Foto di copertina: Rogi André, Ambroise Vollard, 1936. Tutti i diritti riservati.
Nella stessa collana: 1. Mark Stevens – Annalyn Swan De Kooning. L’uomo, l’artista 2. Calvin Tomkins Robert Rauschenberg. Un ritratto 3. Bernard Marcadé Marcel Duchamp. La vita a credito 4. Gail Levin Edward Hopper. Biografia intima 5. Hunter Drohojowska-Philp Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana 6. Annie Cohen-Solal Leo & C. Storia di Leo Castelli 7. Daniel Farson Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi 8. James Westcott Quando Marina Abramović morirà
Memorie di un mercante di quadri
«Fu così che, non appena debuttai nel mestiere, mi misi in testa di fare una mostra di quadri di Cézanne. Ma per farlo dovevo entrare in contatto con il pittore. Compito tutt’altro che semplice, dato che Cézanne non dava il suo indirizzo a nessuno. Mi dissero che forse l’avrei trovato nei dintorni di Fontainebleau. I viaggi a vuoto che non feci! Setacciai invano gli alberghi più frequentati dagli artisti, finché non mi venne in mente di dirottare le mie ricerche nei negozi di colori della città. […] Di lì a poco mi vidi recapitare circa centocinquanta opere del pittore. Le tele erano tutte arrotolate, e le mie scarse risorse mi permisero solo di esporle al pubblico appese a dei bastoncini da due soldi al metro.»
Ambroise Vollard
Ambroise Vollard (1866–1939), eclettico mercante d’arte, editore e scrittore attivo a Parigi dalla fine dell’Ottocento, è stato promotore di grandi talenti artistici nel periodo fra postimpressionismo e avanguardie storiche.
Ambroise Vollard
Memorie di un mercante di quadri
ISBN 978-88-6010-071-9
Scritti in prima persona a mo’ di aneddoti sul suo esordio nel mestiere, i ricordi del leggendario mercante di quadri hanno il merito di restituirci l’atmosfera di un mondo ormai scomparso. Siamo nella Parigi di fine Ottocento, i pittori “rifiutati” si impongono, a poco a poco, come principali attori della scena su cui muove i primi passi il giovane Vollard. Sbarcato nella capitale per proseguire gli studi di Diritto, non tarda ad abbandonare la toga per frequentare librerie e bancarelle, dove scova stampe e disegni a buon mercato che saranno i suoi primi materiali di scambio. Dotato di uno spregiudicato senso per gli affari, ha anche l’indispensabile fiuto per capire da che parte tira il vento: fa visita alla vedova di Manet, e torna a casa con un’intera raccolta di disegni del maestro; stringe amicizia con Renoir, Degas e soprattutto Pissarro, di cui segue i consigli; rastrella lo studio di Cézanne, poi quelli di Vlaminck, Derain e Picasso; assume una posizione coraggiosa nel mercato d’avanguardia esponendo van Gogh e Gauguin. Con grande audacia Vollard salta dalla pittura, alle stampe, ai libri e diversifica così il lavoro, il suo e quello degli artisti intorno a sé. Unendo due vecchie passioni, la letteratura e la grafica, diventa editore di libri d’arte di gran pregio, illustrati dai pittori ed esposti insieme ai dipinti nella stessa bottega di rue Laffitte. L’epoca è propizia per chi ha una galleria nella “strada dei quadri”, centro di gravità per mercanti e collezionisti dove è facile imbattersi in Matisse, Renoir, Degas, Redon, Apollinaire, Jarry, spesso ospiti delle indimenticabili cene alla Cantina Vollard. È nel corso di tali serate che l’anfitrione tende il suo “orecchio da mercante” per registrare ogni battuta e poterci trasmettere, con la straordinaria verve della presa in diretta, dialoghi e tranches de vie dei più grandi artisti dell’epoca. Sono loro i veri protagonisti delle sue memorie, eppure il lettore coglierà, fra le righe, un’immagine precisa dello stesso Vollard, il mercante di quadri per eccellenza, senz’altro il più immortalato, come dimostrano gli innumerevoli ritratti eseguiti dai pittori del suo entourage, alcuni dei quali riprodotti nelle pagine di questo libro.
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Ambroise Vollard
Memorie di un mercante di quadri Traduzione di Ximena RodrĂguez Bradford
Sommario
Premessa. La prima volta che mi dissero di scrivere i miei ricordi 9 1. Dall’isola della Réunion alla facoltà di Diritto di Montpellier
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2. Il mio arrivo in Francia. Prime impressioni
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3. A Parigi 27 4. Debutto nel mestiere
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5. Montmartre, 1890 51
6. Rue Laffitte 57 7. Le cene alla Cantina
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8. Amatori e collezionisti
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9. Al Louvre davanti all’Olympia di Manet
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10. Da Meissonier al Cubismo 133 11. Alcuni personaggi che ho conosciuto 191 12. Ambroise Vollard, editore e autore
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13. Guerra e dopoguerra
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14. I miei viaggi
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15. Il Premio dei pittori
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16. Divento un proprietario terriero
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17. Un personaggio singolare: Eugène Lautier
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Epilogo 301 Appendice 303 Crediti fotografici 307 Indice dei nomi 309
3 A Parigi
La facoltà di Legge – Acquisti d’occasione – Il signor Innocenti – Pittori, mercanti, collezionisti – Félicien Rops – Il salotto del dottor Filleau – Nello studio di Lewis-Brown
Ho sentito parlare spesso dello stupore dello straniero che arriva per la prima volta a Parigi. Io, finiti i primi due anni di Legge a Montpellier, arrivai una sera d’autunno alla Gare de Lyon, e la prima cosa che vidi furono strade tristi sommerse da una pioggerella incessante. La carrozza che avevo preso finì imbottigliata in un ingorgo di veicoli e cocchieri infuriati che si lanciavano i più velenosi improperi. Usciti dal gorgo approdammo al Quartiere latino, in un alberghetto che mi era stato suggerito e dove, non essendoci il camino, passai la notte a tremare. Ma ero a Parigi, e solo questo contava. Parigi! Una parola magica che bastava da sola a riempirmi gli occhi di ammirazione. L’albergo si trovava in rue Toullier, vicino al Luxembourg. E fu appunto lì che, il mattino dopo, diressi i miei primi passi. Rimasi deluso: era più grande, ma assai meno accogliente del giardino reale della mia isola; solo più tardi avrei imparato ad apprezzarne la magnifica struttura. Andai a visitare i musei, ma tutto ciò che mi rimase dopo aver scarpinato un’ora in quelle sale interminabili fu una grandissima sensazione di noia. Come mi fanno ridere quelli che, abituati a girare il mondo, parlano di ciò hanno visto come se si trattasse di cose familiari! Solo durante la guerra, a luci spente e al chiaro di luna, ho assaporato fino in fondo il fascino incomparabile di Saint-Julien-Le-Pauvre. Anch’io, come tutti, sono stato all’Esposizione coloniale del 1931 e anch’io, davanti al tempio ricostruito di Angkor, ho esclamato, come tutti: «Molto interessante», ma senza provare alcuna emozione. Poi, un giorno, in un caliginoso crepuscolo, i miei occhi si aprirono e io all’improvviso scoprii l’Oriente. La stesso avvenne con il Sacré-Cœur. Una volta che passeggiavo sui grandi
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· Ambroise Vollard ·
boulevard, all’altezza di rue Laffitte, la chiesa mi apparve da lontano, come il richiamo di una città misteriosa che si ergeva all’improvviso davanti a me. Ma non sono l’unico a non essere stato folgorato all’istante dall’incanto di Parigi. Avevo per domestica una ragazza di campagna straordinariamente silenziosa. Ero affascinato da quel suo mutismo, che consideravo una qualità rara, finché una mattina, dopo qualche settimana di servizio, non mi comparve davanti con il cappello in testa e la valigia in mano. «Signore, sono venuta a dirle che me ne vado.» «Come… Che c’è, non si trova bene qui?» «No, signore. Parigi è troppo triste. Al mio paese posso chiacchierare con tutti, qui la gente non mi nota nemmeno. E poi queste strade sono tutte uguali. Mi sento morire… Bisogna che torni a casa mia.» La facoltà di Legge a Parigi non mi vide più spesso di quella di Montpellier. Ciò non mi impedì tuttavia di aggiudicarmi il mio diploma. Subito dopo iniziai il dottorato, ma diedi solo un esame: girovagare per i quais e soffermarmi davanti alle vetrine di stampe e disegni era sicuramente più affascinante. «Che fortuna!» esclamai il giorno che riuscii a ottenere per venti franchi un piccolo dipinto su porcellana raffigurante una Fanciulla dalla brocca rotta. Il 28
quadretto recava la firma “Laure-Lévy d. Bonnat”. Da bambino, su uno dei libri illustrati con cui la scuola premiava gli alunni più meritevoli, avevo letto la storia di una piccola parigina che, ricevuti in dono tre luigi dai genitori, aveva esclamato tutta contenta: «Con questi mi comprerò una bella riproduzione di un quadro di Bonnat, Giobbe sul letamaio». Ma come raccontava l’autore, la sua piccola eroina, uscita per fare quell’acquisto, aveva incontrato per strada un vecchio dall’aspetto miserabile e, mossa da compassione, gli aveva regalato i suoi tre luigi. Questo sacrificio – nel romanzo – avrebbe avuto in seguito la sua ricompensa. I genitori della fanciulla, vittime di un crollo finanziario, morirono in miseria. Tempo dopo, l’orfana ricevette la visita del vecchio mendicante al quale aveva sacrificato il Bonnat. Quando aprì bocca per dirgli che non poteva più aiutarlo, lui estrasse dalla tasca un mazzo di banconote e porgendoglielo disse: «Signorina, io non sono mai stato un mendicante. Al contrario, dedico la mia vita ad aiutare gli altri prestando loro dei soldi a un interesse conveniente. E quando incontro qualcuno che dimostra di volermi bene… Ecco, prendete, ho fatto fruttare i tre luigi per conto vostro». Questa era la storia della fanciulla del Bonnat. Quanto a me, una volta smaltito l’entusiasmo, dimenticai l’autorità di Bonnat e cominciai a dubitare dell’importanza del mio acquisto. Poi mi ricordai che un giorno, a scuola, quando un compagno aveva esclamato: «Che barba, questa Sévigné!», il professore ci aveva detto: «Quando un personaggio celebre vi sembra noioso, ripetetevi sempre: “L’idiota sono io”». E così feci.
· A Parigi ·
Seguendo il consiglio, mi dissi: “Sono un idiota, sono un idiota”. Inutile: ogni giorno che passava, il Bonnat mi piaceva sempre meno. Ritornai dal tizio che me l’aveva venduto e gli lasciai capire che, se l’avesse preso indietro, più avanti gli avrei comprato qualcosa di più costoso. Ma il mercante si accarezzò la barba e con fare sentenzioso mi disse: «Giovanotto, quando avrà la mia età capirà anche lei che è meglio un uovo oggi che una gallina domani». Ero quasi rassegnato a tenermi quel fardello quando un amico mi annunciò il suo matrimonio imminente. Io mi affrettai a offrirgli in dono il Lévy-Bonnat. Qualche mese dopo, invitato a pranzo dai giovani sposi, mi accorsi che il quadro portava soltanto la firma “Bonnat”. Interrogai con lo sguardo il mio amico. «Mia moglie» disse «pensa che basti il nome Bonnat.» Di lì a poco venni a sapere che Bonnat non era una donna, e che la “d.” che seguiva il nome Laure-Lévy sulla Fanciulla dalla brocca rotta significava semplicemente d’après. Il primo quadro di una certa importanza che acquistai fu un Innocenti. Ero ancora studente, e l’affare mi procurò la stima dei miei compatrioti al Quartiere latino. Uno di loro, molto rispettato – per via dei trecentocinquanta franchi mensili che riceveva dai genitori –, dichiarò che aveva la forza di un Rembrandt. Il quadro raffigurava dei contadini che ballavano davanti al focolare. Grazie a quell’acquisto feci conoscenza con l’artista, che mi invitò a visitare il suo studio a Neuilly. Fu tramite lui che conobbi il futuro direttore dell’Union Artistique, la galleria in cui, se così si può dire, mi feci le ossa come mercante di quadri. Innocenti sosteneva fervidamente la causa di una “federazione mediterranea”. Su questo tema dipinse un quadro con tre personaggi a grandezza naturale che rappresentavano rispettivamente la Francia, l’Italia e la Spagna; al centro il generale Boulanger, all’epoca vero idolo dei parigini; alla sua destra e alla sua sinistra, i re di Spagna e d’Italia. Il pittore riponeva grandi speranze in questa allegoria, che vedeva già riprodotta sulle spille appuntate al petto delle signore. E se non riuscì a veder realizzato quel sogno, il suo quadro fu però premiato con la medaglia di bronzo all’Esposizione universale del 1889. Gli amici avevano predetto la medaglia d’onore… Innocenti donò la sua opera allo Stato francese e fu ricompensato con le palme accademiche.* Durante le cerimonie ufficiali, o quando veniva invitato a cena in casa di francesi, non dimenticava mai di appuntarsi la sua decorazione. «Bisogna saper fare onore al paese che ci ha reso omaggio» diceva.
* Onorificenza di cui vengono insignite le personalità che hanno contribuito allo sviluppo e alla diffusione della cultura francese. [N.d.T.]
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· Ambroise Vollard ·
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Édouard Manet, Ritratto dello scultore Zacharie Astruc, 1866.
Il 1890, che bell’epoca per i collezionisti! Si trovavano capolavori dappertutto, e quasi a niente. Per lo straordinario Ritratto dello scultore Zacharie Astruc di Manet venivano chiesti mille franchi, cifra che allora sembrava esorbitante. Ricordo che solo due o tre anni dopo, all’Hôtel Drouot, si faticò a battere per millecinquecento franchi la Donna su un sofà appartenuta a Baudelaire. Nel mio appartamentino al sesto piano di rue des Apennins, avevo un magnifico Nudo di Renoir: chiedevo duecentocinquanta franchi, e nessuno si degnava di guardarlo. Quando aprii la mia piccola bottega in rue Laffitte, dato che i Renoir erano un po’ più quotati, alzai timidamente il prezzo a quattrocento franchi. Ricordo cosa mi disse un “grande” amatore: «Se ne avessi quattrocento da buttar via, comprerei questa tela per bruciarla davanti a lei nel caminetto, tale è la pena che provo nel vedere la firma di Renoir sotto un nudo così mal disegnato». Quando finalmente fu resa giustizia a Renoir, la tela, che nel frattempo era passata per parecchie mani, fu pagata da Rodin intorno ai venticinquemila franchi. Oggi è uno dei gioielli del suo museo. E non si parli dei Cézanne: le sue tele più grandi, nel 1890, venivano vendute da père Tanguy per cento franchi, le più piccole per quaranta. Le più belle litografie di Redon, tirate in venticinque o trenta esemplari, si vendevano a sette franchi e cinquanta; die-
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ci anni dopo si potevano ancora ritrovare per lo stesso prezzo. E Gauguin, che si era rivelato un maestro in tutti i generi, Gauguin pittore, Gauguin ceramista, Gauguin scultore, Gauguin, insomma, di ritorno da Tahiti, si vide rifiutare Orana Maria, la sua Madonna col bambino, che voleva donare al Musée du Luxembourg. Un museo che, del resto, cedendo alle esclamazioni indignate dei membri della commissione, non si sarebbe fatto scrupoli a respingere diciassette quadri della collezione di Gustave Caillebotte. A questo proposito ricordo che suo fratello, Martial Caillebotte, un giorno mi disse: «Vollard, lei che conosce Bénédite [all’epoca direttore del Musée du Luxembourg], non potrebbe convincerlo almeno a tenere in solaio i quadri respinti (che erano poi dei Renoir, dei Sisley, dei Cézanne e dei Manet) in modo da poterli esporre, un giorno, se il vento dovesse cambiare?». Corsi da Bénédite. Mi pare ancora di sentirlo: «Io, un funzionario in cui lo Stato ripone tutta la sua fiducia, dovrei diventare un ricettatore di quadri respinti dalla Commissione!». Qualche anno dopo Renoir mi disse: «Non so più chi mi ha detto che gli Amici del Luxembourg vorrebbero qualcosa di mio. Ma non vorrei mai impormi con una donazione. Mi faccia la cortesia, prenda questo pastello (era Berthe Morisot e sua figlia Julie Manet), vada dal presidente del Luxembourg… Chéramy, sa… e dica che gli vendo questo quadro per cento franchi. Sarebbe molto seccante che si sentissero obbligati a venirmi a ringraziare…». Portai il pastello a Chéramy, e mi trovai di fronte un uomo che indietreggiava atterrito di fronte alla “responsabilità” di far entrare un Renoir al Luxembourg: «La prego di assicurare al signor Renoir che qui lo stimiamo tutti, ma che per non dare adito a critiche abbiamo deciso di sottoporre qualsiasi acquisizione al giudizio del signor Bonnat». Osai allora chiedere a Chéramy: «E qualcosa di Cézanne? Pensa che gli Amici del Luxembourg…». Al che Chéramy replicò severamente: «Cézanne? Perché non van Gogh, già che ci siamo?». L’uomo della strada non la pensava diversamente. Nel 1894 organizzai una mostra del maestro di Aix. Un giorno mi sembrò di udire un battibecco davanti alla mia bottega. Quando mi affacciai vidi una giovane signora trattenuta a forza da una mano virile davanti a un quadro delle Bagnanti: «Costringermi a guardare una cosa simile! A me, che a scuola ero la più brava in disegno!». «Così, mia cara» fece l’uomo «la prossima volta imparerai a essere un po’ più gentile con me.» Quelle proteste, se non altro, non provenivano da un critico d’arte. Ma
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· Ambroise Vollard · Pierre-Auguste Renoir, Berthe Morisot e sua figlia Julie Manet, 1841.
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non ci fu forse, in occasione di quella stessa mostra, uno scrittore di cui la critica d’arte declama a gran voce le tendenze moderne che deplorò Cézanne per essere stato «tradito dalla sua scarsa dottrina» e aver pertanto fallito «nell’arte di distanziare i piani, di dare l’illusione dello spazio»? Con van Gogh si andava di male in peggio: nemmeno i più audaci riuscivano a “mandar giù” la sua pittura. E come stupirsi, del resto, della resistenza del pubblico se Renoir e Cézanne, che erano gli artisti più liberi, gli rimproveravano a turno il suo “esotismo” o gli dicevano: «Sinceramente, la vostra è la pittura di un pazzo!». Se i veterani avevano tante difficoltà ad affermarsi, che dire dei giovani come Bonnard, Vuillard, Roussel, Denis o Maillol? In realtà, in questo elenco di giovani che vendevano a fatica non dovrei a citare Maurice Denis: lui riuscì a imporsi subito. Ricordo un articolo, se non sbaglio di Arsène Alexandre, in cui si diceva che il grande avvenimento della settimana non era la caduta del ministero, ma la mostra di Maurice Denis al Salon des Indépendants.
· A Parigi · Paul Gauguin, Orana Maria, 1891.
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Già dal 1892, comunque, si ebbero chiari segnali che la pittura dei giovani avrebbe finito per averla vinta. Le Barc de Bouteville, un piccolo mercante che trattava quadri antichi, aveva deciso, su suggerimento di Vogler (un allievo di Sisley), di “svecchiare” un po’ la sua bottega con una mostra di giovani. Dopo un breve clamore, però, tutto tornò alla calma piatta di sempre. Le Barc de Bouteville non fu il solo a precorrere i tempi. Prima di lui un vecchio commerciante di colori, tale père Tanguy, si era interessato tanto alla nuova pittura da fare credito agli artisti che dipingevano “chiaro”. Arrestato per errore durante le ultime giornate della Comune e accusato di ribellione con il rischio di essere fucilato, il buon uomo aveva finito in assoluta buona fede per credersi un rivoluzionario. Risparmiato per ragioni che lui stesso faticava a capire e dedicatosi al commercio dei colori, prese a proteggere sotto la sua ala gli artisti innovatori, nei quali si compiaceva di vedere dei ribelli come lui. A onor del vero bisognerà aggiungere che faceva credito anche a quelli che dipingevano “oscuro”, a patto però che conducessero una vita morigerata e non andassero, per esempio, a bighellonare al caffè o a giocare alle
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34 Paul Cézanne, Tre bagnanti, 1875-77.
corse. Quel comunardo d’elezione, infatti, era l’uomo più borghese del mondo, e nessuno poteva cavargli di testa l’idea che la buona condotta fosse una garanzia inevitabile di successo. E se col suo mestiere père Tanguy non si arricchì mai, finì tuttavia per conquistarsi la stima degli artisti. Émile Bernard gli fece scoprire Cézanne e van Gogh. Quest’ultimo eseguì parecchi ritratti di Tanguy, di cui uno a grandezza quasi naturale che lo raffigura seduto. Oggi il quadro si trova al museo Rodin. A chi cercava di comprarglielo, père Tanguy chiedeva freddamente cinquecento franchi, e a quelli che protestavano per la cifra spropositata rispondeva: «Ma io non ci tengo a vendere il mio ritratto!». Il quadro gli tenne compagnia fino alla fine dei suoi giorni; quando morì, fu Rodin ad acquistarlo. Alla vendita Tanguy mi aggiudicai cinque tele di Cézanne per circa novecento franchi. Quando formalizzammo l’acquisto, Paul Chevallier, il commissario d’asta, si congratulò con me per aver rischiato tanto – il prezzo di partenza era dieci franchi per ogni pezzo. Davanti a quel complimento, mi sentii ancora più imbarazzato nel confessargli che avevo solo trecento franchi. Proposi di versarglieli come anticipo finché non sarei riuscito a riscattare il mio acquisto. Lui mi fissò un istante. «No, si prenda pure i quadri. Mi
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pagherà tutto in una volta, quando potrà.» Che brav’uomo, quel Chevallier! Questo ricordo basta forse a spiegare perché, alla sua morte, siano state trovate tante cambiali in sospeso nella sua cassaforte. Un giorno, sfogliando qualche libro alle Galeries de l’Odéon, mi era capitato fra le mani il Qualcuno di Huysmans.* Quello che diceva del satanismo di Félicien Rops mi fece venire voglia di conoscere l’artista. In una bancarella sui quais trovai una stampa non firmata che mi parve sua. Mi chiesero cinque franchi, l’ottenni per tre e cinquanta. Allora mi feci coraggio e andai a bussare alla porta dell’artista. Dopo aver letto Huysmans, mi aspettavo di entrare nell’antro di uno stregone. Quando la porta si aprì, apparve sulla soglia un uomo completamente nudo: era Rops. Ho detto “nudo”, ma sarebbe più esatto dire che indossava una visiera verde e, sui fianchi, una specie di bavaglino tenuto su da una fettuccia. Mi accolse senza il minimo imbarazzo. Dell’acquaforte che gli mostravo disse che era un’opera rarissima, di cui non gli restava nemmeno un disegno preparatorio. Mi propose uno scambio, e al suo posto ottenni un acquerello raffigurante una donna nuda con guanti e cappello, la cui vista eccitava visibilmente una scimmia in gabbia. Uscii da quella casa tutto orgoglioso di possedere un’opera così caratteristica dello stile del pittore. Più tardi avrei sentito il suo allievo Rassenfosse definire Rops “il Cabanel belga”. Ebbi occasione di riferire quell’apprezzamento a Renoir, che commentò: «Il bello è che voleva pure fargli un complimento». In una delle mie visite, Rops mi presentò un suo amico, il poeta Edmond Harancourt. Lo persi di vista per più di quarant’anni, poi, un giorno, lo rincontrai. «Curioso!» mi disse quando ci ritrovammo. «La prima volta che la vidi da Rops aveva una cartella sotto il braccio, e oggi la ritrovo con un’altra cartella sotto il braccio! Devo confessarglielo: quella volta, da Rops, l’ho maledetta in silenzio… Prima che entrasse, Rops stava firmando un magnifico esemplare del suo Incantesimo che voleva regalarmi. Poi è arrivato lei a chiedere quell’incisione per un cliente, e naturalmente se l’è aggiudicata… Ma non si preoccupi» aggiunse il poeta «ho smesso di serbarle rancore da un pezzo.» Rops teneva molto alla sua fama di sciupafemmine, e non si faceva nemmeno molti problemi ad ammettere i suoi fiaschi. Fu così che venni a conoscenza di questa piccola avventura. Un giorno ricevette una lettera. «Caro signor Rops», c’era scritto, «quand’ero ragazzina mi diceva sempre che avrebbe voluto farmi un ritratto. Così ho deciso: verrò a trovarla nel suo studio.» Rops non ricordava nulla, ma era molto impaziente di vedere la persona che
* J.-K. Huysmans, Certains [1889], in Écrits sur l’art, Flammarion, Paris 2008, trad. it. Qualcuno, es, Milano 2004. Il libro raccoglie gli articoli di critica d’arte che lo scrittore dedicò ad alcuni pittori dell’epoca, fra cui Cézanne, Moreau, Whistler, Degas e Rops. [N.d.T.]
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si annunciava a quel modo. All’ora stabilita, sentì bussare alla porta. E sulla soglia vide comparire una donna grassa e baffuta con i capelli grigi. «Com’è ingrassato, signor Rops! Si ricorda che cercava sempre di baciarmi? Ma io sono sposata, adesso, dovrà comportarsi bene…» Ricordo anche il giorno in cui, due o tre anni prima della sua morte, andai a trovarlo. Mi disse che aspettava una donna, così feci per andarmene. «Resti» disse lui. «Quando sentirà battere tre colpi, potrà uscire dalla porta sul retro.» Un istante dopo udii i tre colpi e mi alzai. Istintivamente, però, mi voltai: era la sua vecchia domestica che gli portava una tazza di tisana. Tramite Rops conobbi il dottor Filleau, grande amante degli impressionisti. Quanti momenti piacevoli passai in casa sua! Il martedì era il giorno del lesso, al quale gli intimi erano immancabilmente invitati. Dopo cena gli ospiti venivano dilettati dalla signora Filleau, la futura Jeanne Ronnay, mirabile interprete delle musiche di Vincent d’Indy. Fra gli habitué della casa c’era il signor Dumay, responsabile dell’ufficio del ministero dei Culti, ragion per cui il dottor Filleau era sempre circondato da una zelante corte di ecclesiastici. I quali, quando non osavano rivolgersi direttamente a Dumay, ricorrevano sempre all’amabile anfitrione. Un giorno, un prelato gli fece arrivare in dono una magnifica aragosta viva, accompagnata da un biglietto su cui erano 36
scritte queste parole, che allora mi parvero estremamente spiritose: «Sulla sua tavola, troneggerà come un cardinale». Un’altra volta un aspirante all’episcopato portò al dottor Filleau le sue due graziose nipoti perché le visitasse; queste, naturalmente, non fecero che tessere gli elogi del loro grandioso zio. Il direttore dei Culti prendeva immancabilmente nota di quei grossolani mezzucci, per evitare che qualche indegno si mescolasse alla sacra milizia di cui era il custode. Per quanto anticlericale, infatti, Dumay non scherzava affatto col prestigio della gerarchia ecclesiastica. In uno di questi martedì commisi una gaffe che ancora oggi, a ripensarci dopo tanto tempo, mi ossessiona. Quella sera, per la prima volta, mi trovai di fronte a una signora molto loquace, che sembrava parlare col naso. «Non le sembra» dissi a un vicino, tanto per attaccare discorso «che quella signora farebbe meglio a chiudere il becco?» «Non sa come la capisco! Io, dopo trent’anni, non mi ci sono ancora abituato.» E di fronte al mio sguardo sbalordito aggiunse: «Sì, sono suo marito». Un giorno che uscivo insieme a Rops da casa del dottore, con lo sguardo ancora abbagliato dai quadri che ornavano le pareti lo sentii dire: «Tutto ciò è davvero pazzesco, non le pare?». «Be’, non saprei. In ogni caso trovo che sia molto piacevole da guardare…» «Se la pensa così, peggio per lei. Se l’occhio si abitua a quella pittura, vuol dire che si è già fregati.»
· A Parigi ·
Qualche tempo dopo riuscii a vendere a un buon prezzo la Donna con scimmia di Rops, e con parte del guadagno acquistai un acquerello di John LewisBrown, un pittore che, per quanto minore, non merita certo l’indifferenza cui è ridotto oggi. Incantato dal mio quadro, che raffigurava dei cavalieri, mi feci coraggio e andai a far visita al pittore con il mio acquerello sottobraccio. Dopo essersi congratulato per il mio “occhio”, lui aggiunse tre leggeri tocchi a tempera all’elmo di uno dei cavalieri: «Così» disse «è perfetto». Ricordo che, entrando nel suo studio al pianterreno di rue Ballu, rimasi sbalordito nel vedere un generale a cavallo in quel piccolo giardino: si trattava di un modello. «A proposito» gli dissi «in boulevard Montmartre ho visto un magnifico disegno di cavalli.» «Da Boussod, non è vero? Sfido io… è di Degas, il maestro di tutti noi. Ma lei Degas l’ha già visto: l’altro giorno, quando siamo usciti insieme, quel signore con gli occhiali neri che ho salutato…» «Ma come fa Degas a piantare il cavalletto in mezzo alla folla?» «Lui dipinge al terzo piano, con dei modellini di legno.» E notando la mia aria supefatta: «Certo, va anche agli ippodromi, a Auteuil, a Longchamp… Ma è nel suo studio, facendo muovere i cavallini di legno sotto la luce, che ricostruisce la natura. Proprio come Daumier. Il suo amico Boulard mi ha raccontato che un giorno, a Valmondois, Daumier gli disse: “Mi piacerebbe realizzare uno studio di anatre”. Boulard lo portò nella corte: spinsero le anatre nello stagno e, mentre sguazzavano, Daumier fumava la pipa parlando d’altro. Qualche giorno dopo, andato a trovare l’amico nel suo studio, Boulard si fermò stupito davanti a un bozzetto di anatre… E Daumier: “Ti ricordi? Le ho viste a casa tua”. Io, ahimè, non sono bravo a rievocare le cose che ho visto» continuò Lewis-Brown. «Devo servirmi di cavalli veri. Per fortuna ho un giardino.» «Ma per i nudi» osservai con non poca ingenuità «Degas non si serve di donnine di legno!» «Certo che no» replicò Lewis-Brown. «Ma a un essere umano puoi imporre qualsiasi posa, e Degas, glielo garantisco, non si fa scrupoli a ottenere quello che vuole! A proposito di modelli nudi… Un giorno sono andato a trovare Harpignies. Mi ha mostrato dei paesaggi, poi, con fare misterioso, mi ha chiesto di seguirlo in camera sua. Una splendida donna, sdraiata nel letto, dormiva, dandoci la schiena. “Guardi questo ben di Dio” mi ha detto Harpignies, scoprendo un meraviglioso paio di natiche. “Mi creda, è una vera tentazione per un pittore! Ah, perché devo essere solo un paesaggista?”.» Ebbi modo di constatare quale vantaggio fosse, per un pittore di cavalli, abitare come Lewis-Brown al pianterreno. Qualche tempo dopo, infatti, scen-
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dendo una scala, m’imbattei in un uomo a cavallo che mi chiese: «È lassù lo studio di tizio?». Venni poi a sapere che il pittore in questione, specializzato in quadri di uccelli, aveva esposto al Salon un’allodola di straordinaria raffinatezza. L’uomo che gli aveva comprato il quadro, un argentino, gli chiese se sarebbe stato in grado di ritrarre un cavallo con la stessa precisione. «Perché no?» aveva risposto l’artista. «Con me sopra…» aveva soggiunto l’argentino, chiedendogli un appuntamento nel suo studio. «Nel mio studio?» fece il pittore. «Non ci pensi nemmeno! Abito al quinto piano.» «Bueno!» fece l’argentino. «E con ciò? Da noi i cavalli salgono anche le scale.» Per far apprezzare a Lewis-Brown la fortuna di abitare al pianterreno, un’altra volta che andai a trovarlo gli raccontai la storia dell’argentino. Lui era su tutte le furie: «Ho appena rivisto l’Angelus. È nuovo di pacca! Io quel quadro lo conoscevo pieno di screpolature!». Il dipinto era passato per le mani del signor Chauchard, celebre direttore dei Grands Magasins du Louvre, il quale, data la sua grande considerazione 38
per le opere dei grandi maestri, non aveva evidentemente sopportato l’idea che un simile capolavoro potesse essere esibito con il minimo difetto.
4 Debutto nel mestiere
L’Union Artistique – Tra Alphonse Dumas e Debat-Ponsan – Il mio primo cliente – Trovo un finanziatore
Avevo detto a Rops che mi sarebbe piaciuto fare il mercante di quadri, nella speranza che mi scrivesse due righe di raccomandazione da presentare in qualche galleria dove potermi fare le ossa. «Io di mercanti non ne conosco quasi» mi rispose. «Tratto direttamente con gli amatori.» Poi, dopo aver riflettuto un momento: «Però posso aiutarla lo stesso». Prese da un cassetto una fotografia di quando era giovane e me la diede dopo avervi scritto: «Ad Ambroise Vollard, il Georges Petit di domani». Firmato: «F. Rops». Una simile presentazione non poteva che lusingarmi. Al tempo stesso, però, mi imbarazzava, per cui non osai servirmene. Provai comunque a rivolgermi alla galleria Georges Petit, per la quale fortunatamente avevo una lettera di presentazione firmata da un banchiere. Non osando rivolgermi direttamente al capo, dirottai su un tizio che sembrava godere di una certa importanza e gli presentai la lettera. «Quante lingue straniere parla?» chiese, dopo avermi lanciato un’occhiata inquisitoria. «Nessuna. Ma non ho pretese: all’inizio posso fare a meno dello stipendio.» «Di impiegati che fanno a meno dello stipendio ne ho quanti ne voglio, e parlano anche diverse lingue!» Era Georges Petit in persona. In quell’epoca entrai in contatto con Alphonse Dumas, un benestante che viveva di rendita e si dilettava con la pittura. Era allievo di Debat-Ponsan, specialista nel ritrarre mucche sui prati e ministri, soprattutto quelli nati a Tolosa. Da lui ottenni un impiego retribuito.
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Alphonse Dumas aveva aperto una galleria di quadri. Lungi dal volersi arricchire, puntava solo a guadagnare dalla pittura degli altri il necessario per sovvenzionare la propria. Segretamente, forse, nutriva l’ambizione di vedere i passanti fermarsi davanti a una vetrina in cui fossero esposti i Busti femminili e le Ninfe sorprese firmati Alphonse Dumas. Ciò a cui teneva di più, in ogni caso, era non passare per un mercante di quadri. «Vede» mi spiegava «io appartengo a una famiglia di artisti. Non ho aperto una bottega, ma un salotto: sono un uomo di mondo che fa da intermediario fra il pittore e l’amatore. Debat-Ponsan mi darà dei suoi lavori, e il mio amico Gillou ha promesso di portarmi alcuni membri del suo circolo.» A onor del vero, bisognerà dire che questi signori non furono di alcun appoggio per l’Union Artistique. Tutto quel che facevano era venire lì a chiacchierare fra le sei e le sette, all’uscita dal circolo. Una sera che uno di loro lo costrinse a ritardare di un quarto d’ora la chiusura della galleria, Dumas disse: «L’unica certezza, qui, è che consumo gas inutilmente. Si può sapere cosa fa tutta quella gente?». Indicò la terrazza di un caffè vicino, traboccante di folla. «Prendono l’aperitivo.» «Invece di pensare ad abbellire le loro case! Ah, mio caro Vollard, oggi si 40
vive troppo in strada.» Di acquirenti, comunque fosse, se ne vedevano pochi. Una volta però nutrimmo serie speranze di chiudere un grosso affare con dei Debat-Ponsan. Ero da solo in galleria quando entrò un americano. In gran fretta, perché il giorno dopo doveva imbarcarsi, mi chiese se potevamo fornirgli una dozzina di paesaggi con animali. «Sono chiuso in ufficio dalla mattina alla sera» mi spiegò «e rientrando a casa vorrei vedere dei quadri che mi facciano dimenticare tutta la gente che ho visto durante il giorno. Parto domani sera. Mostratemi qualcosa e farò l’ordine.» Come ho già detto, Debat-Ponsan era specializzato in mucche, ma ci aveva assicurato che in base alle richieste dei clienti poteva anche dipingere cavalli, asini, pecore e perfino volatili. Non appena Dumas arrivò lo misi al corrente. «Presto, andiamo da DebatPonsan a dargli la buona notizia! Gli Stati Uniti sono una miniera d’oro!» Col pensiero si figurava già navi cariche di Debat-Ponsan dirette in America. Ma disgraziatamente, quel giorno, Debat-Ponsan non aveva pronto neanche un quadro di mucche. «E questo magnifico toro?» protestò Dumas guardando una tela appoggiata alla parete. «Oh, no! Ho ultimato solo la parte bassa.» «E con questo? Non basta a dare un’idea?»
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«Ho giurato che non avrei mai fatto uscire dal mio studio un lavoro incompiuto. Nella fase in cui si trova, chiunque potrebbe indovinare la mia tecnica e impossessarsene. Chi mi garantisce che il vostro cliente non sia un pittore sotto mentite spoglie?» Tremando alla sola idea, Dumas e io fummo costretti a lasciar partire l’americano senza concludere nulla. Ma il giorno dopo fummo in parte ricompensati: un cliente ci ordinò due quadri su commissione. Le tele dovevano raffigurare entrambe un soldato. «Non conosco nessun pittore militare» ci disse. «Mi interessa solo che a realizzarle sia un fuoriclasse. E vorrei anche che uno dei soldati fosse uno zuavo. Per l’altro non ho preferenze, purché non appartenga a un’arma specializzata. Lasciate che vi spieghi: io sono stato zuavo… Se avessi il tempo di posare…» Più che di un fuoriclasse, quell’uomo avrebbe avuto bisogno di un pittore dotato di tanta immaginazione da restituire un’idea verosimile dello zuavo che poteva esser stato in tempi remoti. Ma con quella pancia e quelle guance cadenti… Quando disse che era solo la mancanza di tempo a impedirgli di posare, la giovane donna che lo accompagnava – una donna molto bella – non riuscì a reprimere un sorrisetto. Quanto a me pensai che, se una volta era stato uno zuavo, adesso aveva molte probabilità di essere semplicemente un cornuto. Alphonse Dumas, intanto, non pensava che ad accontentare il cliente: «E se allo zuavo affiancassimo un cavaliere che precipita a terra?». «No, non mi piace veder la gente soffrire» disse l’uomo che, oltre alla pancia, doveva avere anche un cuore d’oro. «È l’arma che deve essere inferiore.» «Come non detto» disse Dumas. «E se ci mettessimo un soldato di fanteria?» «Perfetto. Un macinachilometri!» Alphonse Dumas propose subito il nome di Debat-Ponsan, il quale, cimentandosi nel nuovo genere, fece davvero meraviglie: il suo zuavo era magnifico; quanto al fantaccino, aveva l’aria di essersela fatta nei pantaloni. Nel frattempo il pittore aveva ultimato il suo toro. Immediatamente esposto in vetrina, il quadro attirò l’attenzione di un passante nel quale mi sembrò di intravedere un venditore di ferraglie. Avevo sentito dire che la gente finisce per prendere qualcosa dall’ambiente in cui vive, e quello aveva dei gomiti e delle ginocchia a punta. Nel suo aspetto, insomma, tutto faceva pensare a un negoziante di lime e di chiodi. Il mio uomo non la smetteva più di ammirare il Debat-Ponsan. «Un toro possente e dei fiorellini delicati: che bel contrasto!» “Un ferraiolo poeta” pensai. «E come si intitola questo quadro?» si informò il visitatore. «Virilità» dissi io. E stavo anche per aggiungere: «È il titolo scelto dal maestro» quando, vedendo l’aria delusa del mio interlocutore, mi fermai. Debat-
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Ponsan mi aveva autorizzato a cambiare il titolo dei quadri a seconda delle circostanze, perciò continuai: «Questo, almeno, è il titolo che potrebbe dare un’anima sensibile alla poesia di questo dipinto…». «Ma come si chiama in realtà?» «Aprile» dissi con sicurezza. «Aprile, il mese in cui sbocciano i fiori e in cui la natura, al soffio della primavera…» Il viso del mio ferraiolo sembrò illuminarsi di gioia. Dunque poteva portarsi a casa quella tela, introdurla nell’intimità domestica senza dover arrossire davanti alla moglie o dare scandalo alle figlie… «Aprile, che simbolo potente! Signore, sono un docente di estetica alla facoltà di Lettere. Farò ai miei allievi il nome di Debat-Ponsan. Aprile! Quante immagini può rievocare la magia di una parola! Voglio comprare il quadro. Ma…» Di colpo il viso del professore si rabbuiò: «Quell’azzurro là in alto, tra i rami dell’albero… Sembrerebbero dei nontiscordardimé. Come, una pianta parassita su un albero…». Io avevo avuto esattamente la stessa impressione, e non avevo mancato di farlo notare al pittore: «Sbaglio, o ci sono dei nontiscordardimé tra i rami della quercia?». «Maledizione!» aveva esclamato l’artista. Poi, ostentando una grande natu42
ralezza: «E con questo, che c’è di tanto straordinario? È un richiamo di tono!». E con aria di sufficienza aveva aggiunto: «Sono cose da pittori, ragazzo». Forte della decisione di cui aveva dato prova il maestro, dissi dunque al cliente: «Quelle macchie azzurre? Ma è un richiamo di tono! Sono cose da pittori…». «Che cosa straordinaria l’arte!» esclamò il professore. «Un profano, davanti a questo quadro, direbbe: “Come fa una quercia a generare dei nontiscordardimé?”. E invece noi diciamo semplicemente “richiamo di tono”. Richiamo di tono!» Il suo volto si illuminò di un sorriso malizioso: «Inchioderò al muro il mio collega di botanica, con quei nontiscordardimé…». All’Union Artistique le giornate scorrevano tranquille. L’interesse per i DebatPonsan, a dire il vero, cominciava a scemare. Un giorno, un entusiasta della prima ora che si era aggiudicato una Mucca con vitello, tra i quadri più riusciti del maestro, venne perfino a chiedere a Dumas di riprenderselo. Ma ci aspettavano giorni migliori. La galleria riuscì a piazzare, uno dopo l’altro, tre Debat-Ponsan. Ricordo anche che un amatore venne a comprare una tela del bordolese Quinsac: una fanciulla che scaldava una tortorella tra i suoi floridissimi seni. «È un regalo adatto da fare alla propria fidanzata?» si informò timidamente.
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Noi facemmo di tutto per rassicurarlo. «Da qualche giorno» ci confidò «andando in ufficio passavo di qui per rifarmi gli occhi con quella carnina prelibata. Un regalo è più bello se piace anche a noi, non è vero?» Quando se ne andò dissi a Dumas: «Visto come la pensa, sarebbe capacissimo di regalare alla moglie un fucile da caccia per il suo compleanno!». Un amico della famiglia Dumas, che era lì presente, non sembrò apprezzare granché la mia osservazione. Più tardi venni a sapere che anche lui aveva l’abitudine di fare alla moglie dei regali utili (per lui, s’intende). Per l’anniversario di matrimonio aveva portato alla sua dolce metà una magnifica pipa di schiuma. E di fronte allo stupore della moglie, indicando il fornello raffigurante una testa di vecchio dalla barba bianca, aveva detto: «Non vedi? È il ritratto di tuo padre, tale e quale». Al decimo Debat-Ponsan venduto, Dumas diede un ricevimento per pochi intimi nella sua palazzina di Neuilly. Anch’io ero tra gli invitati. All’ora del tramonto, mentre gli ospiti in giardino ammiravano il sole che faceva capolino tra le nuvole, uno esclamò: «Guardate! Un cielo alla Monet». «Cosa ne pensa il maestro?» chiese Dumas a Debat-Ponsan, intento a guardare il cielo. «Certo, come no… Ma in un tramonto, come in tutte le cose della natura, c’è del buono e del cattivo…» Proprio in quell’istante si udì un tuono. «Vedete?» esclamò un altro. «Un cielo così non poteva essere normale.» «Io» proseguì un terzo «quando il cielo si diverte a fare dei Monet, ecco come gli rispondo.» Ed entrò in casa. «Ma l’arte» chiese un altro «non deve imitare la natura?» «Io so solo una cosa» replicò Debat-Ponsan. «Io ho avuto la medaglia d’oro. Quando il vostro Monet potrà dire altrettanto, ne riparleremo… La natura! Se adesso è dalla parte di quelli che dipingono senza saper disegnare, tanto peggio per lei! Non verrete certo a dirmi che Corot era un incapace, no? Ebbene, Corot ha detto che l’artista deve saper correggere la natura. È il vecchio moto degli antichi: ars addit naturae.» «Io, con quegli stramaledetti impressionisti, l’ho scampata per un soffio» dichiarò un altro. «Un giorno ho comprato, senza far caso alla firma, un quadro che raffigurava un punto dell’Oise in cui si andava spesso a passeggiare con mia moglie. L’abbiamo adocchiato in una vetrina e non siamo riusciti a resistere: l’abbiamo comprato subito. Poi, un giorno, qualcuno ci dice: “Come? Tenete in casa un Pissarro?”. Appena l’ho saputo non ci ho pensato due volte a disfarmene. Per prima cosa, la pittura degli impressionisti è con-
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tro le mie idee; e poi, mia moglie dice che quando si hanno delle figlie bisogna mantenere gli interni decorosi.» A queste parole il signor Dumas, che aveva quattro figlie da maritare, diventò improvvisamente pensieroso. Il giorno dopo arrivò all’Union Artistique con una grande cartella da disegno sotto il braccio. «Devo confessarle» mi disse «un peccato di gioventù. Ho conosciuto il vecchio Noisy quando era ancora agli inizi e si occupava soprattutto di libri. Io all’epoca avevo una vera passione per i romantici. Una volta mi si avvicinò e disse: “Voglio portarla da un pittore di cui si comincia a parlare parecchio”. Subito pensai: “Noisy conosce i miei gusti, probabilmente c’è qualcosa per me”. E invece ecco che mi porta in uno studio dove tutto era di un tale modernismo! «Mentre altre persone si intrattenevano con l’artista, Noisy mi venne vicino: “Ho detto al pittore che le piacciono molto i suoi lavori”. E prima ancora che avessi il tempo di aprire bocca, eccolo dire all’artista: “Il signor Dumas non osa chiederglielo, ma se potesse andarsene dal suo studio con qualcosa in mano…”. Ero spacciato. Il pittore scelse qualche disegno, staccò dal muro un acquerello incorniciato e mi consegnò il malloppo. Quello scherzetto mi costò ben die44
ci luigi, e le assicuro che in quel momento non ridevo affatto. Oggi sembra che questa roba inizi ad avere valore: una ragione in più per disfarmene. Sono quindici anni ormai che i miei dieci luigi se ne stanno qui dentro a marcire.» Dumas prese la cartella che giaceva per terra e ne tirò fuori parecchie opere di Manet: l’acquerello dell’Olympia, il disegno originale della litografia dei Gatti di Champfleury, una stesura litografica a colori del Pulcinella, qualche magnifica sanguigna e, infine, una dozzina di schizzi di gatti. «Credo sia tutto» disse Dumas, ma scuotendo la cartella fece cadere ancora un bellissimo studio di donna, dipinto su pergamena. «Come mi avrebbero preso in giro i miei amici, se avessero visto questa roba! Ma conto su di lei per disfarmene. E mi raccomando, non metta niente in vetrina. Se Debat-Ponsan piombasse qui all’improvviso e si vedesse esposto di fianco a un Manet…» Si direbbe proprio che le grandi opere nascondano in sé misteriose virtù. Obbedendo agli ordini del mio capo, mostravo i Manet con molta discrezione, ma nel giro di pochi giorni finii per vendere tutto. Dumas non riusciva a credere ai suoi occhi. Una cosa, però, non gli andava giù: l’amatore che aveva acquistato i Gatti aveva preteso che in cambio gli prendessimo un Sisley. «E io che avevo giurato di non tenere mai più un impressionista… Trovi il modo di rifilare quel Sisley a un cliente di passaggio. Insomma, faccia del suo meglio. E soprattutto, vendita riservata. Non facciamoci scappare i clienti. Mi sono spiegato?» La galleria, infatti, cominciava ad avere il suo giro. Il giorno prima aveva-
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mo venduto due soggetti floreali di Jeannin, e se non fossimo stati a corto di nature morte le vendite sarebbero sicuramente salite a tre. Un grosso cliente, inoltre, era in trattative per un ritratto di Quinsac e un bozzetto di pecore di Debat-Ponsan. Un pomeriggio, sulla porta, Dumas mi aveva detto: «Torno fra due ore, ho un appuntamento al circolo». Certo di avere totale libertà di movimenti, tolsi il Debat-Ponsan dalla vetrina e vi sistemai il Sisley. Cinque minuti dopo era venduto. Non che, all’epoca (1892), gli impressionisti fossero molto apprezzati. Ma fu così che andò. Rientrando, Dumas disse: «Senta, Vollard, per quel Sisley… Penso che dovremo contattare l’amatore che ce l’ha appioppato e convincerlo a riprendersi il suo quadro per pochi soldi». «Ma io l’ho venduto.» «Impossibile! A qualcuno che conosciamo?» «No, a uno sconosciuto. Ha detto che tornerà a vedere se abbiamo lavori dello stesso genere.» «Gli ha detto, almeno, che qui non teniamo quel genere di pittura e che se non fosse stato per un caso…» La vita, in quell’ambiente, diventava sempre meno piacevole. E un giorno che, non avendo di meglio da fare, mi sporsi dalla finestra dell’ammezzato, ecco che all’improvviso la barra di protezione cedette. Stavo per precipitare nel vuoto quando mi sentii trattenere da qualcosa di molto simile a una mano. Era uno spunzone di ferro conficcato nel muro. Qualche istante dopo comparve un fabbro. «Sono venuto a rimuovere un uncino di ferro dalla finestra dell’ammezzato. Sarei dovuto venire ieri, ma il mio ragazzo si è rotto una gamba.» «Be’» dissi io. «Non sa quanto mi renda felice che il suo ragazzo si sia rotto una gamba.» E gli raccontai la mia avventura. L’uomo era inviperito: continuava a guardarmi come se fossi uno sporco approfittatore. Nessun male, invece, sembrò colpire la ragazza che, senza mai saperlo, mi salvò all’ultimo dalla morte. Quella volta, è vero, uno sconosciuto finì male al posto mio; ma a mia discolpa posso dire che fu punito solo per la sua curiosità. Quel giorno ero sull’imperiale dell’omnibus Pigalle-Halle aux Vins. Aspettavo che il mezzo partisse quando, sul marciapiede, notai una ragazza molto affascinante, il prototipo delle eroine di J.-H. Rosny aîné.* “Quella ragazza
* Pseudonimo di Joseph-Henri Honoré Boëx. Scrittore e pensatore belga attivo tra la fine dell’Ottocento e il primo trentennio del Novecento, è considerato uno dei precursori della
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non ha nemmeno una vaga idea di quanto sia bella” mi dissi. E, alzandomi, feci per scendere dalla carrozza. «Mi scusi, signore» disse un passeggero che avevo involontariamente sfiorato. «Anch’io, come lei, prendo spesso l’omnibus al capolinea. Spero non le dispiaccia se le chiedo che vantaggio ci sia a sedersi alla destra del cocchiere, come fa sempre lei». «Un vantaggio enorme» feci io. «Ora però la prego di scusarmi. Questa mattina vado di fretta. Glielo spiego la prossima volta che ci vediamo.» In realtà non ebbi il tempo di dirgli che ero mancino e che, sedendomi lì, potevo appoggiare il braccio sinistro contro il sedile del cocchiere. Senza indugiare oltre, il mio interlocutore si alzò in piedi e occupò il posto che avevo appena liberato. L’omnibus ripartì, diretto alla sua destinazione. Quanto a me, avvicinai la ragazza. Con grande piacere constatai che avevo a che fare con una persona perbene, perché non mi disse di essere una ragazza “seria” come fanno in genere quelle che si lasciano abbordare in strada. Pochi istanti dopo, mentre un tram si profilava all’orizzonte, la ragazza mi disse che doveva lasciarmi. Le chiesi se avrei potuto rivederla. «Non è possibile» mi rispose. «Il mio fidanzato arriva domani da Stoccolma. Ma sarà sicuramente felice di vedere che in sua assenza il mio francese 46
ha fatto grandi progressi, grazie a tutti i signori gentili che ho incontrato…» Questa la storia della ragazza che non seppe mai di avermi salvato la vita. L’indomani, infatti, ripresi l’omnibus guidato dallo stesso cocchiere. Il quale mi raccontò che il giorno prima, poco dopo che ero sceso, passando davanti a una casa in procinto di essere demolita, un mattone era crollato dal muro e aveva colpito in testa il passeggero che gli si era seduto accanto. Mentre gli raccontavo quel che mi era successo, notai che il direttore dell’Union Artistique aveva una faccia alquanto pensierosa. «Sono molto indeciso» mi confidò dopo una breve pausa. «Ho trecentomila franchi da investire. Mi hanno proposto due affari interessanti e sono dibattuto, come quell’asino che… ricorda la storia delle due razioni d’avena?» «Al suo posto, so esattamente cosa farei: userei quei trecentomila franchi per comprare dei Renoir, dei Cézanne, dei Degas… insomma, tutti i grandi impressionisti.» Il giorno dopo, Dumas venne da me con un’aria strana: «Ho riferito la nostra conversazione a mia moglie e non ha chiuso occhio. “Quel tuo Vollard mi fa paura” ha detto. “So che sei un uomo serio e che non
fantascienza. Autore di successo, esordì insieme al fratello minore Séraphine-JustineFrançois Boëx firmando alcune opere sotto il comune pseudonimo di J.-H. Rosny. Quando le carriere letterarie dei due si separarono, Joseph-Henri optò per il nome de plume J.-H. Rosny aîné, termine che in francese indica il fratello maggiore, il più anziano. [N.d.T.]
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dilapideresti mai il pane dei tuoi figli, ma saperti vicino a qualcuno con idee simili non mi fa vivere tranquilla. Senza contare la cattiva fama che ti procurerebbe se si lasciasse scappare un’enormità del genere davanti ai clienti…” Mi dia retta, Vollard» proseguì Dumas. «Giuri che la parola impressionismo non uscirà mai più dalla sua bocca, né qui né altrove.» Vivere in quell’ambiente mi pesava sempre di più. Così, un giorno, comunicai a Dumas che avevo deciso di lasciarlo. «È davvero disposto a rinunciare alla sua posizione?» Un posto a centoventicinque franchi al mese, lo sapevo, non era una cosa da tutti i giorni, ma l’aria all’Union Artistique si faceva ogni giorno più irrespirabile. Quando Dumas si rese conto che poteva sbarazzarsi di me senza muovere un dito, si lasciò sfuggire: «Come sarà contenta mia moglie!». Ma poi lo vidi corrugare la fronte. «Senta, Vollard, noi ci lasciamo da buoni amici, vero? E quando parlerà di impressionismo, conto sulla sua lealtà: dica che io detesto quella roba.» «Mi impegno non solo a dirlo ma, se mi capita, anche a scriverlo.» E con questo posso dire di aver mantenuto la parola. Mi è stato chiesto spesso di raccontare il mio debutto nel mestiere. All’epoca ero ridotto a cibarmi di gallette, che avevano il vantaggio di costare meno del pane. Anche così, però, le mie ultime risorse stavano per esaurirsi, e per raggranellare qualche soldo fui costretto a vendere i pochi disegni e le poche stampe che i miei risparmi di studente mi avevano permesso di mettere insieme. Avevo sentito dire che un commerciante di vino di Bercy azzardava qualche acquisto nel campo dei disegni moderni. A quei tempi abitavo in fondo all’avenue de Saint-Ouen. La distanza non mi spaventava. Per risparmiare feci il tragitto a piedi, portando con me un disegno di Forain. «Quanto costa il suo disegno?» chiese il mio amatore. «Centoventi franchi.» «Gliene offro cento» disse estraendo una banconota dal portafoglio. Cento franchi erano davvero una tentazione, ma io non cedetti. Poco tempo prima ero rimasto colpito dalla tattica sfoderata da un “collega” quando l’acquirente aveva provato a contrattare sul prezzo di un Rops: «Quanto vuole per il Rops?». «Quaranta franchi.» «Non se ne parla. Trenta, al massimo.» «Cosa fa, discute sul prezzo? Allora per lei sono cinquanta franchi!» E l’amatore aveva sborsato i cinquanta franchi senza aprire bocca. Memore di quell’esempio, tentai anch’io il colpo:
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«Cerca di contrattare?» dissi. «Benissimo. Allora non sono più centoventi franchi: ne voglio centocinquanta.» «Ha una bella faccia tosta!» fece l’amatore. «E va bene, lo prendo.» Con i miei centocinquanta franchi in tasca decisi, per festeggiare, di concedermi uno spettacolo a teatro e una cena in un buon ristorante. Optai per lo Châtelet e per una riduzione del Michele Strogoff. Fu una serata memorabile. Per un franco e cinquanta mi aggiudicai un posto coi fiocchi. Accanto a me c’era una famiglia: padre, madre e figlio. Il bambino, che doveva avere intorno ai dieci anni, seguiva con grande passione le peripezie del protagonista. Durante la festa dell’emiro, nel momento in cui il carnefice fa passare davanti agli occhi di Michele Strogoff una sciabola incandescente, il ragazzino non riuscì più a contenersi: «Se gli sparava all’inizio, quando l’aveva picchiato, non gli sarebbe capitato tutto questo!». «Idiota che non sei altro» lo zittì il padre. «Se l’avesse ucciso subito, la storia sarebbe già bella e finita e non avresti neanche visto questa magnifica festa!» «E adesso cosa succede?» fece il bambino, dando a capire di essere più che pronto a veder bruciare altri occhi pur di non veder arrivare la fine di quelle mirabolanti avventure. Uscito dallo Châtelet mi diressi al ristorante Weber, dove a quei tempi, per 48
due franchi e cinquanta, ci si assicurava un piatto di prosciutto di York, una pinta di birra scura, pane a volontà e un bel pezzo di formaggio. Preso posto in mezzo a quello sfavillio di luci e a tutta quella gente in abito da sera, fra i solerti camerieri che facevano accomodare a un tavolo vicino due giovani coppie che udii riconoscersi al saluto: «Buonasera, Régnier! Buonasera, Maindron!», mi sentii anch’io parte di quel bel mondo e sognai il giorno in cui attorno a me avrei sentito dire: «Buongiorno, Vollard!». E assaporando la mia birra, giurai a me stesso che a ogni affare andato bene mi sarei concesso una sera a teatro e una cena da Weber. Ma una volta a casa, non potei fare a meno di dirmi: «Adesso in tasca ho quattro franchi di meno». Ormai, dunque, ero entrato in affari. I pezzi della mia collezione valevano, tutti insieme, sì e no cinquecento franchi. Se riuscii a tirare avanti fu grazie all’aiuto di un patrocinatore. Era proprio un brav’uomo. Mi prestava di tutto, da somme ridicole all’ammontare completo di cui avevo bisogno. Trattava qualsiasi quantità. La mia collezione consisteva quasi esclusivamente di disegni e incisioni rimediati a prezzi che oggi sembrano del tutto inverosimili, come il monotipo di Degas che mi ero aggiudicato per dieci franchi o quei magnifici Guys che si trovavano sui quais a partire da due franchi… Ma proprio perché si trovavano meraviglie a prezzi così stracciati, non potevo sperare di fare buoni affari con i negozianti: dovevo intercettare direttamente l’amatore.
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Un giorno un collega mi parlò di un cliente interessato a procurarsi dei Forain, dei Willette, dei Rops, degli Steinlen, vale a dire a tutto ciò che all’epoca veniva considerato arte “evoluta”. «So che lei ne ha qualcuno» mi disse. Io risposi in modo evasivo. Se solo avessi saputo il nome di quell’amatore, mi dicevo… Alla fine venni a saperlo e, cosa ancora più divertente, proprio grazie a quel mio collega. Un giorno mi aveva detto: «Se qualcuno mi accenna a un affare in termini ambigui, io dopo un po’ gli ripeto parola per parola tutto ciò che mi ha detto. A quel punto è difficile che non si lasci scappare il dettaglio che mi mette sulla buona strada». Tutto ciò che feci, dunque, fu servirmi della sua stessa tattica con lui. Qualche tempo dopo, quando lo rividi, dissi: «Ho un cliente che sarebbe disposto a comprare dei Forain, dei Rops, degli Steinlen… insomma, la scuola moderna». «So chi è» fece lui. «A lei non sfugge nulla, è vero, ma questa volta…» «So come si chiama il suo uomo. È Maurice Y…» «Sono davvero sconvolto: è proprio lui!» A quel punto sapevo il nome, ma l’indirizzo? Proseguii: «Devo giusto scrivere a quel Maurice Y… Devo dirgli qualcosa da parte sua?». «No.» Su un foglio di carta gentilmente portomi dall’uomo, informai dunque il signor Maurice Y… che avevo dei Forain, dei Rops ecc. Quando ebbi scritto il nome sulla busta, esclamai: «Maledizione, ho dimenticato l’indirizzo». «Come, non sa gli indirizzi dei suoi clienti a memoria?» E, strappandomi di mano la lettera, scrisse il nome della strada e il numero civico. Due giorni dopo sentii bussare alla porta. Era Maurice Y… Gli sventolai sotto il naso l’intera collezione. Lui se ne andò portandosi via della merce per il valore di mille franchi. Fu solo la settimana dopo che, con immensa sorpresa, davanti alla vetrina di un mercante d’arte vidi esposto uno dei lavori che avevo appena venduto al signor Y… Entrai in bottega, dove mi mostrarono l’intero lotto che l’uomo si era aggiudicato. «Si tratta di merce che ha circolato pochissimo» mi disse. «Ce l’ha portata un mediatore, un uomo di mondo. La gente che ha qualcosa da vendere pensa sempre di fare un affare, trattando con dei privati.» In poche parole, ero stato fregato.
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