Marcel Duchamp. La vita a credito

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«[…] un silenzio diventato emblematico e simbolico ci viene ben descritto dalla biografia di Marcadé che illustra una vita da artista fuori […] da ogni orgoglio e presunzione per aver anticipato nel xx secolo tanta arte in Europa e in America.» Dalla prefazione di Achille Bonito Oliva

Marcel Duchamp. La vita a credito

Foto di copertina: Marcel Duchamp, 1952 © Eliot Elisofon/Time & Life Pictures/Getty Images

Bernard Marcadé

Bernard Marcadé, critico d’arte e curatore, è professore di Estetica e di Storia dell’arte all’École Nationale Supérieure d’Arts de Paris Cergy. È stato co-curatore di “Féminin-Masculin le Sexe de l’Art”, al Centre Georges Pompidou nel 1995, e ha scritto numerosi saggi sull’arte contemporanea.

Bernard Marcadé

Marcel Duchamp La vita a credito Prefazione di Achille Bonito Oliva

Dalla sua scomparsa nel 1968, l’influenza di Marcel Duchamp, «l’uomo più intelligente del xx secolo» nelle parole di André Breton, non ha smesso di imporsi nel paesaggio dell’arte contemporanea. Dal Futurismo al Cubismo, dal Dadaismo al Surrealismo, la sua arte si intreccia alle grandi avventure estetiche del Novecento senza mai ridursi a nessuna di esse. Se Picasso insiste nel propugnare la figura dell’artista demiurgo, Duchamp, grazie all’invenzione del readymade, incarna invece il modello dell’artista contemporaneo ed è riconosciuto a partire dagli anni sessanta come fonte incontestabile di ispirazione da parte delle giovani generazioni di artisti. Molto è stato scritto sulla sua opera, ma assai di meno sulla sua vita. Una vita che Duchamp costruisce al di fuori delle categorie correnti, non già come artista o anarchico ma, per riprendere un suo neologismo, come “anartista”. Eleganza distaccata, libertà di indifferenza, compenetrazione dei contrari – cui si aggiungono una costante rivendicazione della pigrizia e un disprezzo fisiologico per il denaro – diventano in lui gli strumenti originali di un modo inedito di porsi di fronte al mondo e alle cose. «Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare.» Duchamp si è pronunciato spesso sulla propria vita con caustiche dichiarazioni che nel loro insieme delineano una personale economia di vita (ridurre i bisogni per essere davvero liberi) e una vera e propria arte di vivere.

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La più bella opera di Marcel Duchamp, secondo Henri-Pierre Roché, era l’impiego del suo tempo. Da tale ipotesi prende le mosse il libro di Bernard Marcadé, dalla forte convinzione cioè che l’esame circostanziato della vita di Duchamp costituisca una via d’accesso privilegiata alla comprensione della sua arte. Definendo il readymade una sorta di appuntamento, egli stesso ci lascia intuire l’importanza degli eventi della vita quotidiana nell’ideazione delle proprie opere. Gli elementi biografici in gioco – incontri, amicizie, segreti, corrispondenze, relazioni amorose – non rappresentano soltanto il contorno aneddotico e marginale dell’opera, ma ne costituiscono, in quanto “biografemi”, le componenti fondamentali.

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Bernard MarcadĂŠ

Marcel Duchamp La vita a credito

Traduzione di Ximena RodrĂ­guez



5 Un nudo può scendere le scale?

«Sa, nel 1912 era giudicato abbastanza sconveniente che i quadri non si intitolassero Paesaggio, Natura morta, Ritratto o Numero tal dei tali.» M.D.1

Verso la fine del 1911, Duchamp realizza un piccolo olio su carta: si tratta della prima versione del Nudo che scende le scale, nella quale «si possono vedere diverse parti anatomiche del nudo ripetute in molteplici posizioni statiche del corpo in movimento».2 A differenza del Giovane triste in treno, il dipinto riproduce una figura in movimento all’interno di un contesto statico. La versione grande su tela (Nudo che scende le scale, n. 2), che Duchamp dipingerà fra la metà di dicembre del 1911 e la metà di gennaio del 1912, sarà [...] la convergenza nel mio spirito di diversi interessi, tra cui il cinema, ancora agli inizi, e la separazione delle posizioni statiche nelle cronofotografie di Marey in Francia, di Eakins e Muybridge in America. Dipinto com’è a severe tinte legno, il nudo anatomico non esiste, o almeno non può essere visto, perché rinunciai completamente all’apparenza naturalista di un nudo, conservando solo una ventina di posizioni statiche diverse nell’atto successivo della discesa.3

Al di là dei lavori di Marey, il dipinto rivela l’influenza fondamentale delle sperimentazioni pittoriche di Kupka, il vicino dei fratelli Duchamp a Puteaux. Il pittore ceco ha iniziato da tempo a interessarsi al prassinoscopio inventato nel 1876 da Émile Reynaud «per intrattenere i suoi figli». La macchina era composta da un cilindro di ferro all’interno del quale veniva inserita una striscia di disegni raffiguranti le dodici fasi successive di un mo-

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vimento ciclico. Quando il cilindro iniziava a ruotare, i disegni si animavano dopo essersi riflessi in una serie di specchi situati al centro dell’apparecchio, il quale fungeva anche da asse di rotazione della striscia di disegni.4

Verso il 1901-1902, all’epoca in cui vive ancora in rue Caulaincourt, Kupka realizza I cavalieri, un disegno direttamente ispirato all’esperienza del prassinoscopio.5 A partire da quel momento, le sue opere iniziano a rivelare un forte interesse per le questioni del movimento e della manifestazione di una realtà invisibile. Esperto di pratiche medianiche e teosofiche, Kupka si interessa da vicino ai raggi x, al pari di Jacques Bon, il cognato di Duchamp-Villon, e del poeta Alexandre Mercereau, lettori assidui della rivista spiritualista e scientifica La Vie mystérieuse.6 Nel febbraio del 1912, la galleria Bernheim-Jeune diretta da Félix Fénéon inaugura la prima mostra parigina dei futuristi. Andai al vernissage, un grande evento parigino: venne così tanta gente che

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non si riuscivano a vedere i quadri. Apollinaire e i cubisti discutevano con Severini e Boccioni senza rendersi conto della vera portata dell’idea futurista, in grado di abbracciare ogni sorta di attività, compresa la politica, al contrario del Cubismo, che si interessava solo alle nuove tecniche pittoriche.7

Sull’Intransigeant, Apollinaire descrive l’originalità e i difetti di questa pittura: «[I pittori futuristi italiani] vogliono dipingere le forme in movimento, ciò che è perfettamente legittimo, e condividono con la maggior parte dei pittori pompiers la mania di dipingere gli stati d’animo».8 Quando visita la mostra, Duchamp non ha ancora letto il manifesto futurista del poeta Marinetti, pubblicato tre anni prima da Le Figaro. Pur attratto dal Cane al guinzaglio di Balla (la cui presenza alla Bernheim-Jeune non manca tuttavia di suscitare polemiche),9 l’artista intuisce ben presto ciò che, al di là delle apparenze, distingue il suo Nudo dalle concezioni futuriste propriamente dette: «Mi sentivo più cubista che futurista in questa astrazione di un nudo che scende le scale: l’aspetto generale e il cromatismo brunastro del quadro sono nettamente cubisti, anche se il trattamento del movimento ha delle connotazioni futuriste».10 Sebbene Duchamp si preoccupi più della «scomposizione delle forme» che non della «suggestione del movimento»,11 la contemporaneità (o forse sarebbe più appropriato dire la simultaneità?) dei due percorsi resta comunque sconvolgente: «Pura coincidenza oppure l’idea era nell’aria? Non so dirlo. La cosa certa è che iniziai questa tela con


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la ben determinata intenzione di fare del movimento uno dei suoi elementi preminenti».12 Duchamp vede nel Futurismo una prosecuzione del realismo impressionista; in questo senso, le sfide poste dal nuovo movimento artistico gli sembrano destinate a fallire. Il tentativo è fallito perché era la continuazione dell’idea impressionista del movimento. Nel mio caso, invece, […] era un po’ diverso. Io mi rendevo perfettamente conto che non era possibile restituire l’illusione del movimento in un quadro statico. E così mi sono accontentato di registrare uno stato di cose, di registrare lo stato del movimento, se vogliamo, come fa il cinema, ma senza svolgerlo come nei film. Di sovrapporli l’uno all’altro.13

Duchamp insisterà più volte sull’importanza delle sperimentazioni del fisiologo Étienne-Jules Marey nell’ideazione del suo Nudo. «Ricordo perfettamente di essere stato affascinato dai cronogrammi o cronofotografie, come venivano chiamate all’epoca sull’Illustration, il settimanale presente in tutti i salotti delle buone famiglie francesi. Il movimento dello schermitore, del cavallo al galoppo o dell’uomo che cammina o che salta veniva scomposto in centinaia di piani successivi, rivelando la posizione astratta del soggetto a ogni decimo di secondo.»14 Come riferisce egli stesso, i cubisti di Puteaux associano quelle sperimentazioni alla quarta dimensione: «Sostanzialmente, le cronofotografie sfociavano nella conclusione un po’ naïve che la quarta dimensione potesse essere “l’allungamento” dell’oggetto in quelle foto stroboscopiche». Questa considerazione lo induce all’ennesimo commento ironico sulla confusione e l’approssimazione dei suoi vecchi amici: Come fa notare l’astronomo Arthur Stanley Eddington 15 con una definizione non priva di umorismo, “Un individuo è un oggetto quadridimensionale dalla forma fortemente allungata”. Nel linguaggio ordinario diciamo: “Egli possiede un’estensione considerevole nel tempo e un’estensione insignificante nello spazio”. Nella definizione di Eddington, come nelle cronofotografie, l’estensione temporale è sempre distinta dalle dimensioni spaziali, il che fa sì, se così si può dire, che il tempo aumenti da solo. Ovviamente i cubisti non erano dei matematici; loro erano più interessati all’idea romantica della quarta dimensione che non alla sua precisa applicazione nei loro dipinti. Ciò che mi preme chiarire qui è che l’interpretazione naïve della quarta dimensione, concepita come l’aggiunta di una dimensione cronologica alle altre tre dimensioni spaziali già esistenti, è in totale disaccordo con le teorie geome-

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triche non euclidee altrettanto in voga all’epoca. Tutto ciò che riesco a capire di queste idee non euclidee è che la quarta dimensione, qualora venisse applicata al nostro mondo fisico, sarebbe una dimensione spaziale, non cronologica. Con ogni evidenza è possibile concepire un certo numero di quarte dimensioni fantasiose, come la temperatura, per esempio… Ma allora la temperatura costituirebbe anch’essa una dimensione spaziale. Fortunatamente per noi, nel 1912 queste questioni secondarie si riducevano sostanzialmente a voli dell’immaginazione; oggi, a cinquant’anni di distanza, possiamo vedere le opere futuriste e cubiste nella loro luce reale, vale a dire come delle espressioni artistiche determinate dai tempi.16

Sotto certi aspetti, con il suo Nudo, Duchamp spinge il Cubismo agli estremi. Apparentemente fedele alla tavolozza cubista («Conservavo in me molto del cubismo, almeno nell’armonia dei colori. Cose che avevo visto in Picasso e in Braque»),17 il quadro rivela infatti già la presenza di quella ricerca “non retinica” di cui l’artista inizia a intuire la necessità. 62

Venticinque anni dopo, alla domanda del pittore americano Daniel MacMorris: «Il Nudo è un dipinto?», Duchamp risponderà senza giri di parole: «No, è l’organizzazione dello spazio e del tempo attraverso l’espressione astratta del movimento».18 Qualche anno più tardi, nel Catalogue de la Société Anonyme, Katherine Dreier riporterà alcune conversazioni con M.D. a proposito di questo quadro, nel corso delle quali l’artista non fa che ribadire le sue posizioni: In questo quadro non si tratta di pittura, ma dell’organizzazione di elementi cinetici, di un’espressione del tempo e dello spazio attraverso la presentazione astratta del moto. Un quadro è necessariamente la presentazione di due o più colori sopra un piano. Ho volutamente ristretto il Nu [sic] ai colori del legno, in modo che la questione della pittura in sé non venisse posta. Ma se consideriamo il moto della forma nello spazio in un dato tempo, si entra nel regno della geometria e della matematica, come accade quando vogliamo costruire una macchina. Se intendo mostrare il decollo di un aereo, cerco di spiegare il suo movimento, non ne faccio una natura morta. Quando ebbi la visione del Nu, sentii che l’opera avrebbe spezzato per sempre le catene del naturalismo.19

L’intento di Duchamp, in effetti, è sempre di più quello di svincolarsi dalla «dittatura dell’occhio» di cui il Cubismo e il Futurismo sono ancora prigionieri.


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Ridurre, ridurre, ridurre era la mia ossessione – ma al tempo stesso il mio scopo era di volgermi all’interno, piuttosto che all’esterno. […] Il Futurismo era un Impressionismo del mondo meccanico. Era la diretta prosecuzione del movimento impressionista. Non mi interessava. Volevo allontanarmi dall’atto fisico della pittura. Inoltre per me il titolo era molto importante. Volli porre la pittura al servizio dei miei obiettivi, allontanandomi dalla “fisicità”. A mio avviso era stato Courbet, nel xix secolo, a porre l’accento sul lato fisico. Io mi interessavo alle idee – e non semplicemente ai prodotti visivi. Volevo rimettere la pittura al servizio della mente. E la mia pittura fu, beninteso, immediatamente considerata “intellettuale”, “letteraria”.20

Contrariamente alla prassi dell’epoca, il titolo del quadro è parte integrante dell’opera. E questo in senso letterale: esso, infatti, compare in lettere maiuscole nella zona inferiore del quadro. Sarà proprio il titolo, fra l’altro, a scatenare – per lo meno ufficialmente – lo scandalo. L’origine è il nudo stesso. Fare un nudo diverso dal nudo classico, disteso, in piedi, e metterlo in movimento. C’era, in questo, qualcosa di divertente, ma che non lo era affatto quando lo realizzai. Il movimento apparve come un argomento per spingermi a realizzarlo. Nel Nudo che scende le scale ho voluto creare un’immagine statica del movimento: il movimento è un’astrazione, una deduzione articolata all’interno del quadro senza essere tenuti a sapere se un personaggio reale scende o non scende una scala altrettanto reale. In fondo, il movimento è l’occhio dello spettatore che lo incorpora al quadro.21

Marcel Duchamp è già tutto qui, in questo modo così personale di spostare, di far scivolare le prospettive (dal quadro al titolo, dal dinamico allo statico, dal soggetto all’astrazione, dal movimento rappresentato allo spettatore ecc.), di dire al tempo stesso una cosa (buffa) e il suo contrario (non buffa). In questa logica, del resto, poco importa se il nudo che scende le scale («la vecchia idea del music-hall»)22 sia un uomo o una donna. Se per un verso dal quadro viene bandita ogni forma di naturalismo («Non c’era carne, ma solo un’anatomia semplificata, la parte superiore e la parte inferiore, la testa, le braccia e le gambe»),23 per un altro il titolo si staglia lì, ostentatamente, quasi a voler sfidare e provocare i futuristi che, alla fine del loro Manifesto, esigevano «per dieci anni la soppressione totale del nudo in pittura». Se per Balla, Boccioni, Carrà, Russolo e Severini il nudo è ritenuto altrettanto stucchevole e opprimente dell’adulterio in lettera-

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tura,24 i loro rivali cubisti non sembrano però da meno. Per ragioni oscure, il Nudo, presentato nel 1912 al Salon des Indépendants, viene rifiutato dal comitato di ammissione. Gleizes ha pregato i miei fratelli di convincermi a cambiare almeno il titolo, visto che, dopo averne discusso con Delaunay, Le Fauconnier e Metzinger, riteneva che non fosse cubista nel senso in cui lo intendevano loro – che non fosse cioè abbastanza in linea con il Cubismo per indurli a prendere una decisione in merito.

La scena sfiora il ridicolo. Alla vigilia dell’apertura del Salon, Villon e Duchamp-Villon, entrambi in abito scuro, fanno visita al fratello a Neuilly per comunicargli la posizione del comitato: «I cubisti pensano che non sia per niente in linea». La linea, nel caso specifico, è enunciata in Du cubisme, il libro che Gleizes e Metzinger sono in procinto di pubblicare. «Non potresti almeno cambiare il titolo?» Con il suo proverbiale umori64

smo, Duchamp commenterà: «Pensavano che fosse un titolo troppo letterario, ma lo prendevano per il verso sbagliato – quasi caricaturale. Un nudo non scende mai le scale – un nudo è sdraiato, si sa. Nemmeno il loro piccolo tempio rivoluzionario riusciva a capire che un nudo poteva scendere le scale». Evitando qualsiasi discussione, e approfittando in qualche modo delle circostanze, Duchamp rifiuta il compromesso. «Ho detto “benissimo”, ho preso un taxi, sono andato alla mostra, ho preso il mio quadro e l’ho portato via. In realtà, quindi, non è mai stato esposto al Salon del 1912, sebbene compaia nel catalogo.»25 Il Nudo verrà esposto al pubblico un mese dopo, il 20 aprile, alla galleria Dalmau di Barcellona, in occasione dell’Exposició d’Art Cubista. Fatta eccezione per un Joan Miró ancora diciannovenne e allievo dell’Escola d’Art di Francesc Galí, il quadro non susciterà particolari attenzioni: il Nudo che scende le scale che il pittore catalano dipingerà a Parigi dodici anni più tardi sarà, per il suo carattere disadorno e spiccatamente umoristico, un esplicito omaggio a quella particolare circostanza.26 Il quadro di Duchamp non susciterà particolari elogi o riprovazioni nemmeno nell’ottobre successivo, quando verrà esposto al Salon della Section d’Or istituito dal gruppo di Puteaux per volere di Jacques Villon (sarà proprio in quest’occasione, fra l’altro, che vedrà la luce l’Orfismo). Muovendosi in direzione contraria al pensiero cubista dominante, Apollinaire fornirà dell'opera incriminata un’interpretazione in accordo con le intenzioni dell’artista:


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Marcel Duchamp non ha più il culto delle apparenze […]. Per allontanare dalla sua arte tutte le percezioni che potrebbero diventare nozioni, Duchamp scrive sul suo quadro il titolo che più gli conviene. Così dalla sua arte scompare la letteratura, ma non la poesia.27

Bisognerà aspettare l’Armory Show del 1913 perché il quadro, descritto come un’«esplosione in un deposito di tegole», susciti pubblicamente scandalo. Nel 1912, come abbiamo visto, lo scandalo scoppia solo privatamente, senza troppi clamori. A ben guardare, però, lo spiacevole episodio del Salon des Indépendants, che M.D. confesserà avergli rivoltato lo stomaco,28 non si rivela del tutto inutile. In un certo senso, esso segna l’uscita dell’artista dal Cubismo: un’uscita in punta di piedi ma non meno definitiva. «Mi ha aiutato a liberarmi del passato nel senso più personale del termine. Mi sono detto: “Bene, poiché è così, non devo entrare a far parte del gruppo, dovrò contare su me stesso, essere solo”».29 L’episodio, oltre a fomentare il suo rifiuto della doxa cubista, permetterà inoltre a Duchamp di distinguersi dai suoi fratelli: 65 Quando i cubisti mi chiesero di ritirare il Nudo dal Salon des Indépendants […] perché temevano che fosse visto come una presa in giro del Cubismo, mi dissi: “Che vadano al diavolo”. Da quel momento non volli più sentir parlare di loro. Mi rendevo conto che i miei disegni erano diversi dai loro. […] Mi rendevo conto anche di quanto fossi diverso da mio fratello [Jacques Villon]. Lui mirava alla celebrità. Io non miravo a niente. Volevo che mi lasciassero tranquillo per poter fare quello che amavo.30

Per quanto premeditata, l’azione di forza di Marcel Duchamp non è affatto scontata, tantomeno ai suoi occhi: È molto difficile riuscire a scandalizzare se stessi […]. È per questo che dico di essermi scandalizzato quando ho deciso che scendere era più importante che salire. Era come un coronamento della capacità di scandalizzare. Non soltanto il pubblico, ma anche me stesso. Ho mantenuto questo modo di fare per tutta la vita. Non faccio mai niente per compiacere me stesso. Nessuna delle poche opere che ho fatto è mai stata portata a compimento con un senso di soddisfazione.31

Duchamp, in fondo, è profondamente deluso dall’atteggiamento dei cubisti. Fino a quel momento ha visto in loro degli artisti dotati di un forte spi-


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rito rivoluzionario e capaci di «ribaltare da cima a fondo tutte le concezioni dell’arte in vigore a quell’epoca».32 Molti cubisti di Puteaux sono influenzati dalle idee di Gérard de Lacaze-Duthiers, l’anarchico individualista che intorno al 1906 ha formulato il concetto di aristocrazia.33 Nel luglio del 1913, dopo la pubblicazione dei Pittori cubisti di Apollinaire e del celebre Du cubisme di Gleizes e Metzinger, André Colomer, compagno di avventura di LacazeDuthiers, vedrà in questi libri una testimonianza «delle tendenze sostanzialmente individualiste e anarchicamente idealiste».34 Quarant’anni dopo, quando William Seitz gli farà notare che negli anni del Nudo sembrava «più interessato ai gesti rivoluzionari e al sovvertimento dei valori che non alla pittura in quanto tale», Duchamp risponderà senza la minima esitazione: «Esattamente. La pittura era soltanto uno strumento. Un ponte per portarmi altrove. Dove, non so. E del resto non potrei saperlo, perché sarebbe un pensiero così rivoluzionario nella sua essenza che non si potrebbe neppure formularlo».35 Nel 1912, Marcel Duchamp non era già più un artistocratico, ma piuttosto un anartista. 66

L’altrove di cui parla Duchamp sembra essere già in gestazione nella primavera del 1912. Nel maggio di quell’anno, sul retro di Paradiso (19101911), l’artista dipinge Il re e la regina circondati da nudi veloci, portando a termine le riflessioni sulla velocità e sul movimento originariamente avviate con una serie di disegni (Due nudi: uno forte e uno veloce, Il re e la regina attraversati da nudi in velocità e lo stesso Il re e la regina attraversati da nudi veloci). Il dipinto allude esplicitamente agli scacchi (questa volta non ai giocatori, ma ai pezzi più importanti del gioco) secondo una modalità decisamente non mimetica; «in quanto ai nudi veloci sono tracce nel quadro che si incrociano, che non hanno nulla di anatomico».36 Come in altri casi, il titolo esprime qui un’ambiguità semantica volta a discostare il quadro dal suo presunto soggetto. «La parola “veloce” era impiegata nello sport, se un uomo era “veloce” voleva dire che correva bene. Questo mi divertiva. “Veloce” è più svincolata da ogni tipo di ricerca letteraria che “in velocità”».37 Ancora una volta, l’ammiratore di Jules Laforgue fonde giocosamente la poesia al linguaggio ordinario: Nudi veloci: è molto semplice, si tratta del piacere di giocare con le parole. Per quanto… Sa come la penso io, sulle parole. Ma quando si aggiunge poesia, o quando si trasformano le parole della comunicazione in parola poetica, allora lo accetto. Perché così la parola diventa come un colore, cessa di essere semplice comunicazione.38


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Nel suo dare corpo all’energia erotica secondo un’ottica non priva di umorismo, il quadro prefigura già i futuri interrogativi di Duchamp («Con il re e la regina la sessualità si stabilisce attraverso lo stesso metodo suggestivo…»).39 In controtendenza rispetto all’ortodossia cubista, Apollinaire intuirà l’originalità di questo percorso: «Mi si permetta qui un’osservazione che ha la sua importanza. Duchamp è il solo pittore della scuola moderna che oggi (autunno 1912) si preoccupi del nudo».40 Più di quarant’anni dopo, Salvador Dalí vedrà in questo quadro «l’atto notarile della nuova struttura infratomica dell’universo», affermando «che i nudi veloci sono dei corpi indivisibili, delle particelle elementari cariche di quanti fisici […] che attraversano lo spazio infinito…». In modo ancora più spiazzante e diretto, il pittore spagnolo concluderà: «Dipingendo Il re e la regina circondati da nudi veloci, Marcel Duchamp diventava un anarchico aristocratico, in netto contrasto con gli inventori dell’anarchia, il principe Kropotkine e il principe Bakunin, prototipi dell’aristocratico anarchico».41 L’evento più significativo della primavera del 1912 è sicuramente la rappresentazione delle Impressions d’Afrique di Raymond Roussel, alla quale Duchamp assisterà con Picabia e Gabrielle fra il 10 maggio e l’11 giugno su iniziativa di Apollinaire (la presenza di quest’ultimo non è sicura; Duchamp, da parte sua, sostiene di aver incontrato il poeta quell’autunno, al salone della Section d’Or). La pièce, nata come adattamento del romanzo omonimo scritto da Roussel su consiglio di Edmond Rostand, è stata messa in scena sei mesi prima al teatro Fémina. A sentire l’autore, «fu più che un insuccesso, fu un coro di proteste. Mi si trattava da folle, si “faceva il verso” agli attori, si gettavano monetine sul palcoscenico, lettere di protesta erano inviate al direttore».42 Di quella serata, Gabrielle Buffet-Picabia ricorderà «le risate incontenibili e il tono grave con cui annunciò l’arrivo di un nuovo Père Ubu».43 Sebbene non si possa certo dire che l’entusiasmo e l’enfasi siano il suo forte, Duchamp resta profondamente colpito da quella rappresentazione: «Fu formidabile. Sulla scena c’era un manichino e un serpente che appena appena si muoveva, era assolutamente la follia dell’insolito. Ma non ricordo molto il testo. In realtà non lo si ascoltava neppure. Questo mi colpì».44 A colpire soprattutto Duchamp, in effetti, è il carattere visivo della scena. Roussel, da parte sua, non si è certo risparmiato sugli effetti, né in scena né nei cartelloni che pubblicizzavano lo spettacolo. Affisso su tutti i muri di Parigi, un fumetto dotato di legenda presenta le scene principali secondo uno stile circense o da music-hall: «Il lombrico suonatore di cetra; Il nano Philippo, la cui testa normalmente

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sviluppata eguaglia in altezza il resto dell’individuo; Il monogamba Lelgouach, che suona il flauto sulla sua stessa tibia; Dijizmé volontariamente folgorato dal fulmine; La statua fatta di stecche di balena che scorre su rotaie di polmone di vitello; L’orchestra termomeccanica di bexio; L’orologio a vento del Paese della cuccagna; I gatti che giocano a bandiera; Il muro di domino che evoca un gruppo di preti; Il caduco caucciù contro cui riposa, steso a terra, il cadavere del re negro Yaour ix classicamente travestito da Margherita di Faust; I toraci vuoti dei fratelli Alcott; Il supplizio degli spilli».45 Non è difficile immaginare l’emozione di Duchamp di fronte a una simile orgia di stravaganza immaginativa, a quella «passione quasi algebrica di stabilire equazioni di fatti apparentemente insolubili».46 Più avanti, quando leggerà il romanzo, l’artista non farà che confermare la sua intuizione iniziale: il percorso inaugurato da Roussel supera di gran lunga la sfera della letteratura. 68

Lo ammiravo perché arrecava qualcosa che non avevo mai visto. Solo questo può suscitare dal più profondo del mio essere un sentimento d’ammirazione – qualcosa che basta a se stessa – niente a che vedere con i grandi nomi o le influenze. Apollinaire fu il primo a mostrarmi le opere di Roussel. Era poesia. Roussel si credeva filologo, filosofo e metafisico. Ma resta un gran poeta.47

L’artista che fa scendere un nudo dalle scale o attraversare il re e la regina da nudi veloci non può che identificarsi con l’universo del poeta che sosteneva di preferire «il terreno della Concezione a quello della Realtà».48 Al pari dei suoi contemporanei, Duchamp non conosce ancora «il procedimento molto particolare» su cui si fondano alcune delle opere di Roussel,49 ma avverte comunque il carattere innovativo e inaudito di quel percorso. Più avanti, quando leggerà Les machines célibataires di Carrouges e il Raymond Roussel di Jean Ferry, M.D. non potrà che confermare l’unicità di quel pensiero artistico: «L’oscurità di quei giochi di parole non aveva nulla di mallarmeano o di rimbaudiano. Quell’oscurità è di tutt’altro ordine. È questo che mi interessa di Roussel: ciò che c’è di unico in lui. Il fatto che non si richiami a nient’altro».50 Quando dichiara Roussel «fondamentalmente responsabile» della sua Sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche, Duchamp non lo fa solo per vezzo. «Furono le sue Impressions d’Afrique che m’indicarono a grandi linee la prassi da adottare. […] Capii immediatamente che stavo subendo l’influenza di


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Roussel. Ma ritenevo che, come pittore, era meglio che fossi influenzato da uno scrittore che da un altro pittore. E Roussel mi mostrò la strada.»51 Qualche anno dopo, quando affermerà che a interessargli di Roussel «era un atteggiamento più che un’influenza»,52 l’artista ammetterà che il suo debito nei confronti dello scrittore consiste più in una comune visione del mondo che non in un esempio da seguire alla lettera. In questo senso, il grande macchinario rousselliano non farà che indirizzare «alla maniera di un catalizzatore»53 il pensiero visivo dell’artista, già in procinto di concepire i dispositivi del Grande vetro: come confesserà in un’altra occasione, la Sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche «risente inconfondibilmente di un particolare atteggiamento nei confronti delle macchine, un atteggiamento per nulla venerante, anzi ironico, che condividevo con Raymond Roussel».54 Per Duchamp, le Impressions d’Afrique sono un’ulteriore conferma dell’ambizioso progetto di abbandonare il carattere retinico della pittura. Ecco «la direzione che l’arte deve prendere: l’espressione intellettuale, più che l’espressione animale. Ne ho abbastanza dell’espressione “stupido come un pittore”».55 69



31 La sposa e lo scapolo

«Sai, nella vita ci sono due campi d’azione; uno consacrato al mantenimento, l’altro alla creazione.» M.D.1

Sulla Paris Duchamp rivede Julien Levy, giovane ventunenne appassionato di cinema che ha già avuto modo di incrociare alla mostra di Brancusi presso la Brummer Gallery (suo padre Edgar ha acquistato una versione in marmo di Uccello nello spazio). Duchamp l’ha invitato a Parigi per fargli incontrare Man Ray. Secondo lui, infatti, l’amico può mettergli a disposizione lo studio e una cinepresa per aiutarlo a realizzare il progetto di film sperimentale di cui lui ha appena finito di scrivere la sceneggiatura. Quello che di lì a qualche anno diventerà uno dei più grandi mercanti americani di opere surrealiste descrive con precisione, nelle sue memorie, quella traversata: Durante quel primo viaggio con Duchamp, ci sedemmo insieme nel salone… fumando, bevendo moderatamente birra o Cinzano allungato con l’acqua, finché Duchamp non riuscì a trovare una scacchiera. […] Parlavamo, io con attenzione, Marcel con tolleranza. Marcel si lasciava scappare delle risatine, cosa che lo rendeva più giovane, a dispetto della sua fiacca ironia.

Levy ricorda Duchamp intento a giocare con due fili di ferro «che piegava e attorcigliava» e di cui disegnava i contorni su un foglio di carta: Stava inventando un apparato femminile meccanico... Aveva pensato di realizzare un fantoccio snodato a grandezza naturale, una donna meccanica la cui vagina, costituita da una rete di molle e cuscinetti a sfera, sarebbe stata con-

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trattile, possibilmente auto-lubrificantesi e attivabile mediante un dispositivo a distanza, forse collocato nella testa e collegato con il sistema di leve costituito dai due fili metallici che stava modellando. […] L’apparato può essere utilizzato come una sorta di machine-onaniste senza mani. Quando Julien suggerì che la macchina “poteva essere equipaggiata di un meccanismo grazie al quale la parte inferiore del corpo venisse attivata dalla lingua spinta nella bocca del fantoccio nell'atto di baciarlo”, Marcel si rilassò, ridacchiò per la prima volta, e quindi lo ammise all'interno della sua cerchia di amici più intimi.2

Al di là del suo tono scanzonato, la testimonianza di Julien Levy ci dimostra che agli esordi del 1927 gli interessi di Duchamp continuano a convergere, anche dopo L’«incompiutezza» definitiva del Grande vetro, su una concezione erotica capace di sfidare i limiti tradizionali fra naturale e artificiale. Dietro queste “fantasie”, comunque, si profila soprattutto un “ideale” di vita: riuscire a bastare a se stesso. Quello di Julien Levy è sicuramente uno dei ritratti più pungenti di M.D. 298

alla fine degli anni venti: All’epoca in cui lo incontrai, Duchamp era conosciuto come “il pittore che si rifiutava di dipingere”, e una persona poco accorta poteva pensare che la sua fama venisse da ciò che egli non diceva e non faceva. Stretto in un abito logoro, più cupo del suo volto, aveva il volto pieno di lentiggini e capelli biondo-rossicci. Quando sorrideva, mostrava denti leggermente ingialliti. Era totalmente invisibile! E perfettamente silenzioso. Il suo atteggiamento era ambiguo. Un giorno, a Parigi, l’avevo invitato a un cocktail. All’ora stabilita suonò alla porta dell’appartamento in cui mi trovavo, quello della madre di Joella, Mina Loy, al 9 di rue Saint-Romain. Disse: “Sono venuto a dire che non posso venire”, poi se ne andò. […] Duchamp era una figura enigmatica. I suoi atteggiamenti enigmatici non erano solo una posa; per lui questa posa era diventata una seconda natura. I suoi aspetti enigmatici erano ciò che intrigava la gente e dava adito alla sua reputazione. Perché lui non si pronunciava mai sul suo “segreto”. Si limitava a sorridere, e quel sorriso poteva apparire sia misterioso sia assolutamente vuoto.3

Duchamp torna a Parigi i primi giorni di marzo del 1927. Al suo arrivo si installa nel piccolo bilocale al settimo piano senza ascensore di 11 rue Larrey, nel v arrondissement (fra il Jardin des plantes e le Arènes de Lutèce), che ha affittato nell’ottobre del 1926 prima di partire per New York. Qui ritrova


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i suoi amici Henri-Pierre Roché, Man Ray e Picabia. Sarà proprio quest’ultimo a escogitare, insieme alla sua compagna Germaine Everling, l’incontro con Lydie Sarazin-Levassor, la nipote ventiquattrenne del costruttore di automobili Édouard Sarazin che all’inizio del secolo ha fondato il celebre marchio Panhard et Levassor. Germaine è una cara amica del padre di Lydie, Henri, dirigente della Panhard et Levassor che ha da poco deciso di risposarsi con la cantante Jeanne Montjovet.4 Per «riprendersi la sua libertà» l’uomo ha l’accordo impostogli dalla moglie: il loro divorzio verrà avviato solo dopo le nozze della figlia. Lydie descrive così la reazione della madre quando Germaine Everling le propone di presentarle un «amico di Picabia, pittore come lui e come lui d’avanguardia»:5 «Questo Signor senza un soldo, doveva essere un uomo di paglia, raccattato Dio sa dove, un prodotto diabolico inventato da Picabia e dalla Montjovet per accelerare il divorzio di mio padre».6 Anche Lydie resta sconcertata da questa precipitosa iniziativa: Curioso, questo signore sulla quarantina che, volendo sposarsi, non era riuscito a trovarsi da solo una donna di suo gradimento. Bizzarro, questo pittore che abbandonava momentaneamente la pittura per giocare a scacchi. Certo, Germaine non ignorava che Marcel Duchamp cercava di sistemarsi, di farsi una famiglia in modo da porre fine alla vita scombinata che aveva condotto fino ad allora, e che lasciava intendere chiaramente di avere nell’immediato un piccolo problema finanziario.7

L’incontro fra i due avviene in marzo, durante una cena fra amici al ristorante Le Grand Veneur di rue Pierre-Demours. Attorno al tavolo ci sono Henri Sarazin, Germaine Everling e Picabia. Marcel – ricorderà Lydie – non mi fece una grande impressione quel giorno, lo trovavo bello, gradevole, elegante, ma nient’altro. Mi aveva colpita la sobrietà del suo vestire: un completo blu marine, una camicia di seta a righe rosa, una cravatta scura. Certo, non mi aspettavo di vederlo comparire con un abito di velluto nero, una cravatta alla “lavallière” e il cappello alla Aristide Bruant, ma insomma… Una certa fantasia non mi avrebbe sorpresa. Quanto a lui, la sua prima impressione, mi confidò più tardi Germaine, era stata: “Ah! Va benissimo. È veramente semplice e si pettina con un chiodo!”8

Lydie, va detto, è una donna piuttosto grassoccia e non molto elegante. Ma Duchamp non ha forse, come dice Peggy Guggenheim, la perversio-

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ne particolare di preferire amanti mostruose?9 Nonostante la freddezza del primo approccio, qualche giorno dopo Marcel propone a Lydie una cenetta intima al Prunier, un ristorante vicino alla Madeleine: «E fu bellissimo. Marcel sfoderò tutto il suo fascino, e ne aveva parecchio […], e uscii da quella cena perdutamente innamorata».10 A detta della donna, Duchamp non sembra rimpiangere troppo la vita newyorkese, se non per gli orari dei negozi: «Marcel aveva l’abitudine di mangiare un boccone prima di tornare a dormire e anche di fare qualche compera per evitare di portarsi dietro pacchetti durante il giorno. A Parigi queste comodità gli mancavano».11 Per le vacanze di Pasqua, Lydie lo invita a passare qualche giorno a Étretat, nella villa di famiglia dei Sarazin-Levassor. La vacanza, sebbene rovinata dalla pioggia, si svolge all’insegna del più totale buon umore. «Ci scolammo tutto quello che era avanzato dall’estate precedente in fatto di aperitivi e digestivi e cominciammo a fare conoscenza. Sapevamo tutti e due a quale scopo ci avevano presentati e così, molto rapida300

mente, parlammo di un futuro in comune.»12 Marcel solleva fin dall’inizio la questione dei due appartamenti, «uno il suo studio, che gli era necessario per lavorare e meditare e l’altro, il mio, su cui avrei regnato sola o eventualmente con i bambini».13 La cosa non sembra scioccarla particolarmente. Al loro ritorno a Parigi, Marcel decide di andare a Puteaux per presentare la sua promessa sposa al fratello Gaston e a sua moglie Gaby: Che accoglienza affettuosa! Che sicurezza calma, tranquilla, emanava da quella coppia […] la cornice era straordinaria. A pochi metri dalla Défense, sembrava di essere in piena campagna. Davanti al villino c’erano prati, sì, prati verdissimi profumati di fieno appena tagliato e, a due passi, una capra che belava. Gaby mi confidò che andava a comprare il latte e le uova fresche in una fattoria vicina. Incredibile! E tutto questo di fianco alle fabbriche di Puteaux, al brulichio di vita dell’avenue di Neuilly. L’atmosfera della rue Lemaître era rassicurante, rilassante, lontana dalla bohème, dal disordine che in fondo temevo di trovare.14

Ancora una volta, Lydie resta sbalordita: «Scoprii una famiglia Duchamp molto unita, provinciale, che viveva come la buona borghesia normanna, piuttosto reazionaria e questo contrastava in modo appariscente con le idee d’avanguardia di cui si discuteva».15


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Qualche giorno dopo, Marcel chiede ufficialmente la mano di Lydie ai suoi genitori. L’artista non accenna minimamente ai suoi problemi economici – dovuti, fra l’altro, all’acquisto delle sculture di Brancusi. All’inizio di maggio si celebra il fidanzamento, «un semplice rinfresco [per] i membri delle due famiglie, i futuri testimoni e alcuni amici intimi».16 Duchamp sembra impaziente di celebrare le nozze prima dell’estate. La data viene fissata per l’8 giugno. «Una volta deciso il matrimonio, si presentò il problema della cerimonia religiosa, o meglio non si presentò affatto. Marcel non era credente e, pur avendo ricevuto un’educazione cattolica, non aveva nulla contro un matrimonio protestante, tale era più o meno la mia religione.»17 Fedele alla sua “libertà di indifferenza”, ancora una volta Marcel sceglie e non sceglie. Lydie è profondamente innamorata di Marcel. A parte la comune passione per il buon cibo e i bistrot gastronomici parigini, però, le loro visioni della vita sembrano separarli in tutto. Influenzata dalle teorie dei Rosa-Croce, Lydie cerca di fargli accettare l’idea della reincarnazione. Marcel, evitando scontri frontali, risponde con i suoi giochi di parole e i suoi calembours. «Mi chiedevo come una persona così acuta potesse compiacersi di battute tanto grevi e rozze.»18 Con il passare del tempo Lydie scopre in Marcel un uomo profondamente relativista, capace di trasformare continuamente le proprie opinioni e i propri punti di vista. “La vita – le spiega lui – ci pone di fronte a una serie di problemi e bisogna ogni volta risolverli da capo. L’esperienza e le influenze esterne. Non bisogna avere pregiudizi, ossia giudicare in anticipo, non credi?” “E sia. Ma se domani, dopo averci riflettuto, il ragionamento del giorno prima non va più bene?” “Non importa. Si crea un equilibrio inevitabile come negli scacchi. Bisogna sforzarsi di vedere sempre tutto con occhi nuovi, anche se ci si contraddice, perché il contesto di oggi non è mai del tutto uguale a quello di ieri.”19

Questo relativismo fa di lui una persona estremamente affabile che, a dispetto della sua natura esigente, riesce a tenersi sempre fuori dai conflitti. Ben presto Lydie intuisce che gli scacchi giocano un ruolo decisivo nel suo modo di rapportarsi agli altri. Dopo aver iniziato a frequentarlo, infatti, si rende conto che Duchamp è corteggiato indifferentemente dai rappresentanti di tutti gli schieramenti artistici parigini. «Tutti» dirà «speravano di guadagnarlo alla loro causa, ma lui riusciva a sfuggire con una battuta e proponeva una partita a scacchi facendone scappare un buon numero.»20

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Il mese di maggio è interamente dedicato alle questioni pratiche delle nozze: corredo, abito da sposa, damigelle d’onore, partecipazioni… «Marcel insisteva che [le partecipazioni] fossero di un formato diverso dal solito, con caratteri di stampa senza maiuscole e non nel solito corsivo inglese. Scoprii il suo gusto per la perfezione dei particolari.»21 I due iniziano a cercare un appartamento. Lydie ha così modo di scoprire i gusti di Marcel in fatto di “decorazioni”: «Non ci sono “decorazioni”; è una nozione da dimenticare. Si arreda, tutto qui. Si comprano cose di cui si ha bisogno secondo le proprie comodità. Saper limitare i propri bisogni e rifiutare il superfluo».22 La donna ricorda con allegria le loro trovate per demolire l’idea di decorazione: A volte – ricorderà – andavamo a fantasticare davanti alla vetrina di un negozio di utensili da laboratorio vicino alla facoltà di medicina. Si trattava di trovare, tra le storte e i vasi di taglie e forme diverse, qualcosa che si potesse utilizzare per cucinare. Ridevamo molto, lanciavamo proposte, ammettevo l’uso degli agitatori come mestoli, ma utilizzare una padella da ospedale per servire un

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pasticcio di lepre, insomma!23

Vista la difficoltà di trovare un alloggio, la coppia decide di trasferirsi nello studio di rue Larrey che, dopo il suo arrivo da New York, Duchamp ha sistemato alla bell’e meglio con l’aiuto di Man Ray e Antoine Pevsner, raschiando «i muri per riportare alla luce il gesso» e costruendo un bagno «sopraelevato di due o tre gradini per permettere lo scarico delle acque, che confluivano direttamente sul tetto, nelle grondaie».24 Le dimensioni ridotte dell’appartamento creano una situazione promiscua, specialmente fra il bagno e lo studio propriamente detto. Il problema – ricorderà Lydie – non era, come si potrebbe credere, chiudere con una sola porta alternativamente il bagno e il resto dell’appartamento. Il minuscolo bagno non era areato e poteva essere utilizzato solo con la porta aperta, altrimenti rischiava di trasformarsi in un forno. Ma una porta era necessaria per isolare temporaneamente la parte camera e bagno dal resto dell’atelier. Comunque, il sole, cioè la luce e la gioia, veniva dalla finestra posta tra il bagno e il letto. Il problema dunque era: da che parte farla aprire? Era impensabile aprirla verso l’atelier. Oltre allo spazio che avrebbe occupato, una porta aperta dà un’impressione di disordine poco piacevole bisognava farla aprire dal lato bagno-camera. Ma dal lato sinistro il letto era d’ostacolo. E allora Marcel mostrò tutta la sua ingegnosità. Siccome le due cornici erano esattamente della stessa


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misura, la porta aperta da un lato andava a chiudere l’apertura del bagno senza ingombrare né l’atelier, né la camera e mantenendo la luce della finestra.25

Nel 1954, a Michel Sanouillet, Duchamp dice: «Mostrai la cosa ad alcuni amici, aggiungendo che il proverbio “bisogna che una porta sia aperta o chiusa” non era mai stato così falso. Ma ormai è lontana la ragione pratica che mi aveva indotto a quel gesto; resta soltanto la sfida dada».26 In origine, comunque, questa porta destinata a diventare una sorta di emblema dell’indifferenza duchampiana (essa verrà rimossa dall’appartamento di rue Larrey solo nel 1963, per accedere allo statuto di opera autonoma) non è altro che la risoluzione ingegnosa di un banale problema domestico. Il resto dell’appartamento è ammobiliato nel modo più semplice e austero possibile. Nella parte adibita a studio, una credenza senza ante, un fornello a gas con le stoviglie indispensabili (sostanzialmente per la colazione), un’asse di legno appesa al muro in posizione inclinata a mo’ di scrittoio, un grande armadio, un tavolo di legno bianco appartenente a Lydie e due cuscini. «Alle pareti, scacchiere in lineoleum. Marcel vi appuntava le onorificenze, legioni d’onore e altre, che cercava dai rigattieri per farne dei pezzi da gioco. Una collezione di medagliette, alcune dorate, altre argentate, sarebbero state i pedoni.»27 Lydie fa visitare l’appartamento al padre e alla sua amica Jeanne il 21 maggio 1927, la stessa sera in cui Charles Lindbergh, compiendo la prima traversata aerea dell’Atlantico, atterra a Le Bourget. Suo padre trova il letto un po’ stretto per due persone: un commento che diverte moltissimo Lydie, la quale, secondo le buone usanze borghesi, non può «dire di averlo già provato».28 Quando Marcel annuncia che sta per sposarsi i suoi amici non riescono a capacitarsene, a parte i Picabia, veri artefici del piano. Marcel presenta Lydie a tutti. Brancusi si mostra estremamente gioviale e generoso nei suoi confronti, accogliendola immediatamente nella confraternita dei Maurice; Henri-Pierre Roché, invece, mantiene le distanze;29 quanto a Man Ray, Lydie lo trova fin dal primo incontro appiccicoso,30 definendolo «un ometto alquanto pieno di sé, infido e interessato».31 Quasi ogni sera – racconterà la futura sposa – dopo cena, incominciava un’inevitabile partita a scacchi che doveva durare più di due ore durante le quali mordevo il freno, una sigaretta dopo l’altra, aspettando con impazienza il momento di tornare in rue Larrey, per ritrovarci finalmente soli. […] Ero così innamo-

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rata di Marcel da essere gelosa del tempo che mi veniva sottratto. Mi sembrava che quella interminabile partita interrompesse, distruggesse l’atmosfera in cui ci trovavamo e pensavo che Man Ray mancasse di tatto ad accaparrarsi così colui che consideravo come un bene personale.32

Qualche giorno prima della cerimonia dell’8 giugno, Marcel e Lydie vanno da un notaio per firmare il contratto matrimoniale. Alla lettura del contratto, Marcel scoprì che non avrebbe disposto di nessun’altra somma salvo una rendita annuale, che gli sembrò poco generosa e appena sufficiente per una sola persona [il padre ha assegnato a Lydie una rendita di duemilacinquecento franchi al mese]; la sua delusione gli si lesse in volto, malgrado si sforzasse di mantenere la calma.

Visibilmente scosso dalla notizia, Marcel traccia alla futura moglie un quadro abbastanza cupo della loro situazione economica. Lydie si sente ferita 304

dal tono amareggiato e sarcastico di Marcel, in cui non può fare a meno di intravedere «l’espressione disillusa di qualcuno che si accorge di aver sbagliato strada».33 Il 25 maggio Duchamp scrive una lettera a Katherine Dreier per annunciarle il suo matrimonio: Una notizia importante: a giugno mi sposo. Non so nemmeno come raccontarglielo, è stata così una cosa così improvvisa che risulta difficile spiegarla. La signorina Sarazin-Levassor ha venticinque anni, è la figlia di un importante uomo d’affari legato al marchio di automobili Panhard-Levassor. Non è particolarmente bella né seducente, ma sembra avere abbastanza presenza di spirito per capire le mie idee sul matrimonio. […] Sono un po’ stanco di questa vita vagabonda e voglio provare a vivere in modo più tranquillo. Che mi stia sbagliando o no ha poca importanza, visto che nulla mi impedirà di cambiare, anche in poco tempo, se necessario. Non diventerò ricco. I suoi soldi per il momento sono più che sufficienti per farla vivere e le appartengono. Avremo due appartamenti, in questo modo spero di ritagliarmi diverse ore o intere giornate tutte per me. Tutto questo, naturalmente, potrebbe apparire insensato a tutti, tranne che a lei.34

Nonostante lo sgradevole episodio del contratto, il 7 giugno 1927 Lydie e Marcel si sposano con rito civile presso il municipio del xvi arrondissement.


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I testimoni della sposa sono lo zio René Sarazin-Levassor e René Luquet; quelli di Marcel, Gaston Duchamp (Jacques Villon) e Picabia. Per l’occasione, quest’ultimo si è fatto confezionare un abito da Auld Baillie, un sarto di origini scozzesi. Il sindaco in persona venne a leggerci il codice, a sposarci, pronunciò la formula di rito e terminò con: “Le auguro, signora, di ispirare sempre suo marito”. Picabia e Villon, che conoscevano Marcel e la sua opera, rischiarono di scoppiare a ridere e si morsero le labbra per rimanere seri.35

L’indomani a mezzogiorno la cerimonia religiosa ha luogo, come previsto, nella chiesa dell’Étoile, sull’avenue de la Grande-Armée. Man Ray filma l’arrivo degli sposi: «Con il mio assistente [Kiki de Montparnasse] sistemai la cinepresa davanti alla chiesa. L’automobile degli sposi arrivò, e ne discese una figura eterea avvolta in veli bianchi e soffici, come in una nuvola, seguita da Duchamp in tight. Accanto a lei appariva pallido e smunto. Cominciammo a girare».36 A braccetto della sorella Suzanne, Marcel raggiunge la sua futura sposa accompagnata all’altare dal padre, sulle note della marcia nuziale del Lohengrin scelta da lei. Dopo il sermone, i canti, lo scambio dei bracciali (con cui gli sposi hanno sostituito gli anelli) e la firma in sacrestia, lo spettacolo ha inizio. «Si dice che si fosse scomodata tutta Montparnasse. Picabia che faceva da testimone a un matrimonio religioso, per di più al matrimonio di Marcel Duchamp: ne valeva la pena. Si aspettavano e speravano di vedere qualche stranezza da parte di Marcel ma giustamente, la stranezza era quella di sposarsi nella maniera più classica e borghese»37 commenterà acutamente Lydie. Dopo essersi sottoposti al rituale del ricevimento, con tanto di lunch organizzato dai genitori di Lydie nella grande casa di famiglia al Bois-de-Boulogne, quella stessa sera i novelli sposi cenano a casa di Brancusi con Germaine Everling, Francis Picabia e la segretaria-amante dello scultore, Marthe Lebherz. Il giorno dopo, gli sposini scartano uno a uno i doni che hanno ricevuto. Si tratta per lo più di oggetti terribili, provenienti quasi tutti da negozi specializzati in liste nozze: «I Crotti ci avevano onorato di un servizio da porto in vetro fumé, i Villon di un altro servizio da porto in cristallo. Marcel disse: “Sono stati molto chic ad averci risparmiato un quadro”».38 Solo Picabia, in effetti, ha regalato loro un piccolo acquerello, ironicamente intitolato Matrimonio di intellettuali. Le settimane successive, Marcel e Lydie proseguono le loro esplorazioni gastronomiche di Parigi:

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Mi ricordo delle rane alle Buttes-Chaumont, dello stinco di montone vicino alla gare d’Austerlitz, delle costolette alla Villette, dei rognoni fritti e della grappa al lampone delle porte d’Orléans, nel famoso ristorante frequentato regolarmente da Charpentier e da altri compositori. A volte le nostre peregrinazioni ci portavano ad Auteuil, nella vecchia e famosa locanda du Mouton dove, si dice, si incontravano Boileau e Racine e altri letterati del xvii secolo; oppure al buffet della gare de l’Est, famoso per le specialità alsaziane, o, più vicino alla rue Larrey, alla Mosquée dove i deliziosi couscous erano accompagnati soltanto dall’acqua Evian, cosa che non incontrava molto i gusti di Marcel. Le preferivamo i ristorantini della Halle dei vini con le belle caraffe di Beaujolais. Ci piaceva molto il Viking-smørbrød, arrosto di renna, acquavite. La Coupole non esisteva ancora e la Rotonde era nelle mani degli americani della Grande Chaumière. Vale a dire che Marcel non si comportava certo da asceta.39

Fra i novelli sposi il lei è di rigore, «per sottolineare che il vincolo del matri306

monio non è un segno di possesso totale». Il “voi” – noterà Lydie – sembrava indicare il rispetto della personalità, con tutto quello che questo comporta in ogni particolare. Questo “voi” faceva anche parte, dal nostro punto di vista, di una specie di contegno che evita di ostentare in pubblico i propri sentimenti. Non ci si bacia davanti a tutti, non vi pare?40

Se gli amici parigini di Marcel fingono di non essere rimasti sorpresi dalla sua decisione, quelli americani reagiscono in tutt’altro modo. Giunta a Parigi due giorni dopo le nozze, Carrie Stettheimer resta sbigottita dalla nuova moglie di “Duche”, scrivendo alle sorelle che Duchamp si è sposato con una “donna grassissima”. Ettie scriverà a sua volta a Stieglitz per comunicargli la notizia: «Mi aspettavo che andasse così, compresa la mancanza di originalità della scelta». «Duchamp sposato! ! ! Non dovrei stupirmene, visto che l’inverno scorso gli avevo fatto notare che ormai era diventato un Venditore d’arte (Salesman of Art). Cos’altro ancora? In ogni caso l’ha sposata…» Informato da Florine Stettheimer che Duchamp si è sposato con una «donna grassa…. molto, molto grassa», Henry McBride le risponderà ironicamente: «Visto che ama le donne grasse, perché non si è sposato con Katherine Dreier?».41 Il 24 giugno, Duchamp scrive ai suoi amici newyorkesi Walter e Magda Pach:


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Sono sposato da quindici giorni con Mlle Sarazin-Levassor, il cui padre era nell’impresa Panhard-Levassor. Finora è stata un’esperienza piacevole, e spero che continui a esserlo. La mia vita non è affatto cambiata. Devo produrre denaro ma non per due. Speriamo che qualche colpo di fortuna ci aiuti ogni anno a mantenere il benessere.42

Dopo qualche settimana di vita in comune, la sua natura di scapolo impenitente inizia a farsi sentire in modo sempre più insistente. Lydie scopre di avere a che fare con un uomo che cerca perennemente di ridurre i propri bisogni in modo da non dipendere da nulla. «In occasione del matrimonio – riferisce la donna – comprò alcune camicie e qualche paio di calze. Molto poche. Perché avere degli impicci? È così semplice rinnovare mano a mano che se ne ha bisogno.» Nonostante ciò Marcel è: […] molto elegante, curato e dava sempre l’impressione di essere appena uscito da una scatola, impacchettato, ma rifiutava categoricamente di tenere il necessario per lucidare le scarpe. È un lavoro che si fa fare fuori; del resto preferiva, e ho preso da lui, a causa della pigrizia che avevamo in comune, le scarpe di camoscio, che si rimettono a nuovo con un colpo di spazzola.43

Lydie capisce in fretta che l’economia domestica di Duchamp costituisce il banco di prova fondamentale della sua arte di vivere: Per lui, cercare di arrivare a una spoliazione totale era un fatto necessario per conquistarsi la libertà, la libertà di vivere, vivere intensamente ogni minuto con la spontaneita dell’uccello che becchetta un seme, l'abbandona per una foglia di insalata, vi torna e canta la gioia della sua scoperta. […] Niente provviste, non possedere nulla, perché possedere significa ingombrarsi. Essere un viaggiatore senza bagagli.44

Quest’economia coinvolge le dimensioni più “infrasottili” del suo corpo e della sua intimità. Non ha forse immaginato un «trasformatore destinato a utilizzare le piccole energie sprecate» tra cui «la crescita dei capelli, dei peli e delle unghie, la caduta dell’urina e delle feci, la caduta delle lacrime, [… lo] stiracchiarsi, sbadigliare, starnutire […], i vomiti, l’eiaculazione, i capelli ribelli, il ciuffo»?45 Lydie nota ben presto: La cura con la quale [Marcel] controllava, sul suo corpo accuratamente rasato,

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l'apparizione della minima peluria per farla sparire immediatamente. Aveva un’orrore quasi patologico per i peli. Oltre a trovarli brutti e sporchi, diceva, ricordano troppo brutalmente che l’uomo, dopo tutto, è un animale un po’ evoluto.

Ma questo amore per il glabro non si limita solo al suo corpo: Aveva apprezzato i miei capelli cortissimi e, infine, mi invitò a seguire il suo esempio e a procedere a una depilazione totale. Perché no, se gli faceva piacere? Fu un trattamento memorabile perché il prodotto impiegato, molto efficace, a base di zolfo, emanava un odore caratteristico che mi rimase addosso per almeno per quarantott’ore! Non serviva lavarsi, inondarsi di profumo, mi si poteva seguire a naso!46

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47 Anartista

«Io sono contrario alla parola “anti” perché è un po’ come dire ateo in confronto a credente. Un ateo è un uomo religioso quanto un credente, e un anti-artista è altrettanto artista quanto un artista. Se potessi cambiare, anartista andrebbe molto meglio di anti-artista, perché anartista significa assolutamente non artista. Questo potrebbe essere il mio concetto. Non mi dispiacerebbe essere un anartista.» M.D.1

Teeny e Marcel tornano a New York i primi di ottobre del 1958. Poco tempo dopo, Roy Moyer invita l’artista a partecipare alla mostra “Art and the Found Object” che sta preparando per il gennaio successivo al Time Life Building per conto dell’American Federation of Arts. Il curatore vorrebbe esporre lo Scolabottiglie. Poiché a New York non riesce a trovarne, Duchamp scrive a Man Ray (invitato a esporre il suo metronomo Oggetto indistruttibile e il suo ferro da stiro Cadeau) per sapere se possiede ancora l’oggetto che aveva fotografato negli anni trenta: «Se l’hai perso, puoi comprarne uno al Bazar dell’Hôtel de Ville».2 Man Ray, naturalmente, l’ha perso, e avendone scordato le dimensioni decide di inviare a Roy Moyer sei modelli diversi. Il valore di assicurazione dell’oggetto che Duchamp dichiara alla dogana è di tre dollari: questo il prezzo che Robert Rauschenberg pagherà per l’opera all’inaugurazione della mostra.3 Alla fine degli anni cinquanta, i readymade di Duchamp cominciano ad attirare l’attenzione di un gruppo di giovani artisti americani decisi a rompere con l’esasperato soggettivismo dell’Espressionismo Astratto. Fra i membri della futura generazione della Pop Art, Robert Rauschenberg e Jasper Johns sono i primi a interessarsi all’opera di M.D. (nel 1958 visiteranno la collezione Arensberg al museo di Philadelphia), e più in particolare a quei readymade che hanno saputo sovvertire la tradizionale definizione dell’opera d’arte. Qualche giorno dopo l’inaugurazione al Time Life Building, il poeta e critico d’arte Nicolas Calas accompagna Duchamp dai due ar-

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tisti, che all’epoca possiedono lo studio al 128 di Front Street. In occasione della mostra “Sixteen Americans” curata da Dorothy Miller per il moma, Jasper Johns dirà di essere stato profondamente influenzato da un suggerimento di M.D.: «Raggiungere l’impossibilità di memoria visiva sufficiente a trasferire da un oggetto a un altro l’impronta della memoria».4 Un anno dopo Duchamp gli restituirà il complimento, dedicandogli un esemplare della Scatola verde: «A Jasper Johns / Sibylle des cibles…».5 Il rinnovato interesse per la sua opera, comunque, non sembra sconvolgerlo più di tanto. Nell’intervista per la bbc rilasciata a George Heard Hamilton nel gennaio del 1959 (e destinata a concludersi a Londra nel settembre successivo con l’artista inglese Richard Hamilton), Duchamp si concentra sostanzialmente sulla questione dei readymade, sottolineandone la natura al tempo stesso concettuale, ironica ed eminentemente domestica. Alla domanda: «Pensa che qualcun altro oltre a lei potrebbe fare dei readymade?», l’artista risponde senza ambiguità: «Sì, tutti li possono fare, ma poiché non io li associo ad alcun valore commerciale o artistico 456

credo che nessuno li farebbe giusto per farli. Alcuni però l’hanno fatto, in America per esempio c’è stato Joseph Cornell, che ha utilizzato l’idea indirettamente».6 Duchamp torna sulla questione qualche mese dopo, nell’intervista di aprile che il Village Voice realizza in occasione della mostra alla galleria Sidney Janis per il lancio dell’edizione di lusso del libro di Robert Lebel: «Una volta tenevamo un rubinetto su quel camino. Lo consideravano un’opera d’arte, ma non arte da mostrare in pubblico. L’arte: che cos’è un’opera d’arte? La tua intera esistenza, una mente produttiva può essere un’opera d’arte. Anche l’azione può essere arte… Anche un droghiere può essere – può essere – un artista».7 Duchamp, comunque, non si lascia abbindolare dal feticismo che un’operazione del genere potrebbe facilmente innescare: Ho la sensazione che se si mettesse qualcosa in una scatola di piombo e la si gettasse nel fiume con su scritto: Aprire fra cinquecento anni, questo è un capolavoro – e se ci si mettesse dentro uno spazzolino da denti, o una macchina per scrivere – bene, tutte queste scuole africane, non è tutto la stessa cosa? Ecco da dove nascono i miei dubbi. Non c’è nessun criterio.8

Quando il giornalista gli chiede che senso abbia allora una mostra alla galleria Janis, Duchamp risponde:


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“Oh, non c’entro io. È un fatto commerciale, per vendere un libro.” “Ma lei ha dato la sua approvazione.” “Oh, do sempre la mia approvazione. Non mi importa di scendere a un compromesso ogni volta. Si deve pagare in un modo o nell’altro.”9

Agli inizi di aprile del 1959, Teeny e Marcel disdicono il contratto d’affitto dell’appartamento sulla 58th Street. Il nuovo proprietario, infatti, «vuole dividere in due ciascuno dei cinque appartamenti e triplicare l’affitto».10 Per qualche giorno si trasferiscono all’Hotel Dauphin, all’angolo fra la Broadway e la 67 th Street, poi, il 9, prendono un volo per Lisbona. Dopo aver passato qualche giorno in Portogallo, il 14 arrivano a Cadaqués. Questa volta sono riusciti ad affittare un grande appartamento al sesto piano di un edificio, con due stanze, soggiorno e un terrazzo con vista sulla baia. Due giorni dopo il suo arrivo in Costa Brava, Marcel riceve la notizia della morte del suo vecchio amico Henri-Pierre Roché. Il 5 maggio, la galleria La Hune di Parigi presenta l’edizione di lusso del libro di Robert Lebel, Sur Marcel Duchamp. Per l’occasione viene esposto anche l’ingrandimento fotografico di Allevamento di polvere fornito da Man Ray. Duchamp ha accettato che il suo Autoritratto di profilo venga utilizzato per la locandina della presentazione: qualche giorno prima, da Perpignan, ha inviato quaranta locandine firmate insieme a un laconico telegramma per Robert Lebel, in cui non rinuncia ai suoi amati rimandi scatologici: «fais sous moi = marcel duchamp».11 Come dirà più avanti Lebel, la manifestazione «fu completamente ignorata, quasi per comune accordo, dal repentino e unanime silenzio della critica francese».12 A Cadaqués Duchamp realizza tre “sculture” per Robert Lebel, al quale una casa editrice parigina ha commissionato un libro, dando piena libertà a lui e all’artista di «illustrarlo e scriverlo separatamente, senza concordare nulla».13 Ma quando Duchamp «obbedì alla richiesta inviando da Cadaqués [in realtà da Perpignan] tre cassette sigillate con le iscrizioni: Con la lingua nella guancia, Tortura morta e Scultura morta, la commessa fu annullata senza troppe formalità».14 Il committente deve essersi sentito chiamato direttamente in causa da quell’autoritratto a matita su cui l’artista ha incollato un calco in gesso della propria guancia: in inglese, l’espressione tongue in cheek (“lingua nella guancia”), significa infatti “prendere tacitamente in giro qualcosa o qualcuno”15. Giocate su un registro iperrealista, sarcastico e al tempo stesso morboso, queste “sculture” vanno sicuramente ricollegate alle sperimentazioni «in rilievo» che Duchamp ha avviato nel 1946 attraverso la lenta elaborazione di Dati…

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Di ritorno a Parigi, all’inizio di luglio M.D. partecipa al vernissage di “Méta-matics”, la mostra di Jean Tinguely presso la galleria Iris Clert. Il grande rappresentante della scultura in movimento vicino a Yves Klein e a Daniel Spoerri presenta per la prima volta le sue macchine per disegnare, che vengono messe a disposizione del pubblico. Il miglior disegno realizzato dalle “Meta-matics” verrà premiato da una giuria formata da alcune personalità del mondo dell’arte (Arp, Jouffroy, Klein, Queneau, Ragon, Restany, Seuphor ecc.). Com’è facile immaginare, Duchamp si presta di buon grado al gioco e, sotto lo sguardo ammirato di Tinguely e dell’eccentrica gallerista, realizza un disegno con l’aiuto della macchina. Marcel ha conosciuto Tinguely qualche giorno prima, mentre pranzava in un bistrot di rue Vaugirard prima di andare a trovare l’amico Brancusi nel suo studio dell’impasse Ronsin. Le circostanze di quell’incontro, che Tinguely non mancherà di raccontare qualche anno dopo, sono particolarmente divertenti: 458

A mezzogiorno e mezzo, nel giardinetto della brasserie, un uomo elegante, meraviglioso, di cui conoscevo il volto, si accingeva ad addentare uno stinco di maiale dall’osso gigantesco. Mangiava uno stinco di maiale, che per me è la cosa più orribile che un uomo possa mangiare. Al tempo stesso, per me Duchamp era la creatura più elegante, più eterea, magnifica, spirituale, meravigliosa e stravagante di questo mondo – ed ecco che questa creatura mangiava uno stinco. Fu in queste strane circostanze che ebbe luogo il nostro incontro. Io gli dissi: “Caro maestro!”, non Duchamp, ma “Caro maestro!”. Al che lui, con la stessa prontezza e naturalmente con la bocca vuota, disse: “Eh, Tinguely, vieni a sederti qui”.16

Grazie a Tinguely Duchamp conosce un altro protagonista del movimento che di lì a un anno, grazie all’impulso di Pierre Restany, finirà per affermarsi con il nome di Nouveau Réalisme: Daniel Spoerri. Il giovane artista svizzero di origini romene è appassionato, oltre che dal movimento, dalla questione del multiplo: dopo avergli parlato del suo progetto di Edizione mat (Moltiplicazione d’Arte Trasformabile), Spoerri invita Duchamp a esporre i suoi Rotorilievi alla galleria Edouard Loeb. La mostra è prevista per il mese di novembre, e Duchamp accetta senza problemi la proposta. Spoerri però non gli dice che le edizioni saranno limitate a cento esemplari. «Perché non mi ha detto che le avrebbe numerate?» gli chiederà Duchamp qualche anno dopo. «Naturalmente avrei accettato anche la numerazione.»17


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Il 18 luglio Teeny e Marcel arrivano a Le Tignet, piccolo villaggio della Costa Azzurra a undici chilometri da Grasse in cui Maurice Fogt possiede una magnifica villa con vista sul mare. Maurice è il padre della loro amica Mimi, giovane artista parigina nonché pupilla di Henri-Pierre Roché che i due hanno ospitato a New York nel 1956. A Le Tignet, Marcel realizza un enigmatico disegno delle montagne circostanti con un palo della luce in primo piano, lo stesso che comparirà in Colli alitati, altro disegno in cui l’artista sovrapporrà il paesaggio allo schema del Grande vetro. L’opera, il cui titolo originale (Cols alités) gioca palesemente sul rimando al termine causalità (causalité), è il tentativo di spingere il Grande vetro sul versante di un “naturalismo” non del tutto estraneo a quanto Duchamp sta sperimentando con Dati… Il 9 agosto Marcel scrive al suo ospite Maurice Fogt: «Ora l’Haut Var assume per noi il significato di un territorio familiare, in cui i gamberi della Cecoslovacchia si mischiano alle trote e al blu sullo sfondo dell’Esterel e del Maures».18 Il giorno dopo, da Nizza, Teeny e Marcel volano a Parigi. Dall’appartamento di Max Ernst e Dorothea Tanning in rue Mathurin-Regnier, Duchamp scrive una lunga lettera a Serge Stauffer, giovane scrittore zurighese che ha in progetto di tradurre la Scatola verde in tedesco e che, dal 1957, intrattiene una fitta corrispondenza con l’artista per qualche chiarimento sul Grande vetro. L’alchimia – scrive Duchamp a Stauffer – è, come tutte le parole attualmente in voga, una parola molto difficile da definire. In ogni caso, il fatto di “fare dell’alchimia” non si può tradurre a parole, e i trattati d’alchimia, che non ho mai letto, devono essere parecchio inadeguati. Si sa che si può “fare del diritto o della medicina” con un linguaggio appropriato. Ma “non si fa dell’alchimia” a colpi di parole o di coscienza superficiale.19

Il 14 settembre 1959 Teeny e Marcel partono per Londra per assistere all’inaugurazione di una piccola mostra organizzata nella biblioteca dell’Institute of Contemporary Arts in occasione dell’uscita del libro di Robert Lebel. Il curatore è l’artista britannico Richard Hamilton, autore di Just What Is it that Makes Today’s Home so Different, so Appealing?, una delle opere chiave della Pop Art che nel 1956 è stata presentata alla mostra “This is Tomorrow”. Duchamp approfitta del soggiorno londinese per occuparsi della versione tipografica della Scatola verde a cui Richard Hamilton sta lavorando da qualche anno. Con lui Duchamp porta a termine l’intervista per la bbc, iniziata a New York con il suo omonimo George Heard Hamilton e incentrata sulla

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questione dei readymade: «Il fatto che [i readymade] non siano fatti con le mani» dichiara M.D. «non mi ha impedito di trovare altri modi per mettere in pratica una tecnica personale e meticolosa. Capisce? Presumo di essere, malgrado me stesso, un uomo meticoloso».20 Nel corso dell’intervista, Duchamp formula chiaramente la nozione di anartista,21 da opporre sia a quella di artista che a quella di antiartista. Alcuni appunti inediti, presumibilmente scritti nello stesso periodo, non fanno che sottolineare l’importanza di questo termine: Credo che la parola arte e il concetto di arte siano un miraggio tautologico. L’arte è una droga che produce tossicodipendenza – l’orgasmo estetico di una società satolla ed egocentrica. Non si può parlare nemmeno di antiarte. Bisogna dichiarare il fallimento della parola arte e del concetto di arte e sostituirli per comodità con il negativo “anarte”. Al contrario, l’individuo artista (in mancanza di un altro aggettivo) esiste, è esistito ed esisterà sempre, ma in quantità molto ristrette, che ammassiamo in scuole, in periodi della storia

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dell’arte, che è anch’essa un’inanità.22

Il 22 settembre Teeny e Marcel riprendono l’aereo per New York. Dopo aver soggiornato per più di un mese all’Hotel Dauphin, il 1° novembre si trasferiscono nel loro nuovo appartamento, al primo piano di un vecchio edificio della 10th Street (28 West 10th Street). Il mese dopo, per le edizioni Terrain Vague, esce Marchand du sel, la prima edizione degli scritti di Marcel Duchamp curata da Michel Sanouillet. Oltre agli appunti relativi al Grande vetro, il libro raccoglie i giochi di parole di Rrose Sélavy e numerosi testi e texticules apparsi nei contesti più disparati (riviste, lettere, cataloghi, avvertenze ecc.). Il ritratto di Duchamp che Sanouillet traccia nella prefazione è particolarmente penetrante: Agevolato da un carattere affabile, Duchamp si è saputo guadagnare le simpatie dei pittori e degli scrittori più disparati, che non fanno mistero della loro reciproca antipatia. Lui vede questi, ascolta quelli, mette fine alle discussioni con garbata autorità. La sua capacità di esporsi senza compromettersi gli è senza dubbio valsa la grande stima di cui gode negli ambienti americani dell’arte. Estremamente riservato sulla sua vita privata, Duchamp non si mette in mostra e non si nasconde. La falsa modestia gli è ignota, quella vera ha contribuito a farne la reputazione. Ancora vivo, si sente lentamente pietrificato nel fiume della storia. Al museo di Philadelphia può visitare la sala che gli è


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stata dedicata e vedersi come lo vedranno i nostri figli nel 2000. Impassibile e benevolo, assiste alla trasfigurazione delle sue azioni più banali in imprese leggendarie. Queste finiscono per assumere un significato in cui è difficile distinguere l’intenzione dalla non intenzione.23

Prima di partire per gli Stati Uniti, Duchamp ha accettato di organizzare con Breton una mostra sull’erotismo (“Exposition intERnatiOnale du Surréalisme”) prevista per metà dicembre alla galleria Daniel Cordier. Di ritorno a New York, l’artista fa alcune proposte, in particolare per la prima sala, fra cui un ingresso a forma «di vagina in caucciù, grezzo ma evocativo»,24 e un soffitto di satin rosa che dovrebbe gonfiarsi al ritmo del respiro ed essere collegato a un paio di labbra spesse. «Ci vogliono una grata e dell’acqua stagnante» precisa a Breton «con un po’ di schiuma sullo sfondo. Bisognerebbe evitare che al primo colpo d’occhio sembri un allestimento, i quadri sarebbero lì solo per decorare le pareti.»25 La partecipazione di Duchamp alla mostra si traduce in un telegramma inviato da New York: «Io purulo, tu puruli, la sedia purula grazie a un lombo di venereo che non ha niente di venerabile. Rrose». Grazie a Duchamp, accanto ai lavori di Giacometti, Miró, Hantaï, 26

Molinier, Mimi Parent e Meret Oppenheim, la mostra presenta per la prima volta a Parigi anche opere di Rauschenberg (The Bed) e Jasper Johns (Large Target Construction). Per l’edizione di lusso del catalogo, l’artista progetta una cassetta delle lettere in cartone con un’etichetta recante la scritta «Scatola allarme, Missive lascive». La cassetta, realizzata da Mimi Parent, contiene, fra le altre cose, poemi di Joyce Mansour e Benjamin Péret, cartoline postali di Gorky e Bellmer, un timbro di Toyen e un esemplare della Coppia di grembiuli di Duchamp. Il 9 novembre l’artista ha scritto a Breton: «Le invio due piccoli grembiuli per proteggere le mani dal calore delle pentole e dei tegami sul fuoco. Uno è maschio, l’altro è femmina… Potrebbero essere prodotti a Parigi, in qualche giorno e a un prezzo più vantaggioso, se l’idea le piace».27 All’inizio degli anni sessanta la fama intellettuale di Duchamp è innegabile, soprattutto negli Stati Uniti. A maggio viene nominato membro onorario del National Institute of Arts and Letters insieme ad Aldous Huxley, Saint-John Perse, Joan Miró, Boris Pasternak, Willem de Kooning e Alexander Calder. Sempre più richiesto dalle istituzioni artistiche delle università americane, M.D. accetta senza problemi il «ruolo di clown dell’arte»: Per aggirare le difficoltà e non essere costretto a entrare in teorie complicate, parlavo sempre della mia opera. Quando lo facevo, aiutandomi con proiezioni,

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spiegavo più o meno ogni quadro. Era molto semplice come sistema e questo si fa spesso negli Stati Uniti dove invitano molto gli artisti a parlare; solitamente davanti agli studenti.28

Quell’aprile, l’artista risponde alle domande che gli studenti e i professori dell’Atlanta Art Association hanno preparato per lui. Un mese dopo, il 13 maggio, è a Hempstead (Long Island) per partecipare al convegno “Should the Artist go to College?” (“L’artista deve andare all’Università?”). Duchamp apre il proprio intervento soffermandosi sull’espressione francese bête comme un peintre (stupido come un pittore), a cui si è riferito esplicitamente nell’intervista con James Johnson Sweeney del 1946: «Questo proverbio francese» spiega l’artista «risale almeno ai tempi della Vita di bohème di Murger, intorno al 1880, e si usa tuttora come battuta nelle discussioni. Perché l’artista dovrebbe essere meno intelligente del Signor Tutti?».29 Dopo una breve cronistoria del processo di liberazione dell’artista, M.D. insiste sulla necessità di sottoporlo a un’educazione, l’unica in grado di 462

fornirgli gli «strumenti adeguati per opporsi a questo stato di cose materialista attraverso il canale di culto dell’io in un quadro di valori spirituali». Citando il pensiero individualista di Max Stirner, Duchamp conclude il proprio intervento con un elogio davvero inatteso della missione spirituale dell’artista: «Credo che oggi più che mai l’Artista abbia questa missione parareligiosa da riempire: mantenere accesa la fiamma di una visione interiore di cui l’opera d’arte sembra essere la traduzione più fedele per il profano. Inutile dire che per compiere questa missione è necessario il più alto grado di educazione».30 Di ritorno a New York, Duchamp continua a lavorare segretamente a Dati… La rinuncia allo studio sulla 14th Street lo costringe a cercare un altro luogo per la sua “scultura”. Aveva bisogno di uno spazio in cui costruire quell’ultima meravigliosa macchina – spiegherà Paul Matisse. – Un atelier d’artista? Uno studio dall’atmosfera artistica? Niente affatto. L’assemblaggio degli ultimi anni sarebbe avvenuto in una stanza assolutamente anonima al quarto piano di uno stabile di uffici. Al 108 di East 11th Street aveva preso in affitto il 403, una piccola stanza più adatta a un contabile. L’unica finestra affacciava su una bocchetta d’aerazione. Niente nome sulla porta, niente visitatori. Per il mondo dell’arte, quella stanza sarebbe stata completamente invisibile: quella porta anonima sarebbe stata la sua seconda barriera di protezione.31


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Ufficialmente, l’attività artistica di Marcel Duchamp consiste principalmente nella gestione del suo “museo portatile”. Le trenta Scatole in valigia realizzate da Iliazd a Parigi sono state vendute, per cui Duchamp deve ricostituire il lotto. Per farlo, chiede l’aiuto della figliastra Jacqueline Monnier, che vive a Parigi. Nel gennaio del 1960, Jacqueline accetta di realizzare altre trenta scatole e assolda un falegname per costruire una nuova custodia in legno. Quando gli sottopone dei dubbi sulla scelta della carta o sui problemi legati all’incorniciatura, Marcel le scrive: «Ti prego di non esitare a prendere le decisioni che ritieni giuste, senza preoccuparti delle mie preferenze».32 Nel gennaio del 1960 Jean Tinguely s’imbarca per New York per esporre alla Staempfli Gallery quattro dei suoi Meta-matics. Durante il viaggio in nave, l’artista progetta di costruire una macchina “autodistruggente”. Il progetto, ben presto ribattezzato Omaggio a New York, risveglia l’interesse del moma, che il 17 marzo invita l’artista a realizzare la sua performance nel giardino del museo. Il «gigantesco monumento di ferraglia eterogenea comprendente gli oggetti più svariati, tra cui ruote di biciclette, carrelli, radio, una macchina da scrivere e perfino un pianoforte», oltre a un pallone meteorologico e a una «nuvola di fumo profumato»,33 impiegherà circa trenta minuti ad autodistruggersi. Duchamp realizza l’invito, componendo un poema per l’occasione: «Se la scia lascia la scia / E se la scia che lascia la scia / È la scia che lascia la scia / C’è Suissscidio metallico».34 Alcune settimane prima, ha invitato l’artista svizzero a visitare il museo di Philadelphia. Qui, ricorda Tinguely: […] mi spiegò ogni cosa. Le sue zollette di zucchero nella gabbia Perché non starnutire? erano divertenti. Non dimenticherò mai il modo in cui riuscì a farmi entrare in testa tutte quelle idee. Sfortunatamente non avevo con me un registratore. Quell’ironia, quella leggerezza nell’alludere al passato… E quel modo di prendersela con la sua opera di un tempo – tutto questo era molto più ironico degli aggeggi ammassati in quel luogo.35

Frequentando Marcel, Tinguely scopre in lui una persona disinteressata e «impossibile da corrompere». Nel 1960 – racconta – ero con lui il giorno in cui dovette autenticare una delle sue opere che cambiava proprietario. Si trattava della Finestra [La Bagarre d’Austerlitz]. A comprarla era stato George Staempfli. Duchamp trovò l’acquirente

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[William Copley], ma non ricevette un soldo. Mi sembrava che a quell’epoca, nel 1960-1961, Duchamp non fosse povero, dunque non era corrotto; era troppo orgoglioso per incassare altri ventimila dollari. Il pezzo, del resto, andò via per ottantamila dollari. Così chiesi a George Staempfli, con cui mi capivo bene: “Cosa fai, dai dei soldi all’artista?”. E lui disse: “No, non ne vuole”.36

Nel giugno del 1960, Duchamp invia una circolare ad alcune personalità dell’arte per raccogliere fondi destinati a promuovere l’attività scacchistica negli Stati Uniti. Nominato presidente dell’Arts Committee for American Chess dell’American Chess Foundation, l’artista ha infatti il compito di «assicurarsi il sostegno di alcune personalità del mondo dell’arte: artisti, mecenati, galleristi e direttori di musei, per promuovere una maggiore partecipazione degli americani nelle competizioni internazionali di scacchi».37 Teeny e Marcel passano gran parte dell’estate del 1960 a contattare i loro amici artisti in Europa e negli Stati Uniti e a raccogliere le loro opere destinate all’asta. La vendita, che ha luogo a New York il 18 maggio 464

1961, comprende più di centottanta lotti di circa centocinquanta artisti (da Miró a Picasso, da Dalí a Rodin, passando per Jasper Johns, Rauschenberg, Stella e Helen Frankenthaler). La vendita frutterà un totale 81.930 dollari; Duchamp dona una Scatola in valigia, che viene battuta per millecento dollari.38 Alla fine di giugno, Teeny e Marcel volano in Europa per le vacanze estive. Dopo un soggiorno di due mesi a Cadaqués, raggiungono Suzanne Duchamp in Grecia, dove visitano Atene, Delfi, Creta, Rodi e Idra. A fine settembre, di ritorno a Parigi, i due si fermano in rue du Bac, a casa di Jacqueline e Bernard Monnier. Durante quel soggiorno Marcel vedrà più volte Serge Stauffer, che da qualche anno si dedica meticolosamente alla traduzione tedesca degli appunti sul Grande vetro. Il loro primo incontro avrà luogo alla Coupole, in compagnia di Daniel Spoerri. All’una di pomeriggio circa – ricorda Stauffer – aspetto seduto sulla terrazza della Coupole, davanti a un Pernod. Lui arriva poco dopo, spedito, con un impermeabile chiaro leggermente liso e un improbabile berretto appoggiato sui capelli leggermente irsuti. Ha anche la sua pipa, che inizia a riempire non appena si siede a tavola, con fare discreto ma energico. Ordina una bevanda gialla a me assolutamente ignota e Daniel si lancia subito in una discussione sulla sua “Edizione mat” e sulla mostra sul movimento in programma ad Amsterdam e a Stoccolma [“Il movimento nell’arte”, la prima grande retrospettiva dell’arte


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cinetica organizzata da Spoerri, Tinguely, Pontus Hulten e Willem Sandberg, avrà luogo l’anno successivo]; gli chiede l’autorizzazione a riprodurre delle sue opere e a realizzarne alcune copie, Duchamp gliela accorda senza problemi.39

La conversazione scivola poi sulla Grecia, dove Duchamp ha passato le ultime tre settimane: Ci dice di esserci stato per la prima volta e di aver visitato tutti i luoghi famosi. “Davvero sconvolgente. L’unica cosa che disturba sono i Greci… Sì, i greci di oggi”, aggiunge maliziosamente, mentre noi lo guardiamo un po’ sconcertati. Parla rapidamente, con disinvoltura, ma il tono è un po’ troppo basso, come se volesse minimizzare l’importanza del suo discorso; seduto accanto a lui, contro il muro, devo tendere l’orecchio per capire quello che dice.40

Quando Spoerri se ne va, Marcel propone a Stauffer di pranzare lì. Ordina ostriche, poi uno zampetto di maiale con insalata (un piatto che adora!) e una bistecca per Stauffer. Dopo alcune considerazioni generali sui rispettivi meriti della cucina francese e americana («Duchamp ammette senza difficoltà che in generale si mangia meglio qui che a New York»), Stauffer gli chiede se gli piaccia vivere nella Grande Mela. Sì, più che a Parigi. Qui c’è sempre qualcuno che vuole chiederti qualcosa – un autografo, una foto, un’intervista… Là non c’è bisogno che partecipi a tutte le serate, ti puoi isolare senza dar fastidio a nessuno. È per questo che preferisco vivere a New York […]; non amo vivere in campagna, ma nemmeno la città è perfetta. In fin dei conti, però, è soprattutto in campagna che non vorrei mai vivere.41

I due parlano dell’importanza di Raymond Roussel («Roussel non è uno scrittore per tutti e forse non lo sarà mai…») e della presenza degli artisti sovietici all’Expo universale di Bruxelles del 1958. «La pittura socialista russa sprigiona uno spirito assolutamente rivoluzionario… Per essere rivoluzionari, oggi, bisogna fare della pittura naturalista, è così!» esclama Duchamp. Stauffer gli chiede se l’apprezzi davvero. «Certo che no!» risponde lui ridendo.42 A partire da quel momento, la conversazione assume una piega essenzialmente politica. Pur non essendo fascista – riprende M.D. – penso che la democrazia non abbia portato granché di sensato. Bisognerebbe pensare che c’è abbastanza pane per

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tutti! È vergognoso che siamo ancora obbligati a lavorare semplicemente per sopravvivere. Gli uomini però non sono mai riusciti a fare della vita qualcosa di più di una competizione – come fra gli animali. Le stesse religioni, di fatto, non sono che un pretesto per creare rivalità, per entrare in competizione. È assurdo! Si sa che i neri non capiscono i bianchi, e viceversa. Ma cerchiamo costantemente di imporre il nostro punto di vista sugli altri… soprattutto noi bianchi! E il risultato è che ci ammazziamo o quasi… Ci sarebbe sicuramente qualcuno disposto a fare il pane per tutti – gratuitamente. E forse ci sarebbe anche qualcuno disposto a vuotare le pattumiere degli altri; bisognerebbe assegnargli una “legione d’onore” in segno di riconoscenza per tutte quelle vili mansioni effettuate per conto di tutti… Ma essere costretti a lavorare per esistere, questa è una vera infamia.43

Dopo aver ricordato Fourier, Stauffer chiede a M.D. se ritenga possibile pensare a un cambiamento. 466

Duchamp mi risponde con tono aspro e privo di illusioni: “Ne avremmo già avuto tutto il tempo!… Può inserirsi in questa competizione, se desidera…”. Poi, con un sorriso, aggiunge: “Forse bisognerebbe fondare una società di pigri… Ma in realtà non è così facile essere pigri e non fare niente”. Mentre Duchamp riprende il filo di un pensiero che lo ossessiona da parecchio tempo, mi viene spontaneo pensare a Stirner e alla sua proposta di un’“Associazione di egoisti”. Anche Duchamp lo pensa? “Sì” dice lui. “L’unico e la sua proprietà è stato recentemente ripubblicato in francese e ne ho comprato una copia. Conosco Max Stirner da molto tempo; è una gran brava persona, in Germania lo conoscono sotto una luce sbagliata… ?”. Io approvo, aggiungendo che l’edizione originale del suo libro non si trova più da diversi anni. “Appunto!” dice Duchamp. “Stirner parlava di tutt’altro che dell’anarchia, anche se poi l’hanno confusa con lui e combattuta, quando non denigrata, sotto il suo nome.” Ormai siamo al caffè. Duchamp riempie la sua pipa e tace. Poi, all’improvviso, aggiunge: “…l’‘Unico’ deve vivere anche lui; deve respirare, altrimenti non può esserci ‘Unico’! Perché è proprio così che si manifesta la sua unicità… In fondo non possiamo dirne molto di più di quel che proviamo dentro di noi o di quel che vediamo. Possiamo vedere, per esempio, che il caffè è nero e possiamo dire: ‘Il caffè è nero’. Per analogia, sentiamo che dobbiamo respirare per vivere, ecc. Tutto il resto, in fin dei conti, non sono che mere affermazioni o semplici opinioni… Quello che crediamo e accettiamo come qualcosa che va da sé, capisce?” (ripete con una frequenza impressionante quel “vous comprenez”, arrotando


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leggermente le r). Per rassicurarmi, o forse per confortarmi, finisce per aggiungere: “Ma questo non significa che ne sappiamo di più quando diventiamo vecchi! Un tempo, quando si mettevano in gioco le idee, si parlava come stiamo parlando oggi io e lei. Non se ne sapeva molto di più, solo che allora c’era meno competizione fra gli artisti. Si stava tutti sulla stessa barca. Oggi tutti hanno fretta di diventare famosi!44

Due giorni dopo, Stauffer va a trovare Duchamp nell’appartamento di Max Ernst e Dorothea Tanning. Con sé ha un dono per l’artista, il libro di Henri Arvon del 1954, intitolato Aux sources de l’existentalisme: Max Stirner. «Gli mostro qualche stralcio delle repliche di Stirner ai critici della sua epoca. Duchamp le legge con grande interesse, sfoglia un po’ il libro, trova altri punti che gli si confanno maggiormente e me li legge.»45 Lavorando al progetto editoriale di Stauffer, Duchamp torna di nuovo sulla questione dei limiti del linguaggio. Il tema attualmente sembra stargli molto a cuore – scrive Stauffer – perché ripete: “In fondo c’è solo una cosa che si può davvero enunciare e stabilire con fermezza: ciò che i nostri occhi vedono. ‘Il caffè è nero’, per esempio, è un fatto, perché io vedo che il caffè è nero e non avrebbe alcun senso dubitarne, significherebbe perdersi in un inestricabile groviglio di malintesi. I nostri scambi sono un accordo, una convenzione – d’altronde, anche il dialogo che stiamo avendo ora è una conversazione e dunque una convenzione. Naturalmente, avremmo potuto sapere già dieci anni fa che questa conversazione avrebbe avuto luogo oggi […], ma questo non ci avrebbe condotti più lontano. Questo non ci conduce a una migliore intesa fra gli uomini dell’affermazione: ‘Credo in Dio’. Alla fin fine non restano altro che semplici certezze del tipo: ‘Questo caffè è nero’. […]”. Io non so cosa replicare, ma Duchamp mi sta già parlando della sua decisione di approfondire questi pensieri nell’intervista radiofonica che rilascerà oggi pomeriggio [le conversazioni con Georges Charbonnier per la Radio Televisione Francese verranno diffuse in sei puntate nel dicembre del 1960 e nel gennaio del 1961]. “Evidentemente” dice “non ci si può spingere troppo lontano in questo genere di considerazioni senza cadere nelle trappole dei filosofi, che hanno sempre un’argomentazione di riserva, un’obiezione qualunque che sul momento lascia disarmati. In ogni caso, nelle interviste, finisci sempre per dire cose che preferiresti non aver mai detto. Avviene tutto così in fretta… Ti trovi alle prese con domande che ti costringono a esprimere un parere su questo o quell’amico sul quale non puoi più tornare e che avresti tanto voluto

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evitare!”. E quasi volesse infondere un tono più allegro alla conversazione, Duchamp aggiunge, ridendo: “Per fortuna ci restano le bugie…”.46

Stauffer a quel punto gli chiede se conosca Wittgenstein. Quel nome sembra non dirgli nulla, a parte il titolo Tractatus logico-philosophicus, che non gli è affatto estraneo: l’artista crede perfino di aver comprato il libro. «Ovviamente non lo posso leggere. Si tratta di logica, non è vero?» Duchamp, comunque, «cerca di formulare una sua breve definizione di logica. Poco dopo sta già parlando di un’altra cosa che mi riguarda e che lo preoccupa di più».47 Le dichiarazioni riportate da Stauffer si rivelano particolarmente importanti in quanto, oltre a mostrarci la grande destrezza con cui l’artista spazia da un argomento all’altro, ci svelano anche gli interessi di Duchamp in quel particolare periodo della sua vita in cui si dichiara più che mai un “anartista”. Con ogni evidenza, l’individualismo radicale teorizzato da Stirner non ha mai smesso di interessarlo dal 1912; per un altro verso, ve468

diamo come il “diritto alla pigrizia” formulato da Paul Lafargue continui a rappresentare la pietra miliare della sua concezione morale e politica, in altre parole della sua arte di vivere.48 La sua diffidenza nei confronti del linguaggio in nome del “nominalismo letterale” assume però qui sfumature inedite, lasciando intravedere un nuovo interesse per le questioni logiche sollevate dalla filosofia del linguaggio nata in seno al Circolo di Vienna.49 Qualche anno dopo, durante le sue conversazioni con Pierre Cabanne, M.D. fa esplicito riferimento a queste idee, riprendendo gli stessi esempi utilizzati nelle discussioni con Stauffer: Gli esponenti del Circolo di Vienna hanno elaborato un sistema secondo cui tutto, da quel che ho capito, è una tautologia, cioè una ripetizione delle premesse. In matematica si va dal teorema più semplice a quello più complesso, ma tutto si trova già nel primo teorema; quindi la metafisica è pura tautologia, la religione è pura tautologia; tutto è tautologia, tranne il caffè nero, perché lì c’è un controllo dei sensi! Gli occhi vedono il caffè nero, c’è un controllo dei sensi, è una verità; ma tutto il resto è pura tautologia.50

In un manoscritto inedito composto presumibilmente in quel periodo e intitolato “Sole nero o non nero, secondo un ragionamento semplicistico e soggettivistico alla Hume?”, Duchamp riprende i punti salienti di queste argomentazioni:


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Se accettiamo il passaggio obbligato del cosiddetto mondo esterno attraverso ciascuno dei cinque sensi, non possiamo fare a meno di concludere che il sole che vediamo noi non è che il sole visto attraverso l’intermediazione dell’occhio e che in realtà esso non è né splendente né giallo né accecante e nemmeno nero, in questo mondo esterno spogliato dei nostri cinque sensi. Sembra dunque che ciò che chiamiamo coscienza sia la manifestazione intima del concetto di essere, il che equivale a una tautologia. Di fronte a tale miraggio tautologico, mi permetto di mettere sotto accusa il verbo essere per i crimini commessi in suo nome. Peraltro, è dal 1920 che la scuola logicista di Vienna accusa di tautologia le grandi verità umane come le matematiche, la religione e la metafisica.51

Alla fine del testo, Duchamp annota semplicemente: «da applicare alla pittura e all’arte».

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