Louvre, mon amour

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Louvre, mon amour

«È nei momenti di smarrimento, di contestazione, di innovazione che i pittori tornano al Louvre, allo stesso modo in cui i marinai in piena tempesta sognano il porto.»

Pierre Schneider

Pierre Schneider (Anversa, 1925), dopo una laurea a Berkeley e un dottorato a Harvard, si trasferisce a Parigi, dove risiede dagli anni cinquanta. Collaboratore dei Temps Modernes diretti da Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty, di Critique, diretto da Georges Bataille, dei Cahiers du Sud e di varie altre testate fra cui Artnews e The New York Times, ha dedicato quattordici anni di lavoro a uno studio magistrale su Henri Matisse (Flammarion, 1984), artista di cui è considerato uno dei massimi esperti al mondo e di cui ha curato importanti retrospettive.

Marc Chagall Sam Francis Alberto Giacometti Joan Miró Barnett Newman Jean-Paul Riopelle Pierre Soulages Saul Steinberg Bram van Velde Maria Elena Vieira da Silva Zao Wou-ki

Pierre Schneider Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948 2. Clement Greenberg L’avventura del modernismo. Antologia critica 3. Ai Weiwei Il blog. Scritti, interviste, invettive 2006-2009 4. Brian O’Doherty Inside the White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo 5. Marco Meneguzzo Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze) 6. Frederic Spotts Hitler e il potere dell’estetica

Louvre, mon amour Undici grandi artisti in visita al museo più famoso del mondo

È indispensabile dare fuoco al Louvre per affermarsi tra i maestri del proprio tempo? Per rispondere a questa domanda provocatoria, negli anni sessanta il critico d’arte Pierre Schneider invitò undici celebri artisti dell’epoca – fra cui Giacometti, Miró, Chagall, Steinberg – ad accompagnarlo, uno per volta, attraverso le sontuose sale del museo parigino. Nessuno degli invitati si tirò indietro e la verità che ne emerse è valida tutt’oggi: ben lungi dal rappresentare una tortura, il Louvre esercita sull’artista un richiamo inesauribile nel tempo. Né scoraggiato né sollevato – semmai sedotto – dall’abisso che lo separa dai giganti che vi dimorano, solo l’artista sa interrogarli e intrattenere con loro un dialogo fra pari. Schneider registra ogni commento, ogni gesto, perfino i silenzi e gli umori altalenanti dei suoi interlocutori, dei quali tratteggia in poche battute l’itinerario del pensiero. Poi, al momento giusto, la domanda insidiosa. Le cui risposte – a volte feroci, a volte ammirate, mai deferenti – rivelano un acume raro e una grande intimità con artisti anche molto distanti. Assistiamo, così, all’imprevedibile commozione di Chagall davanti a Courbet («un grande poeta»), alla sua stizza di fronte a Ingres («troppo leccato»), alla predilezione di Giacometti per l’autoritratto di Tintoretto («la testa più magnifica del Louvre»), allo stupore onomatopeico di Miró, che lancia fischi di ammirazione ai mosaici africani. Lo sguardo di ciascuno scivola sulle opere per scandagliarne la materia, commentarne la “chimica” e decretarne, infine, la tenuta nel tempo. In queste trascinanti passeggiate soffia uno spirito di riconciliazione fra vecchio e nuovo che mette in crisi l’idea del museo quale deposito di oggetti obsoleti, incapaci di parlare ai contemporanei. Ai suoi undici ospiti d’eccezione il Louvre appare, di volta in volta, come il libro da cui imparare a leggere, la palestra in cui irrobustirsi, una scuola per affinare la visione, il cimitero ideale, una macchina del tempo che azzera scarti millenari, un ponte fra passato e presente, ma soprattutto il luogo in cui è possibile misurarsi con quanto di più grande è stato creato dall’inizio dei tempi.

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Saggi d’arte 7


©2012 Johan & Levi Editore Redazione Margherita Alverà Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di novembre 2012 isbn 978-88-6010-060-3 Copyright © Pierre Schneider 2012
 Titolo originale: Les Dialogues du Louvre La prima edizione francese fu pubblicata da Denoël nel 1967. I disegni a corredo del testo furono realizzati dagli artisti in occasione dei dialoghi, di cui fanno parte integrante. Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Per i crediti delle opere si veda l’apposita sezione. Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

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Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.


Pierre Schneider

Louvre, mon amour Undici grandi artisti in visita al museo piĂš famoso del mondo

Traduzione di Ximena RodrĂ­guez Bradford



Sommario

Premessa

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1. Bruciare il Louvre

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2. Marc Chagall

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3. Sam Francis

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4. Alberto Giacometti

53

5. Joan Mir贸

67

6. Barnett Newman

85

7. Jean-Paul Riopelle

103

8. Pierre Soulages

117

9. Saul Steinberg

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10. Bram van Velde

145

11. Maria Elena Vieira da Silva

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12. Zao Wou-Ki

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Crediti delle opere

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Indice dei nomi

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Premessa

La lezione di queste chiacchierate al Louvre con alcuni artisti,* se ce n’è una, emergerà da sola, a poco a poco; da parte mia, mi sforzerò di non trarne alcuna fino al termine di quest’esperienza. Può però essere utile dire da dove sono partito. Con il suo rifiuto dell’immagine, l’arte del nostro tempo ha rotto per sempre con il passato? È ancora possibile un dialogo oltre l’abisso? E se sussiste una continuità, di che genere è? Tutte domande che dovrebbero trovare un inizio di risposta in questo confronto diretto. Esso aiuterà a chiarire anche la visione che hanno dell’arte coloro che, più attivamente di noi, vi si dedicano. Al tempo stesso, non è escluso che questi, preoccupati soltanto di dirci cosa comunichi l’arte di ieri, ci confidino di sé più di quanto non farebbero con le dichiarazioni fin troppo ponderate che rilasciano nel loro studio. Le conversazioni sono solo la materia bruta di questi testi. Le parole degli artisti sono le cime impervie, isolate, frammentarie di un universo sprofondato nel silenzio. Un universo che ho cercato di ricomporre, come un’Atlantide sommersa di cui ci si sforzi di far emergere i contorni. Per differenziare chiaramente la testimonianza dall’interpretazione, ho riservato l’uso del corsivo alle sole parole dei miei interlocutori, qui riportate nella loro integrità.

* Tali incontri ebbero luogo alla fine degli anni sessanta. Da allora la disposizione di alcune sale del Louvre è cambiata e diverse opere citate in questo libro oggi sono custodite al Musée d’Orsay. [N.d.R.]

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1 Bruciare il Louvre

Aspetto di essere arrivato al Louvre per risponderle. Si parla bene di pittura solo davanti alla pittura. Paul Cézanne

Una domenica di pioggia Lucien Guitry propose a sua moglie una visita al Louvre. «Come, ancora?» esclamò lei. Erano quindici anni che non ci andavano. La prima e più ovvia interpretazione che si è tentati di dare è che la noia, quel giorno, avesse finito per traumatizzare la povera donna. Io ne preferisco una seconda: l’esperienza, per lei, era stata così intensa che sembrava risalire al giorno prima. Esistono musei altrettanto ricchi e interessanti del Louvre: ciò non toglie, comunque, che il Louvre sia un luogo magico, privilegiato. Qualche anno fa, quando ebbi l’idea di visitarlo insieme ad alcuni pittori e ascoltare cosa avessero da dire davanti alle opere esposte, mi aspettavo più di una defezione. In realtà non ve ne fu nemmeno una. Sarei stato altrettanto fortunato se avessi proposto loro di accompagnarmi agli Uffizi, al Metropolitan o alla National Gallery? A questo proposito, Fantin-Latour sembra riassumere il parere dei pittori: «Il Louvre, il Louvre, non c’è che il Louvre!». Anche Cézanne la pensava così: «Mi sembra che al Louvre ci sia tutto; che si possa amare e comprendere tutto, per mezzo del Louvre». Luogo magico, dicevamo. Perché il Louvre non è un museo, ma il Museo. Ed è il Museo perché, sotto molti aspetti, appare tutto fuorché un museo. Un luogo in cui passeggiare, una casa di appuntamenti. «Ho molto da dirti e da spiegarti» comunica Baudelaire a sua madre il 16 dicembre 1847. «Una lettera mi costa più fatica di un intero volume. Da un lato, ho orrore di ogni cosa a casa tua e soprattutto dei tuoi domestici. Volevo pregarti di farti trovare oggi al Louvre, al Museo, nel grande Salon Carré, all’ora che tu mi indicherai, ma appena ti sarà possibile. Il Museo però apre solo alle undici. Non c’è posto a Parigi dove si possa chiacchierare meglio: è riscaldato, si può rimanere in attesa senza annoiarsi, e d’altra parte per una donna è il luogo d’incontro più decente.» Quello stesso Salon Carré aveva fatto da cornice alle nozze tra Napoleone e

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Maria Luigia. Il corteo nuziale era partito dalla residenza imperiale, le Tuilieries, percorrendo in tutta la sua lunghezza (quattrocentoquarantadue metri) la Galerie du bord de l’eau, meglio nota con il nome di Grande Galerie. La quale, per quanto stipata di tesori artistici (Napoleone vi aveva ammassato i capolavori confiscati all’Europa sottomessa), non era in fondo che un enorme corridoio fra due dimore reali, quella di città e quella di campagna: il Louvre e le Tuilieries. Prima ancora di diventare un museo, il Louvre ne aveva già viste di tutti i colori. Ha ospitato a turno il primo giornale pubblicato in Francia, una manifattura di arazzi, l’Académie française e le sue sorelle minori, le Accademie di pittura e di scultura, la Borsa, una polveriera, diverse associazioni politiche, alcuni circoli rivoluzionari, più di un raduno elettorale… Ma soprattutto, il Louvre è stato abitato. Dal Medioevo in avanti funse da residenza, prima secondaria e poi principale, dei re di Francia. Come ogni casa, era – al pari degli oggetti che conteneva – un luogo funzionale e familiare. Una prerogativa che finì per perdere quando Luigi xiv trasferì la corte a Versailles, anche se qualcosa di quella funzione originaria non avrebbe mai smesso di impregnarne le pareti e un nonnulla bastasse anzi a risvegliarla. La Rivoluzione del 1848 tornò a fare del Louvre un palazzo: il Palazzo del Popolo. Gli insorti bivaccarono nella Grande Galerie, abbeverandosi ai vasi greci e romani. Così 12

facendo, non si mostrarono in fondo più irrispettosi – non un solo pezzo, del resto, andò in frantumi – di quanto lo sarebbe stato Degas con il suo dipinto di El Greco, su cui spogliandosi gli capitava spesso e volentieri di lanciare i pantaloni. Una tale disinvoltura è segno di un rapporto vivo, fondato sull’utilità. A un pittore mediocre che un giorno gli disse: «I quadri sono oggetti di lusso», Degas rispose: «I suoi, forse. I nostri sono oggetti di prima necessità». Un buon quadro, naturalmente, non è l’appendiabiti ideale. Degas non ignorava certo che la pittura, in fondo, ha più a che vedere con il lusso che con la necessità. L’inesorabile slittamento che la fa oscillare dal primo alla seconda, concretizzato nel tragitto che porta un quadro dallo studio del pittore all’appartamento del collezionista, rappresentava per lui una vera tortura. È noto come Degas non si separasse mai dalle sue tele se non quando vi era costretto, e che cercava poi di recuperarle, allo scopo, diceva, di correggerle. Ma il suo intento non era piuttosto quello di rianimare un’opera morta che non serviva più, che aveva smesso di essere il tramite di un dialogo? Fu per la stessa ragione che Bonnard si vide buttar fuori dal Musée du Luxembourg, ai tempi insignito dell’aura di museo di arte moderna: un guardiano lo aveva sorpreso, scatola di colori alla mano, a ritoccare uno dei suoi quadri. Ciò che spinge un artista a intraprendere tali rimaneggiamenti – spesso infelici – è, più dell’ambire a una perfezione che sa essere fuori portata, la consapevolezza che il rapporto vivificante, fondato sulla necessità, esiste solo fra l’opera e il suo creatore. Una volta fabbricata la brocca, non importa chi vi berrà;


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essa è modellata, in un certo senso, sulla propria funzione. Una condizione di felice innocenza che è appannaggio dell’artigianato e dell’industria. Il pittore vive nel tempo dell’esperienza. Il suo lavoro non ha alcuna funzione. O, più esattamente, ha smesso di averla il giorno in cui l’artista si è differenziato dall’artigiano. Un divorzio che non si riduce semplicemente a quello fra l’oggetto dotato di una funzione utilitaria e l’immagine, visto che anche l’immagine è rientrata per lungo tempo nella prima categoria: vaso in cui si mesceva il divino, porta aperta sul mondo degli spiriti, maschera dell’invisibile. L’immagine veniva abolita nell’esperienza religiosa in cui era chiamata a traghettare il fruitore, allo stesso modo in cui la coppa scompare nell’atto di bere. Essa fu anche decorazione, sontuoso rivestimento: una cornice riempita dai potenti di questo mondo. A dotarla di senso erano il tal principe o il tal ecclesiastico. Era, in una parola, transitiva. Nel Rinascimento l’arte ruppe con gli dèi, poi smise di piegarsi agli ordini dei grandi. Da mezzo, divenne fine; da transitiva, intransitiva. Attorno all’immagine si eresse la barriera protettiva e di separazione della cornice. Quale vittoria, per l’uomo di genio: creare non più il vaso, ma la fonte! E tuttavia, il rimpianto che percepiamo in Degas sono soltanto in pochi, fra i pittori moderni, a non condividerlo. Il fatto è che, assurgendo a fine, l’opera finiva per ispessirsi, per opacizzarsi. Come la nostra mano ci appare sproporzionata e mostruosa non appena focalizziamo tutta l’attenzione su di essa – per esempio, quando un male o un incidente la paralizzano –, così, a volte, l’immagine ci appare brutalmente pesante, assurda, fastidiosa. Qualsiasi organo è spaventoso, se non c’è la funzione a riscattarlo (sempre Degas notava che gli alberi sarebbero orribili, se non si muovessero). E la pittura, in effetti, aveva smesso di servire a qualcosa: da allora la si vedeva troppo, non si vedeva che quella. Smettendo di essere operante, tendeva a ridursi a un oggetto (di cultura, di speculazione), a un corpo che la vita ha finito per abbandonare, destinato a essere raccolto in quei “cimiteri”, in quegli “obitori” che svariati autori identificano con i musei. Lì, il peso della loro fissità potrà essere sostenuto soltanto dalla fissità non meno antinaturale della nostra attenzione, se non da uno sguardo frettoloso e distratto. La pittura postrinascimentale ha fabbricato il consumatore che si merita: il turista. Un quadro, tuttavia, si riduce meno a un oggetto d’arte in una casa che in un museo. Lì partecipa dell’atmosfera generale. Circondato da oggetti che servono a qualcosa, sembra quasi avere anch’esso una funzione. Visto centinaia di volte, cessa di essere visibile. Le maglie sottili intessute dalla frequentazione abituale del luogo finiscono per avvolgere quel corpo estraneo, per attenuare il suo splendore brutale. L’incoscienza e l’innocenza che caratterizzano i rapporti di necessità l’hanno travolto nella loro marea tiepida, ed è solo inaspettatamente,

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ormai, che riesce a rievocare in noi la sua natura eterogenea, come un iceberg che spunti all’improvviso nel placido silenzio dell’oceano. È per questo che i pittori moderni amano il Louvre. Prima ancora che un museo, esso è stato un palazzo: un luogo in cui l’arte veniva vissuta, oltre che vista. Un luogo che conserva tuttora un’eco di quella transitività, di quella trasparenza perduta, eternamente sognata. È solo nel 1790 che il Louvre – perlomeno il Salon Carré – diviene ufficialmente un museo. Più che di una brusca mutazione, però, si tratta di un lungo percorso evolutivo. Leonardo da Vinci morì ad Amboise nel 1519, lasciando le opere contenute nel suo studio, in particolare la Gioconda, la Sant’Anna e il San Giovanni Battista, a Francesco i. E così, il re che diede avvio al palazzo fu anche colui che mise in moto il processo destinato a fare di esso un museo. I dipinti di Leonardo, infatti, non erano più delle opere calate all’interno di uno scenario: erano dei corpi estranei, dei meteoriti densi, rari, piombati nello spazio della dimora – oggetti d’arte, oggetti da collezione. Un’automobile diviene un oggetto da collezione nel momento in cui smette di circolare: il collezionista è un re Mida che trasforma in oggetti d’arte le opere che tocca. Queste, però, possono prestarsi con più o meno entusiasmo a tale processo di alterazione: alcune sono state forgiate in modo da non poter in alcun caso circolare. A Leonardo, uomo del 14

Rinascimento, corrisponde il collezionista, anch’egli prodotto del Rinascimento; l’ansia di creare, per mezzo del puro genio, un mondo al di fuori di quello naturale, necessita, per poter sbocciare, di uno spazio ideale; uno spazio che la collezione contribuisce a creare e che il museo finisce per portare a compimento. I dipinti lasciati da Leonardo a Francesco i, nucleo originario delle collezioni reali, costituivano una cellula cancerogena nell’organismo del palazzo. La quale non tardò a propagarsi. Luigi xiii bramava un grandioso scenario, più che una collezione. Desideroso di trasformare la Grande Galerie in un salone di ricevimento, per realizzare il proprio scopo fece richiamare Nicolas Poussin dall’Italia. «Non ho mai capito che cosa volesse il re da me» avrebbe scritto in seguito Poussin. Eppure era semplice. Ma l’artista, per il quale la pittura costituiva un mondo a sé, non poteva più tollerare di essere costretto a piegarsi a un ambiente circostante. Poussin avrebbe trovato maggiore comprensione nel cardinale Mazarino. Il quale, prima di trasferirsi nel suo palazzo personale, aveva abitato al Louvre. La dimora del collezionista era un vero e proprio museo in embrione: fu negli appartamenti di Mazarino che una parte del Louvre slittò per la prima volta dal piano del vivere a quello del vedere. Del conservatore di museo Mazarino dava già segno di condividere le inquietudini. Quando Cristina di Svezia chiese di poter visitare la sua collezione, il cardinale, allora assente, scrisse al suo intendente Colbert: «Che quella pazza non entri nei miei gabinetti del Louvre: potrebbero sparire alcuni dei miei quadretti».


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Di tutte le cose che Mazarino lasciò in eredità a Luigi xiv, la più preziosa fu certamente il suo collaboratore Colbert. Il quale si occupò di radunare le collezioni reali al Louvre. Ammontanti in origine a duecento opere, alla fine del regno arrivarono a duemila. Gli storici si sono spesso interrogati sulle ragioni che spinsero il Re Sole a trasferirsi dal Louvre a Versailles. A cacciarlo, con ogni evidenza, furono i quadri e le statue. Non si abita un museo. Forte della sua esperienza parigina, Luigi xiv si curò bene di preservare la sua nuova dimora da quel cancro museale: i capolavori delle collezioni non vennero dunque incorporati nell’imponente scenario di Versailles, ma volutamente conservati presso la Direction des Batîments du Roi,* dove i privati potevano studiarli, e perfino prenderli in prestito. Ufficialmente, il Louvre divenne un vero e proprio museo solo nel 1793. Perché ciò accadesse era necessario che nel 1791 il cittadino Barrat esclamasse davanti all’Assemblea: «Bisogna restaurare il Louvre per farne un museo celebre!». L’appello a una simile trasformazione fu raccolto l’anno successivo, su proposta del pittore David. Quest’ultimo, in realtà, riprendeva un progetto caro agli enciclopedisti. Nell’articolo dell’Encyclopédie dedicato al “Louvre”, Diderot suggeriva di raggrupparvi le collezioni reali e, più in particolare, di restituire ai quadri la Grande Galerie, all’epoca occupata dai plastici delle fortezze reali. Ispirandosi a quel consiglio, il conte d’Angiviller, sovrintendente alle Belle Arti sotto il regno di Luigi xvi, aveva già fatto passare al vaglio la ristrutturazione della Grande Galerie, allo scopo di dotarla di un’illuminazione zenitale. Il tempo passava, in un incessante susseguirsi di progetti e controprogetti. Nel 1793, Hubert Robert dipinse una Grande Galerie ammodernata, che all’epoca non rappresentava che un sogno. Subito dopo, Robert dipinse una seconda versione dello stesso progetto, nel quale la Grande Galerie, ridotta ormai a pura rovina, assumeva l’aria maestosamente melanconica delle Terme di Caracalla, quasi a voler dire che, una volta svanita la vita, si profilava un’unica alternativa: o il museo o lo sfacelo. Fu quest’ultima strada che il Louvre imboccò dopo il trasferimento della corte. Un mare di catapecchie cominciò pian piano ad attorniarlo. Il quartiere divenne malfamato, pericoloso. Sotto Luigi xv, si parlò addirittura di demolire il palazzo, ma la Pompadour lo salvò. Sebbene poco glorioso, fu proprio in quel periodo che si instaurò il rapporto di intimità che lega ancora oggi gli artisti al Louvre. Dopo essere stato il palazzo dei re di Francia, infatti, il Louvre divenne una sorta di Bateau-Lavoir. Una miriade di pittori e scultori si installò, visse e lavorò nell’ammezzato della Grande

* Sovrintendenza preposta alla costruzione e alla gestione delle residenze reali. Creata da Enrico iv di Francia, fu potenziata da Colbert ed estesa alla realizzazione di opere pubbliche, nonché alla gestione del mecenatismo reale attraverso il sostegno delle Accademie. [N.d.T.]

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Galerie. Prendendosi, fra l’altro, ogni sorta di libertà con l’illustre edificio, per esempio facendo passare delle canne fumarie attraverso le sue nobili travi o le sue grandiose finestre. Coypel, Desportes, Boucher, Chardin, Vernet, Greuze, David: tutta l’arte del Settecento fu domiciliata al Louvre. Facendosi visita l’un l’altro o fermandosi casualmente a chiacchierare lungo i corridoi, quegli artisti formavano una vera comunità. L’atmosfera doveva essere particolarmente allegra, ai tempi di Hubert Robert – il cui temperamento non aveva nulla della malinconia delle sue rovine, e le cui facezie assumevano spesso e volentieri una piega sportiva (nottetempo scalò il Colosseo dalla facciata esterna) – e del suo amico Fragonard. Nemmeno le tempeste della Rivoluzione riuscirono a inasprire l’umore spensierato del “buon papà Frago”. Quando si sentì dire che la pensione accordatagli da Luigi xvi era stata ridotta di due terzi, il vecchio pittore saltellò di gioia. «Sei impazzito?» gli chiese la moglie. «No, sono contento.» «Contento! Cosa poteva capitarci di peggio?» «Avrebbero potuto prenderci tutto.» Fu forse la candela di Fragonard quella che Napoleone vide accesa nella Grande Galerie la sera del 1805 o del 1806 in cui passò davanti al Louvre. Già nel 16

1802, l’imperatore aveva ordinato che il vecchio palazzo fosse sottratto agli artisti per essere restituito alle opere. Furente di non essere stato obbedito, fece cacciare il pittore all’istante. Fragonard, Vien, Lagrenée, Vernet, Robert, David: all’incirca due centinaia di artisti furono sloggiati. Quell’espulsione segna la vera e propria nascita del museo del Louvre. Essa rappresenta, in effetti, l’atto museografico per eccellenza. Un gesto che realizza il sogno inconfessato di tutti i conservatori museali: che l’arte faccia finalmente a meno degli artisti. Non disponendo, il più delle volte, dei poteri dittatoriali di Napoleone, questi finiscono per ripiegare su simboliche forme di ostracismo quali la sostituzione di concetti astratti alla figura dell’individuo creatore: a generare l’opera, proclamano, sono lo stile, lo Zeitgeist, la scuola o la struttura. Tutt’altro, invece, è il sogno degli artisti. Davanti al Rifugio di caprioli di Courbet, appeso sopra l’Apoteosi di Omero di Ingres, Cézanne esclamerà: «Non si vede niente… Com’è sistemato male… Quand’è che si decideranno a mettere un pittore, uno vero, a capo del Louvre?». Per un riflesso molto diffuso nell’Ottocento, Cézanne colloca l’età dell’oro nel futuro, quando, in realtà, appartiene al passato. Era agli artisti, infatti, che i re avevano affidato il compito di costituire e amministrare le loro collezioni. Francesco i spedì Andrea del Sarto a Roma con tanto di fondi perché vi raccogliesse delle “anticaglie”: il manierista fiorentino si tenne i soldi e restò in Italia. Una spiacevole esperienza che non impedì a Luigi xiv di affidare a Charles Le Brun la custodia del suo gabinetto di dipinti e


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a Coypel quello dei disegni. Fino all’avvento di Napoleone, i conservatori museali – concierges, li si chiamava all’epoca – venivano selezionati fra la categoria dei pittori. Fu così che uno di loro, il faceto Lépicié, si trovò a redigere il primo Catalogo ragionato nel 1752. Insignito di quello stesso titolo nel 1784, Hubert Robert partecipò ai progetti di ristrutturazione del Louvre. Sotto la spinta di David, fu nominato, insieme a Fragonard, membro della commissione destinata a salvare i capolavori minacciati dalla Rivoluzione. Ai tempi dei sovrani, ed è facile capirne il motivo, gli artisti beneficiavano di un trattamento di favore. Una volta all’anno potevano esporvi le loro opere (contrariamente ai quartieri alti, che si spostavano da est a ovest, il Salon si spostò da ovest a est, lungo la Grande Galerie, finendo per installarsi nel Salon Carré). Quando la Rivoluzione, nella sua foga decimale, sostituì la settimana con la decade, si decise di riservare due giorni alle pulizie e alle commissioni del museo, tre al pubblico e cinque agli artisti. Sono privilegi che non si dimenticano facilmente. Ancora oggi, qualsiasi artista che entri al Louvre assume l’aria del sovrano che ritrova il proprio trono dopo lunghi anni di esilio. A una guida che si era offerta di scortarlo, ToulouseLautrec, in compagnia di alcuni amici della Scuola di belle arti, ribatté: «Per fare cosa? Siamo noi che facciamo il Louvre!». Un’affermazione doppiamente vera. Non solo l’artista dota il museo di nuove opere, ma di fronte a lui – e solo a lui, si sarebbe tentati di dire – le opere antiche continuano a vivere o, per dirla altrimenti, evitano di congelarsi in oggetti di cultura e ammirazione. Sotto lo sguardo del pittore, la pittura del passato rivela una tale veemenza che Ingres, ai suoi allievi costretti a passare davanti ai quadri del detestabile Rubens per ammirare le tele del divino Raffaello, ordinava: «Mettetevi dei paraocchi!». L’unico visitatore non addetto ai lavori su cui la pittura del Louvre abbia esercitato, nell’Ottocento, un effetto così sconvolgente, fu la giovane prostituta che Baudelaire avrebbe immortalato nei panni della «mendicante dai capelli rossi». La ragazza vi si recò per la prima volta in compagnia del poeta, stando al quale si sarebbe coperta il volto, arrossendo violentemente, alla vista delle nudità esposte sotto i suoi occhi. A partire dal 1848 il Louvre smise di ospitare il Salon. Ciò non gli impedì tuttavia di continuare a essere il salotto per eccellenza di tutti i pittori francesi. Fu lì che Manet conobbe Fantin-Latour, intento a copiare i capolavori veneziani per carpire il segreto dei colori e destinato, a sua volta, a presentargli le sorelle Morisot. E fu sempre lì che Manet, di fronte a un ragazzo che si ostinava a incidere direttamente sulla lastra di rame un’Infanta di Velázquez, esclamò: «Che faccia tosta!». Quel ragazzo era Degas. La rottura con la tradizione avviata da Manet non mise affatto fine al rapporto di intimità che legava gli artisti moderni al Museo. Fu proprio al Louvre che Manet incontrò il venditore di stracci Collardet,

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destinato a fargli da modello nel suo Bevitore di assenzio (il primo quadro in cui si afferma la sua personalità). Manet, si dirà, aveva ancora un piede nel passato. Ma che dire dei suoi successori? Di Cézanne, per esempio? Mai il Louvre ebbe visitatore più assiduo, più appassionato. Da vecchio, vi si recava una volta alla settimana. E quando era lontano da Parigi, appendeva ai muri le riproduzioni dei suoi dipinti preferiti. La morte di Sardanapalo di Delacroix, L’arrivo di Maria de’ Medici a Marsiglia di Rubens… Instancabile, tornava sempre alla Flora di Poussin, sperando gli rivelasse l’agognata formula per dipingere le sue Bagnanti. Verso il 1900, gli ultimi bastioni della tradizione finirono definitivamente per crollare. Era però l’epoca in cui Matisse, l’uomo destinato a far uscire la pittura moderna dalla sua crisalide, si attardava al Louvre con Marquet in cerca di quei “bianchi”, di quei “buchi”, di quei tempi morti presenti anche nei più grandiosi capolavori. Come il suo maestro Gustave Moreau aveva mandato i propri allievi al Louvre, così lui vi avrebbe mandato i suoi. E persino una volta compiuta la sua rivoluzione pittorica vi avrebbe fatto ritorno – e non solo per mero piacere. Nel 1909 Matisse stava lavorando al ritratto di Greta Moll, ma il dipinto non avanzava. «Per consolarsi, in cerca di nuove ispirazioni» racconta la modella «decise di 18

andare al Louvre e di prendersi qualche giorno di riposo. Lì scoprì il ritratto del Veronese. La donna non aveva una camicia bianca, ma le braccia erano posate davanti a lei proprio come le mie, anche se le sue erano piuttosto grosse e tonde. Lui decise di adottarle per il mio ritratto, il che lo costrinse, come al solito, a modificare tutto il quadro. “Sta assumendo uno splendore inaudito.” Matisse, adesso, era soddisfatto.» Raramente il Louvre offre un aiuto così chiaro all’artista vivo. Il più delle volte, si limita a offrirgli un conforto più generico, come spiegherà in un’altra occasione lo stesso Matisse: «Sa, io studiavo in base alle mie inclinazioni, come in letteratura si studiano gli autori, prima di decidersi per l’uno o per l’altro; soprattutto, senza voler captare dei trucchi, ma solo per coltivare lo spirito! Passavo da un olandese a Chardin, da un italiano a Poussin». Un tale modo di procedere finisce per strappare le opere al loro preciso contesto storico o biografico e per reinstaurare le condizioni di anonimato prevalenti all’epoca in cui gli artisti erano responsabili delle collezioni reali. «Si è scelto di non inserire date» dice la notizia di accompagnamento ai disegni esposti al Musée du Luxembourg nel 1750, «né i nomi degli autori per lasciare agli amatori più avveduti la possibilità di decidere.» Del resto, furono sempre degli artisti a formare la commissione incaricata di allestire i quadri del museo istituito dalla Repubblica nel 1791: «Il criterio che abbiamo adottato è quello di un’aiuola di fiori che variano all’infinito. Se avessimo scelto un metodo differente, mostrando a turno l’infanzia dell’arte, la sua crescita e il suo ultimo periodo […], avremmo


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potuto accontentare qualche erudito, ma ci saremmo esposti alla critica, peraltro fondata […], di aver intralciato lo studio dei giovani allievi». I tumulti della Rivoluzione e le condizioni fatiscenti dei locali costrinsero le autorità a richiudere il museo appena inaugurato. Quando riaprì i battenti, nel 1799, i quadri erano suddivisi per scuole. Gli eruditi avevano avuto la meglio sui pittori: la storia trionfava sulla vita. In realtà, è sufficiente che il pittore ridotto al rango di visitatore lasci vagare lo sguardo sulle opere esposte perché il lavoro degli storici crolli. Ma ciò che egli fa emergere al suo posto non è la vita, o meglio, è una vita altra, non certo quella del momento storico che ha visto operare l’artista: una sorta di luogo neutro, capace di accomunare opere appartenenti a epoche diverse, alle civiltà più disparate. Questa parentela fra un ritratto del Fayum e un ritratto di Manet, questa coerenza che si colloca al di là della storia al tempo stesso negandola, non può affermarsi che sullo sfondo del tempo. Per uno strano paradosso, è nel Museo degli eruditi, delle scuole, dei movimenti e delle culture classificate che il pittore prende coscienza di ciò che non appartiene alla storia. Altrettanto prigioniero del flusso storico, è lì che si vede rivelare una seconda appartenenza possibile, che non costituisce affatto una negazione del tempo, ma il suo altro versante. Più il pittore si sentirà preda del tempo, più cercherà al Louvre la conferma di quell’altro versante. Cézanne lo frequenta assiduamente perché appartiene al movimento per antonomasia dell’istante che fugge: «Fare dell’Impressionismo qualcosa di solido e duraturo come l’arte dei musei». È nei momenti di smarrimento, di contestazione, di innovazione, che i pittori tornano al Louvre, allo stesso modo in cui i marinai sognano il porto in piena tempesta. Era Picasso che voleva appendere le sue tele in mezzo ai capolavori della Grande Galerie per vedere se “tenevano”? Se tenevano, ovvero: se possedevano anch’esse quel quid che le accomuna alle grandi creazioni di tutti i tempi e che gli stessi pittori, glissando sull’oscurità del termine, chiamano bello, al pari del pubblico, forse soddisfatti di trovare in esso quel barlume di permanenza evocato da Mallarmé: «Non vedo svanire nulla che sia stato bello nel passato». Mallarmé si sbagliava: la bellezza dei quadri svanisce rapidamente, sempre più rapidamente. Paralizzato davanti all’Entrata dei crociati a Costantinopoli, Cézanne si lamentava: «È terribile… Tanto vale dire che lei non la vede. Non la vediamo più. Io che le parlo, l’ho visto, quel quadro, morire, impallidire, scomparire. C’è da piangere. Di dieci anni in dieci anni, se ne va… Non ne resterà niente, un giorno». Delacroix era ossessionato dalla decomposizione materiale della sua opera, ma i mezzi cui ricorreva per scongiurarla – il bitume – non fecero che accelerarla (proprio come Quentin de La Tour uccise i suoi pastelli nell’intento di fissarli). Ars longa, vita brevis, recita l’adagio: per la pittura moderna sembra essere vero il contrario. «Al Louvre, nell’Esther di Paolo Veronese»

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scrive Fénéon «attraverso le colonne del palazzo di Assuero, si assiste sconvolti al diramarsi di strade bianche che sbiadiscono in un cielo d’inchiostro, un tempo blu: un blu che all’epoca era di moda.» E Fénéon aggiunge: «Il pittore che più ha curato la fabbricazione dei suoi colori è proprio quello i cui colori si sono maggiormente anneriti – Leonardo». Come se lo spazio reale, materiale, volesse vendicarsi di quell’arte che, con la magia della prospettiva, ha finito per preferirgli uno spazio fittizio, immateriale. Naturalmente esistono modi di distruzione più sbrigativi. Come esclama Cézanne: «Diamo fuoco al Louvre, allora… subito… se si ha paura di ciò che è bello». I pittori furono i primi a gridare: «Incendiamo il Louvre!». Da Pissarro a Monet, da Picasso ai futuristi, gli artisti hanno incessantemente invocato la distruzione del Museo… prima di vedervi entrare le loro opere. Perfino Cézanne, secondo il quale «il Louvre è il libro in cui impariamo a leggere», ha ammesso: «Volevo bruciare il Louvre». Questa rivolta contro il Museo nasce dalla sensazione, spesso indefinita, che passato e presente siano antinomici. Rifarsi alla scuola della storia è sottrarsi all’istinto creatore, alla vita. «Da quando si sono iniziati a costruire i musei per creare dei capolavori» notava già nel 1815 Quatremère de Quincy «non ci 20

sono più capolavori con cui riempire i musei.» Il rifiuto del museo è naturale quanto la ribellione del bambino nei confronti dei genitori. Un giorno che Courbet si trovava al Louvre insieme a suo padre, questi gli chiese cosa ne pensasse dei quadri che sfilavano sotto i loro occhi. «Di fianco alla mia» esclamò Courbet con il suo accento tipico della Franca Contea «tutta questa pittura è merda!» Può apparire sorprendente che a formulare un rifiuto così brutale sia proprio il pittore che, nel bene o nel male, potremmo additare come l’ultimo rappresentante della tradizione. Ma denigrare i propri genitori non equivale necessariamente a rifiutare il proprio retaggio. Del resto, è proprio in questa rottura apparente, forse, che la catena si arricchisce di un nuovo anello. La museofobia dei pittori ha altre cause. Ogni museo, in fondo, possiede qualcosa del museo delle cere. Un quadro sistemato in un museo è un quadro sottratto alla circolazione: un quadro che sfugge al ciclo della vita e della morte. Da opera, diviene oggetto. E cosa bisognerebbe farne, degli oggetti, se non collezionarli? Per quanto pubbliche possano essere, le collezioni non cessano per questo di essere degli ammassi. Rimosso dalla parete della chiesa o della taverna, l’affresco non ci rivolge più che un discorso indiretto. L’assenza di immediatezza nel rapporto con il pubblico finisce col pesare sempre di più ai pittori, a mano a mano che, da Manet in avanti, comincia a imporsi il bisogno di un discorso diretto. La ricerca dell’indicativo presente implica il rifiuto di ogni garanzia – in altre parole, di quella tradizione di cui il mu-


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seo riunisce le testimonianze. Un altro legame, più profondo, inizia a stabilirsi fra il museo e la tradizione. Nati nella stessa epoca, i due rispondono in fondo alla stessa esigenza. L’arte intransitiva del Rinascimento invoca uno spazio astratto, preservato dalla vita ordinaria, proprio come la tela viene preservata dall’ambiente circostante grazie alla presenza della cornice: il museo risponde precisamente a quest’esigenza. Non si può dunque smantellare il sistema elaborato da Giotto, van Eyck e i loro successori senza mettere anche in discussione quel luogo in cui i quadri fanno, prima o poi, la stessa fine dell’uomo al cimitero. «La vita! La vita! Non avevo che quella parola in bocca. Volevo bruciare il Louvre» dirà Cézanne. Il pittore, però, non manca di aggiungere: «Povero coglione!». Cézanne ha capito che il museo, rivelatore di quello spazio comune in cui ogni opera d’arte è destinata a fondersi, è anche il garante dell’individualità. Più l’opera è personale, più resiste a essere integrata in un’architettura. Allo stato puro, individualità e decorazione sono incompatibili. Il museo (la collezione), opponendosi al diluirsi nello spazio della vita reale, appare quale la cornice, quale la vera dimensione dell’individuale. Distruggere uno equivale a negare l’altro: una pratica che, dal Rinascimento in poi, equivale a una vera e propria mutilazione. Per un altro verso, gli stessi che nel xix secolo riscoprono lo spazio a due dimensioni – il quale, riducendo l’opera alla propria superficie, permette di raggiungere la superficie dei muri e di integrarvisi: la decorazione, il linguaggio dello spazio reale – non vogliono rinunciare allo spessore, all’identità delle cose (e di se stessi), sebbene essi esigano l’impiego di mezzi che “bucano la parete”. Pur percependo chiaramente la contraddizione dei due percorsi, il pittore moderno rifiuta di attenersi all’uno o all’altro. «Giotto, liberami da Parigi! E tu, Parigi, liberami da Giotto!» scriverà il giovane Degas su uno dei suoi taccuini. Manet, dal canto suo, persegue tanto il silenzio della pittura quanto l’eloquenza del soggetto. E Matisse si sforzerà, per tutta la vita, di conciliare la densità di Cézanne e la decorazione islamica. Si direbbe che i pittori cerchino questa contraddizione, quasi percepissero che lo spazio moderno non coincide né con la piattezza del reale né con la tridimensionalità fittizia, ma con uno spazio destinato a originarsi proprio a partire da quel nuovo dilemma. Il problema che dal 1860 in poi si pongono dunque alcuni pittori somiglia stranamente a quella che svariati economisti, sociologi e filosofi considerano la grande questione del nostro tempo: come conciliare la dimensione individuale e la dimensione collettiva? Forse, un giorno, questo dualismo apparirà come il tratto essenziale della nostra epoca. Esso illustra in modo chiarissimo l’ambivalenza dei pittori nei confronti del museo in questi ultimi cent’anni. Da un lato sono attratti dal Louvre, incarnazione della dimora e al tempo stesso del museo. Dall’altro il Museo, incarnazione e insieme negazione dello spazio che sognano, appare loro di volta in volta come il rifugio ideale o il luogo cui dare fuoco.

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Ma il fuoco di cui parlano non brucia. Quel fuoco è l’arte. E induce a distruggere, perché esso non è se non nella nascita. Ma essendo, quel fuoco congiunge tutto ciò che, prima di lui, fu nascita. Il fuoco e la storia del fuoco sono una cosa sola. Da quando ho iniziato a scrivere questo libro, alcuni dei pittori che mi avevano accompagnato al Louvre sono divenuti, da rivoluzionari, dei classici a tutti gli effetti. Là dove sembrava spalancarsi un abisso, oggi si impone l’evidenza di una continuità. In quel luogo in cui il fuoco brucia e non brucia, il quadro terminato ieri potrebbe essere stato tranquillamente realizzato ai tempi dei faraoni, e la statua di epoca mesopotamica non striderebbe affatto nello studio di un artista contemporaneo. Il fuoco che, da qualche tempo a questa parte minaccia un po’ dappertutto i musei è meno platonico. Gruppi assembrati davanti a porte prudentemente chiuse, slogan spennellati sui muri o sulle stesse tele, come il proclama tracciato per mano di alcuni studenti sul ritratto del cardinale Richelieu realizzato da Philippe de Champaigne: «Togliamo all’arte la sua funzione mortificatrice. L’arte è morta, viva la rivoluzione!». Si tratta di temi familiari alla riflessione estetica degli anni sessanta. L’arte è mortificante (o morta) perché produce oggetti, perché l’unico rapporto che questi autorizzano è il possesso, che è il tratto tipico della borghesia, la quale 22

ha inventato la cultura come strumento di valorizzazione degli oggetti d’arte. Un simile ragionamento confonde l’oggetto e l’opera. Il primo è intransitivo, è un fine. La seconda è transitiva, è un mezzo. L’oggetto è il depositario di un certo numero di qualità, di valori; che lo guardiamo o no, rimane inalterato. L’opera, al contrario, trova compimento nella partecipazione dei sensi e dello spirito che essa stessa sollecita, che esige da noi. Certo, l’arte affermatasi all’epoca del Rinascimento, che tendeva a sostituire l’oggetto all’opera, è figlia della critica che ho appena riassunto. Ma non ci si è forse sforzati, da più di cent’anni a questa parte, di invertire questa tendenza, proprio nel periodo che ha visto trionfare la borghesia? Per essere ancora più precisi, l’artista cui va attribuito l’onore di quest’inversione fu proprio il più borghese degli uomini: Édouard Manet. Per i contestatari di oggi, si tratta di sfumature prive di interesse. Inutile convincerli che se Hitler proclama 2 + 2 = 4 l’aritmetica non ne è per questo screditata, o che a nessuno è mai venuto in mente di abbattere fiori e alberi con la scusa che il giardino ce l’hanno solo i ricchi. In altre parole, se l’oggetto mira solo a essere raccolto, l’opera deve accogliere. Per essere un oggetto, un quadro ha solo bisogno del pittore; per divenire un’opera, esige anche la collaborazione di chi lo guarda. È sufficiente che questi si scordi o si rifiuti di partecipare, perché quell’icona che ha agito in “trasparenza”, come una soglia fra uno stato ordinario e uno stato più esaltato della coscienza, non si riduca ad altro che a un pezzo da collezione. Mai, però, in modo definitivo: uno sguardo disinteressato


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basterà a restituirle la sua trasparenza. Rifiutare indistintamente il ritratto del Fayum o la coppa di Benvenuto Cellini perché entrambi fanno parte della collezione di un industriale è dimenticare la differenza fra oggetto e opera. E dimenticarla è tanto più facile perché ciò che determina questa differenza – la partecipazione attiva di colui che guarda – è sempre meno comprensibile agli uomini d’oggi, per i quali non esistono che verità letterali. La luce nell’arte? Una questione di illuminazione elettrica. Il movimento in arte? Una serie di elementi che si spostano. La partecipazione dello spettatore? Un bottone da premere che illumina o mette in movimento l’oggetto. Ma tutti quelli che premono il bottone con entusiasmo riusciranno mai a capire che si può partecipare a un quadro con un atto spirituale, che lo spirito non si lascia toccare con un dito e che, in realtà, la partecipazione di cui parlano è puramente passiva, molto più vicina al gesto cieco dell’operaio in una catena di montaggio che all’anonimato dell’artigiano romano, capace di esprimersi liberamente nella cornice di uno spirito generale? Riusciranno mai a capire che la dinamica di un’opera non riguarda la possibilità di azionarla grazie a un qualche meccanismo, proprio come una scena di cavalli al galoppo non è necessariamente più dinamica di un ritratto di giocatori di scacchi? Il letteralismo confonde opera e oggetto. Ogni opera ha per sostrato un oggetto, allo stesso modo del fuoco che prende piede dal legno. Anzi, la funzione dell’opera è proprio quella di consumare l’oggetto. Lo spessore materiale e la somma di convenzioni, di significati che lo compongono svaniscono nella fiamma che hanno contribuito ad alimentare. Un fuoco che non brucia e che va incessantemente riacceso: se, un giorno, il quadro che ci ha sempre parlato si rifiuta di farlo, è perché non abbiamo fatto la nostra opera. Quel giorno, per noi, il museo non sarà più che un museo. L’oggetto è insopportabile, come un corpo che non vive più. E per sbarazzarcene non c’è altra via che la discarica: la storia, la sociologia, la psicologia, l’estetica si occuperanno di triturare ciò che non avremo saputo o voluto bruciare. Ma rifiutare a priori ogni opera perché essa implica un oggetto equivale a condannare gli uomini con il pretesto che sono tutti futuri cadaveri. Abramo stava per sacrificare suo figlio Isacco, quando la Voce gli ordinò di sostituire un agnello al bambino. Quella sostituzione è l’atto fondamentale in cui si instaura e si riassume l’intera civiltà: essa significa la fine della tirannia del letterale. Affermando non solo che il lato oltraggioso delle parole e dei gesti può essere rimpiazzato dai loro simboli o dai loro simulacri ma, cosa ancora più importante, che quell’equivalenza, che si stabilisce solo grazie a uno sforzo spirituale capace di ricomporre l’unità spezzata di significante e significato, eleva quello sforzo a cuore del sistema. La Voce ha posto i termini dell’equazione, ma a metterli in rapporto, a convertirli, non può essere che l’uomo. Senza uno slancio poetico, il vino non può prendere il posto del sangue. La letteralità non

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si abolisce se non per un atto della nostra coscienza. Solo in essa nasce il fuoco che brucia e non brucia. Solo essa può riconoscere quella verità dell’immagine dipinta che non è che illusione, capace di sfuggire alla storia pur senza smettere di appartenerle. Perché la verità è che la storia esiste, il fuoco brucia e l’oggetto continua a pesare. Tranne che nel sacrificio di Abramo, che ogni singola opera continua a rinnovare. Il giorno in cui questa sostituzione non sarà più ammessa, smetteremo di andare al Louvre.

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2 Marc Chagall

La passeggiata che ci apprestiamo a fare Chagall la fece per la prima volta cinquantasette anni fa. All’indomani del suo arrivo a Parigi. «Mi precipitai immediatamente al Salon des Indépendants (il Salon d’Automne era per gli artisti arrivati). Cominciai quasi subito dal fondo, dai moderni. Là c’erano i cubisti: Delaunay, Gleizes, Léger… E poi corsi al Louvre. Un nome magico…» «Perché proprio al Louvre?» «Sentivo che lì c’era la verità. I moderni non erano ancora stati passati al vaglio. Lì si faceva sul serio.» «Intende il vaglio del tempo?» «No, non del tempo. Un’altra cosa…» Cinquantasette anni, ma il ricordo è ancora nitido: «In alto, nella Grande Galerie, scoprii il grande quadro di Bassano. Un incrocio di personaggi e di bestie. Sentii che era molto importante». Senza dubbio. Per accoglierlo il Louvre gli metteva sotto gli occhi una visione alla Chagall. E così il sogno dell’adolescente autodidatta di Vitebsk aveva un equivalente nella tradizione pittorica dell’Occidente latino. L’impresa diveniva possibile. Museo-scuola, dunque? Non si direbbe: «Vado al Louvre per irrobustirmi, per testarmi. Speri sempre di imparare qualcosa, ma non serve a niente. Non c’è nulla che possa aiutarti. Non ci sono garanzie, certezze. Imparare? (Ride.) Macché! Non si impara a dipingere. Io sono contro il disegnare bene, il dipingere bene. Cézanne era assolutamente incapace di disegnare». Non è precisamente questo, il Louvre? Niente più tempo, niente più luoghi; niente più padri, figli o fratelli; niente più cause, niente più effetti. Dice: «È il cimitero ideale». Ma ciò che intende dire, in realtà, è che l’opera, al di là del confine cui la costringe il museo, è strappata, sottratta violentemente alla storia. «La morte aiuta parecchio a vedere.» La vicenda, dunque, sarebbe molto semplice. Una visione di partenza, così intima da situarsi ai margini della storia, che riesce a prendere corpo grazie all’incontro con un’opera che non deve più nulla al tempo. Una congiuntura che

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oggi sembra trovare simbolicamente conferma: in questo esatto momento, le opere di Chagall sono esposte al Louvre. In effetti, Chagall sembra essere scampato alle crudeltà del tempo, come un fuggiasco che sia riuscito a schivare centinaia di retate. Quest’uomo di ottanta e passa anni ha un vigore fisico, una vivacità di spirito sorprendenti. Lo sguardo è ora tenero ora beffardo, il sorriso svelto, il passo e la parola rapidi. Ci sono persone che si raffinano con il tempo e un giorno arrivano a incarnare il proprio mito. Ciò che fa di Chagall un essere leggendario – non si sbagliano i passanti che lo riconoscono e si fermano a chiedergli un autografo –, al contrario, è proprio il fatto che non è cambiato. L’infanzia è intatta, perché si è cibato esclusi26

vamente dei suoi sogni. E l’attenzione non si è mai distolta dal suo monologo interiore, muto come lo è, nei suoi film, l’angelo dell’umorismo Harpo Marx – al quale Chagall somiglia un po’. Gli angeli non invecchiano. Semplice, troppo. Chagall ha gli occhi bene aperti. «Vedo delle cose. Sono un terribile, un formidabile critico. Dal 1910, mi sono sbagliato raramente. Tranne che per Rouault: all’epoca mi dava sui nervi.» Confesso che, all’inizio, ero scettico: la critica deve poter mordere. Ma la nostra conversazione, camminando lungo i quais, ha finito per convincermi: l’angelo ha delle grinfie. «Bonnard? Una bistecca passata per troppe mani. Finger painting. Un po’ borghese. Uno che non ti guarda negli occhi. Matisse, invece. Matisse sì! Che anarchia suprema, che slancio!» «Lei non si è mai sbagliato, diceva?» «Certo che sì. Credevo troppo in Gleizes. Vedevo in lui una sorta di Courbet del Cubismo. Oggi ho un’opinione più alta di Delaunay rispetto ai tempi in cui era più modesto, rispetto a dopo, quando ha voluto. Mi rimproverava: “Chagall, tu non conosci il mestiere”. Lui ne aveva da vendere. Oggi, però, lo vedo precipitare. Di La Fresnaye, invece, pensavo fosse un artista grazioso; oggi ha assunto spessore.» Il fatto è che, allora, Chagall era immerso nella storia, che è sempre ingiusta: «Coglievo perfettamente la differenza chimica fra Picabia e Léger, ma questo contava poco. Più ti avvicini al tuo tempo, meno vicino ti senti a esso. Perfino Corot mi sembrava trop-


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po vero, all’epoca. Monet non volevo vederlo. L’ho scoperto dopo la guerra, sul transatlantico che mi riportava a casa dall’America. Là, sull’oceano, mi sono chiesto: da quale fonte sgorga il colore? E mi sono detto: Monet. Oggi, per me, Monet è il Michelangelo della nostra epoca, chimicamente parlando». Lo stemperarsi della storia scatena la visione chiara, proprio come ci si accorge che una lampada è accesa solo dopo il tramonto. A patto, naturalmente, che bruci. «So dire se uno è nato con la voce o no. Non esiste la professionalità. La tecnica non vuole dire niente. Dada non è granché, ma Schwitters ha fatto opere meravigliose.» Chagall ha un nome per questa lampada accesa, per questo spirito critico: «Ai nostri tempi, l’occhio non lavora molto. Non vediamo le differenze. Non vediamo la chimica. Ma più avanti, la si vedrà automaticamente. Perché esiste solo quella. Watteau ha passato il vaglio: è arrivato fino a noi, non per i suoi personaggi, ma per la chimica. Pater ha gli stessi personaggi, ma non è passato. Oggi, per me, c’è solo la chimica. Tutto il resto – realismo, antirealismo, figurazione, non figurazione – non conta più». Allora perché non vederci chiaro fin da subito, perché non innescare quell’illuminazione secondaria capace di spegnere tutto ciò che, secondo Chagall, non è chimica? Perché non è possibile. «Per arrivare a questo, al Louvre, mi dicevo che bisognava ribaltare quello che avevamo di fronte, i realismi.»

La via della lucidità passa necessariamente per il suo contrario. Un dio è onnipotente unicamente in funzione dell’uomo, e l’atemporale nasce solo dal tempo. La lampada della seconda visione si illumina soltanto al fuoco accecante della storia. Malgrado la distanza personale, storica, geografica e culturale dall’ambiente parigino che lo accoglieva nel 1910, Chagall l’ha capito subito, istintivamente: prima di andare al Louvre è andato al Salon des Indépendants. Una semplice frase buttata lì dice più sull’argomento di qualsiasi spiegazione prolissa: «Ho la stessa età di Juan Gris». Dieci meno cinque. Siamo davanti alla porte Denon, l’ingresso principale. La folla è già lì che si accalca.

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«Il Louvre, che parola magica! Andare al Louvre è come aprire la Bibbia o Shakespeare. Certo, ci sono cose che danno sui nervi. Guido Reni è pomposo, ma un pomposo di gran classe.» «Si può parlare di spirito del luogo?» «Senza ombra di dubbio. Sposti il Louvre al Trocadéro e non resterà più niente. Il Louvre è una cosa magica. Ha a che fare con le proporzioni, con l’architettura delle sale. Perfino l’ombra, lì dentro, è propizia. I muri sono formidabili. Al Metropolitan Museum, alla National Gallery di Washington questa magia non si trova. All’Ermitage sì. Gran parte del fascino che il Louvre esercita sugli artisti viene da lì.» «Però sono parecchi gli artisti che vorrebbero bruciarlo.» «Perché? Quelli che sono lì dentro sono persone come noi. Hanno avuto la fortuna, o la sfortuna, di entrare al Louvre; nient’altro. Del resto, la metà di loro potrebbe tranquillamente uscirne. Il potenziale distruttivo non sta lì.» «E in cosa, allora?» «Nell’allestimento “museografico”, che ha molto dell’atto vandalico. Non amo granché questo stravolgimento del Louvre. Non lo riconosco più. Adoravo quelle file compatte di quadri che arrivavano al pavimento. Si sviluppava tutto in altezza, era intimo. Adesso la tendenza è di appendere un solo quadro a parete. Impongono quello che devi vedere, lo mettono in evidenza. Il quadro isolato, valorizzato, è come se dicesse: rispettami. Io amo cercare, trovare.» E se è vero che dal 1910 non ha mai smesso di andare al Louvre, Chagall mi confessa che è stato sempre, almeno apparentemente, per caso. L’altro giorno, 28

quando gli ho proposto questa passeggiata a due, mi ha risposto: «Sì, ma non voglio andarci apposta». Confesso che mi aveva un po’ irritato: la sua richiesta mi sembrava non solo impossibile da soddisfare, ma anche gratuita. Lo era? Con un gioco, Chagall mi poneva la questione che era stata sua: come coltivare l’ingenuità? Il paradosso era una parabola. E la soluzione esisteva, dato che in quello stesso istante stavamo varcando le porte del Louvre. Dalla scala opposta a quella in cui si erge la Nike di Samotracia Chagall mi trascina verso il primo piano e l’interminabile sfilza dei “pezzi da novanta” dell’arte francese. Sorpresa: senza la minima esitazione, il suo sguardo si dirige verso


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le tele di Courbet, un pittore che per me è esattamente agli antipodi della sua natura. «È un artista che mi appassiona. Della stessa razza di Masaccio, di Tiziano.» Il suo sguardo percorre l’enorme sala, si sofferma un istante sulla Zattera della Medusa: «Sì, perfino il Combattimento di cervi, che è un po’ pomposo, mi tocca più di Géricault e della sua maestria.* Certo, è eloquente; e Gros, con la sua Battaglia d’Eylau, è sicuramente qualcuno. Io comunque non me la sento di riabilitarlo. In tutta la sala, Courbet è l’unico che tiene». «Perché?» «Non saprei. Mi tocca. Quasi fino alle lacrime. È l’artista della vita.» Ora è davanti all’Atelier. «Lì, da qualche parte, c’è la tragedia della morte.» Su quello sfondo di bruma a densità variabile, i gruppi chiari o scuri, simili a pulsazioni: «Il tempo che va e che viene, come un’onda. Noi siamo nebulosi. È la nostra malattia». Adesso Chagall è davanti al Funerale a Ornans. Ma è proprio Chagall? In realtà faccio fatica a riconoscerlo. La voce è neutra, la parola precisa, l’occhio scattante. Parla, tace, fa qualche passo indietro, poi si riavvicina, dice un’altra frase, come l’artista che torna davanti al cavalletto per dare un altro ritocco sulla tela: «Questa cupezza, questa fattura, queste forme così solide e così vacillanti… Penso a Braque: non riusciva a far bene un uccello, così stendeva del bianco. Ma che bianco!… I bianchi di

Courbet; il cane, i cappelli: sono delle macchie vive. E l’azzurro delle calze dell’uomo in primo piano: è a parte, come slegato dal resto. Modernissimo…». Immensa poesia della nostra epoca… Courbet è un naturalista, eppure è un grande poeta… L’idea della morte aleggia dappertutto in Courbet: in Delacroix e Géricault non c’è, anche se è un tema che hanno affrontato. Dopo un silenzio abbastanza lungo, durante il quale, su invito di Chagall,

* In italiano nel testo. [N.d.T.]

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rifletto sullo strano connubio di energia e sfacelo presente nei quadri di Courbet, lui dice: «La perfezione è vicinissima alla morte. Watteau, Mozart…». E mentre ci dirigiamo verso le sale di passaggio, dove sono appesi i dipinti della collezione Beistegui, aggiunge: «Courbet aveva ragione a ripiegare sulla realtà. Quanto a me, non saprei. So soltanto una cosa: è la pancia che manovra il mio pennello. Ciò che conta è il modo in cui si manovra il pennello». Eccoci davanti alla Lucrezia di Rubens, altro artista della famiglia dei vigorosi, dei debordanti: «È un maiale, ma è un grande artista». Non si attarda un secondo di più. David, invece, lo attira. Ecco il Napoleone incompiuto: «Mi piace quando lasciano i quadri vuoti… David ha un tocco incantevole. (Il suo sguardo scivola sui ritratti di Ingres, immediatamente a fianco.) È meglio di Ingres. Una nobiltà… Non è arido, come Ingres. (Indica il Ritratto di Madame de Verninac.) Un grigio incantevole. Quanta dolcezza, in quello sfondo!». Arriviamo davanti alla tozza Madame Panckoucke di Ingres. «È più segreto, più antinaturale, più anormale. David è normale. Ingres mi disturba. Ha 30

qualcosa di ovattato. C’è una specie di impotenza nei suoi ritratti. Troppo leccato, troppo chiaro-scuro. Fa venire in mente Magritte. (Pausa.) Pomposi lo si è nell’anima, pomposi si nasce.» Davanti al Ritratto di Chopin di Delacroix: «Una cosa grandiosa. Il grande Delacroix è tutto lì. Sembra quasi un Soutine». E di fronte all’Autoritratto di Delacroix: «Si sente già che sta per arrivare Manet. Che intelligenza!».

Colpo d’occhio sul Chassériau che si trova lì, a titolo provvisorio (hanno staccato parecchi Ingres per la mostra del primo centenario dalla morte): «Una specie di La Fresnaye. Anche lui è partito da una serie di trucchi». Rapidamente si dirige verso La folle di Géricault, anch’essa lì in sostituzione di un ritratto di Ingres: «Questo è il grande Géricault. Quando realizzava la realtà era un matto portentoso. Con


· Marc Chagall ·

La zattera di Medusa, invece, eseguiva un programma… Bisogna avere parecchia forza per sedersi davanti a una testa e realizzarne uno studio». Più in là, i corridoi che sfociano nella Grande Galerie, occupati dalle scuole straniere. Chagall non vuole andarci. La scuola francese, oggi, sembra godere delle sue preferenze. Lo porto, quasi a forza, davanti alla Marchesa de la Solana di Goya, incorniciata dai David e dagli Ingres: «È come un Watteau, ma no: non è del nostro paese. Come Velázquez. Si può piangere davanti a Courbet o a Watteau, ma non davanti a Velázquez e Goya. Sono dèi, ma dèi stranieri. Zurbarán, forse: una tale freschezza! Ed El Greco, ma lui era greco. Questa tauromachia onnipresente: questo Goya è riuscito come una condanna a morte. Devi applaudire. Braque o Courbet non condannano a morte». A quel punto si volta e torna a guardare la Madame de Verninac: «Quel succo giallastro, che nobiltà! È quello il color caffellatte che sognano all’estero. Amo più questo grigio del grigio superbo di Goya. Ho lasciato la Russia per questo». In realtà, questa preferenza per la pittura francese fin dall’inizio della nostra passeggiata è carica di senso. Trasposta nel tempo e nello spazio, non fa che ribadire la scelta del giovane ventenne che ha lasciato Vitebsk per Parigi. «Io ho una formazione francese. Detesto il colore russo o dell’Europa centrale. Il loro colore è come le loro scarpe. Soutine, io… siamo tutti partiti per via del colore. Io ero molto cupo quando sono arrivato a Parigi. Ero color patata, come van Gogh. Parigi è chiara.» L’attrazione di Chagall per la pittura francese, così misurata, così positiva, può apparire strana. La sua inclinazione avrebbe dovuto condurlo più verso Vienna, verso Monaco o una qualche Tahiti più vicina al Dnepr che non alla Senna. E in effetti le sue prime tele, dipinte sotto l’influenza di opere conosciute solo attraverso le riproduzioni presenti sulle riviste, rivelano grande propensione per un’arte soggettiva. Istintivamente, però, Chagall sceglie il contrario, proprio perché è il contrario. Nel 1910, quando arriva a Parigi grazie a una borsa di studio procuratagli da Vinaver, un deputato della Duma, ad attirarlo e a circondarlo sono personaggi come Cendrars, Apollinaire, Léger, La Fresnaye, Delaunay, Lhote, Gleizes, vale a dire i difensori di un’arte oggettiva, formalista. «I pittori di trent’anni fa erano assorbiti da ricerche puramente tecniche» ha scritto di loro. «Non si parlava ad alta voce dei propri sogni.» Perché inseguire il proprio contrario? Perché fiondarsi nell’ultima sala degli Indépendants, se si ama Bassano? Necessità. «Così arrivai a Parigi come spinto dal destino» scrive ancora Chagall. «Alle mie labbra affluivano parole sgorgate dal cuore. Mi soffocavano quasi. Io balbettavo. Le parole premevano verso l’esterno, ansiose di bagnarsi, di avvolgersi di quella luce di Parigi.» Quella luce, altrove, Chagall, l’ha chiamata «luce-libertà». Una formula dietro la cui felice imprecisione si cela in realtà qualcosa di molto preciso: la messa in luce, la liberazione dell’interiorità prigioniera dei meandri oscuri

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dell’io. Parigi offriva a Chagall ciò di cui il suo sogno farfugliante aveva bisogno per prendere corpo: un linguaggio pittorico, una sintassi del visibile. Grazie a quell’incontro, Chagall sfuggiva – come Soutine – a quello che è l’inferno dell’arte dell’Europa centrale e della Russia: l’inferno della voce privata della parola, lo stesso descritto da Eschilo nell’Agamennone: «Ma crucciata in velo oscuro or freme; né svolger dal cèrebro acceso, consiglio veruno saprebbe che giunga opportuno…». Prendere corpo è radicarsi nella storia. Gli Indépendants e il Louvre: il cammino di ogni artista, anche del più segreto, passa attraverso l’arte della sua epoca. E l’epoca, per il giovane Chagall, è la seconda generazione di cubisti. La cosa fondamentale è stata la saggia accettazione di avere, pittoricamente parlando, la stessa età di Juan Gris. Ci voleva del coraggio. Il linguaggio cubista è materialista, ottico, generale: il mondo di Chagall è visionario, particolare, locale. In questo caso la contrarietà sembra sfiorare l’incompatibilità: espressione e comunicazione sembrano essere separate da tutta la distanza che c’è fra Vitebsk e Parigi. Non importa: per quanto antagonistiche fossero, solo Parigi poteva far apparire Vitebsk. Chagall non amava il Cubismo: ne aveva bisogno. «Detestavo il realismo e il naturalismo, perfino nei cubisti. Volevo introdurre un forma32

lismo psichico.» Parafrasando: lo psichico poteva diventare percepibile solo attraverso un formalismo. Come scrive Dostoevskij: «Son magari d’accordo che due più due quattro sia una bellissima cosa; ma allora, se siamo a distribuir lodi, vi dirò che anche due più due uguale cinque è talvolta una cosuccia graziosissima». 2 + 2 = 4 è la formula del Cubismo; 2 + 2 = 5 quella di Chagall. Ma quell’1 in più, che è l’indice del fantastico, può sorgere solo sullo sfondo dell’ordine, come una deroga alla permanenza logica incarnata dall’equazione e dal suo funzionamento. «I suoi mostri sono praticabili» diceva Louis Pasteur a Odilon Redon. La pittura francese offre praticabilità visiva ai sogni extrapittorici. «Le bottiglie cubiste erano diritte: io le ho inclinate. Ho tagliato le teste…» L’irreale si manifesta attraverso uno stordimento del reale – di quel momento del realismo che è stato il Cubismo. Sarà il difensore del Cubismo, Apollinaire, a riconoscere per primo il “surreale” nell’opera (cubistizzante) di Chagall. E, naturalmente, quest’ultimo ricuserà il Surrealismo nascente quando tornerà a Parigi, dopo la guerra, nel 1923. «Il Surrealismo è un automatismo. Ci vuole controllo, certo, ma attraverso il dono.» Come si vede, Chagall illustra in modo abbastanza radicale quel conflitto fra l’io e il mondo, fra voce personale e parola comune che ogni artista è chiamato a risolvere. Da un lato la Russia, l’ambiente ebraico, l’influenza del chassidismo (quella specie di francescanesimo ebraico), la natura sognatrice; dall’altro, la tecnicità del Cubismo. Ed è proprio grazie al Cubismo che l’opera di Chagall non


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è rimasta confinata nel limbo del vagheggiamento informe o nella riserva naturale del folclore. Bisognava però farli precipitare: è questo il ruolo della “chimica”. Non ci dilungheremo qui a spiegare come Chagall abbia reinterpretato il Cubismo, avvalendosi del suo stesso diritto di dislocare e ricomporre le forme per ribaltare le teste e catapultare il bue sul tetto, facendo girare il cerchio orfico di Delaunay come la ruota di una lotteria in una fiera di paese. Notiamo semplicemente che, per un pittore, intendere equivale a fraintendere. La sua interpretazione falsa è, proprio per questo, creatrice. Solo lo storico o l’erudito possono permettersi di avere ragione. L’interpretazione che Chagall dà del Cubismo e dell’orfismo fa pensare a ciò che avvenne con i nomi delle divinità greche quando passarono dall’universo delle teogonie arcaiche a quello delle filosofie presocratiche. Originariamente segni di manifestazione del sacro, quei nomi persero il loro significato quando gli dèi morirono o furono dimenticati. Da chiari si fecero misteriosi, finendo per divenire segni del mistero o per indicare potenze altrettanto primigenie delle divinità di un tempo ma che non avevano ancora un nome.

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L’artista che innova è un lupo che si camuffa – a volte male – sotto le spoglie di un agnello. Quando intuiamo il trucco, è già troppo tardi. La creazione è astorica, ma si manifesta sempre in seno alla storia. Si pensi al destino dell’ebreo, che sfugge al tempo ma scopre il proprio statuto d’eccezione solo sottomettendosi alle sue regole, affermando la propria differenza a mano a mano che si assimila al proprio ambiente – proprio come la pittura francese, mascherando l’universo di Chagall, non fa che rivelarlo. Mostrarsi altri ricorrendo al linguaggio comune, risolvere il paradosso della duplice appartenenza attraverso la propria opera: questo il destino dell’artista. Ogni creatore è un ebreo rispetto alla propria cultura. Torniamo sui nostri passi ripercorrendo le sale francesi, questa volta fino alla scala d’onore. L’Autoritratto di David:


· Pierre Schneider ·

«È bello come Cézanne. Questo annienta tutto Ingres». Delacroix, le Donne di Algeri: «Grandioso, come il suo Autoritratto. Mi tocca profondamente. Le sue pieghe raffaellesche sono più riuscite di quelle di Courbet. Courbet pensava troppo alla morte, e questo era un handicap». Eccoci giunti nella grande sala neoclassica. «Ahi! Ahi, ahi! (Poi torna a respirare, di fronte al Ratto delle Sabine e all’Incoronazione di Napoleone.) David può sforzarsi quanto vuole: non sarà mai pomposo. Pomposi si nasce. Né Delacroix, né Courbet né Gericault lo sono – ma Ingres…» Lo sguardo di Chagall vaga fra le tele di David: «Madame Récamier: grandioso. C’è già Manet, lì dentro. Ma nel Leonida c’è tutto Poussin. Che dolcezza, che patina! Nemmeno un briciolo di aridità (indica il Giuramento degli Orazi)».

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Non c’è chimica senza acido: «Forse non sarei così tenero con David se oggi non si parlasse tanto di Ingres». Il Cimabue sulla scala. Il tono cambia, come se fossimo passati dalla storia alla verità: «Cimabue! La mia passione, il mio idolo! Quando sono arrivato a Parigi è stato un vero choc. (Pausa di silenzio.) Questo supera tutto. Che religiosità… Non parlo del soggetto, ma del tocco. Cimabue è più penetrante di Giotto… Bisogna aspettare Watteau per trovare un equivalente. Rembrandt, Monet, Caravaggio, Masaccio, Cimabue, Watteau: ecco i miei idoli!». Scendiamo la scala. Passando davanti alla Nike di Samotracia, Chagall mi sussurra: «Questa mi tocca più di Brancusi». Di fronte all’Eroe armato di spada, un affresco romano trasportato da Ostia: «Non era che un artigiano. L’arte è come un bravo figlio: non ci sono scuole per questo. Non bisogna sforzarsi di disegnare bene, di dipingere bene. La scuola fa male. Quando sono arrivato in Francia, in me non c’era un briciolo di professionismo. Non avevo missioni. Ecco, per me questo non è cambiato». Una finestra da cui si intravede il sottile grigiore di Parigi. Chagall si avvicina. «Ecco perché siamo partiti da Vitebsk. C’è tutto Le Nain, qui, c’è Watteau. I francesi non sono sempre grandi, ci mancherebbe, ma in loro c’è questo grigio, questo paesaggio. Il fau-


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visme può essere violento quanto vuole: resta pur sempre – in un Dufy, per esempio – francese. Van Dongen ha molto più talento, ma lo vomita.» Chagall è deciso a non uscire dall’ambito francese. Nonostante l’età, nonostante i chilometri che abbiamo già percorso, mi trascina all’altro capo del Louvre, ai piani più alti, che ospitano le nuove sale del Settecento e dell’Ottocento. Ad accoglierci è ancora un David, Madame Trudaine: «Che tocco: meraviglioso! È stato forse il primo a usare un tocco così leggero. La fattura è tutto, è come il sangue: la chimica». Dicendo questo, si avvicina al Nudo seduto. La signorina Rose di Delacroix: «Che elevatezza! Cose così sono perfino più grandi di Courbet». Intorno a noi, i Corot si moltiplicano. Chagall rimane paralizzato davanti al suo Trinità dei Monti: «Ah, che artista! Questa è la Francia. Ti lascia senza parole. Ecco un vero dio. Supera tutto. Con quell’aria così innocua… Quel biondore, quel grigio, è la Francia… Cosa sono venuti a fare gli impressionisti dopo di lui? In lui c’era già tutto. Un vero pittore. Lui ha la chimica. È un principe. Può fare tutto. È Mozart». Questo non gli impedisce di apprezzare Il forno da gesso di Géricault: «Formidabile! Il primo Vlaminck». In realtà, le esitazioni di Chagall non sono mai negative. Quando dice di preferire un pittore a un altro, è più per dare a questo che per togliere a quello. Proprio come quando oscilla fra Delacroix e Courbet. Eccolo davanti ai Cavalli arabi che lottano del primo: «È dipinto come un Daumier. È più elegante di Courbet, bisogna ammetterlo». Davanti all’Orfana, il confronto si fa più preciso: «Che intelligenza, che elevatezza! Courbet era un grand’uomo, ma aveva una pancia troppo pesante». E ancora, guardando le Babbucce: «Che classe, che rigore!». Un po’ dopo, però, quando si troverà sotto gli occhi la Caccia al capriolo guardingo di Courbet, dirà: «Grandioso. Delle tonalità adorabili! Questo forse supera Delacroix». In Chagall l’esitazione è elogiativa, ascensionale. Il disprezzo è una cosa che, semplicemente, non lo sfiora. Un Puvis de Chavannes gli strappa una smorfia: «Ecco l’eredità di Ingres». Davanti alle tele di Huet, di Diaz, di Decamps: «Andiamo, andiamo!». Raffet ci tende il suo Maresciallo Ney, esempio perfetto di iconografia facile: «È russo» dico io. «Polacco, se preferisce.» Poi aggiunge:

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«Tutti i pomposi si somigliano… Ma forse i russi sono i peggiori». Ed ecco la nostra Russia: Meissonier e i suoi quadretti dipinti con la lente d’ingrandimento. «Un incubo!» «Perché?» «Una questione di chimica. Nessun talento. Come un cantante senza voce. Pessimo.» A volte fatico a seguirlo. Lui scuote la testa, sospira, borbotta: «Un incubo!» davanti a un Gustave Moreau, o un ironico «il celebre Decamps», «il celebre Rousseau». Con qualche felice eccezione. Constable, Hampstead Heat: «C’è Monet, qui. Non parlo di Pissarro, perché non è niente». Ancora Daumier, Scena da una commedia: «Ammirevole! Qual è il segreto di questa grandezza?». Qualche sorpresa, come la sua reazione di fronte alla Natura morta con boccale bianco di Monticelli: «Viene voglia di rubarlo. Che artista!». O, ancora, la sua indulgenza verso Millet e la sua Donna nuda sdraiata: «Non è pomposo. Ha delle qualità, della Stimmung. Ma è finito, come Maeterlinck, come Lévitan. Non tocca più. Corot sì». La sua Haydée: 36

«I seni cadono, ma il dipinto sale. Che geni bisogna essere! Una piccola velatura. E quell’aria così innocua… È questo che manca in Russia, in Germania: i puntini sulle i». «Mio Dio.» Chagall ha appena notato L’imbarco per Citera di Watteau: «La grandezza, la scrittura, la follia di questo aggeggio!». Di un Giudizio di Paride dirà: «Cézanne ha fatto cose così». E del Padreterno subito accanto: «Non riesco a sopportare queste cose». Boucher, Lancret, Fragonard, non li ha nemmeno guardati. Ad attirarlo è il Gilles. «Questo li supera tutti. Fa vacillare Rembrandt. Darei tutto Corot in cambio di quei pantaloni. Canta e piange, come Cimabue. Corot ha il canto, ma non le lacrime. Quello che si avverte nel Gilles non è il sentimento della morte, ma la fine della vita.» Non solo: Watteau definisce i limiti della pittura francese trascendendola.


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Ci troviamo di fronte a una serie di nature morte di Chardin, fra cui La razza: «La grande scuola francese viene da qui. L’arte scientifica… E si finisce con Derain. Mi viene da dire: bravo, chapeau. Se sono toccato? No». Esiste dunque un’altra chimica o, se si vuole, un altro versante della chimica. La prima permette di entrare nello storico, nel visibile; la seconda ce ne fa uscire o, per lo meno, orienta l’opera verso un al di là del visibile, un luogo che accomuna ogni arte trascendente: «La grande chimica è la stessa, sempre, dappertutto» dice Chagall di fronte a un ritratto del Fayum. «Questo ritratto del Fayum e Corot sono la stessa cosa.» Da un lato «grande chimica» – quella attraverso cui si raggiunge la comunità della natura –, dall’altro la «piccola chimica», che permette di raggiungere la comunità umana: «Il mio unico piacere: la chimica che produco sulle mie tele si avvicina alla chimica della natura. Come Monet, o il vecchio Tiziano… Ma bisogna passare dalla propria epoca per arrivarci». Per Chagall, oggi, la chimica riguarda innanzitutto il colore. È il colore che, sulla tela, scava un tunnel verso l’atemporale. Colore-profondità: «Il colore deve essere penetrante come quando si cammina su un tappeto spesso» ha scritto da poco. «Nemmeno al mio amico Cendrars mostravo i miei quadri. Pensavo sempre: non abbiamo molti amici sulla terra; solo la nostra donna, perché lei non ha niente contro di noi. Da ragazzo mostravo i miei quadri a mia madre. Lei pensava che avessi talento, ma che la pittura fosse troppo dura. Voleva che diventassi fotografo. Quanto a mio padre, be’, lui viveva in un altro mondo…» Una precisazione suscitata da una circostanza abbastanza eccezionale: per uscire dal Louvre, attraversiamo la Galerie Mollien, dove proprio in quel mo-

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Jean-Antoine Watteau, Gilles, 1718-19. Olio su tela, 184 x 149 cm.


Marc Chagall, à la Russie, aux ânes et aux autres, 1911. Olio su tela, 157 x 122 cm.


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mento c’è una mostra dedicata a Chagall. Una prova terrificante, cui hanno aspirato – non senza temerla – Cézanne, Matisse, Picasso e molti altri. Chagall parla di sé senza compiacimenti: «Niente disegno. Questo si potrebbe anche fare con le dita. Il colore, è il colore che dà il Geist. Niente stilizzazione, niente maestria, niente ricerca. La debolezza: la giovinezza di un vecchio. Il suo essere normale. Più Delacroix e Corot sono normali, più sono geniali. Ciò che conta? Chi può dirlo? È come un bambino che dorme in un letto. Il colore? Quello lo compri. I temi? Ho attinto dalla Bibbia perché è un libro di prim’ordine. In me non c’è scienza. Non occorre disegnare bene. Il dono va lasciato in pace. Ingres disegna bene ed è un incubo. Le mie linee avrei potuto farle in un altro modo, a destra anziché a sinistra, in alto anziché in basso; sarebbe stata la stessa cosa. Agli esaltati mi vien voglia di dire: calmatevi, fate come Corot, siate normali! Stanislavskij diceva agli attori: calmatevi, abbassate le spalle, solo così vedranno i vostri colori. È come pisciare: se non ci riesci è perché stai male. Non amo le belle maniere. Nel Vagone di terza classe Daumier non ha maniere: lui, per fortuna, non sapeva.»

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