Meret Oppenheim. Afferrare la vita per la coda
Nella stessa collana: 1. Mark Stevens – Annalyn Swan De Kooning. L’uomo, l’artista 2. Calvin Tomkins Robert Rauschenberg. Un ritratto 3. Bernard Marcadé Marcel Duchamp. La vita a credito 4. Gail Levin Edward Hopper. Biografia intima 5. Hunter Drohojowska-Philp Georgia O’Keeffe. Pioniera della pittura americana 6. Annie Cohen-Solal Leo & C. Storia di Leo Castelli 7. Daniel Farson Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi 8. James Westcott Quando Marina Abramović morirà 9. Ambroise Vollard Memorie di un mercante di quadri 10. Luca Ronchi Mario Schifano. Una biografia 11. Heiner Stachelhaus Joseph Beuys. Una vita di controimmagini 12. Alastair Brotchie Alfred Jarry. Una vita patafisica 13. Flaminio Gualdoni Piero Manzoni. Vita d’artista 14. Yayoi Kusama Infinity Net. La mia autobiografia 15. Stéphanie de Saint Marc Nadar. Un bohémien introverso
«Ogni persona che ha conosciuto Meret Oppenheim ha la propria idea su chi fosse. […] Timida, forte, fragile, colta, intelligente, pignola, divertente, stravagante, filosofa, chiara, coraggiosa, libera, ottima amica, empatica ma sulle sue, cauta, elegante, aperta, saggia. […] Prima di tutto, Meret Oppenheim era un’artista. Della sua vocazione una volta disse: “L’arte suscita passione in me, l’arte mette in movimento lo spirito”. Questo libro parla di una grande artista.» Dalla prefazione di Lisa Wenger
Martina Corgnati
Martina Corgnati, storica dell’arte e curatrice, è docente di Storia dell’arte presso l’Accademia Albertina di Torino. Si è occupata di arte femminile e arte moderna e contemporanea del Mediterraneo e Vicino Oriente. Tra le sue pubblicazioni, Artiste. Dall’Impressionismo al nuovo millennio (2004), L’opera replicante. La strategia dei simulacri nell’arte contemporanea (2009), I quadri che ci guardano. Opere in dialogo (2011). Prima di scriverne la biografia ha lavorato a lungo sulla figura di Meret Oppenheim di cui ha curato la prima retrospettiva italiana dopo la morte dell’artista al Palazzo delle Stelline di Milano (1998-99) e, assieme a Lisa Wenger, la raccolta di lettere e documenti privati Meret Oppenheim. Worte nicht in giftige Buchstaben einwickeln (2013).
ISBN 978-88-6010-085-6
Martina Corgnati
Meret Oppenheim Afferrare la vita per la coda
Donna, artista, outsider, icona: dal fulminante esordio con Colazione in pelliccia, destinato ad aprirle poco più che ventenne le porte del moma, al lungo e impervio cammino intrapreso per liberarsi di ogni etichetta artistica, ideologica e di genere, Meret Oppenheim (19131985) è una delle poche figure femminili della storia divenute leggendarie per aver osato sfidare regole e pregiudizi millenari in nome di una vocazione autentica. Una vocazione artistica ed esistenziale che la porterà a scelte e posizioni di rottura tutt’altro che facili, non solo nei confronti della società benpensante dell’epoca ma anche degli insidiosi pregiudizi cui non può dirsi immune lo stesso milieu artistico e letterario del suo tempo. Musa venerata da Man Ray, pupilla irriverente di Breton, complice e lei stessa protagonista delle più grandi sperimentazioni e delle più appassionanti avventure artistiche del Novecento, Meret Oppenheim si muove lungo il secolo con la libertà e l’originalità disinvolta e a tratti sofferta dei purosangue. Dall’avvicinamento alle teorie di Carl Gustav Jung al folgorante incontro con i surrealisti, dalla lunga lotta con la depressione all’attrazione inesorabile che a soli vent’anni la lega fatalmente a Max Ernst, dall’intenso e profondissimo sodalizio artistico con Alberto Giacometti all’amicizia segreta e finora ignota con Marcel Duchamp, Martina Corgnati traccia un accurato e appassionante ritratto della donna e dell’artista che, contro i facili stereotipi di un’arte tutta al femminile, sulla scia di Virginia Woolf e di Lou Salomé ha avuto il coraggio di gridare alle donne di ogni tempo: «La libertà non ci viene data, dobbiamo prendercela».
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Biografie 16
© 2014 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Traduzioni dal tedesco Lieselotte Longato Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di settembre 2014 isbn 978-88-6010-085-6 In copertina: Man Ray, Meret Oppenheim, 1933. © Man Ray Trust, by siae 2014. Fotografia con disegno eseguito da Meret Oppenheim nel 1936. Per i crediti delle immagini si veda l’apposita sezione. L’editore è a disposizione degli eventuali aventi diritto che non è stato possibile contattare. Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.
Progetto realizzato con il supporto di
Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.
Martina Corgnati
Meret Oppenheim Afferrare la vita per la coda
Sommario
Prefazione di Lisa Wenger
11
1. Berlino. 6 ottobre 1913
15
2. La famiglia di Meret
19
3. Ritratto dell’artista da cucciola
29
4. Parigi. 1932-1933
43
5. Alcune riflessioni sulla morte
51
6. Il Salon des Surindépendants
59
7. Nel club surrealista
65
8. Max
71
9. La bellezza convulsiva
83
10. Guanti, braccialetti, orsi bianchi
91
11. Colazione al moma
101
12. Marcel
107
13. Il ritorno dell’incertezza
117
14. La donna di pietra
125
15. La bella estate
131
16. Ménage à quatre
137
17. Designer surrealista
143
18. Venti di guerra
147
19. Un lungo isolamento
157
20. L’ultima volta di Marcel
173
21. Guerra e pace
179
22. Hedera
193
23. Riemergere dal diluvio
203
24. Wolfgang
209
25. Rivedere Parigi
223
26. A Berna
229
27. Il ritorno della cometa surrealista
239
28. Uscire dalla crisi
251
29. Afferrare i desideri per la coda
259
30. Diventare se stessi
267
31. Festa di primavera
281
32. Un’artista internazionale senza mercato
293
33. A cinquant’anni
315
34. Il guado sui fiumi del lutto
325
35. Casa Costanza
335
36. Nemo propheta in patria
341
37. Serpenti, simboli, natura
347
38. Giochi d’estate, cadavres exquis, spiriti liberi
359
39. Il segreto della vegetazione
373
40. Una mostra fondamentale
379
41. Il Premio d’arte della città di Basilea
387
42. Una lingua giusta per ogni pensiero
393
43. Donna, artista
401
44. Anche le parole trovano le loro pagine
409
45. Il Premio d’arte della città di Berlino e dintorni
419
46. La difficile nascita di una spirale. Meret Oppenheim
429
e l’arte pubblica 47. Settantesimo compleanno
441
48. Oltre le immagini: pensieri, parole, discorsi
449
49. Bettina e Karoline
455
50. Il santo della clessidra
461
Note
469
Ringraziamenti
519
Crediti delle immagini
521
Indice delle opere
525
Indice dei nomi 531
Alle mie allieve, Bianca, Rachele e Silvana, perchĂŠ afferrino la vita e la vivano fino in fondo.
Prefazione
Era il 23 aprile 1996 quando incontrai Martina Corgnati per la prima volta, a Torino. Roberto Lupo, amico di vecchia data di Meret Oppenheim, mi aveva invitat0 a una serata-ricordo in onore di Meret, ultimo appuntamento di una settimana dedicata all’espressività femminile nel teatro, nell’arte e nella letteratura contemporanei. Pensavo di assistervi comodamente seduta fra il pubblico, ma non era quella l’idea di Lupo: oltre a me aveva invitato Martina, ed entrambe ci ritrovammo sul palcoscenico ad animare la serata insieme a lui. L’allestimento scenico mirava a riprodurre il giardino di Casa Costanza in Ticino, dimora di famiglia e luogo di incontri estivi fra Meret e i suoi amici. Era là che Roberto e io ci eravamo incontrati negli anni settanta ed era nata la nostra simpatia reciproca. In scena eravamo dunque noi tre. Io e Roberto a ricordare i momenti passati insieme a Meret, Martina a inquadrare il discorso dal suo punto di vista di storica dell’arte. La conversazione era fluida, appassionata, mai scontata; il folto pubblico estremamente coinvolto; l’atmosfera rilassata ma con un che di frizzante. Ora, dopo tanti anni, mi sembra che rispecchi – almeno in parte – l’amicizia fra Martina e me. Il triangolo Roberto-Martina-Lisa si è quasi subito trasformato in Meret-Martina-Lisa e non si è più sciolto. Circa un mese dopo questo nostro primo incontro, Martina venne a trovarmi a Carona. Fu una conferma di quanto avevamo avvertito a Torino: volevamo, anzi, dovevamo creare qualche cosa insieme. Sedute davanti al camino ci scambiammo idee, speranze, sogni e capimmo di avere molto in comune. Ci venne l’idea di organizzare una retrospettiva su Meret. In quel periodo, Martina collaborava regolarmente con la Galleria del Credito Valtellinese, nel Refettorio delle Stelline, a Milano, quale curatrice accreditata, e mi propose di allestire la mostra in quel luogo bello e spazioso. Ricordo che l’idea fu accettata con gioia ed entusiasmo dalla famiglia e poi da amici, collezionisti e istituzioni. La retrospettiva ebbe luogo tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999. Non c’era più stata alcuna presenza di Meret Oppenheim in Italia dal 1983-84, quando Ida Gianelli aveva curato la mostra itinerante per il Goethe-Institut a Genova, Milano, Napoli e Torino.
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· Martina Corgnati ·
Quello fu l’inizio di un rinnovato rapporto fra me e mia zia. Grazie a un primo “incarico” che Martina mi aveva dato in quell’occasione, contribuire con un saggio al catalogo della mostra, mi misi a rovistare in uno scatolone pieno di lettere e documenti di Meret che mio padre mi aveva affidato. Un’esplorazione che continuò per molti anni durante i quali racimolai tutto quanto mi fu possibile trovare in materia di corrispondenza, articoli e interviste. Passai lunghe ore, diventate poi anni, a decifrare e copiare tutto il materiale che, in seguito, trasmisi a Martina. Insieme abbiamo curato un volume denso e intimo con un album autobiografico e lettere scelte e inedite che è stato pubblicato nel 2013, in occasione del centenario della nascita di Meret Oppenheim. A colpirmi e affascinarmi in particolar modo sono due aspetti emersi durante il mio lavoro sul suo lascito scritto (e confermati dagli scambi con mio fratello Michael): innanzitutto la voglia e capacità di andare “oltre” le regole. Non era certo per épater les bourgeois, come lei stessa amava dire, ma era come se sapesse intuire dal profondo del suo essere che cosa era “giusto” e che cosa no. Era lei stessa a darsi delle regole, a stabilire i valori che riteneva importanti. Se qualcosa le sembrava sensato, bene. Altrimenti non perdeva tempo ad agire in un modo che non le pareva autentico. Già da bambina, pur cercando di 12
comportarsi bene e di onorare l’educazione ricevuta, metteva in discussione le convenzioni. Più tardi, come ben illustra Martina Corgnati in questo libro, le regole divennero per lei un peso, l’annoiavano. In certe situazioni e periodi della sua vita, Meret sembrava essersi invece adattata molto bene alle convenzioni, a un modo di vivere ispirato a binari più borghesi, per esempio quando si trattava della famiglia o della sua vita domestica. Benché questo aspetto fosse in contrapposizione con l’altra sua identità, vissuta con amici e colleghi alla cui presenza faceva di nuovo emergere la donna ribelle e libera che aveva deciso di essere, non mi è mai sembrato che i due ruoli fossero in conflitto. Si era presa la libertà di vivere la propria vita, una libertà che ha sempre difeso con dignità e convinzione. Il secondo punto è la previsione della fine del patriarcato, più volte dichiarata nei suoi scritti. Era in anticipo rispetto a quanto ora sta prendendo forma a livello globale, e cioè una disponibilità ad accogliere le differenze tra esseri umani. Oggi, almeno per una parte della popolazione mondiale, la comunicazione, l’apertura, l’accoglienza, l’integrazione delle differenze e la diplomazia (valori di ispirazione femminile) prevalgono sull’abuso delle risorse naturali, la competizione violenta, la ricerca immediata ed esclusiva delle soluzioni a discapito dell’ascolto (aspetti classicamente maschili). Gli sforzi di quanti si organizzano per promuovere il dialogo tra persone e culture, non per ultimo attraverso i social media e grazie alla velocità di diffusione delle informazioni, sono tesi alla comprensione dell’altro, nel tentativo di trova-
· Prefazione ·
re soluzioni attraverso il reciproco scambio e il confronto piuttosto che l’uso del potere. Queste iniziative promuovono il mutuo sostegno e mirano ad accrescere il potenziale tanto della singola persona quanto di ciascun gruppo sociale. Meret, lei era sempre la prima ad ascoltare, accogliere e apprezzare le differenze nelle varie persone. Era profondamente curiosa e interessata a conoscere altri modi di pensare e di vedere il mondo. Raccoglieva informazioni, si arricchiva dei nuovi punti di vista che esse le offrivano e dopo un’attenta riflessione decideva se le sembravano consoni ai suoi valori. Meret vigilava sempre da vicino su quanto veniva pubblicato su di lei e sulla sua vita. Era stata lei a redigere la propria biografia in varie occasioni e a dare la versione ufficiale di momenti chiave, come la creazione della famosa Colazione in pelliccia del 1936 o della Festa di primavera del 1959. Correggeva le interviste, rettificava le storie che giravano e che riteneva poco precise, decideva quanto dire sulle sue relazioni con familiari, amori e amici. Ogni persona che ha conosciuto Meret Oppenheim ha la propria idea su chi fosse, anche se credo di poter dire che tutti la ricordano come un personaggio eclettico e pieno di fascino. Se dovessi dire la mia – e lo faccio qui – la descriverei così, basandomi sui miei ricordi personali e su quanto mi sembra di aver scoperto su di lei nel corso degli anni: timida, forte, fragile, colta, intelligente, pignola, divertente, stravagante, filosofa, chiara, coraggiosa, libera, ottima amica, empatica ma sulle sue, cauta, elegante, aperta, saggia e, come già detto prima, capace di mantenere il controllo su tutto. In tutto questo, una caratteristica rimane comunque: Meret Oppenheim è una figura misteriosa. Oggi la sua biografia viene ampliata in modo significativo. Sta a chi legge questo libro seguire la sfida che Martina Corgnati ha raccolto: quella di svelare il mistero. Martina è nata esattamente il giorno del cinquantesimo compleanno di Meret, il 6 ottobre 1963, una coincidenza di per sé sufficiente, forse, a spiegare il legame profondo che si è instaurato fra lei e mia zia. Senza mai averla incontrata di persona, Martina la conosce profondamente e con lei ha un rapporto quasi viscerale. Ha ricercato, letto, studiato e verificato un’enorme quantità di materiale. Ha intervistato un’infinità di persone fra familiari, amici e conoscenti che hanno fatto parte della vita di Meret; un vero e proprio tuffo nella sua esistenza umana e artistica. O forse è il contrario: Meret si è infilata sotto la pelle di Martina… Prima di tutto, Meret Oppenheim era un’artista. Della sua vocazione una volta disse: «L’arte suscita passione in me, l’arte mette in movimento lo spirito». Questo libro parla di una grande artista. Lisa Wenger
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1 Berlino. 6 ottobre 1913
Ancora ricordo quel bel giorno d’autunno quando, insieme alla tua cara nonna, camminavamo avanti e indietro sotto le fronde multicolori del parco del castello di Charlottenburg; e aspettammo diverse ore finché finalmente ci chiamarono nella clinica dove, dopo un parto nemmeno troppo difficile, la tua amata mamma ti stringeva fra le braccia piena di felicità e di beatitudine; felicità, perché le fu subito chiaro che tu non eri soltanto sana ma anche una personcina di straordinaria bellezza e, secondo le ostetriche, la più bella mai nata in quella clinica.1
Primogenita del giovane medico tedesco Erich Alphons Oppenheim e di una signora svizzera, Eva Wenger, Meret Oppenheim nasce a Berlino, nel cuore di un’Europa inquieta che si prepara alla Prima guerra mondiale. La guerra, le guerre, la storia di un continente che sta lentamente ma inarrestabilmente dividendosi in due parti ansiose di annientarsi a vicenda condizioneranno la sua esistenza come quella di tutti gli altri, artisti e non. Per gran parte della sua vita Meret abiterà fuori dal suo paese natale, vent’anni più tardi divenuto pericoloso per lei a causa del nome ebraico; lotterà contro difficoltà economiche inimmaginabili alla sua nascita, attraversando lunghi periodi di angoscia e conflitto in parte accentuati, se non determinati, dalla condizione lacerata del mondo che la circonda. Ma, anche in risposta e per reazione a tutto questo, fin da giovanissima assumerà, in forte anticipo sulla sua epoca, un abito cosmopolita che nel tempo finirà per aderirle addosso come una seconda pelle; infrangerà le regole, attaccando frontalmente la misoginia dilagante e i pregiudizi del suo tempo nei confronti delle donne; per difendere e alimentare la sua vocazione d’artista cambierà molte volte città, frequentazioni, abitudini, stili di vita, senza mai perdere di vista se stessa e abbandonare la ricerca del senso da dare al proprio lavoro; ancora quasi adolescente, si troverà al centro del mondo dell’arte e della cultura, catapultata fra alcuni degli uomini più creativi e influenti del momento, e trascorrerà gran parte dell’esistenza a confermare con prove lampanti e indipendenti persino dal loro giudizio, il precoce, folgorante vaticinio sul suo talento.
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· Martina Corgnati ·
In quella placida giornata dell’ottobre 1913, sparpagliati fra diverse località dell’Europa e del pianeta, i suoi futuri mentori e amici sono già quasi tutti febbrilmente all’opera per delineare, in parte inconsapevolmente, la fisionomia di quello stesso mondo dell’arte che, anni dopo, accoglierà la bellissima bambina appena nata all’ombra colorata dei tigli di Charlottenburg. Chi sono, dove sono e cosa fanno? Ad appena pochi isolati di distanza, nel centro di Berlino, il 20 settembre si è aperto l’Erster Deutsche Herbstsalon di Herwarth Walden, coeditore della rivista Der Sturm. Benché eterogenea, incompleta per l’assenza di Picasso e Matisse e disastrosa sul piano commerciale, la mostra voluta da Walden e ospitata nell’omonima galleria Der Sturm di Potsdamer Strasse si rivelerà, oltre che un grande rendez-vous di artisti francesi, tedeschi e italiani, una delle più importanti manifestazioni d’avanguardia di tutti i tempi. Trecentosessantasei i pezzi esposti per un totale di novanta artisti, fra cui Robert e Sonia Delaunay,2 Francis Picabia, Wassily Kandinsky, Franz Marc, Paul Klee e tutto il Blaue Reiter, oltre ai futuristi italiani, a parecchi russi, praghesi e americani e alcuni giovani e insubordinati pittori renani3 come il ventiduenne Max Ernst. Quest’ultimo, iscritto dal 1908 alla facoltà di Lettere dell’Università di Bonn per volontà della famiglia, «divora senza discernimento tutto ciò che gli capita 16
sottomano, si lascia influenzare da qualsiasi cosa, si abbandona poi riprende il controllo».4 Fra le esperienze determinanti di quel periodo, l’incontro con Zone di Apollinaire e la «sbalorditiva collezione di pitture e sculture eseguite dagli involontari pensionati»5 della clinica per malattie mentali della città, l’amicizia con August Macke e Theodor Kuhlemann e la collaborazione allo Junge Rheinland, gruppo assetato di poesia, libertà, cultura e assoluto. All’Erster Deutsche Herbstsalon partecipa anche un pittore e scultore alsaziano, Hans (Jean) Arp, che da qualche mese si è trasferito a Berlino e lavora nella galleria di Walden come assistente. Al Salon, Arp espone alcuni disegni di nudo, contorti ma in certa misura monumentali e plastici. Non si tratta comunque dei suoi primi tentativi grafici: l’artista ha già collaborato con l’Almanacco del Blaue Reiter a Monaco e partecipato alla mostra del Moderner Bund al Kunsthaus di Zurigo.6 Nel frattempo in Svizzera, a Stampa, un villaggio nel cantone dei Grigioni non lontano dal confine italiano, il dodicenne Alberto Giacometti dipinge proprio in quei giorni di ottobre il suo primo quadro a olio: è una Natura morta con mele, ordinatamente disposte su un tavolo pieghevole nello studio del padre Giovanni, notevole pittore naturalista e simbolista.7 Sempre in Svizzera, ma due o trecento chilometri più a nord, lo psichiatra e psicoanalista Carl Gustav Jung, preso atto dell’irrimediabile allontanamento teorico da Sigmund Freud, rende ufficiale la rottura e lascia la direzione dello Jahrbuch, l’organo dell’Associazione psicoanalitica internazionale. Qual-
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che giorno dopo, in treno verso Schaffhausen, ha un’allucinazione che sembra anticipare l’uragano nazista e che inaugura il suo celebre confronto con l’inconscio, raccontato più tardi nel Libro Rosso: Quando, nell’ottobre 1913, ebbi la visione dell’alluvione, mi trovavo in un periodo per me importante sul piano personale. Allora, all’età di quarant’anni, avevo ottenuto tutto ciò che mi ero augurato. Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere e ogni felicità umana. Cessò dunque in me la voglia di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desiderio e fui colmo d’orrore. […] Vidi una spaventosa alluvione che inondava tutti i bassipiani settentrionali situati tra il mare del Nord e le Alpi. Andava dall’Inghilterra alla Russia e dalle coste del mare del Nord fin quasi alle Alpi. Vedevo i flutti giallastri, le macerie galleggianti e la morte di innumerevoli persone. Questa visione durò circa due ore, mi sconcertò e mi fece star male. Non riuscii a interpretarla. Passarono due settimane e la visione ritornò, ancora più intensa di prima. Una voce interiore mi diceva: “Guarda bene, è tutto vero, sarà proprio così. Non puoi dubitarne”. Lottai ancora per circa due ore contro questa visione, ma essa non mi abbandonava. Mi lasciò esausto e sconcertato. E pensai che la mia mente si fosse ammalata.8
Quello stesso mese, a Parigi, nel suo studio al 115 di rue Notre-Dame-desChamps, Giorgio de Chirico inaugura un’esposizione privata di suoi dipinti recenti. Vi presenta, fra gli altri, La nostalgia dell’infinito9 e diverse versioni di Ariane (Arianna), figura mitologica tanto amata da Nietzsche da cui in quel momento il pittore italiano è quasi ossessionato. Pochi giorni dopo, il 30 ottobre, il vate dell’avanguardia Guillaume Apollinaire, ancora fresco della pubblicazione di Alcools (Alcool) e Les Peintres cubistes (I pittori cubisti),10 recensirà con voce conturbata sull’Intransigeant quell’esposizione dai toni «stranamente metafisici», segnalando tempestivamente i caratteri originali dell’arte di de Chirico.11 Sempre a Parigi c’è Pablo Picasso che, a qualche isolato di distanza, vive da pochi mesi con la nuova amante Eva Gouel, detta “Ma Jolie”, impietosamente soffiata all’amico e collega Louis Marcoussis.12 In quel momento, sta completando Chitarra e bottiglia di Bass, uno dei più iconici e rappresentativi collage del Cubismo sintetico, e prepara le illustrazioni ad acquaforte e puntasecca per L’assedio di Gerusalemme di Max Jacob, destinato a vedere la luce nei primi mesi del nuovo anno. Anche Marcel Duchamp è rientrato a Parigi dopo il lungo soggiorno a New York che ha visto la nascita del readymade e il decollo dell’Armory Show nel febbraio precedente. Ormai privo di una dimora stabile nella sua città, ha affittato un locale in un edificio ancora in costruzione, al 23 di rue Saint Hippoliyte, nel quartiere Gobelins. E in questo spazio, accessibile solo attraverso
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una scala a pioli, Duchamp ha tracciato sulla parete uno schizzo del Grande vetro a grandezza naturale. La riflessione sui vari aspetti della complicatissima “macchina” assorbe in quel momento gran parte delle sue energie: esce pochissimo, giusto per vedere ogni tanto Francis Picabia e la moglie Gabrielle, anche se qualcuno lo ha già introdotto al 27 di rue de Fleurus, nell’accogliente salotto di Gertrude Stein, che una volta la settimana ospita l’intellighenzia e l’avanguardia artistica parigina e che non tarderà a definirlo un «tipico giovane inglese, tutto preso dai suoi discorsi sulla quarta dimensione».13 A Pantin, intanto, nella banlieue a nord-est della città (Seine-St.-Denis), André Breton frequenta l’ultimo anno di liceo al Collège Chaptal e compone le sue prime poesie, alcune delle quali verranno pubblicate nel marzo successivo sulla rivista La Phalange.14 In quello stesso mese di ottobre, a Barcellona, il ventenne Joan Miró, che non senza violenti conflitti interiori e familiari ha ottenuto da un anno il permesso di dedicarsi alla pittura, entra nel Cercle Artistic de Sant Lluc, l’istituzione artistica catalana più aperta e innovativa dell’epoca, dove studierà disegno approfondendo soprattutto la figura dal vero. Infine, qualche migliaio di chilometri più a ovest, nella quieta campagna di Ridgefield nel Connecticut, Man Ray condivide la sua spartana dimora 18
senza acqua corrente con la bella poetessa francese Donna Lacroix.15 Il giovane artista, all’epoca pittore e del tutto privo di qualsiasi confidenza con la macchina fotografica, è rimasto fortemente impressionato dalla sfilata delle avanguardie cui ha assistito qualche mese prima all’Armory Show e ha dipinto il suo primo quadro di sapore cubista, il Ritratto di Alfred Stieglitz.16 Tutto questo accade in quell’ultimo ottobre di pace nel quale, sullo sfondo lontano ma onnipresente della grande Storia, viene aperto il canale di Panama e viene varata la catena di montaggio di Henry Ford, Albert Einstein espone pubblicamente la teoria della relatività e, nell’Italia giolittiana, si indicono le prime elezioni politiche a suffragio universale maschile.
2 La famiglia di Meret
I genitori di Meret si incontrano ad Arosa, una località del cantone dei Grigioni in cui andavano entrambi in vacanza con le rispettive famiglie.1 Si sposeranno nel 1912 a Basilea, nella St. Margarethen Kirche. La famiglia Oppenheim, originaria di Amburgo, si è trasferita da tempo a Berlino, dove Erich Alphons è nato. Il bisnonno di Meret, Friedrich Wilhelm, ha prestato servizio alla corte dello zar e ricevuto per questo un titolo nobiliare. Sarà lui a lasciare l’ebraismo per convertirsi al cristianesimo protestante; il figlio Robert F. Oppenheim sposerà infatti Christine Richter, una ragazza protestante di Hannover.2 Nonostante l’assimilazione, molto diffusa fra quelle generazioni in tutta Europa, il nome ebraico procurerà non pochi problemi e preoccupazioni ai parenti di Meret, nei quali resterà latente un sentimento contraddittorio sulle proprie origini destinato a scoppiare come una bomba nel 1933, dopo l’avvento del nazismo. Meret verrà battezzata nel tempio evangelico protestante di Berlino e confermata a Steinen nel 1928, ma non avrà mai particolari frequentazioni con chiese e testi sacri, che da giovane la lasceranno fredda e che poi, donna matura, non esiterà a definire «arcaici». «È davvero strano quanto sentiamo lontana da noi la “nostra” religione» scriverà infatti al padre nel 1932, «tanto che possiamo, per esempio, essere spettatori di una messa quasi fosse la liturgia di un culto di Dio o di dèi a noi estranei.»3 Pur non venendo mai meno, il rapporto di Meret con la dimensione del sacro sarà infatti ben diverso da quello essoterico e di facciata del cristianesimo ufficiale, cattolico o protestante. Di origini bernesi è invece la madre Eva Wenger, figlia di Theodor Wenger (1868-1928), industriale benestante di Delsberg e produttore dei celebri “coltellini svizzeri”, e di Lisa Wenger Ruutz (1858-1941), pittrice, illustratrice di libri per l’infanzia e autrice di favole, saggi e commedie di successo. Questa nonna straordinaria sarà il primo grande nume tutelare dell’infanzia di Meret. Prima donna in assoluto a essere ammessa all’Accademia di Düsseldorf, Lisa ha abbandonato precocemente la casa di famiglia per studiare pittura, passione che, dopo il matrimonio, la porterà a fondare una scuola di decora-
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· Martina Corgnati · Eva Wenger ed Erich Alphons Oppenheim, 1927 ca. Sotto, annuncio della nascita di Meret Oppenheim, 6 ottobre 1913.
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zione su porcellana a Basilea. All’abilità plastica la giovane affianca un talento di scrittrice, destinato a prendere corpo nel 1905 con un racconto confluito poi nella raccolta di favole Das blaue Märchenbuch (Il quaderno azzurro). A questo seguiranno con ritmo incalzante altri quarantacinque lavori letterari (fra cui Von Sonne, Mond und Sternen – Sole, luna e stelle –, in Bildern und Versen, Immagini e versi, del 1907, Das weisse Häschen, Il leprotto bianco, del 1908 e Jorinde die Siebzehnjärige, La diciassettenne Jorinde, del 1935) e moltissime illustrazioni di libri per l’infanzia. Suoi sono, per esempio, i testi e le immagini della prima edizione di Joggeli söll ga Birli schüttle,4 celebre filastrocca tratta da un canto popolare ebraico della Pesah (xvi secolo).5 Scrittrice prolifica destinata a diventare uno degli autori più letti e apprezzati in Svizzera, Lisa sarà immersa per tutta la vita in un milieu letterario che include figure come Hugo ed Emmy Ball e Hermann Hesse, abituale frequentatore di casa Wenger e, per alcuni anni, marito della figlia minore Ruth (1897-1994). Ruth e Hermann si incontrano nel 1919 attraverso amici comuni, Hermann Bodmer e lo scultore Paolo Osswald. Hesse racconterà questo episodio in una pagina ariosa e felice dell’Ultima estate di Klingsor. Lui all’epoca ha circa quarant’anni, lei poco più di venti. Lui è un uomo maturo, provato dai traumi della guerra e dalla fine di un tormentato matrimonio. Ha ottenuto un buon successo con la pubblicazione di Demian (1919), ma la consacrazione definitiva è ancora lontana. Lei è una ragazza vitale, curiosa, anticonformista: pianista e ballerina, appassionata di musica e teatro, studia canto a Basilea e Zurigo, decisa a tentare la carriera di soprano. Fra i due è amore a prima vista, ma un complicato gioco di seduzione in cui le reciproche aspettative prevalevano sulla realtà, lascerà come unico approdo un frettoloso e infelice matrimonio durante il quale Ruth si ammalerà gravemente e Hesse tenterà addirittura il suicidio. La loro relazione darà vita a un intenso scambio di lettere6 prima di naufragare in un oceano di incomprensioni e aspettative mal riposte. L’illusione di Ruth di riuscire a convertire almeno in parte alla vita familiare un uomo interamente dedito alla propria arte e quella di Hesse di riuscire a sublimare nell’arte e nella musica i desideri di una ragazza troppo affamata di vita e di sicurezze materiali segneranno, oltre all’irrimediabile fine della loro unione nel 1927, anche l’atmosfera del Lupo della steppa, scritto proprio durante il loro matrimonio. Pochi sanno infatti che i riferimenti autobiografici all’ex moglie del protagonista, «donna giovane e bellissima» colpevole di averlo «abbandonato»7 e con cui ci sarà «una lite violenta, anzi brutale»,8 sono direttamente ispirati alla figura di Ruth. Una lite violenta che determina la scomparsa della donna dal romanzo come anche di Ruth dalla vita di Hesse, anche se l’amicizia fra i due non verrà mai meno. Nel 1930, dopo la separazione da Hesse, Ruth sposerà contro la volontà della madre Erich Haussmann (1900-1984),9 attore tedesco poco più giovane di
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· Martina Corgnati · Ruth Wenger e Hermann Hesse a Casa Costanza, 1924. Sotto, Lisa Wenger, Ruth Wenger e Meret, 1920 ca.
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lei, già notissimo in teatro e destinato ad approdare nel mondo del cinema nel 1933 con il film Morgen beginnt das Leben (La vita inizia domani). Due anni dopo dalla coppia nascerà Ezard (1935-2010), futuro attore, compositore e produttore teatrale dal fascino leggendario e dal carattere impossibile. Nel 1945 Erich e Ruth, accusati di connivenza con i nazisti, verranno internati per nove mesi in un campo gestito dall’esercito di occupazione francese. Priva di appoggi e vittima di investimenti finanziari sbagliati, nei primi anni del dopoguerra Ruth sarà costretta a dare fondo a tutta la sua eredità e a vendere progressivamente mobili, quadri e oggetti d’antiquariato finché, perso quasi tutto, la coppia non deciderà di fare leva sulle ottime relazioni di Erich con il ministro della Cultura tedesco Johannes R. Becher per trasferirsi a Berlino, nella ddr, dove Erich sarà membro del mitico Berliner Ensemble. I due non lasceranno più la Germania Est. Dopo la morte di Erich nel 1984 Ruth farà in tempo a vedere la caduta del Muro e lo sgretolamento dell’impero sovietico prima di spegnersi nel 1994 a Weimar. Nella sua prima adolescenza Meret sarà affascinata non poco da questa giovane zia libera e intraprendente, amante dell’arte e degli artisti e capace di rompere gli schemi per seguire il proprio cuore e la propria creatività. Con ogni probabilità, sarà lei il primo modello sulla strada della sua emancipazione personale. La figura di Ruth si colloca idealmente nella luminosa scia dell’amata nonna Lisa, che mette in mano a Meret i primi libri destinati a formare il suo gusto letterario e culturale: Goethe, Rilke, Hesse e Gottfried Keller, cui la futura artista deve il suo nome di battesimo. Meretlein è infatti un personaggio di Enrico il verde,10 novella autobiografica giovanile considerata da molti il prodotto più brillante del poeta e scrittore svizzero. Il personaggio di Meretlein, in particolare, è quello che dà il titolo al quinto capitolo: figlia non amata di una ricca famiglia borghese, la bambina viene affidata al prete del villaggio affinché ne corregga il temperamento ribelle attraverso una rigida educazione e un’altrettanto rigorosa disciplina. Il fanatismo dell’educatore e i feroci trattamenti cui la bambina viene sottoposta vengono utilizzati da Keller per condurre, con uno stile freddo e obiettivo, una violenta polemica contro la morale educativa falsa e bugiarda dell’epoca, colpevole di travisare in modo radicale l’originario concetto di carità cristiana trasformandolo in crudeltà cieca, odio e disprezzo. Quanto più Meretlein mostra il suo carattere naturalmente vivace e allegro, tanto più feroce diventa la punizione del prete-inquisitore, destinata a culminare nel fantasma di una vera e propria “possessione” demoniaca che, accerchiando sempre di più la povera bambina, non le lascerà altro scampo che la morte, inflittale dallo spietato carceriere come unica “cura” al suo male. La scelta di una vittima del fanatismo religioso come ispiratrice del nome per la primogenita la dice lunga sulla libertà di spirito della famiglia Oppen-
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heim e sulla sua grande sensibilità nei confronti dell’infanzia e delle componenti più naturali e primarie della persona. Una sensibilità senza dubbio presente nel padre di Meret, Erich Alphons, in virtù di quei forti interessi per la “verità dell’uomo” e la psicoanalisi che, parallelamente alla sua carriera di medico, lo porteranno a studiare le teorie di Freud e di Jung e, anni dopo, a scrivere un impegnativo dizionario di impostazione e contenuti junghiani, il Charakterkunde von a bis z. Allgemeinverständliche Darstellung der Charaktereigenschaften (Studio dei caratteri dalla a alla z. Rappresentazione comprensibile a tutti delle loro proprietà),11 una sorta di classificazione alfabetica dei vari “caratteri” umani, ciascuno corredato da una breve descrizione. Anche la madre di Meret nutre interessi umanistici, letterari e filosofici ma, contrariamente all’emancipata sorella minore, non sembra aspirare a svilupparli in un progetto creativo autonomo. Fin da bambina, Eva è una grande amante degli animali: alleva galline, conigli e roditori vari, oltre ai gatti e ai cani di cui la famiglia si circonda da sempre. Stando a un aneddoto, nell’ospedale in cui darà alla luce Meret si porterà persino dietro un piccolo terrario pieno di topolini bianchi che terrorizzavano le infermiere.12 Rispetto alla trasgressiva Ruth, comunque, il suo modo di fare è più serio, posato e rispettabile. Donna intensa e coraggiosa, a tratti impulsiva e capace di rancori 24
e antipatie profonde, Eva vuole una famiglia e possibilmente tre bambini, «uno bello, uno intelligente e uno buono»:13 desiderio che verrà pienamente soddisfatto dalle circostanze della sua vita e dal lungo e felice matrimonio con Erich Alphons Oppenheim, un uomo che tutti in casa Wenger apprezzano e amano fin da subito e del quale Ruth, ancora ragazzina ma già innamorata di tutto ciò che è tedesco, arriverà a tenere una foto sul comodino.14 Contrariamente alla sorella, che come si è detto aderirà al nazismo insieme al secondo marito – forse più per ingenuo spirito nazionalistico che non per autentiche convinzioni ideologiche –,15 Eva è una progressista convinta, così coerente da troncare i rapporti con la sorella dopo il suo passaggio «al nemico»:16 arrivata in Germania, si iscriverà al Partito socialdemocratico senza che il marito lo faccia a sua volta. Una foto di qualche anno dopo (1933) la ritrae riflessiva, adagiata su una dormeuse secondo la tipica iconografia della donna fra Ottocento e Novecento: il volto largo e piatto, assai diverso da quello paffuto della sorella, rivela un’intensità particolare, resa ancora più magnetica dalla luce chiarissima dei suoi grandi occhi. La coppia inizialmente vive a Berlino, dove Meret nasce mentre suo padre porta a termine gli studi di medicina e si avvia alla professione. Alla fine del 1913 o agli inizi del 191417 i tre si trasferiscono a Steinen, nel Sud della Germania, a pochi chilometri dal confine svizzero di Basilea, perché Eva non si senta «troppo lontana da casa» e dalla famiglia, allora residente a Delsberg, nello Jura bernese.
· La famiglia di Meret · Erich Alphons, Eva, Burkhard, Meret e Kristin, 1925.
A Steinen, i tre abitano in una villa ottocentesca di mattoni gialli a due piani, circondata da un giardino e con lo stemma di Esculapio in bella mostra sull’ingresso. Ben presto, però, la giovane famiglia deve lasciare il suo ameno rifugio: allo scoppio della guerra, Erich Alphons verrà arruolato come medico militare e per tutta la durata delle ostilità dovrà dirigere un ospedale da campo, mentre Eva ritorna in Svizzera a casa dei genitori. A Delsberg nascerà, nel 1915, la seconda figlia Kristin, futura grafologa, seguita nel 1919 dal terzogenito Burkhard, avvocato e giurista specializzato in questioni inerenti i marchi depositati e, in età matura, presidente della Società psicologica junghiana di Basilea e membro dell’Istituto Jung di Küsnacht. Della famiglia fa parte a tutti gli effetti anche una tata, Margarethe Wirth Schilling detta “Wirthi” o “Wirtheli”, molto amata da Meret. Nata a Görlitz nel 1895, Margarethe ha lavorato come infermiera nell’ospedale pediatrico di Berlino prima di rispondere all’annuncio di Erich Alphons, deciso ad alleviare le future fatiche della moglie dopo la nascita della primogenita. Entrata in casa Oppenheim, Wirthi si trasferisce a Steinen dove incontra Otto Schilling, un fabbro, che sposerà negli anni venti. Quando gli Oppenheim emigreranno definitivamente in Svizzera in seguito alle leggi razziali, Wirthi rimarrà a Lörrach con il marito, perdendolo però nel 1944 durante un bombardamento alleato. Meret ama profondamente la sua Wirthi, cui è forse ispirato uno dei capolavori del suo periodo surrealista (1936), Ma Gouvernante – my nurse – mein Kindermädchen:18 un paio di scarpe femminili legate a un vassoio da portata, i tacchi appuntiti rivolti verso l’alto e rivestiti da due cappucci di carta normalmente usati per guarnire le cosce dell’oca o del tacchino arrosto. Come la celebre Colazione in pelliccia quasi contemporanea, Ma Gouvernante – my nurse – mein
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Ma Gouvernante – my nurse – mein Kindermädchen, 1936.
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Kindermädchen è un perfetto esempio di opera “a funzionamento simbolico” che, con magistrale ironia e grande essenzialità, associa le pratiche della cucina a uno dei feticci erotici per eccellenza in un’atmosfera vagamente sadomasochista. È certamente azzardato pensare che un cortocircuito del genere possa essere stato determinato anche solo in minima parte dall’affettuoso e remissivo carattere di Wirthi piuttosto che dal genio di Meret. Emerge però qui il legame profondo fra le due, destinato a protrarsi per tutta la vita. Lettere, bigliettini, doni e aiuti economici si susseguiranno a ritmo regolare, puntualmente ricambiati dalle risposte grate e affettuose di Wirthi, che resterà intimamente legata agli Oppenheim e si interesserà sempre al lavoro e alla carriera della sua ex protetta, al punto che, ancora nel 1983, accoglierà con gioia e gratitudine il catalogo generale del suo lavoro inviatole da Meret.19 L’infanzia, che Meret vive prima insieme ai nonni e alla fine della guerra con i genitori a Steinen, trascorre all’insegna di una grande apertura, animata dalle visite degli amici e dallo spirito austero ma allegro del padre Erich, nonché da quello più comprensivo e accogliente, anche se non troppo coccolone,20 della madre Eva. Erich Alphons ha conferito alla sua vita familiare un tratto singolarmente liberale per l’epoca, instaurando con moglie e figli un rapporto sostanzialmente paritario, improntato allo scambio e alla discussione. Un atteggiamento che si rivela anche nel suo rapporto con amici e pazienti: a Steinen, dove è ormai diventato un apprezzato medico condotto, non manca infatti di prodigare le sue cure anche a quelli che non possono pagargli
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la parcella, portando nella propria esistenza quotidiana quello spirito di solidarietà umana e assistenziale sviluppato durante la guerra. Meret è molto legata anche a Casa Costanza, la casa dei nonni materni in Ticino dove è solita trascorrere le vacanze. Al centro dell’antico paesino di Carona, appollaiato in cima a una collina che si leva a picco su un’insenatura del lago di Lugano, ai suoi occhi di bambina quel luogo acquista un carisma intriso di magia e ispirazione, degno di un meraviglioso castello fatato. In realtà non si tratta di un castello, ma di un’elegante costruzione settecentesca affacciata sulla piazza del paese e dotata di discreti ma espliciti caratteri nobiliari. Oltre ai dettagli affrescati e decorati a stucco nella sala del camino, Casa Costanza è pervasa da una peculiare armonia che ne ingentilisce tutti gli ambienti. Un luogo amatissimo, che per Meret è teatro di esperienze, ricerche e avventure destinate a segnare la formazione di un gusto che la accompagnerà per tutta la vita.
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3 Ritratto dell’artista da cucciola
Durante l’infanzia e la prima giovinezza, Meret cambia spesso scuola e per lunghi periodi frequenta da interna collegi e Kinderheime durante le vacanze. Dopo l’istituto pubblico di Steinen, il suo percorso formativo continua all’Oberrealschule di Schopfheim e in seguito presso un collegio privato di Zell, per poi proseguire alla scuola steineriana di Basilea (scelta molto originale per l’epoca, dovuta certamente allo spirito aperto della famiglia) e all’Herrnhuter Mädcheninternat di Königsfeld fino a concludersi all’Oberschule di Lörrach. Nei lunghi periodi di lontananza da casa, a partire dai sette-otto anni Meret scrive ai genitori numerose letterine da cui trapela uno spaccato della sua esistenza quotidiana; lettere che la bambina conclude firmandosi “Itscheli” (forse da Itsche, “rospo”, quindi “rospacchiotta”), un nomignolo che manterrà a lungo. Questi primi scritti, già intervallati da frequenti disegni, sono redatti alternativamente nella faticosa e solenne scrittura gotica e, dal 1926-27, nella moderna scrittura latina usata ancora oggi in Germania. Meret è una bambina molto amata, curiosa, vivace. Ha un bel rapporto con i fratelli, specie con la sorellina Kristin, e, come rivelano le sue lettere, una relazione tenera e affettuosa con la madre. È bellissima: i suoi grandi occhioni chiari somigliano a quelli di Eva, come il suo profilo greco, gli zigomi alti e i capelli corvini. Il piacere e la voglia di disegnare sono già ben presenti in lei, come conferma una lettera ai genitori del 9 agosto 1925: «Mi ha preso una smania di dipingere. Dipingo (sicuramente con vostro rammarico) soltanto nature morte».1 Qualche natura morta e qualche delizioso paesaggino sono infatti tra i suoi primissimi lavori noti (1925-27), in qualche misura già liberi dall’approccio generico o impersonale dei disegni della maggior parte dei bambini. È il caso di Ragazza con due maiali,2 acquerello e collage che Meret firmerà molti anni dopo, a riprova che il lavoro continua a piacerle anche da adulta, ma anche di Dipinto con pennello3 e Portacenere blu e un pacchetto di Parisiennes del 1928-29. Il primo è quasi un lavoro concettuale: una piccola mise-en-abîme nella quale il pennello è rappresentato come se tracciasse da solo una linea nel piccolo paesaggio
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· Martina Corgnati · Meret, Kristin e Burkhard con la nonna Lisa Wenger, a Casa Costanza, 1926 ca. Sotto, lettera di Meret ai genitori, inizio anni venti.
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dipinto. Un quadro nel quadro, nel quale l’atto del fare pittura emerge come qualcosa di perfettamente autonomo e privo di agente umano, frutto dell’iniziativa delle cose stesse: il tubetto di colore, il bicchiere d’acqua per diluirlo, il pennello e l’immagine che sta prendendo forma. Anomalo e per molti versi straordinario è Diavolo mangiabambini, immaginetta schizzata a matita e acquerello probabilmente attorno al 1923, quando Meret aveva dieci anni, e successivamente ripresa nel 1931 nell’Angelo sterminatore. Un diavolo terribile ma anche buffo, in scarponi da montagna, pantaloni corti e cappello piumato, che ha appena mozzato con una grossa daga la testa della bambina stretta nell’altra mano, di cui lascia perfino spuntare fra i denti un piccolo braccio. Come nasce nella piccola Meret un’immagine del genere? Non lo sappiamo. Essa però, benché terrificante, a ben guardare contiene anche un aspetto positivo: una sorta di premonizione o di anticipazione, per la giovane donna che pochi anni dopo si dirà decisa a non avere figli. I lunghi periodi di lontananza non sembrano compromettere la sicurezza e la serenità dei rapporti familiari.4 Tuttavia, forse proprio a causa dei continui spostamenti imposti dalla frequenza scolastica, la salute di Meret durante l’infanzia e la prima adolescenza è piuttosto cagionevole. Nell’inverno del 1926 si ammala a lungo per il freddo5 e ha problemi di peso: è troppo magra, tanto che poco dopo segnala con soddisfazione alla madre di avere preso due chili6 e di essere scampata ai rimproveri del medico del collegio. A quell’età Meret sembra avvertire più acutamente la nostalgia di casa. Ne scrive alla madre, con la sua consueta gentilezza ma con un’insistenza che tradisce inequivocabilmente la mancanza: «Sarò contenta quando potrò ritornare a casa […]. Sai forse dirmi all’incirca quando avverrà?».7 All’inizio del 1927, mentre trascorre le vacanze invernali al Kinderheim di Unterägeri nel canton Zugo, una località di villeggiatura della Svizzera centrale, Meret si ammala un’altra volta: una lunga e pesante influenza che la indebolirà molto nel corso di quell’anno scolastico.8 La definitiva dimissione dal Kinderheim nel marzo del 1927, a tredici anni e mezzo, sarà altrettanto dolorosa, a causa del profondo affetto che tutti nutrono per la bella ragazzina dal carattere solare ed estroverso (almeno in quella fase).9 Neppure a Basilea, del resto, le cose cambiano: nell’anno in cui frequenta la scuola Rudolf Steiner (1928) le continue malattie compromettono non poco la regolarità delle sue presenze in classe, come testimonia la pagella dell’anno scolastico 1927-28. Gli insegnanti, tuttavia, ne apprezzano sinceramente la cortesia e la disponibilità verso gli adulti, nonché la socievolezza e l’infantilismo disinibito, tratto che continuerà a manifestarsi anche durante la giovinezza e la vita adulta. È spiritosa, ha senso dell’umorismo. Il suo tedesco è sicuro, corretto, «di forma piuttosto originale». Ha una buona conoscenza della poesia lirica e drammatica, cui continuerà a interessarsi per tutta la
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· Martina Corgnati · Angelo sterminatore, 1931.
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· Ritratto dell’artista da cucciola ·
vita, e ama anche recitare. È appassionata di miti e leggende e dotata di una grandissima fantasia. Le piace maneggiare la materia e gli oggetti, attività cui si applica con capacità e inventiva. In particolare, eccelle nelle discipline pittoriche. Fantasia, talento, fine senso del colore: tutto concorre a lasciar già intuire nella giovane allieva quindicenne della scuola steineriana la futura artista. «Nel campo artistico Meret potrà certamente dare il meglio» scrive il suo insegnante W. Pflugshaupt.10 Un destino che, d’altra parte, sembra confermato dall’evidente mancanza di interesse per i calcoli e la matematica. È in questo momento che, in base ai suoi stessi ricordi, Meret inizia a intrattenersi con le immagini delle opere delle avanguardie: Espressionismo, Astrattismo, poi Fauvismo, poi Cubismo.11 La lezione dei fauves, in particolare, si indovina nei suoi primi disegni, tutti caratterizzati da colori sgargianti, vivacissimi e non sempre naturalistici. Un acquerello del 1931 (successivamente incluso nell’album personale “Dall’infanzia al 1943” realizzato da Meret) sembra invece ispirarsi a Otto Dix o George Grosz nelle deformazioni quasi caricaturali.12 A Basilea Meret vive nell’antica e amata casa dei nonni nel Klingenthal, che più avanti dovrà essere affittata per sostenere un bilancio familiare reso precario dai problemi di lavoro del padre. Quell’estate (1929) viene mandata come interna all’Herrnhuter Mädcheninternat di Königsfeld, nella Foresta Nera, dove rimarrà fino ai primi mesi del 1930, prima di trasferirsi a Lörrach.13 Lì, le letture che le impongono la irritano: di un libro proposto dall’insegnante, «rassicurante ma superficiale», dirà: «Non mi serve a niente, ma lo devo leggere comunque».14 A quindici anni Meret ha già le idee molto chiare su ciò che le è utile o meno. Ha anche gusti precisi, indipendenti dal giudizio degli altri. È attratta da letture diverse, per esempio da Die Weber (La tessitrice), dramma sociale dell’autore naturalista Gerhart Hauptmann (1862-1946), e Die Augen des ewigen Bruders (Gli occhi dell’eterno fratello), romanzo del già celeberrimo Stefan Zweig (1881-1942), che la portano a interrogarsi sul carattere e sullo stile generale della sua epoca. Quando l’insegnamento tratto dai testi non è in accordo con ciò che osserva attorno a sé, va in crisi e chiede spiegazioni: «Senti» scrive per esempio alla madre «i conti non quadrano proprio se si dice che la nostra è un’epoca materialistica e poi invece (perlomeno nelle cerchie più alte) domina l’orientamento espressionistico. O no? È una cosa che non capisco».15 Meret è inquieta ma non è una ragazza ribelle. Rispetto ai mentori e agli insegnanti non si pone mai in conflitto frontale; piuttosto, si riserva il diritto di scegliere fra le cose che le propongono o, per meglio dire, le impongono. Colpisce comunque il tono che le sue lettere assumono già dal 1928-29: ancora quindicenne, parla già da pari a pari con i genitori. Un atteggiamento insolito, sia per la sua giovane età sia per l’educazione tradizionalista impartita alle ragazze nella Germania dell’epoca, che non fa che confermare la straordinaria apertura mentale della sua famiglia.
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In questo periodo emergono anche i primi segni di una presa di distanza dal padre. Pur non trattandosi di veri e propri conflitti, un certo disagio sembra comunque farsi strada, come vediamo in una lettera che Meret gli invia da Königsfeld parlandogli della sua relativa indifferenza per i beni materiali: Hai notato, mi scrivi, che sono felice nonostante le condizioni modeste? Temo che tu non mi abbia capito. Non ho detto di essere felice da un punto di vista esteriore. Questo mi è indifferente, solo a volte sento un vago desiderio di piaceri “materiali”, no, è per via dell’ambiente simpatico intorno a me che sono così felice.16 Non che il vostro lo sia di meno! Ma almeno per ora non vengo ancora “su” da voi, anzi, quasi si può dire che non mi è permesso. Una volta ho detto una cosa e qualcuno ha osservato: «Oh, come sei ricercata!». Se le cose fossero andate avanti così a lungo, credo che mi sarei sicuramente inaridita. Ma tu non devi pensare che sia una desolazione, per scrivere così, sai, non è poi così grave per me, altrimenti non te ne scriverei.17
Ad affiorare, qui, è uno spirito polemico, una specie di disagio, un bisogno di chiarire al padre che lui stesso non ha capito cosa sia, per lei, la felicità. Anco34
ra ragazzina, Meret ostenta già indifferenza per il benessere materiale, per un lusso e una ricercatezza che teme possano inaridirla: a contare sono le amicizie, la compagnia delle persone. Sono i primi, precoci segnali di insofferenza per il mondo borghese di cui la sua famiglia fa parte e che verranno confermati più avanti dalle sue scelte di vita. Nella stessa lettera segue però la descrizione di un sogno terribile, di grande intensità e potenza simbolica, di cui la ragazza chiede spiegazioni: Ho fatto un sogno molto singolare. Purtroppo mi hanno svegliata prima che fosse finito. Ho sognato che una vecchia saliva al cimitero, per un sentiero diritto, come a Steinen. Sulla schiena e sotto il braccio portava tre bare in cui giacevano le sue tre figlie. È entrata nella capannina in cima al sentiero, grande esattamente come la cucina della casetta, e una dopo l’altra ha messo le figlie sedute su una panca. Poi si è seduta di fronte a loro. Completamente assorta nei suoi pensieri ha cominciato a raspare nella terra, rossa e compatta, finché d’un tratto il buco è apparso più grande. Dentro c’era un millepiedi scuro, lungo circa 40 cm, che mordeva e continuava ad avvolgersi attorno a un bastone. Quando il buco è stato ben aperto è saltato fuori, trasformandosi di colpo in un gatto selvatico tigrato, giallo e nero. Questo cercava continuamente di saltare alla gola della donna, la quale continuava a dargli dei calci che lo scaraventavano contro il muro. All’improvviso il gatto si è fermato, si è seduto e si è messo a guardare tutto triste le figlie morte.
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La donna stava per tirargli un altro calcio quando il gatto ha detto: “Dai un morso alla mela!”. La donna ha allungato il braccio dietro alla prima figlia e da un buco nel muro ha estratto una mela per addentarla. Ed ecco che la figlia è tornata in vita. Purtroppo è finito qui. Potresti dirmi come mai ho fatto questo sogno? Al risveglio, puoi ben credermi, la testa mi pesava tremendamente!18
Si è già detto dell’interesse di Erich Alphons per lavoro di Carl Gustav Jung, alla cui fiorente simbologia il sogno stesso sembra fare riferimento. Non è un caso, infatti, che Meret chieda proprio a lui di spiegare le figure fiabesche, la metamorfosi e gli elementi simbolici che appaiono nelle immagini oniriche. Fra questi spicca l’ingiunzione di addentare la mela, da lei stessa interpretata più avanti come simbolo della conoscenza rivelata alla donna e scelta, qui, come elemento magico dotato del potere di ribaltare la morte in vita, resuscitando una delle figlie. Meret lavorerà sui propri sogni tutta la vita, facendone un elemento di ispirazione costante e utilizzandoli spesso anche come “guide” interiori o indicazioni da seguire nelle decisioni e nelle scelte più delicate. Come scrive Christiane Meyer-Thoss, una delle critiche più sensibili e attente al suo lavoro, «Meret Oppenheim considerava i sogni degli avvenimenti e ogni volta decideva non quanta verità fosse racchiusa in essi, ma quanto futuro. I sogni divennero quindi uno strumento sensibile, quasi una bussola affidabile e incorruttibile, come un giornale di bordo della rischiosa impresa che è la vita d’artista».19 Negli anni di collegio e di scuola si susseguono spesso incubi terribili e fortemente visionari: uno dei più antichi accenna a una corsa «in preda a un’angoscia spaventosa» in un bosco dove gli alberi hanno serpenti al posto dei rami;20 in un altro lei e la sorella Kristin uccidono con violenza Cerbero, la mostruosa creatura mitologica. Ancora più significativo è quello in cui la ragazza, circondata da bambini piccoli, si ritrova davanti a una scala cui mancano alcuni gradini. Meret scende, ma i vuoti progressivamente si allargano: lei allora riporta i bambini indietro, «per poi scendere da sola».21 Un riferimento, forse, alla maternità “insostenibile”, all’impossibilità che Meret avrà sempre di percorrere la scala della vita accompagnata da figli e a quell’esigenza vitale, avvertita con chiarezza già allora, di non legarsi a una famiglia tradizionale, segnata dall’obbligo dei figli e dei rituali domestici. Il 13 febbraio del 1930, a sedici anni, Meret è scossa da un’altra visione: Quello che sto per raccontarvi l’ho vissuto davvero. Era notte, ero a letto e c’erano alcune cose che affollavano la mia mente. Tutto d’un tratto ho visto un sogno avvicinarsi a me. Probabilmente credeva che stessi dormendo, perciò non mi sono mossa e ho lasciato che la mia mente origliasse. Ora era vicino a me.
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Circondava i miei sensi e li ha fatti cadere in uno stato di beata ebbrezza. Sono stata colta da un indescrivibile senso di felicità. Mi sembrava di essere sdraiata su morbidi tappeti, nell’angolo di un salone luminoso. Il salone molto ampio e molto alto. Il soffitto era sostenuto da una sottile colonna rossa di cui non si poteva vedere la fine, e intorno al suo piede una nebbia simile a un velo umido. I miei occhi hanno visto la nebbia sciogliersi dal pavimento, trasformandosi in personaggi-fantasma giganteschi che galleggiavano intorno alla colonna con movimenti rilassati. I bianchi esseri soprannaturali continuavano a moltiplicarsi, a salire sempre più in alto e a volare poi intorno alla colonna rossa. Si riposavano sulle nuvole e su mantelli ondeggianti, e la loro calma era solenne passione, e il loro movimento era calma divina. Ecco che le pareti del salone si sono allargate, e i fantasmi dileguati. I miei sensi sperimentavano l’infinito. E nel suo inizio c’era la colonna, una fiamma circoscritta. Questo il rapporto del mio pensiero che aveva origliato mentre sognavo.22
Questa visione, quasi un’allucinazione o una serie di immagini ipnagogiche, dimostra che Meret conferiva al sogno una valenza quasi reale: una sorta di “personalità”, a metà strada fra il mondo delle cose e il suo mondo interiore, capace di insegnarle qualcosa. 36
Un altro sogno ricco di elementi simbolici e mitici è quello che la ragazza racconta alla nonna i primi giorni di gennaio del 1928, dove si annuncia il motivo del serpente di cui Meret farà larghissimo uso nella sua opera artistica. Ha appena quattordici anni e un immaginario ricchissimo: Ho sognato che ci sarebbe stato un nuovo diluvio universale, o meglio, un incendio universale. Ci avrebbe colti tutti nel sonno se qualcuno all’improvviso non avesse gridato: “Alzatevi, presto, alzatevi!”. Ci siamo vestiti in qualche modo e siamo usciti fuori. Il cielo era tutto rosso fuoco, sui campi spirava un’aria cocente e la terra ribolliva sotto i nostri piedi. D’un tratto su un monte vicino è apparsa la Tour Eiffel. Si stagliava nera come la pece sullo sfondo rosso. La gente urlava e piangeva e pregava Dio perché rimettesse i suoi peccati. In mezzo alla gente si snodava un serpente grigio. Quando passava bisognava farsi il segno della croce, ma ciò nonostante tentava continuamente di mordere qualcuno. Era il diavolo. A leggerlo non ti sembrerà così brutto, ma io sono stata ben contenta di svegliarmi da quel sogno.23
Anche in questo sogno si potrebbe rinvenire una specie di premonizione, legata a Parigi, dove Meret avrebbe vissuto, e forse alla catastrofe del nazismo e della guerra. Comunque, sono immagini drammatiche e spaventose, che più tardi verranno fissate in almeno un disegno dedicato alla Fine del mondo e di cui forse già allora, per non dimenticarsene, Meret traccia com’è sua abitudine uno
· Ritratto dell’artista da cucciola ·
schizzo su uno di quei bei fogli che la nonna le ha sempre regalato, incoraggiandola a seguire la sua vocazione artistica e creativa. Un’“alleanza” grazie alla quale la confidenza e la complicità fra Meret e Lisa Wenger non faranno che aumentare nel corso del tempo. Nel marzo del 1930, a sedici anni, Meret le scrive ancora, con tono confidenzialmente adulto: Cara nonnetta, stai bene, vero? Nessuno mi ha scritto nulla a proposito, quindi deduco che è così. È arrivata la primavera e accanto al mio posto ho appeso la casa di Carona, come simbolo della lunga attesa gioiosa. Come stai? Intendo dire, se sei circondata da persone simpatiche e interessanti, se stai leggendo un libro molto bello o se hai assistito a una buona conferenza. – Ah, come sono contenta: fra poco torno a casa e allora riavrò anch’io tutte queste cose. Sto leggendo le Betrachtungen di Hesse.24 Raramente ho letto qualcosa di altrettanto arguto. Come sono fortunati i poeti. Credo che non vi sia nulla che possa dare più felicità della capacità di creare qualcosa. Mi basta avere scritto un tema, o essere riuscita in un disegno, per avvertire anch’io questa sensazione. Oggi è una giornata piuttosto bagnata, sta piovendo. Solo ieri era così bello! Ora ti saluto, mia cara Furin.25
In quello stesso periodo, all’inizio del 1930 o forse l’anno precedente,26 Meret visita le prime mostre d’arte: una manifestazione importante dedicata al Bauhaus alla Kunsthalle di Basilea,27 grazie alla quale scopre e apprezza l’opera di Paul Klee, e un’altra intitolata “Moderne Italiener”, dove espongono fra gli altri Massimo Campigli, Arturo Tosi, Fausto Pirandello, Mario Sironi, Carlo Carrà e Giorgio Morandi.28 La mostra non la convince in modo particolare: nota qualche natura morta (forse di Morandi?), ma quasi nessun paesaggio. Le opere plastiche sono poche ma buone: le piace una Testa di bambino, ma decisamente la rigidità e la monumentalità dell’arte del Ventennio non fanno per lei.29 Di suo gradimento è invece “Münchner Kunst”, la mostra che visita l’aprile successivo alla Kunsthalle di Basilea.30 Lo spirito libero e lirico del Blaue Reiter non può non colpirla: in particolare, le piacciono i tori, le tigri e i cervi colorati di Franz Marc e due ritratti femminili alla finestra. Con il padre, intanto, Meret partecipa a conferenze e manifestazioni letterarie. All’inizio di gennaio, per esempio, presenzia a un incontro con lo scrittore e poeta tedesco Hans Carossa. In quel periodo legge anche Goethe,31 Keller, Isolde Kurz,32 Jeremias Gotthelf 33 e lo scrittore danese “impressionista” Herman Joachim Bang (1857-1912): Die Vaterlandslosen (Senza patria), il romanzo di quest’ultimo consigliatole dalla madre, le sembrerà triste e strano. Quello stesso anno Meret inizia a provare una certa insofferenza per la scuola: «Ci fanno imparare soltanto i nomi dei personaggi storici… Ci fanno studiare soltanto le date di storia, che dimentico subito» scrive alla madre.34
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Per quanto riguarda i compagni, poi, secondo lei tre quarti della classe sono idioti con poche speranze di evolversi. Il grado di saturazione nei confronti delle materie scolastiche, specie della detestata matematica, è testimoniato con assoluta chiarezza nella sua prima opera importante, Quaderno di scuola, realizzata fra l’aprile e il maggio del 1930 per il quarantanovesimo compleanno del padre. Su una pagina di quaderno a una complessa equazione si affianca, come soluzione e incognita surreale, un coniglietto colorato, punto di fuga dalla logica astratta e aridamente razionale con cui la giovane non vuole più avere nulla a che fare. Riprodotto nel 1957 sulla rivista Le Surréalisme, même, il Quaderno di scuola è la prima opera di Meret propriamente detta, da cui non emerge soltanto l’odio per numeri e formule ma una considerazione assolutamente atipica di ciò che è o potrebbe essere un lavoro artistico: non un dipinto serio, un olio su tela tradizionale, ma una composizione a collage delicata, giocosa, in qualche modo dissacrante, sovversiva. Un’opera, insomma, perfettamente surrealista prima che Meret abbia mai sentito anche solo nominare il Surrealismo. L’ora delle scelte radicali sembra scoccata. Incassando la perplessità e il biasimo del padre ma il sostegno della nonna, Meret lascia temporaneamente il liceo per iscriversi a una scuola professionale (la famosa Allgemei38
ne Gewerbeschule di Basilea), prima di abbandonarlo in maniera definitiva dopo un ultimo tentativo.35 Ormai ha deciso di diventare un’artista. A Basilea inizia a frequentare alcuni giovani pittori conosciuti tramite il padrino
Quaderno di scuola, 1930.
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del fratello, lo scultore neoclassico e simbolista Carl Burckhardt,36 che un paio di anni più tardi daranno vita al Gruppo 33 (Gruppe 33) per protestare contro le tendenze conservatrici, reazionarie e filonaziste dei giovani artisti e architetti svizzeri. Si tratta di Walter Bodmer, Otto Abt, Walter Kurt Wiemken e Irène Zurkinden. Affetto da disabilità motorie a causa di una poliomielite contratta a pochi mesi di vita e da una visione del mondo particolarmente cupa e pessimistica, Wiemken colpisce la sensibilità di Meret, che gli si lega di un affetto speciale e forse ha con lui la sua prima storia sentimentale.37 Al mondo espressivo del giovane fanno riferimento i suoi primi disegni, segnati da morti, catastrofi e, in particolare, suicidi. Si potrebbe anzi dire che Wiemken sia l’unico artista da cui Meret verrà in qualche misura influenzata, forse anche a causa della sua giovanissima età (all’epoca lui ha solo diciotto anni). Irène Zurkinden diventerà invece l’amica fondamentale della sua giovinezza: «Era un’artista molto dotata, della corrente neoimpressionista. Quando la conobbi avevo già espresso a mio padre la decisione di diventare un’artista. Soltanto non ero capace di tracciare una riga diritta, invece Irène eseguiva ritratti fantastici e riceveva molte commissioni. A volte dipingeva opere estremamente divertenti, inoltre era libera e conduceva un’esistenza indipendente dalle convenzioni sociali. Nutrivo molta ammirazione per lei».38 Nata nel 1909 in una famiglia interessata all’arte e alla musica, Irène ha quattro anni più di Meret, che a quell’età sono moltissimi; come lei, ha frequentato corsi di disegno, grafica e colore presso l’Allgemeine Gewerbeschule39 ed è già stata a Parigi. La disinvoltura e la sicurezza di Irène impressionano Meret, che nel 1931 le dedica un ritratto a gouache di grande forza espressiva; è da lei, inoltre, o attraverso la loro cerchia comune, che sente parlare per la prima volta dei surrealisti.40 Nel 1931 fa capolino l’argomento “uomini”: nell’agosto del 1931, a diciassette anni, Meret scrive trionfante alla madre che, dopo aver tenuto nascosto a lungo il suo indirizzo in modo che nessuno potesse scriverle, ha ricevuto di colpo dieci lettere.41 Anche se i nomi di questi precoci spasimanti rimarranno sempre sconosciuti – fatta eccezione per Titus Burckhardt, figlio di Carl, a quanto pare il «primo corteggiatore serio» della giovane e bellissima Meret nonché involontario responsabile della sua prima educazione sentimentale –,42 è improbabile che i rapporti adolescenziali della giovane siano tutti platonici. Proprio a quel momento risale infatti il terribile acquerello dell’Angelo sterminatore: una fredda ed elegante figura, la gonna punteggiata di stelle e le ali a forma di montagna, circondata da piccoli cadaveri e intenta a tagliare la gola a un bambino nudo stretto fra le sue braccia, da cui sgorga un fiotto di sangue. Un’immagine temibile e sofisticata, che riprende il Diavolo mangiabambini di qualche anno prima e che Meret commenterà sempre in modo alquanto laconico:
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Quando ho conosciuto i primi ragazzi e mi sono resa conto della loro disistima per le donne, ho subito deciso di vivere secondo le mie regole, indifferente ai ruoli dettati dalla società. Ero e sono convinta sia un pregiudizio considerare un figlio il completo appagamento di una donna. Molti grandi uomini si sono realizzati senza figli, e se ne avevano, la loro esistenza rimase anonima. D’altronde se le donne si lasciano convincere che curarsi dell’uomo e educare i figli sono gli unici diritti e piaceri a cui aspirare, è affare loro. Da parte mia, a 17 anni terrorizzata – come tutte le donne prima della pillola – dall’idea di rimanere incinta, sentivo un grande rifiuto della maternità, accompagnato dal desiderio di non sposarmi se non molto tardi, perciò ho rappresentato questo mio sentire nel “quadro votivo per non avere figli”.43
Una decisione radicale e a dir poco rara per l’epoca. Molto più tardi, in una serie di appunti raccolti per Jean-Christophe Ammann, Meret preciserà meglio la natura dei suoi primi incontri con i coetanei dell’altro sesso e la sua indignazione nel constatare quale opinione avessero delle donne: Il mio atteggiamento risale a una decisione presa a diciassette anni, anche se allora non ero ancora consapevole del suo significato e della sua portata.
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Avevo all’incirca diciassette anni ed ero ancora “casta” (ovvero: non ancora gravata dalla colpa del rapporto sessuale!). Avevo respinto il primo corteggiatore serio44 che voleva sposarmi, perché la mia coscienza mi diceva che non lo amavo abbastanza per esaudire la promessa di un matrimonio. Quel giovanotto (che aveva anche tentato di sedurmi), una volta che gli avevo chiesto che cos’era una puttana, mi spiegò che era una donna nubile che dormiva con un uomo. Fu sufficiente per richiamare la mia attenzione su questa singolare contraddizione: la medesima azione è infamante per una donna, ma non per l’uomo. (Nota bene: non si trattava del ricevere un pagamento per un rapporto sessuale, ma della libera decisione.) Compresi che mi ero imbattuta in uno degli assunti fondamentali del patriarcato. Esso significa che da una parte le donne sono a disposizione di tutti gli uomini, ma dall’altra solo la benedizione del sacerdote o dello Stato discolpa la donna dal peccato del rapporto sessuale, e precisamente dandola in proprietà a un uomo. Decisi che queste regole non erano più valide per me e che da quel momento avrei vissuto secondo le mie, lasciandomi guidare esclusivamente dalla mia coscienza. È chiaro che così facendo sarei passata all’opposizione. Il disprezzo della società mi era assicurato: chi fa qualcosa di così orrendo può farlo solo perché viene pagato. Poiché la sessualità era di per sé un male, io facevo del male in quanto vivevo libera e indipendente (come gli uomini fanno da che mondo è mondo).45
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Opporsi in modo così deciso alla morale corrente è difficile per chiunque, ma quasi impossibile per una giovane donna, per di più bella e priva di particolari protezioni sociali: una scelta che Meret pagherà a caro prezzo per moltissimi anni ma che non smentirà mai, affrontando a testa alta le diffidenze, le malevolenze, i pettegolezzi e perfino il disprezzo, continuando a difendere di fronte a chiunque la sua libertà personale e creativa. Questa, forse, la prima grande prova della forza straordinaria del suo carattere e dell’unicità del suo destino. Un destino che peraltro sembra confermato da uno strano episodio avvenuto proprio in quell’epoca: il 9 novembre del 1931, nel bel mezzo di quelle burrasche sentimentali ed esistenziali, la nonna Lisa legge le carte all’eccentrica nipote. Meret ha appena compiuto diciotto anni. Vuole fare l’artista, ma finora ha realizzato solo una manciata di disegni, gouache e chine. Il padre non nutre troppa fiducia in lei: «Le idee non valgono più delle more» le dice.46 La nonna invece le prospetta un futuro d’artista, benché non tutto rose e fiori: «Quello che fai dipenderà fondamentalmente da te, non dall’esterno» esordisce. Meret potrà conseguire il successo artistico, ma «la strada per arrivarci è piuttosto dura. Dovrai superare molte difficoltà fino a quando, poco prima di raggiungerlo, troverai qualcosa di sorprendente in te, ti si accenderà una luce.47 Ma c’è sempre qualcosa o qualcuno che ti guiderà o ti spronerà. Per un certo periodo sarai molto amata. La strada che porta al successo passa per l’inquietudine e un continuo viaggiare, anche interiore. Voglio dire che vivrai soprattutto per questa “vocazione”, ma sarai anche molto amata e ci sarà chi soffrirà molto per te».48 In vista, nessun matrimonio e nemmeno bambini. Relazioni con tanti uomini, a volte innamorati, ma anche con donne… Tutte previsioni che, con il senno di poi, si rivelano un’autentica profezia.
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