle rivalità emerse durante gli incontri del Club. «Il rapporto di Jack con de Kooning era davvero strambo» spiega Castelli. «Erano in competizione uno con l’altro; la loro era un’amicizia ostile e, tra loro, erano in perenne tensione.»7 Anche Motherwell ricorda «una festa dai Castelli durante la quale Pollock si è messo a bere sempre più. Verso mezzanotte, siamo andati via, mia moglie e io. Sentivamo che stava per esplodere qualcosa e non volevamo rimanere perché Pollock sembrava davvero pericoloso».8 Ileana propone l’analisi più accurata dei due temperamenti: Pollock era più autentico e più originale, mentre de Kooning, sentendosi minacciato, cercava di rivaleggiare con lui e attaccava briga con Pollock dicendogli che lui solo era il vero pittore figurativo. Per parte mia, lo trovavo ingiusto e, comunque, preferivo Pollock. Ho detto a de Kooning che, secondo me, i quadri di Pollock erano più interessanti, più controllati dei suoi, più liberi. Ne parlavamo spesso e de Kooning se la prendeva a male.9

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I Castelli sono ricettivi, aperti e sicuri. Le loro case di New York e East Hampton ospitano, nel tempo, le scene di disperazione degli uni e degli altri. «Nel mio appartamento di New York» racconta Leo «allora, avevo Scent, l’ultimo quadro di Pollock. Jackson è passato a trovarmi un giorno, in pessimo stato, disperato e depresso sul proprio avvenire artistico. Si è seduto di fronte al quadro e c’è rimasto un bel po’, se l’è guardato e riguardato: una cosa sconvolgente.»10 Nell’agosto del 1956, apprendono la notizia della sua morte, che li lascia basiti. «L’avevamo visto due settimane prima» dice Ileana. «Non riuscivamo a capire. Parlava spesso di suicidio, ma quello non era un suicidio, o forse sì, perché in lui c’era un desiderio di autodistruzione molto tenace.»11 Ormai dai Castelli si danno appuntamento artisti, critici, mercanti, collezionisti, conservatori di museo: la linea di demarcazione tra vita sociale e vita privata, tra amicizie e rapporti di lavoro è quanto mai labile: occupano una postazione cruciale e l’apertura della galleria sembra ormai un esito scontato. Ileana racconta: […] un alterco molto violento con de Kooning. Diceva a Leo tutto quello che doveva fare e non fare. Diceva che quando avrebbe aperto la galleria, Leo doveva organizzare una mostra per lui. Ho risposto: “Non ne sono sicura. Perché credi che Leo ti allestirà una mostra? Penso che abbia altri progetti”. Ho aggiunto che, secondo me, Leo si orientava verso i pittori emergenti anziché verso quelli che avevano già raggiunto il culmine dell’attività.12


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Perché mai un uomo vuole affermarsi, a cinquant’anni, dopo essere rimasto nell’ombra così a lungo? Come fa a trasformarsi da Luftmensch in uomo d’azione? Che cosa significa far parte del Club? E il suo ruolo di assistente da Janis? E il lavoro di mediazione per Nina Kandinsky? E la sua ammirazione sconfinata per Alfred Barr? E l’atteggiamento del discepolo che adotta con Clement Greenberg? E i suoi viaggi continui in Francia, per spingere Drouin a lavorare negli Stati Uniti? Gli anni di ristrettezze? I tentativi per associare e avvicinare artisti europei e americani? L’incanto mistico che lo coglie al cospetto degli artisti, perché sanno creare un mondo simbolico? «Leo era molto difficile» tenta di spiegare la moglie «non voleva lavorare con gente qualunque, ma soltanto con quelli che stimava; il problema economico non c’entrava. Leo non è mai stato molto sicuro di sé: aveva bisogno di incoraggiamenti continui, ed è anche questo che me l’ha reso simpatico.»13 C’erano le insistenze di de Kooning e le insofferenze di Janis, come conferma l’interessato: Janis ha cominciato a stufarsi, dopo tutto aveva una galleria che gli costava molto e non aveva motivo di dividere con me solo i profitti mentre le spese (affitto, pubblicità) erano tutte a suo carico. Ho capito che i bei giorni della mia ingenuità erano finiti. E poi, Janis aveva due figli che potevano rilevare l’azienda e voleva che gli affari rimanessero nella sfera familiare.14

Castelli continua a cercare, presenta ancora una mostra dada da Janis, riceve René Drouin, che ha appena aperto un piccolo locale in rue Visconti, lo presenta

New York, 1° gennaio 1953, casa di Leo e Ileana Castelli: Leo appoggiato allo stipite, Ileana di spalle.

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a Duchamp, poi va a Parigi e valuta le varie possibilità. Ormai si è schierato con gli artisti americani, e vuole mettersi al servizio delle loro imprese eroiche. Con Janis, per un po’ abbiamo pensato di aprire una filiale in Europa per promuovere i pittori americani – continua – e così la mia vita sarebbe cambiata. Ma non avevo capitali, e Janis non sembrava crederci abbastanza da darmeli lui. Sono andato in Europa nel 1955 per sondare la possibilità di aprire una galleria lì.

Ancora titubante, Castelli ha perduto l’appoggio di Janis e si rivolge ad Alfred Barr. «Caro Alfred» gli scrive «le mando la brutta copia del mio progetto. Forse ci troverà tanti difetti. Critichi liberamente e mi faccia dei suggerimenti. Mi permetterò di chiamarla all’inizio della settimana prossima per sentire che ne pensa. Le sono molto riconoscente del suo aiuto inestimabile e le chiedo scusa se la gravo di questo fardello.»15

Bozza di progetto per una galleria parigina 1. Negli scorsi anni, l’arte americana è giunta a maturazione. Molti di noi ri-

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tengono che stia acquisendo una posizione di forza. Anche gli europei sono sempre più coscienti del significato della nostra arte nel settore della pittura e della scultura, ma questa presa di coscienza, non ancora espressa esplicitamente, permane vaga. 2. Forte delle sue tradizioni di capitale del pensiero, Parigi regna sempre sovrana nell’ambito del mondo dell’arte e conserva tuttora, per gli artisti, il ruolo essenziale che ha avuto in passato. Pertanto, il declino progressivo di Parigi come culla della creazione artistica – fenomeno forse passeggero – e l’emergere di nuove forze in America che colmano il vuoto, sono passati inosservati. Anche il pubblico americano spesso sostiene e apprezza con difficoltà gli artisti americani finché questi non vengono legittimati dall’Europa; e mentre molti artisti provenienti dall’Europa – che spesso propongono versioni edulcorate delle tendenze americane – ottengono qui nei nostri musei e nelle nostre gallerie un successo immediato, i tentativi concomitanti per promuovere l’arte americana in Europa hanno soltanto, nel migliore dei casi, un successo di stima. A conti fatti, ad oggi, soltanto qualche rara galleria europea ha potuto o voluto sostenere gli artisti americani. 3. Questa situazione anomala ha due conseguenze negative: a) gli artisti di primo piano non ottengono il riconoscimento internazionale che meritano;


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b) il mondo artistico europeo è sprovvisto dell’influenza salutare che arricchisce la creatività dell’arte contemporanea. 4. Quindi, ci riproponiamo di aprire a Parigi una galleria che, riteniamo, potrebbe dare al mondo artistico tre contributi essenziali: a) sottolineare il fatto che in America esiste un movimento artistico vivace e dinamico; b) giovarsi del giudizio critico degli americani, che, dagli impressionisti a oggi, ha spesso preceduto quello dei francesi. Gli americani, mentre esploravano settori trascurati dell’arte europea, hanno saputo reperire i grandi talenti emergenti; c) introdurre le tecniche espositive americane che, ci sembra, sono anch’esse precorritrici rispetto alle tecniche europee, perché dedicano mostre a temi in pieno sviluppo, come la storia del collage, la scultura metallica all’aperto ecc. 5. Quindi, nelle mostre previste dalla galleria, gli artisti europei occuperanno una postazione di rilievo, accanto agli artisti americani. Altre motivazioni chiare confortano questa scelta: a) l’oggetto preciso di questo progetto è di dimostrare, attraverso confronti puntuali, che i nostri artisti sono capaci di rivaleggiare ad armi pari con i loro omologhi europei; b) la presentazione concomitante di americani ed europei non deve far insorgere il sospetto che si tratti di diplomazia culturale; c) è lecito supporre che la presentazione di opere di artisti europei consentirà alla galleria di approdare all’autonomia finanziaria entro due anni. 6. Le varie mostre che pensiamo di allestire potranno circolare nei musei e nelle gallerie di altre città europee che, finora, non si sono potute permettere spesso di esporre le opere dei nostri artisti a causa dei costi notevoli di questo tipo di spostamenti. Adottando Parigi come centro di distribuzione, questo ostacolo sarebbe evitato, anche a non dire che troveremmo un nuovo mercato potenziale per l’arte americana. [Nel margine di sinistra Barr ha inserito di suo pugno un punto interrogativo.] 7. I costi dell’apertura della galleria e della gestione, per il primo anno, sono stati accuratamente studiati, grazie ai consigli di un esperto, e stimati a cinquantamila dollari. Non è facile invece prevedere l’ammontare del sostegno finanziario necessario per la stagione successiva. Tuttavia, anche se il nostro sviluppo richiede tempi più lunghi di quelli previsti, metà della suddetta somma (forse molto meno) dovrebbe consentire alla galleria di operare in autono-

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mia finanziaria alla fine del secondo anno. [Nel margine di sinistra, Castelli ha aggiunto a mano «punto su cui servono più ampie e ulteriori discussioni».] 8. Qualifiche personali: Attivo nel contesto dell’arte moderna sia in Francia che negli Stati Uniti per vent’anni, socio della Galerie René Drouin, 17 place Vendôme, Parigi, dal 1938, anno di fondazione, fino al 1949. Rappresentante di questa galleria a New York dopo servizi resi all’esercito americano. Cofondatore, nel 1949, dell’Artists’ Club. Piccola associazione che gode di grande visibilità, ha creato legami di solidarietà senza precedenti in questo paese, tra artisti d’avanguardia, dando loro un sostegno assolutamente indispensabile. Organizzazione e allestimento del “9th Street Show” nel 1951. La mostra, che presentava le opere di sessanta artisti, ha costituito probabilmente il punto di partenza di un vero interesse nei loro confronti. Ha inoltre permesso di scoprire molti talenti giovani e promettenti. [Nel margine di sinistra, Castelli ha aggiunto a mano: «questo riguarda solo le mie attività in campo artistico; forse evocare anche la mia esperienza in altri settori».] Codirezione e allestimento di varie mostre; mostra franco-americana alla

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galleria di Sidney Janis, mostra del gruppo di artisti americani, presentata in anteprima nella stessa galleria, poi a Parigi e poi, al rientro, come mostra itinerante negli usa. [Nel margine di sinistra, Castelli ha scritto a mano: «i cataloghi delle mostre vanno allegati».] 9. Referenze: 10. Programma delle prossime mostre: 1. Selezione di maestri europei: Fauves, Cubisti, Matisse, Mondrian, Klee ecc. 2. Jackson Pollock. 3. Prima mostra di Mondrian a Parigi. 4. Gruppo americano: de Kooning, Still, Rothko, Kline, Tomlin, Guston. 5. Brancusi. 6. Pionieri americani: Marin, Stella, Carles, Feininger, Davis, Macdonald-Wright, Hofman, Tobey, Gorky. 7. Gonzales. 8. Willem de Kooning. 9. Evoluzione del collage da Picasso a Braque e agli americani come Motherwell, Vicente, Marca-Relli ecc. 10. Scultura americana su metallo: David Smith, David Hare, Ferber, Lippold, Roszak, Lipton e, ovviamente, Calder.


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11. Altre mostre: mostre personali per gli artisti compresi nella mostra americana collettiva. Giovani artisti americani ed europei, personali o collettive, e in svariati contesti. Altre possibilità: Gabo, Pevsner, Kiesler, Dubuffet ecc.16

Un mese e mezzo dopo, Barr finalmente gli risponde, in termini non precisamente entusiasmanti: Caro Leo, è molto cortese da parte sua perdonarmi per il grande ritardo con cui rispondo alla sua lettera del 26 ottobre, comprendente le grandi linee del progetto per una galleria a Parigi. Infatti, ero terribilmente occupato, ma le avrei telefonato se avessi trovato critiche serie da muovere alla sua sinossi. L’ho trovata eccellente e sarò lieto di sostenerla qualora la cosa fosse richiesta dalla fondazione. Ho cercato di raggiungerla telefonicamente stamani, ma non c’era, e siccome sono convocato in veste di giurato a un processo questo pomeriggio, le mando queste poche righe. Molti auguri. Cordialmente, Alfred H. Barr, Jr.

215 P.S. Posso tenermi la bozza?17

Dopo questa risposta, che di fatto chiude il discorso anziché intavolarlo, Castelli ha le spalle al muro. «Nel passato c’è» mi ha detto un giorno «in tutti i periodi storici, una fase di prosperità, dal punto di vista economico o storico, come è accaduto in Francia e in Olanda. In quella fase l’arte si sviluppa inevitabilmente, con una élite che si stabilisce in vari centri. Fenomeni analoghi avvengono in tutte le capitali del mondo. Negli Stati Uniti, dev’esserci stata una fase di accelerazione, e così ci siamo giovati di un’economia molto florida.»18 Un tempo, i cinque fratelli Castelli, arrivati a Monte San Savino, avevano commerciato nell’intera regione, contribuendo ad accrescere la prosperità della loro città, grazie all’esenzione dalle tasse doganali. Successivamente, i cugini Giacomo e Carlo Castelli, “le due tiracche”, grazie alle leggi di Maria Teresa d’Austria e a una flotta che solcava i mari del mondo, avevano sviluppato il commercio internazionale del caffè e del riso. Verso la fine degli anni cinquanta, a New York, Leo Castelli, privo di mezzi ma forte dell’eredità del passato familiare, utilizzerà la stanza di sua figlia per aprire finalmente la sua galleria, dove esporrà i suoi eroi, i pittori americani: ha la ferma convinzione che il loro talento stia per esplodere.


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