Marcel Broodthaers. Libro d'immagini

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Giulio Paolini L’autore che credeva di esistere Zoran Music - Ida Barbarigo Doppio ritratto (A cura di Giovanna Dal Bon) Nanda Vigo Light is Life (A cura di Dominique Stella) Keith Haring a Milano (A cura di Alessandra Galasso)

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A cura di Marie-Puck Broodthaers Testi di Wilfried Dickhoff e Bernard Marcadé

Marie-Puck Broodthaers è figlia di Marcel Broodthaers. Wilfried Dickhoff è curatore e coeditore della rivista Inaesthetics. Bernard Marcadé è autore di numerosi saggi sull’arte, fra cui un’importante biografia di Marcel Duchamp edita in Italia da Johan & Levi Editore nel 2009.

A cura di Marie-Puck Broodthaers

«…mi sono chiesto se non potevo vendere qualche cosa e avere successo nella vita. È già diverso tempo che non combino niente. Ormai ho quarant’anni… Alla fine mi è venuta l’idea di inventare qualche cosa d’insincero e mi sono messo subito al lavoro.» Marcel Broodthaers In soli dodici anni di carriera, il belga Marcel Broodthaers (Bruxelles 1924-Colonia 1976) ha prodotto più idee di quanto di solito non si faccia nell’arco di un’intera vita. Dopo essersi dedicato per vent’anni alla poesia, nel 1964 abbandona questa forma espressiva per firmare un patto con un universo, le arti visive, dai valori opposti. Muovendosi con disinvoltura fra i più diversi media – dall’installazione alla scultura, dal libro d’artista al video e alle scritte impresse su pannelli e targhe di alluminio – Broodthaers si pone come artista “post-mediale” per eccellenza, per il quale ogni mezzo può essere utilizzato al servizio di un’idea. Tra quelle che animano la sua opera vi è la critica alle istituzioni (di cui è stato un pioniere), la demistificazione dell’arte e gli enigmi e visivi. Concepito e curato da Marie-Puck, figlia di Broodthaers, questo volume offre una vasta selezione di fotografie inedite, due importanti saggi critici, una cronologia completa delle mostre e una bibliografia selezionata. Con le sue trecentocinquanta immagini a colori è la più importante e autorevole monografia mai pubblicata su Marcel Broodthaers.

€ 65.00 isbn

978-88-6010-107-5

Marcel Broodthaers

Fra le monografie Johan & Levi:

Marcel Broodthaers Libro d ’immagini

Marcel Broodthaers

Libro d ’immagini Immagine di sovraccoperta: L’Alphabet (particolare), 1969.


Marcel Broodthaers

ÂŤOgni immagine riuscita rende insufficiente la teoria.Âť

1969


L’objet écrit (la bouteille de lait) [L’oggetto scritto (la bottiglie di latte)], 1967

Quattro bottiglie di vetro dipinte, stampa fotografica su mensola di legno 75,5 × 56 × 16 cm


Marcel Broodthaers

Libro d ’immagini

A cura di Marie-Puck Broodthaers Testi di Wilfried Dickhoff e Bernard MarcadĂŠ


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Sommario

Prefazione di Maria Gilissen-Broodthaers La conquista dello spazio. Le situazioni poetico-artistiche di Marcel Broodthaers di Wilfried Dickhoff

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«Io dico… Io tautologizzo. Io conservo. Io sociologizzo. Io manifesto…» di Bernard Marcadé

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Fotografie e film prima del 1963

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Moules, Œufs, Frites, Pots, Charbon [Cozze, Uova, Patatine, Pentole, Carbone]

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Cronologia e piano del Museo d’Arte Moderna, Dipartimento delle Aquile

160

Diecimila franchi di ricompensa

186

Moules, Œufs, Frites, Pots, Charbon, Perroquets [Cozze, Uova, Patatine, Pentole, Carbone, Pappagalli]

271

L’Angélus de Daumier

280

Décor

288

Biografia di Michael Compton

295

Mostre personali e collettive

296

Bibliografia

306

Multipli

314

Film

315

Proiezioni di diapositive

316

Ringraziamenti

318

Collezioni

319

Crediti fotografici

320

Marcel Broodthaers écrivant Le Corbeau et le Renard [Marcel Broodthaers mentre scrive Il corvo e la volpe], 1967-68

Stampa fotografica su tela 80 × 60 cm

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Pense-Bête [Promemoria], 1964 Pacco di 50 libri conficcati nel gesso, sfere di plastica e gusci d’uovo su supporto di legno 30 × 84 × 43 cm


Prefazione

Sin dalla tenera età, mia figlia Marie-Puck era affascinata dai libri d’arte di grande formato che fissano sulla carta lucida lo sguardo dell’immagine. Le lunghe ore passate a contemplare il susseguirsi di immagini hanno senza dubbio determinato la sua motivazione a comporre oggi il proprio Libro d’immagini, per il quale ho messo a disposizione i miei archivi. Ridando vita al mondo delle fotografie delle opere di Marcel Broodthaers, tessendo legami tra alcune realizzazioni più conosciute e i lavori più criptici di suo padre, Marie-Puck intraprende un percorso volto a sollecitare lo sguardo sotto un angolo differente, suggerendo un altro modo di imparare a leggere ciò che si vede. La lettura del suo Libro d’immagini, infatti, si distanzia dal rapporto abituale tra il testo e l’illustrazione per proporre uno scorrimento quasi filmico, rompendo in questo modo con i discorsi convenzionali sul lavoro di Broodthaers. Il generoso approccio di Marie-Puck invita ognuno di noi ad appropriarsi di un altro universo della rappresentazione visiva, offrendo una libertà di scoperta ai lettori-spettatori. Tutti i miei ringraziamenti a Jan Martens, le cui molteplici doti nel mondo dell’editoria sono indiscutibili. Tutti i miei auguri al Libro d’immagini. Maria Gilissen-Broodthaers Primavera 2013

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Mon Livre d’ogre [Il mio libro d’orco], serie di racconti poetici di Marcel Broodthaers, à l’Enseigne de l’Arquebuse du Silence, Ostende, 1957, 25 × 17 cm, 44 pp. Minuit [Mezzanotte], raccolta di poemi di Marcel Broodthaers, George Houyoux éditeur, Bruxelles, 1960, 21 × 16,5 cm, 24 pp.

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Pense-Bête [Promemoria], per conto dell’autore, Bruxelles, 1963-64, 27,5 × 21,5 cm, 32 pp. La Bête noire [La bestia nera], testo di Marcel Broodthaers, per conto dell’autore, Bruxelles, 1° aprile 1961, 13,5 × 27,5 cm, 16 pp.

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La Conquête de l’espace. Atlas à l’usage des artistes et des militaires [La conquista dello spazio. Atlante a uso degli artisti e dei militari], 1975

Libro miniatura dentro cofanetto 38 × 25 mm

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“La conquista dello spazio” Le situazioni poetico-artistiche di Marcel Broodthaers

Improvvisamente è diventato reale, laddove è questione di spazio e di conquista. […] Più che altro è a partire da questa situazione di finzione che deriva l’impulso al cambiamento […] attraverso la creazione di una situazione, non tanto attraverso il metodo. […] Resterebbe quindi da indagare se l’arte esista al di fuori della negazione. Marcel Broodthaers

Il valore plastico del linguaggio Marcel Broodthaers nasce a Bruxelles il 28 gennaio 1924. Fino all’inizio degli anni sessanta vive a Bruxelles, e in alcuni periodi a Parigi, lavorando come scrittore e giornalista. Pubblica diversi volumi di poesie – tra questi Mon Livre d’ogre [Il mio libro d’orco], Minuit [Mezzanotte], La Bête Noire [La bestia nera] e Pense-Bête [Promemoria]: «Quelle erano poesie, segni concreti d’impegno, in quanto non retribuite».* Soltanto alla fine del 1963 decide di diventare un artista, fondando questa decisione su un gesto che è, a un tempo, di scultura e di poesia: conficca infatti cinquanta copie del suo Pense-Bête in una colata di gesso, rendendole pressoché illeggibili e in un certo senso trasformandole in una scultura. «Non si può leggere il libro senza distruggerne l’aspetto scultoreo.» Con l’oggetto Pense-Bête Broodthaers mette in evidenza l’illeggibilità del libro, inventando un’arte visiva nella quale è inscritto: «Il valore plastico del linguaggio». A partire da questa decisione artistica, il suo principale obiettivo è «esprimersi al confine delle cose, là dove il mondo dell’arte e della poesia si possono non dico incontrare, ma confondere l’uno nell’altro, lungo una precisa linea di confine».

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Già a metà degli anni sessanta, in un suo componimento, Broodthaers parla della fusione di letteratura e poesia e, rispondendo a chi gli chiede che cosa rimanga, evoca l’immagine della luna che «risveglia sentimenti / Quando è la nera notte teorica». La realtà di un pensiero che scaturisce dalle emozioni – un pensiero che proviene dalla notte della teoria, quando letteratura e pittura si uniscono creando nuove connessioni –, rappresenta una prospettiva ancora inesplorata dei suoi lavori. Inaugurando uno spazio in cui arte visiva e poesia si fondono intrecciandosi in forme d’interazione inusuali, Broodthaers ha inventato una forma d’arte inedita. La sua intera produzione testimonia questa invenzione, a partire dalle immagini dedicate alle uova e alle cozze, fino alle conformazioni spaziali come Décor, ma anche alle opere dedicate a Stéphane Mallarmé e alla poesia Un Coup de dés jamais n’abolira le hasard [Un tiro di dadi non abolirà mai il caso], un componimento di cui realizzò una versione iconografica, sostituendo alle parole altrettante linee nere, «separando l’immagine del testo dal testo stesso». Broodthaers parte dal presupposto che la palese differenza tra testo e immagine – il fatto che il primo presenti significati, mentre la seconda forme – costituisce, a ben vedere, un dualismo riduttivo, atto a ratificare significati e strutture di significanti attivi a livello sociale, che trasformano il linguaggio in qualcosa che ci parla, determina e identifica. Non era disposto ad accontentarsi della sterilità di tale dualismo. Occupandosi dell’opposizione forma-lettera scoprì l’opposizione forma-contenuto, trasponendo parole e immagini in nuovi rapporti, anzitutto scultorei, innescando un’oscillazione criticamente poetica con cui mettere in discussione, trasferire e sostituire significati consolidati e forme di creazione abituali, nella prospettiva di una poesia visiva basata su possibili e diversi spazi scultorei, come nel caso del dittico Charles Baudelaire peint – René Magritte écrit [Charles Baudelaire dipinge – René Magritte scrive]. In questo senso, un esempio particolarmente significativo è costituito da Signalisations industrielles [Segnaletiche industriali]. La tecnica delle targhe di plastica, spesso utilizzata negli anni sessanta per la realizzazione di segnali stradali e indicazioni, diventa per Broodthaers veicolo di composizioni autonome, al contempo testuali e visive. Lui stesso concepiva tali lavori come rébus, enigmi visivi in cui «l’aspetto immagine del testo e l’inverso» entrano in contrasto reciproco, inibendo la formazione di un significato unico, di un contenuto semantico univocamente individuato, sia dalla parte del testo-immagine, sia da quella dell’immaginetesto, creando così una libera “polemica” che dipana apertamente sotto gli occhi dell’osservatore tutte le proprie potenzialità semantiche. Nell’aprile del 1964 Broodthaers espone la scultura Pense-Bête insieme ad altri oggetti creati di recente in occasione della sua prima personale presso la galleria Saint-Laurent di Bruxelles. In un pieghevole che fungeva da invito l’autore illustra i motivi del suo ingresso nel mondo dell’arte figurativa, rendendo pubblici anche gli accordi presi con il gallerista (su questo aspetto si veda il contributo di Bernard Marcadé nel presente volume). Già con questo invito alla sua prima mostra Broodthaers delinea dunque la sua idea di arte: un’arte che, attraverso un lavoro di demistificazione, è tutta ancora da conquistare. A tale proposito, era fondamentale per lui che i suoi lavori «contenessero a livello dell’opera […] la negazione della situazione in cui si trovano le opere».

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Agli anni immediatamente successivi risalgono le sculture che hanno caratterizzato l’immagine di Broodthaers sulla scena pubblica dell’arte: si tratta di oggetti in cui vengono presentate connessioni e sistemi di connessione tra gusci d’uovo, molluschi, carbone ecc. e i loro rispettivi supporti (una base di legno, una sedia, una pentola, un badile ecc.): «In effetti, attraverso banali oggetti quotidiani ho cercato di ripristinare una connessione tra tali oggetti e la loro immagine, accorpando questa doppia idea di immagine-oggetto, ovvero di spazio piano e di volume, in una stessa entità». Broodthaers usa i suoi oggetti come fossero parole, come involucri delle stesse, continuando a sviluppare così, per mezzo di immagini di oggetti e oggetti-immagine, il suo atteggiamento fondamentalmente poetico. Utilizza dunque gli interstizi scultorei ottenuti come “parole zero” (mots zéro), inscenando con essi «l’incontro di funzioni differenti che rinviano allo stesso mondo: il tavolo e l’uovo, la cozza e la pentola al tavolo e all’arte, alla cozza e al pollo». Un altro punto di partenza per questa operazione è il confronto con il linguaggio figurativo di René Magritte: «In Magritte vi è una contraddizione tra la parola dipinta e l’oggetto dipinto, una sovversione del segno linguistico e di quello pittorico a vantaggio di una restrizione della nozione di soggetto». Broodthaers sviluppa ulteriormente quest’idea di sovversione del segno liberando l’opera di Magritte dalla sua interpretazione in chiave surrealista. Già con i suoi primi oggetti, ma soprattutto nei suoi spazi, egli mette in scena sorprendenti variazioni del triangolo immagine-oggetto-scrittura, con cui riesce a rappresentare, simulare, destabilizzare e spostare le relazioni e le opposizioni esistenti tra sistemi segnici che veicolano la realtà e sistemi segnici che la creano, ma anche i legami e le opposizioni che sussistono tra di essi. I gusci d’uovo e le cozze sono forme del vuoto, ma anche immagini di una forma vuota; esse rinviano a un’arte meramente autoreferenziale e al suo problema forma-contenuto. Broodthaers presenta la forma pura nei termini di una forma del vuoto, tralasciando tutto ciò che non sia il suo puro supplemento materiale. In quegli involucri vuoti si concretizza la «deviazione aggiunta dal materiale della rappresentazione» come oggetto-immagine delle illusioni di autonomia proprie dell’arte moderna, un oggetto-immagine che vuole essere critico, pur riproponendo insistentemente se stesso nella propria autoreferenzialità. Broodthaers traduce la poetica del puro spazio vuoto di Mallarmé – in un’epoca, come la nostra, dominata dalla pura estetica della merce – nei termini di una poetica della sovversione. Per questo ha usato alcuni dei suoi lavori come «oggetti pedagogici», al fine di «svelare il segreto dell’arte» e di «scardinare la falsificazione intrinseca alla cultura». Sin dall’inizio degli anni sessanta era chiaro a Broodthaers come l’immanenza dello spettacolo avesse ormai assunto le dimensioni di una totalità, rispetto alla quale gli stereotipi della sovversione e le convenzioni della distruzione non potevano più essere adeguati. Nonostante ciò e proprio per questo egli mise in gioco la sua esistenza per inseguire la possibilità di una forma di autenticità artistica, che lui riconosceva né più né meno che come una necessità sentita in prima persona. L’esperienza secondo cui ogni gesto di deviazione rischia di rovesciarsi in omologazione e la consapevolezza che, per un fatale meccanismo, un atto sovversivo o di opposizione finisce con il riprodurre esattamente ciò che voleva contestare, sono le premesse della sua

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­re-invenzione dell’arte. Broodthaers lavora nell’idea che, dal momento della sua ricezione e inserimento nel circuito dell’arte, l’attività artistica costituisca il «massimo dell’inautenticità», al quale egli risponde con un’arte intesa come «autentica forma di messa in discussione dell’arte». A chi gli chiedeva se credesse alla sincerità di questa messa in discussione, rispose: «Certamente credo alla sincerità di queste intenzioni, come credo alla sincerità delle mie intenzioni, ma è più saggio prevedere che noi stessi agiremo da capitalisti, insomma, che in quanto collezionisti e artisti o ispiratori di un nuovo tipo di galleria, saremo sopraffatti dalle strutture profonde del sistema e che necessariamente ne riprodurremo la struttura capitalistica». «Né pittore né violinista», Marcel Broodthaers ha creato a suo uso una serie di strumenti «per comprendere la moda nell’arte», seguirla e tentarne infine una definizione. Così ritrovò, tra l’altro, la sua struttura, l’eterno ritorno del nuovo, entro cui sentiva che la propria prassi poetica era «colpevole nell’“Arte come linguaggio” e innocente nel “linguaggio come Arte”». Secondo Broodthaers è l’ambiguità che nasce da una libera assunzione di responsabilità e da un atteggiamento di incoscienza etica a costituire la natura dell’arte. Broodthaers conosceva gli scritti di Jacques Lacan. I testi di quest’ultimo sullo stadio dello specchio come processo di formazione della funzione dell’Io, insieme a quelli sulla strutturazione linguistica dell’inconscio, sull’apparenza e la verità nel triangolo del Simbolico, del Reale e dell’Immaginario, erano vicine alle riflessioni dell’artista. Li intendeva come l’applicazione del linguaggio di Mallarmé volto a «circoscrivere una realtà di ordine psicoanalitico, di ordine filosofico». Questa interpretazione di Lacan è inscritta in molti lavori di Broodthaers, per esempio nelle Ardoises Magiques [Lavagne magiche]: la lavagna magica firmata dall’artista è il simbolo del rispecchiamento narcisistico dell’Io artistico borghese nel nome del padre, un Io che a stento riesce a fingere di ignorare che la sua singolarità non è altro che un autoinganno istituzionalizzato. Creare situazioni che aprono spazi liberi, tra testo e immagine, oggetto e spazio, arte e istituzioni: in questo risiede per Broodthaers una parte essenziale del lavoro artistico. La domanda «se l’arte esista al di fuori della negazione» rimane sempre aperta, cioè essa deve essere riproposta in maniera nuova a ogni elaborazione artistica, nella prospettiva di una responsabilità della forma, ovvero di un’arte che anticipi risposte a quella domanda. Di questo daremo ora due esempi, ben rappresentativi, delle situazioni poetico-artistiche di Marcel Broodthaers, due conquiste dello spazio, un libro e una mostra.

Magia – Arte e Politica Afferrare l’attualità del passato impadronendosi di un ricordo, per esempio in un momento di pericolo, era ciò che Walter Benjamin definiva un «balzo di tigre verso il passato»; in esso è racchiusa la possibilità di maturare, seguendone la traccia, una nuova consapevolezza e, dinnanzi all’arte visiva, una consapevolezza della percezione e un’intelligenza delle emozioni che potrebbero giovare oggi non soltanto all’arte. Il libro Magie – Art et Politique [Magia – Arte e Politica], che Marcel Broodthaers pubblica nel 1973, ha in sé questo

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momento di attualità. Un piccolo libro in cui le aporie dell’arte nel suo rapporto con la politica hanno trovato una forma in grado non soltanto di articolarle ma anche di pararne i colpi. Il 25 settembre 1972 Broodthaers scrive una lettera a Joseph Beuys, che verrà pubblicata il 3 ottobre dello stesso anno nella pagina culturale della Rheinische Post di Düsseldorf con il titolo “Politica della magia?” (sottotitolo: “Lettera aperta di Broodthaers a Beuys: ‘La nostra relazione si è fatta difficile’”). Il 3 febbraio 1973 esce a Parigi il libro Magia – Arte e Politica. Nella prima parte, “Politica”, accanto a quella pagina di giornale era riportata anche una traduzione in francese, tedesco e inglese della lettera. Broodthaers non si concesse l’artificio di una lettera aperta diretta, ma inviò a Beuys frammenti di una missiva scritta da Jacques Offenbach a Richard Wagner, ritrovata – come lui afferma – in una soffitta di Colonia. La lettera che invia è scritta da lui personalmente a mano, a «garanzia della sua autenticità». Nella critica mossa da Offenbach all’atteggiamento di Wagner circa il rapporto tra arte e politica si riflette la critica di Broodthaers nei confronti di Beuys, elegantemente sublimata in forma letteraria. Broodthaers rifiuta una definizione di arte che includa quella di politica e che ammetta l’esistenza di una forma di magia politica derivata dall’arte in grado di modificare la sfera sociale, secondo il «concetto ampliato di arte» formulato da Beuys. In essa Broodthaers riscontra una confusione tra arte e politica già presente nei drammi musicali di Richard Wagner. Sente, invece, una maggiore affinità con la figura di Jacques Offenbach, il musicista nato a Colonia, creatore di sofisticate opere e operette caratterizzate da una virtuosa frivolezza e da una superficialità che agisce nel profondo. Ma Broodthaers ravvisa anche una consonanza con la modestia di un certo Hans H., uno specialista della composizione per flauto, bandito dalla corte bavarese dal re Ludovico ii in persona, la cui preferenza andava alle opere di Wagner, in particolare alla loro peculiare visione mistica. In questo legame Broodthaers ritrova quella fatale struttura che accomuna tutti i tentativi di appaiare arte e politica nell’unità di una pratica di riforma sociale in grado di abbracciare ogni forma di creazione. Broodthaers ritrova, in altre parole, quello stesso meccanismo di riproduzione di ciò a cui ci si oppone, la servitù nei confronti di un potere che si credeva di poter modificare e migliorare per mezzo di un presunto effetto di magia, ma che in realtà da quell’effetto risulta, per quanto ingenuamente e perlopiù controvoglia, soltanto diversamente decorato e abbellito. La seconda parte del libro, “Arte”, propone una serie di definizioni, restituite in forma poetica, di quattro “tipiche” pratiche riferite a due forme di esistenza in qualche modo apparentate, se non addirittura complementari: “essere Narciso” ed “essere artista”. Broodthaers rende evidente la complementarità di narcisismo ed esistenza artistica scegliendo una strutturazione lessicale che, in analogia con il Dizionario dei luoghi comuni di Flaubert, produce un supplemento di contro-significazioni, decostruite poi per mezzo di raffinate immagini linguistiche. Tale immagine linguistica dai risvolti sociopoetici è accompagnata da una serie di lavagne magiche (ardoises magiques), il cui meccanismo viene esplicitato al di sotto della raffigurazione: «La lavagna magica si basa sul

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seguente principio: ogni iscrizione può essere cancellata semplicemente estraendo la tavola. Tuttavia essa rimane invisibilmente incisa su una pellicola all’interno del congegno». Broodthaers ha firmato le lavagne magiche con le sue iniziali, le quali, da un’immagine all’altra, sembrano spostarsi sempre più verso il basso. Nell’ultima tavola la firma è sparita dalla superficie visibile, ma è impercettibilmente presente sulla pellicola sottostante. In una nota alla sua mostra “La Signature de l’artiste” [La firma dell’artista], nella quale erano principalmente esposte delle variazioni di lavagne magiche firmate, Broodthaers ricorda come Sigmund Freud avesse usato la stessa immagine per spiegare il “meccanismo coscienza/subconscio”: «La firma dell’autore – che si tratti di un artista, di un cineasta o di un poeta – mi pare sia l’inizio di quel sistema di menzogne che tutti i poeti, tutti gli artisti cercano di erigere per difendersi, non so bene da cosa». Il libro Magia – Arte e Politica è una forma autonoma che eccede queste possibilità semantiche. Le formulazioni di Broodthaers si collocano, come è stato detto, al margine delle cose, sulla linea di confine in cui le arti figurative e la poesia “si fondono” le une nell’altra. Come in quasi tutti i suoi lavori, anche in questo caso Broodthaers contesta alternativamente la presentazione di significati (testo) e la presentazione di forme (immagine). Immagini e parole sperimentano qui uno scambio costante, un reciproco effetto di dissolvenza. Broodthaers fa oscillare la dimensione del testo verso quella dell’immagine e la dimensione dell’immagine verso quella del testo. Parole e immagini, forme e significati si distinguono quasi «come corpo e anima, ciascuno segna il confine dell’altro, l’orizzonte della sua interpretazione», come dice Jean-Luc Nancy. Gli spazi aperti da Broodthaers ricordano immagini di luoghi vuoti, di aree vuote nella struttura dei significanti. Egli mette in scena l’ermeneutica di un eloquente silenzio, coinvolgendo parole e forme, dicibile e indicibile, visibile e invisibile, in un movimento che dissolve i confini, secondo distinte oscillazioni che sfociano nella precisa individuazione di un’eccezione, di una formulazione non-identica. Broodthaers la definisce un’«arte della dispersione», nella «speranza di un nuovo alfabeto» e in vista della costruzione di una forma astratta: «La fuoriuscita delle cozze dalla pentola non si attiene alle leggi dell’ebollizione. Segue le regole dell’artificio artistico per sfociare nella costruzione di una forma astratta». Nel caso di Magia – Arte e Politica un libro diventa una forma astratta. La trascrizione di un pensiero criticamente analitico, così come la presenza di evidenze e immagini che si oppongono alla produzione di senso che esse sollecitano assumono la forma di costruzioni autonome e indipendenti, l’astrazione di una devianza dalla struttura dei significanti, per esempio per mezzo di composizioni tratte da «deviazion(i) aggiunte dal materiale della rappresentazione». Ciò accade nella forma di questo libro, in cui i paradossi dell’arte politica e della politica dell’arte non trovano una ricomposizione armonica o un abbellimento, ma vengono esposti nella loro inconciliabilità, un libro in cui i contenuti e il dubbio carattere di un’arte intesa come politica della magia (parte 1), ma anche aspetti costitutivi di una politica propria dell’arte (parte 2), non solo si traducono in parole e immagini, ma vengono anche superati poeticamente. L’astrazione di Marcel Broodthaers è un’“assenza necessaria”. Nel caso specifico, un’astrazione nella responsabile forma di un libro che racchiude in sé la sostanza dei suoi contenuti senza illustrarli o rappresentarli. Magia – Arte e Politica è una forma non indifferente di trascendenza immanente, nella quale si inscrivono a un tempo le linee di fuga di una negazione scettica, critica nei confronti dell’arte e delle istituzioni, e i tratti di un’insistente affermazione non-affermativa.

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L’esprit Décor Broodthaers rifiuta ogni legame immediato tra arte e messaggio, in particolare «quando tale messaggio è di natura politica». Ma proprio in quanto consapevole dell’essenziale indifferenza dell’arte nei confronti della vita reale, egli si è sempre mantenuto su una posizione di estrema responsabilità. Per questo, anche in occasione della sua ultima mostra a Parigi, “L’Angélus de Daumier”, ha insistito sulla necessità «di manifestare una scelta». Gli spazi che Broodthaers ha allestito alla fine della sua vita con il nome di Décor sono pervasi da un’autonoma atmosfera di responsabilità artistica. Nel giugno del 1975, sei mesi prima della sua morte, realizzò su invito di Barry Barkers presso l’ ica di Londra “Décor. A Conquest by Marcel Broodthaers” [Décor. Una conquista di Marcel Broodthaers]. Sia la connotazione specifica legata alla situazione, sia il metodo della sua costruzione presentano tratti, diretti ed evidenti, che risultano quasi atipici nel panorama della sua produzione. L’esplicita menzione del tema, «il rapporto tra guerra e confort», conferma questa impressione. A uno sguardo scevro da pregiudizi risulterà inoltre evidente quanto egli abbia sviluppato ed estremizzato qui la sua idea di arte. Décor non contiene opere realizzate da Broodthaers, ma soltanto oggetti presi in prestito – da lui o, per suo incarico, dal curatore della mostra –, prevalentemente a Londra. Con questi elementi scelti Broodthaers ha messo in scena incontri tra mobili e armi, allestendo due sale che articolano il tema secondo una logica di parziale simmetria. In vista di ciò ha lavorato sulle possibilità semantiche di oggetti che raccontano storie specifiche sui rapporti tra arte e confort. Décor sviluppa così uno spazio semantico in cui vengono suggerite connessioni e linee di fuga circa gli intrecci tra potere, decorazione, violenza, cultura, arte e guerra. Nella Salle xixe Siècle [Sala xix secolo] si trovano due cannoni in stile Waterloo, un vecchio revolver, una palla di cannone a forma di palla di fiori, ma anche palme, candelabri di epoca napoleonica, sedie di stile eduardiano, un grosso serpente in posizione d’attacco, due botti di acquavite sopra le quali è appesa una fotografia tratta dal western Heaven with a Gun [Il pistolero di Dio], infine un tavolo da gioco, su cui un granchio e un astice giocano a carte. Gli oggetti sono collocati su piedistalli oppure su rettangolari tappeti di erba artificiale. Il tutto è illuminato da un riflettore bianco, rosso e verde. Lo scenario dà la sensazione di trovarsi sulla scena abbandonata di un film, nell’atmosfera di una sinistra quiete all’interno di una natura morta della storia – un set cinematografico permeato dai segni di una cultura della guerra e dell’arredamento appartenenti al passato, ma ancora gravidi di conseguenze per il nostro presente. La Salle xxe Siècle [Sala xx secolo], illuminata da un riflettore rosso, risulta – considerati i tempi – più incisiva, più pragmatica, più banale, più fredda, meno infiorettata, ovvero più moderna. Vi si trovano dunque pistole più recenti, revolver, una bomba a mano, mitragliatrici, le istruzioni illustrate per l’uso di una pistola Lüger, insieme a un set di mobili da giardino, ombrellone incluso – uno scenario che fa pensare a certe moderne tecnologie di guerra azionate a distanza da comode poltrone da esterno. Ma tutte le armi sono finte. E a far da pendant rispetto a Salle

xixe

Siècle i pezzi di un puzzle lasciato a metà sul tavolo da giardino che raffigura una delle

battaglie storicamente più importanti del xix secolo, la battaglia di Waterloo, secondo un dipinto di W. Heath.

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Décor è tuttavia ben più di un’installazione. Broodthaers rifiutava questa definizione. Lo riportava troppo all’idea di integrazione e di adattamento rispetto agli ambienti e alle istituzioni circostanti. Il suo lavoro non si integrava, non si adattava e non era accomodante. Al contrario, occupava uno spazio attraverso una forma indipendente, in grado di prendere criticamente distanza dalla situazione in cui si veniva a trovare. Per questo ha usato Décor, che in francese può significare sia decorazione sia set cinematografico, come ambientazione del suo film The Battle of Waterloo [La battaglia di Waterloo], girato alla fine della mostra all’ ica. Come ha detto Michael Comptons: «Questo film è composto da una serie di sequenze che alternano immagini degli interni della mostra a immagini esterne di Trooping the Colour, cerimonia che ha luogo ogni anno di fronte all’ ica. Le scene dell’interno includono le due stanze e i dettagli di Décor, ma anche le mani di un’attrice che – dapprima in maniera esitante, poi sempre più rapidamente – disfa un puzzle, completo in ogni suo pezzo, che rappresenta la battaglia di Waterloo. Le immagini sono accompagnate dai suoni di una parata e di bande militari, alternandosi e sovrapponendosi all’ouverture del Tristano e Isotta di Richard Wagner». Il film è una conseguenza del fine per cui fu creato ma lo scopo stesso di Décor, da un lato inteso da Broodthaers come conquista (conquest) di uno spazio, dall’altro usato come vero e proprio set cinematografico. Broodthaers parla di una “intenzione Décor”, ovvero della mirata volontà di restituire l’oggetto d’arte come oggetto decorativo dotato di una funzione reale per qualcos’altro. Dare forma a sale in una sorta di “esprit Décor” non significava per lui imporre oggetti come oggetti d’arte autoreferenziali che acquistano il loro carattere artistico attraverso la mancanza di una funzione, bensì conferire loro una funzione reale: «Vale a dire, restituire all’oggetto o alla pittura una funzione reale. Non essendo il décor un fine in sé». Per questo “Décor. A Conquest by Marcel Broodthaers” e il film The Battle of Waterloo sono funzionalmente connessi l’uno all’altro, moltiplicando le associazioni e i riferimenti tra il film e la mostra. Anche in questo senso “Décor” non è propriamente una mostra, ma la conquista di un Institute of Contemporary Arts, una riflessione sulla sua storia, funzione e contesto e un suo superamento in vista di possibili spazi liberi non-identici. In questo Broodthaers ravvisava possibilità di cambiamento: «Improvvisamente è diventato reale, laddove è questione di spazio e di conquista». Per Broodthaers «lo spazio è l’elemento fondamentale della costruzione artistica», in quanto «forma del linguaggio o forma materiale». In questa circostanza parla di «creare una situazione», della «situazione di una finzione». Il titolo di un libro che terminò poco prima di morire esprime questo concetto con serio umorismo: La Conquête de l’espace. Atlas à l’usage des artistes et des militaires [La conquista dello spazio. Atlante a uso degli artisti e dei militari].

Un capriccio Marcel Broodthaers morì a Colonia nel 1976, il giorno del suo cinquantaduesimo compleanno. Ci ha lasciato una produzione straordinariamente variegata fatta di film, libri, fotografie, sculture, oggetti, disegni, stampe,

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ephemera, dimensioni testuali e visive che avvolgono lo spazio, ma anche una produzione letteraria che include testi teorici, poetici e documentari. «L’artista si riserva sempre di estrarre una carta che disturba il gioco» aveva osservato Broodthaers nella sua ultima intervista. Questa stessa osservazione era una di quelle carte, mentre un’altra, tratta dalla stessa intervista, diceva: «Per me l’arte è un capriccio. Cosa che non esclude che si possa condurre una lettura scientifica dell’arte». Sì, l’arte di Broodthaers è anche un capriccio, un capriccio del buonumore, non da ultimo perché vuole essere una gaia scienza, i cui “risultati” creano situazioni insieme analitiche, poetiche, polemiche, visive e plastiche. Non si potrebbe forse dire che questo capriccio, nato dalla pienezza di un umorismo esistenziale, è un sinonimo di genio? Camus aveva annotato nel suo diario che il genio è «salute, stile superiore, buon umore, ma all’apice di una lacerazione». Anche Marcel Broodthaers avrebbe sottoscritto, poiché non lo interessavano tanto le motivazioni narcisistiche dell’artista, quanto i contenuti, le strutture, il linguaggio, la cosa stessa: «La motivazione di ogni artista è propriamente il narcisismo, forse anche la “volontà di potenza” (Nietzsche). Per me invece la motivazione è meno interessante del tema stesso». Di fronte al fatto che nella nostra società ogni manifestazione di resistenza è benaccolta come una decorazione, Broodthaers fece del «deserto che domina la nostra società, il deserto del tempo libero, il deserto del mondo dell’arte» il tema sempre rinnovato delle sue situazioni poetico-artistiche, dei suoi interstizi fatti di poèmeimage, delle sue decostruzioni di veri deserti, vicino in questo a Nietzsche, che diceva: «Il deserto cresce: guai a colui che alberga deserti…».** Broodthaers ha inaugurato nuove situazioni di parole e immagini, luoghi atopici in contesti istituzionali, spazializzazioni che rappresentano ancora un potenziale di disturbo per l’istituzione arte. Le sue conquiste dello spazio sono meravigliose invenzioni di spazio, insperate reinvenzioni di un’“arte intesa come produzione”, “assenze necessarie” che suggeriscono nuove possibilità di reali situazioni artistiche: … RIEN … N’AURA EU LIEU … QUE LE LIEU … EXCEPTÉ … PEUT-ÊTRE … UNE CONSTELLATION … «…nulla… avrà avuto luogo… se non il luogo… fatta eccezione… forse… per una costellazione…» Stéphane Mallarmé

Wilfried Dickhoff

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Le citazioni di cui non si è indicato l’autore sono di Marcel Broodthaers. F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso e poesie postume (anno 1888), trad. it. di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1982, p. 23.

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L’Angélus de Daumier [L’Angelus di Daumier], pagina interna del catalogo della mostra, Parigi, 1975

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Pour un Haut Devenir du Comportement Artistique [Per un alto divenire del comportamento artistico], 1964

Carta avvitata nel gesso e gusci d’uovo su tavola 30 × 70 × 15 cm

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Le Problème noir en Belgique [Il problema nero in Belgio], 1963-64

Giornale, uova dipinte e gesso su legno 50 × 41 × 12 cm


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La Grand-Mère [La nonna], 1964 Uova, cozza, bicchiere, pompa della bici, spazzola, biglia rosa, canapa e porcellana L’insieme è rappreso nel gesso all’interno di una cornice ovale 80 × 40 × 15 cm

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Huître malade d’une perle [Ostrica malata di una perla], 1963-68 Biglia rosa, perle e scatole di plastica integrate nel gesso, scritta “Xème” con il gesso aggiunta come sottotitolo intorno al 1968 sul pannello dipinto 70 × 70 × 12 cm

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Rue Van Elewyck, Ixelles, 1965 Fotografia Š Maria Gilissen

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Chaudron de frites [Calderone di patatine], 1965

Vernice e patatine di legno su tela 140 Ă— 100 cm (circa)

Chaudron de frites [Calderone di patatine], 1965

Carboncino e patatine di legno su tela 100 Ă— 140 cm (circa)

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Rue Van Elewyck, Ixelles, 1965 Fotografia Š Maria Gilissen

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Ovale avec œufs peints numérotés et petite assiette [Ovale con uova dipinte numerate e piccolo piatto], 1966

Vernice e gusci d’uovo su tavola 81 × 54 ×  15 cm

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Bêche [Vanga], 1965 Legno, ferro, carta dipinta, vernice e pennarello 115 × 19,5 × 5 cm

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Langage des Fleurs [Linguaggio dei Fiori], 1965 Vocali dipinte su tavola e tulipano di plastica 5 Ă— 30 cm Ă˜

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Frites [Patatine], 1965 Patatine tagliate dal legno, resina e vernice dentro un portaverdura in ceramica bianca

eeee… s, 1967

21 × 24,5 cm Ø

121 × 101,5 cm

Stampa fotografica su tela e vernice

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Fémur d’homme belge [Femore d’uomo belga], 1964-65

Femore dipinto 8 × 47 × 10 cm

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Crediti fotografici

Van den Bempt Isy Brachot Marcel Broodthaers Marie-Puck Broodthaers Balthasar Burkhard Cathy Carver Wolfgang von Contzen, Museum Abteiberg Mönchengladbach Philippe De Gobert Yves Gevaert Maria Gilissen Benjamin Katz Dirk Pauwels, s.m.a.k., Stedelijk Museum voor Actuele Kunst, Gand Angelika Platen Joaquin Romero Frias Lothar Schnepf The Museum of Modern Art, New York Georges Thiry

Colophon Ideazione  Marie-Puck Broodthaers, Basilea Coordinamento e produzione  Jan Martens, Marot s.a., Bruxelles Progetto grafico  Thomas Defays, tooobe, Bruxelles Traduzione  dal francese: Maria Elena Minuto, Milano; dal tedesco: Guglielmo Gabbiadini, Milano Redazione  Johan & Levi Editore, Milano Impaginazione  Studiopaola, Milano Fotolito  Thierry Julliand, T’ink Studio, Bruxelles Stampa e rilegatura  New Goff n.v., Ghent Carta  Perigord, Condat Finito di stampare nel mese di luglio 2013 ©Estate Marcel Broodthaers © 2013 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com isbn

978-88-6010-107-5


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