«Requisitoria brillante, esilarante, implacabile nella sua esattezza, superspirituale…
per nove anni con il Guggenheim Museum di
Piena di considerazioni taglienti sul mondo dell’arte attuale e sul suo subdolo mix di
New York in qualità di lecturer ed esperto di arte
intrighi e finta democrazia… Ma al di là delle acrobazie verbali troviamo un’analisi
contemporanea. Attualmente insegna alla New
prudente, esperta, del mercato dell’Arte.»
York University e alla School of Visual Arts di
Philadelphia Inquirer, usa
New York. È direttore di The Orange Press e editor della rivista online woid: a Journal of Visual Arts.
«Equilibrato, imparziale, conciliante? No: l’autore è sfrontato, eccessivo, e a volte supera il confine delle buone maniere. Tanto meglio!» The Art Newspaper, Londra «Nessun contegno: è questo che amo.» Art News, usa, classifica dei migliori libri del 2006
Paul Werner Museo S.p.A.
Paul Werner, nato in Francia, ha collaborato
Museo S.p.A. non è un libretto sul Guggenheim Museum, e nemmeno sui musei in generale. È un pamphlet che svela i meccanismi perversi dell’arte attraverso la parabola di un museo trasformato in multinazionale. Il museo in questione era il Guggenheim di New York, il suo diabolico ideatore un uomo di nome Tom Krens. La formula era semplice, assolutamente in linea
Museo S.p.A.
con i tempi: l’arte era una merce come tutte le altre. E come tutte le merci, andava impiegata a scopo di lucro. La bolla speculativa aveva di nuovo colpito nel segno: il binomio arte-business
La globalizzazione della cultura
era stato sdoganato, e il Guggenheim iniziò ad
«Di una cattiveria diabolica, quindi due volte più coinvolgente.»
aprire filiali in tutto il mondo.
Blog russo
Ma l’arte può essere trattata come un Big Mac o una scatola di Corn Flakes? Quali sono le conse-
«Chiunque abbia intuito che qualcosa non va nel mondo dell’arte deve leggere questo
guenze di questo assurdo disegno dopo lo scop-
pamphlet.»
pio della crisi economica mondiale?
New York Arts Exchange, usa
Paul Werner ha lavorato per nove anni al Guggenheim Museum di New York e ha vissuto dall’interno questo cambiamento epocale. Da
Paul Werner
esperto di arte contemporanea è passato improvvisamente a tuttologo, costretto a spaziare dall’arte cinese agli abiti Armani dall’arte africana alle motociclette e perfino alla vaselina. In questo piccolo saggio incandescente, ha deciso di scoperchiare quel bizzarro museo postmoderno per svelarne le dinamiche interne, gettando una luce assolutamente inedita sulla strada che i musei, tutti i musei, hanno finito per imboccare negli ultimi vent’anni. Una china pericolosa che oggi rivela le sue disastrose conseguenze e sulle ceneri della quale l’autore traccia, con grande acume e feroce passione, una nuova, entusiasmante via verso il nuovo ancora da costruire.
Nella stessa collana: 1. Karine Lisbonne – Bernard Zürcher,
€ 12.00
Arte contemporanea: costo o investimento? Una prospettiva europea 2. Olav Velthuis, Imaginary economics Quando l’arte sfida il capitalismo
J&L-a-e-werner.indd 1
9-11-2009 11:15:40
Paul Werner Museo S.p.A. La globalizzazione della cultura
Traduzione di Ximena RodrĂguez
1 Il genio del capitalismo, e viceversa
1. Se il genio è l’arte di osservare le cose più evidenti, Tom Krens aveva avuto la genialità di constatare che le opere d’arte circolano come il denaro. Il suo errore (che condividevamo tutti, negli anni novanta) è stato di non capire che se l’arte si comporta come il denaro è solo perché il denaro si comporta come l’arte. Nei due casi non si tratta né di arte né di denaro, ma delle due cose insieme e dell’idea che ci si fa di esse. Ecco come funziona: il museo (qualsiasi museo) specula sulla collezione di opere d’arte che ha radunato, proprio come una banca specula sul suo capitale. Per farlo, mette il proprio capitale (collezione) o il capitale altrui (prestiti) in circolazione (mostra). Più questo capitale circola, più capitale si accumula. E questo nuovo capitale, a sua volta, viene rimesso in circolazione o utilizzato per accumularne dell’altro. Nonostante la sua doppia specializzazione in storia dell’arte e in management, Krens aveva un difetto estremamente diffuso fra i cosiddetti intellettuali a metà: pensava di avere delle idee fuori dagli schemi perché i suoi schemi erano i più all’avanguardia. Come alcuni di voi avranno colto due capoversi fa, il “capitale” rappresentato dalla collezione e dalla circolazione di opere d’arte è una cosa molto diversa dai buoni del tesoro e dalle banconote. Si pensa di poterli scambiare facilmente, e di fatto lo si fa tutto il tempo, finché non arriva il momento di battere cassa. A me sembra che Krens questa cosa non l’abbia mai capita. Prova ne è il fatto che Krens, una volta insediatosi al museo, abbia cominciato a “diversificare il portafoglio” liquidando alcuni dei dipinti più quotati per passare a investimenti più rischiosi. Nel 1990 il museo acquisì una vasta collezione di opere minimaliste degli anni sessanta e settanta. Da quel momento iniziò la corsa speculativa: opere d’arte appena sfornate venivano vendute o semplicemente donate al Guggenheim perché il solo fatto di farne parte le dotava di un valore molto più alto di quello che avrebbero mai raggiunto o meritato, facendo salire alle stelle la reputazione dell’artista.
11
· Paul Werner ·
Un portafoglio ben equilibrato sul versante delle finanze, ma non certo dell’arte. Un investment banker avrebbe parlato di strategie aggressive, un membro del consiglio di amministrazione o un direttore di museo tradizionalista avrebbe aggrottato la fronte. I musei tradizionali si occupano soprattutto di preservare il loro capitale culturale. E questo significa: salvaguardare i beni attraverso un’adeguata opera di conservazione, patrocinare il bagaglio di conoscenze su cui si regge il valore di questi beni, sponsorizzare gli eventi che legittimano quelle conoscenze che a loro volta mantengono o decuplicano il valore dei beni, organizzare mostre e prestiti per far lievitare il numero dei visitatori, il valore simbolico degli attivi e, last but not least, di quella categoria generale che chiamiamo arte. È questo che hanno fatto Morgan, Rockefeller, e soprattutto Frick. Ed è per questo che quasi tutti i vecchi musei d’arte statunitensi sono stati costruiti in stile greco-romano: perché somigliano alle care vecchie borse di commercio. Ma Krens aveva altri progetti in testa, e questi progetti mandavano letteralmente in bestia i direttori di museo più conservatori. Alcuni di loro indissero una tavola rotonda, successivamente data alle stampe con il titolo Whose Muse? (“La Musa di chi?”). Il sottotitolo era Art Museum and the Public Trust (“I musei d’arte e la fiducia del pubblico”), ma in realtà 12
stava per: Tom Krens, un pugnale nel cuore dei nostri maneggi museologici. In sostanza, il libro accusava Krens di azioni così spregiudicate da minare il valore del portafoglio di tutti i musei e la «fiducia del pubblico». La stampa abboccò, e iniziò a ipotizzare un duello all’ultimo sangue fra Krens e il supertradizionalista Philippe de Montebello, direttore del Metropolitan Museum of Art di New York nonché portavoce della Lega dei Direttori Malcontenti. Ma come in un western esistenzialista che si rispetti, era impossibile distinguere lo sceriffo dal bandito: Krens e Montebello avevano entrambi l’anima del banchiere. Incarnavano solo due modelli di banchiere molto diversi. 2. Nei film, alla fine, lo sceriffo affronta il bandito. Nel nostro caso, invece, non c’era nessuno da affrontare, perché Krens non doveva fare quasi niente per minare la fiducia del pubblico: gli altri musei lo facevano già fin troppo bene da soli. I loro direttori, comunque, facevano bene a preoccuparsi. L’obiettivo principale dei musei americani, non dimentichiamolo, è la fiducia del pubblico nell’arte e nel capitale, come se si trattasse di due cose inscindibili. La vera funzione dei musei d’arte americani è riciclare i soldi dei loro finanziatori. Non trasformando un bene (diciamo la droga) in un altro (diciamo dei Rembrandt), ma elevando l’opera d’arte a strumento di potere e fiducia. Il mu-
· Il genio del capitalismo, e viceversa ·
seo trasforma le opere d’arte in gloria allo stesso modo in cui i suoi proprietari trasformano i salvadanai in futures. La versione che gli adepti del museo (il consiglio di amministrazione, gli sponsor e i dirigenti) mirino soltanto ai soldi è un’infamia messa in circolazione dalla stampa di sinistra. Nessuno è così idiota da crederci, tanto meno quelli che gravitano attorno a posizioni di potere. L’arte è un investimento infame: la domanda non è né costante né prevedibile, il valore di scambio è assolutamente teorico e i prezzi reali fluttuano in modo costante e insensato. Di interessi o dividendi neanche a parlarne. E i costi di mantenimento dei beni sono esorbitanti: i lingotti e i buoni del tesoro, almeno, non esigono ettari di spazio per essere stoccati, né tutte le spese di conservazione, restauro e assicurazione, e nemmeno quelle costose operazioni di rilancio contro concorrenti fantasma per far alzare i prezzi o quell’infinità di strategie per accaparrarsi i fondi dei potenziali acquirenti a furia di battage pubblicitari. Certo, sui giornali leggiamo di fortune accumulate nel mercato dell’arte, di società anonime (quelle vere, non quella inventata da Marcel Duchamp) che investono in arte (anche quella inventata da Duchamp). Ogni tanto un professore di economia cerca di dimostrarci che l’arte è un investimento magnifico. E la nostra reazione spontanea è sempre e solo una: chiedere al professore in questione di definire i suoi standard. Già, perché la prima cosa che ti insegnano alla prima lezione di statistica della tua vita è il concetto di “validità esterna”: prima di valutare i fagioli sei tenuto a possedere una corretta definizione di che cos’è un fagiolo. E sfortunatamente, nessuno è mai riuscito a dare una corretta definizione dell’arte; viene da chiedersi se lo facciano apposta… Certo, con l’arte puoi diventare ricco. Ma puoi diventare ricco anche all’ippodromo, con molte più probabilità e meno intralci. Basta aprire la pagina delle soffiate estetiche per accorgersi che non esistono basi statistiche valide per sapere se le quotazioni dell’arte saliranno, scenderanno o continueranno a oscillare su se stesse. Se non esistono basi statistiche è perché non ci sono statistiche affidabili, quella che in gergo si chiama l’“affidabilità interna”. E se non ci sono statistiche è perché gli speculatori, i collezionisti e i musei non hanno alcuna intenzione di diffondere questo genere di informazioni: quello che conta, qui, non è la velocità del cavallo, ma la velocità a cui riescono a farti credere che correrà. Nemmeno Adam Smith, l’inventore delle teorie economiche del liberalismo anglosassone, è mai riuscito a far entrare l’arte nelle sue anguste teorie dello scambio: l’arte è puro valore di scambio e zero valore d’uso. Come quei pantaloni a tre gambe che ti rifilano nei negozietti a un euro, l’arte non è una cosa che usi, è solo una cosa che compri e che vendi, che compri e che vendi.
13
· Paul Werner ·
Tutto ciò contribuiva a fare dell’arte un investimento ideale, specie negli anni novanta, quando le liquidità eccedevano di gran lunga i sistemi produttivi e nuove società di sfruttamento culturale spuntavano come funghi per ramazzare i soldi in eccesso e reinvestirli in mostre e capolavori. Il che era come tornare a casa e trovare la tua donna a letto con un miliardario. E i musei, in effetti, sono proprio questo: magnaccia del Bello ideale che vivono alle spalle dei contribuenti e spacciano il primo bavoso con un conto in banca per il salvatore dell’umanità. E pretendono pure di spiegarci che cos’è l’arte, cosa che non mi sognerei mai di chiedere a una persona sana di mente. Perfino in Europa, dove per tradizione esiste ancora una certa distanza fra pubblico e privato, ci si sforza sempre più di far finire i musei e gli spazi espositivi nelle mani di un privato. Ma il neoliberismo europeo è solo un cagnolino che insegue i passi dell’America: la maggior parte degli uomini d’affari e dei politici europei raccatta le proprie idee fra le pagine ormai ingiallite del Wall Street Journal. Ma in America come altrove, i conti non tornano. L’illusione che i musei potessero fruttare come qualsiasi altra impresa derivava da una massima che gli stessi musei si sforzavano di seguire: quella per cui l’arte e il capitale andrebbero di pari passo e circolerebbero allo stesso mo14
do. All’inizio del xxi secolo, però, quando si sono accorti che i benefici andavano solo al privato e che la trappola finiva per ritorcerglisi contro, i musei hanno iniziato a prendere le distanze dal settore privato. A parte Krens, che sembrava sguazzarci. Per andare a letto col diavolo bisogna avere la coda lunga… 3. L’eldorado degli aggiotatori risale al secolo dei Lumi, e più precisamente agli inizi della Rivoluzione francese, quando il capitalismo, liberatosi dalle catene dell’Ancien Régime, partì all’assalto dei patrimoni d’arte e artigianato accumulati da preti e sovrani nell’arco di dieci secoli: i monasteri e i palazzi furono sistematicamente saccheggiati, in Francia e ovunque passassero gli eserciti della Rivoluzione, seguiti poi da quelli dell’Impero. E da questo gigantesco scompiglio, signore e signori, ecco a voi il museo d’arte contemporanea! Da un lato si invocava la distruzione dei capricci dei tiranni: chiese demolite, monasteri sequestrati, statuarie infrante. Dall’altro, le opere d’arte (specie se trasportabili) rappresentavano una fortuna irresistibile per chiunque – critico, speculatore o mascalzone – fosse in grado di impadronirsene. A seconda di come andavano le cose, il possesso di una bella lacca proveniente da Versailles poteva renderti molto ricco o molto morto, ghigliottinato per speculazione o accaparramento ed eventualmente messo a morte una seconda volta come Vi-
· Il genio del capitalismo, e viceversa ·
le Schiavo dei Gingilli del Delirio, Lacchè Ipocrita della Lussuria Infamante ecc. A quanto ne so, nell’esercito non hanno mai fucilato granché per saccheggiamento: fin dall’inizio, infatti, lo Stato si è infilato nel gioco con il ruolo di arbitro imparziale. Così, oltre al monopolio della violenza nella guerra, nella pace e negli affari, lo Stato si è concesso il ruolo di arbitro decisivo per tutto ciò che riguardava i destini dell’arte. Il trucco (primo) sta nell’affermare che il valore effettivo di un’opera d’arte non ha niente a che fare con chi un tempo ci si puliva il culo. L’arte si eleva al di sopra della sua melma d’origine come il fiore di loto. Ovviamente, tutto dipende dalla distanza che riesci a creare fra opera e contesto, fra Rubens e le chiappe del re. Gli intellettuali di fine xviii secolo maneggiavano questa argomentazione con finezza da esperti. E questa argomentazione ha finito per diventare uno dei capisaldi dell’Ordine contemporaneo, il ponte ideologico che collega i filosofi francesi del xviii secolo al buon vecchio Marx. Il museo nel senso attuale del termine deve la sua esistenza al desiderio esplicito di dimostrare che il valore “reale” delle opere d’arte supera il loro valore d’uso e al tempo stesso il loro valore di scambio. Quello che Goethe diceva dell’estetica si applica indifferentemente al denaro: stabilendo i termini del dibattito si può manipolare all’infinito il significato delle cose. Il che appunto costituisce la principale occupazione di tutti coloro che lavorano nei musei. Un mestiere come un altro, insomma… I musei della Rivoluzione francese sono stati fra i primi a suddividere le opere d’arte per periodi storici, in base al principio ferreo e al tempo stesso contraddittorio che ogni epoca ha la sua arte ma che il significato dell’arte in generale non appartiene a nessuno salvo a coloro che gestiscono il museo, i quali, guarda caso, sono gli stessi che impongono i termini del dibattito. Il senso del museo sta proprio nella sua perenne capacità di trascendere la Storia: il visitatore procede attraverso la Storia trovandosi sempre già al di là di essa, in una contraddizione irresolubile fra la progressione lineare insita nell’attraversamento delle sale e il significato immanente di questo stesso attraversamento. Una contraddizione da cui i museologi erano letteralmente ossessionati negli anni novanta, epoca in cui gli intellettuali orgasmici si aspettavano di incrociare la fine della storia a ogni angolo di strada. «La Storia è morta!», sbraitava Francis Fukuyama, e la Storia gli rispondeva: «Fuku yourself». Secondo: i fondatori del Nuovo ordine estetico si sforzavano di convincere se stessi e gli altri che il valore attuale delle opere d’arte trascendesse il sordido lucro, proprio come in passato il loro vero significato trascendeva il loro valore
15
· Paul Werner ·
di scambio o d’uso. Il valore d’uso dell’arte è quello di non averne. Una logica impeccabile, e non proprio disinteressata, per le bande di imbroglioni (militari, civili, museologi e collezionisti) che negli anni successivi alla presa della Bastiglia si scatenavano in giro per l’Europa e l’Egitto e, ancora oggi, si scatenano in tutto il mondo. Terzo: lo Stato si erige a mausoleo di tutte le aporie del mercato dell’arte, proprio come si erige ad arbitro di tutte le contraddizioni della società. Le menti perverse che hanno dato vita al sistema museologico conoscevano bene John Locke, il grande filosofo del liberalismo, e le sue elucubrazioni sul ruolo mediatore del governo. Come una banda di marmocchi nel cortile di una scuola, andavano tutti a frignare sotto le gonne dello Stato, unico arbitro di quella guerra all’ultimo sangue per aggiudicarsi la tal porcellana di Sèvres. E avevano finito tutti per convincersi che il vero scopo del collezionista non fosse più, ohibò, quello di arricchirsi, ma di servire la Nazione proteggendo i tesori che di quella Nazione costituiscono l’avvenire radioso, ovviamente con la benedizione della Nazione stessa, vale a dire del Popolo sovrano e dello Stato che si è accollato la missione di rappresentarlo, quel sovrano, missione a sua volta ineccepibile in quanto lo Stato stesso ha la saggezza di proteggere quelle arti che – appunto – 16
fanno la gloria e la consolazione di quel Popolo il quale… ma a questo punto mi sembra che stiamo iniziando a girare in tondo. Nel 1791, quando la nazione francese si apprestava a partire in guerra, era praticamente impossibile capire se il preannunciato furto di opere d’arte all’estero fosse visto come una sfortunata conseguenza della guerra o non invece come un suo scopo. La nazione, legittima incarnazione del popolo in tempo di guerra, di pace e di saccheggio, se ne andava in giro ad assegnare alle altre nazioni il loro legittimo posto nella storia razziandone filantropicamente le opere d’arte. E come il museo, conferiva a ogni singola nazione il suo posto legittimo conquistandole tutte. Infine (quarto): l’esteta è colui che opera le distinzioni fra le opere d’arte. È il servus servorum dello Stato, della Bellezza, del Popolo… per farla breve, di chiunque e di qualsiasi cosa tranne che della propria cupidigia. Secondo Pierre Bourdieu, a partire dal xix secolo il valore simbolico dell’opera d’arte diviene l’immagine speculare del suo valore d’uso. È ciò che Bourdieu chiama «interesse al disinteresse». Il curatore, l’amatore, il collezionista finiscono per somigliare tutti allo Swann di Proust, un uomo sensibile e intelligente che non riesce assolutamente a spiegarsi l’attrazione che prova per i fiori che intravede fra i seni di una prostituta. Questo ruolo segna un epilogo: gli inventori e gli ideologi del museo si calano di nuovo nella loro veste di arbitri e, rimossa la maschera della finta sogge-
· Il genio del capitalismo, e viceversa ·
zione allo Stato, tornano a riprendersi il controllo che gli avevano momentaneamente ceduto. Alla fine del xx secolo la commedia sembrava giunta a compimento: l’élite economica e sociale si drizzava impavida di fronte al suo golem, certa di riuscire a ridurlo in polvere. Fu allora che, grazie alla spintarella di alcune fondazioni sovvenzionate dal settore privato, negli Stati Uniti cominciò a diffondersi l’idea che lo Stato fosse un’entità superflua e che ormai spettasse ai selvaggi del capitale prendere in mano le cose, in specula speculorum, amen. In molti paesi europei il valore delle opere d’arte era ancora giustificato dalla fiducia e dal credito incondizionati dello Stato, perché lo Stato prendeva ancora sul serio il suo ruolo di arbitro imparziale nella lotta di classe; ma in America e in Giappone, tanto per citarne due, era chiaro che i benefici ottenibili dall’arte non potevano corrispondere ai bisogni inconfessati del popolo, dato che questi stessi benefici soddisfacevano i bisogni di un’élite suprema. Come ci spiega l’ex direttore dell’Art Institute di Chicago, «in fin dei conti l’autorità del museo d’arte americano deriva dalla nostra stessa Costituzione, la quale garantisce le condizioni che permettono ai privati di istituire musei per il bene del pubblico». Tradotto liberamente: negli Stati Uniti la legittimità del museo d’arte si trova a essere rafforzata nella misura in cui il museo riesce a dimostrare che gli scopi e il sistema di valori della creazione artistica sono assolutamente sovrapponibili agli scopi e ai valori della libera impresa e dello Stato. Perché si tratta degli stessi valori, vero? L’altruismo, l’uguaglianza, la spiritualità… vero? Che il membro di un consiglio di amministrazione passi il suo tempo ad aggirare le leggi contro il saccheggio di antichità; che un altro si faccia beccare nel suo appartamento con pezzi antichi di contrabbando; che il bel Caravaggio promesso al museo da un potenziale benefattore contenga frammenti capaci di sollevare serie questioni sulla sua caravaggità, nonché sui potenziali benefici che l’una e l’altra parte traggono dall’assenza di un dibattito serio e onesto intorno a tali frammenti; che la ricerca serva innanzitutto a legittimare e a promuovere le opere in possesso di un fondatore, di un amministratore o di un adepto del museo che, per una strana coincidenza, si è trovato a sostenere e a promuovere le ricerche in questione; che le mostre temporanee non siano che un mezzo per pompare l’autenticità e il valore dei fondi degli adepti del museo… tutto ciò non ci deve interessare. Ecco come la pensa Montebello: «È l’applicazione giudiziosa dell’autorità del museo che rende possibile quello stato di pura fantasticheria ispirata da un’esperienza estetica senza ostacoli». Come dire, sorridi e chiudi il becco, cara. Seguendo questo criterio, fra l’altro, potremmo affermare che l’assenza di uno «stato di pura fantasticheria» interferisca con l’«esercizio dell’autorità»; ma su questo avremo modo di tornare. Il compito del direttore è quello
17
· Paul Werner ·
di promuovere il museo come un teatro in cui l’egoismo, l’autocrazia e i desideri materiali interpretano la parte delle loro stesse antitesi. Verrebbe da chiedersi se i direttori di museo credano davvero a queste boiate o non si limitino a sorridere ogni volta che si incontrano, come gli aruspici romani. La linea generale del museo è questa: che il pane quotidiano della libera impresa (speculazione, creazione di celebrità e manipolazione delle informazioni) non ha niente a che vedere con le briciole dell’arte. In un qualsiasi museo degli Stati Uniti, i membri del consiglio di amministrazione avrebbero pieni poteri di svendere i loro Braque e di squagliarsela in Brasile, se solo gli girasse di farlo; la prova della loro assoluta onestà è che non lo fanno. L’autorità morale del museo (“la fiducia del pubblico”) deriva da un’apparente e felice conciliazione fra egoismo e arte, nella quale, in realtà, non c’è nulla di conflittuale. Una piccola riflessione: se un bel giorno il dieci per cento dei Picasso in circolazione fosse messo in vendita, le quotazioni dei Picasso crollerebbero. Se il novantanove per cento dei Rembrandt di tutto il mondo fosse preservato in fondi (ed è esattamente così che va), la domanda per l’unico esemplare in circolazione sarebbe enorme – e in effetti, è esattamente così che va. Ma al con18
trario di quanto avviene per i fagioli e per i salvadanai, quelli che battono cassa per il Rembrandt sono gli stessi che tengono alta la domanda: prima alzi il prezzo dei tuoi Raffaello, poi doni un Raffaello al museo in cambio di uno sgravio fiscale enorme. Grazie all’istituzione museo, il consiglio di amministrazione, gli adepti e tutti gli ammanicati possono contemporaneamente proteggere le loro acquisizioni, far salire il valore di queste acquisizioni con il pretesto di promuovere l’arte e la cultura e aggiudicarsi perfino un bonus (capitale simbolico), strombazzando a destra e a manca che le loro acquisizioni non hanno niente a che vedere con il sordido lucro. Alla fine della favola, la tua posizione sociale (definita, diciamo, dal possesso di un Raffaello) non ha niente a che vedere con il fatto che in origine avessi i fondi per comprartelo, quel Raffaello. E ora fate un piccolo esperimento: rileggete quest’ultimo paragrafo sostituendo a “Raffaello” la parola “abito Armani” o a “Picasso” la parola “motocicletta”. Non ha senso, vero? Giustamente, direte voi, perché gli abiti e le motociclette si rimpiazzano facilmente. Adesso avrete capito perché Krens appariva pericoloso quando esponeva motociclette e vestiti: non tanto per i musei in sé, ma per alcuni pregiudizi che i ricchi adepti dei musei avrebbero fatto fatica a spiegare a se stessi. “Esternalità”: adorabile espressione degli economisti che indica tutto ciò che l’economia non è programmata per capire o, piuttosto, tutto ciò che è pro-
· Il genio del capitalismo, e viceversa ·
grammata per non capire. I musei sono lo strumento di questa seconda attività, dei dispositivi in grado di codificare un valore (il denaro) attraverso un altro valore (capitale simbolico). E questo secondo valore è preservato da un incessante, giudizioso e avvedutissimo sforzo di definire quello stesso valore. Il che equivale a dire che, in un museo, il valore delle opere d’arte corrisponde al valore del denaro allo stesso modo in cui il valore del denaro corrisponde a tutto ciò che il denaro rappresenta: si tratta di un rapporto vincolato, instabile, perennemente soggetto a manipolazioni. E queste manipolazioni, questo va e vieni dal capitale simbolico al capitale tout court, sono precisamente ciò di cui il museo si occupa dalla mattina alla sera. Il compito del direttore è quello di rappresentare gli interessi dei membri del consiglio d’amministrazione e degli investitori ridefinendo i presunti interessi del pubblico: in altre parole, quello di calamitare tutti gli sguardi intorno al valore ideale della collezione distogliendoli da tutti gli altri valori, non altrettanto ideali. Affermare che un’opera d’arte non ha prezzo è esatto, non perché l’opera sia priva di alcun valore, ma perché il suo valore è concepibile solo attraverso un pensiero dialettico, il che la colloca al di sopra delle competenze ideologiche della stragrande maggioranza degli storici dell’arte e, a pensarci bene, di quasi tutti gli economisti di stampo liberista. Il sistema di valutazione e di scambio messo a punto per le opere d’arte (ma anche per ogni altra produzione culturale) si fonda sulla volontà di negare il valore contante dell’opera attraverso un secondo valore chiamato a escludere il primo e in grado di determinare la rivalutazione dell’opera. Inutile dire che questo secondo valore è oscuro a tutti tranne che all’adepto e alla sua combriccola. Un meccanismo talmente complesso, talmente più complesso dei banali stratagemmi alla portata degli economisti, da indurci a chiudere un occhio di fronte alle idiozie e alle frottole di tutti i Montebello del mondo. Il bello del capitalismo è che la gamma di spiegazioni disponibili per ciò tutto che avviene nel corso di una transazione è assolutamente limitata. Il bello dell’arte, invece, sta nella profondità evanescente di tutte le interpretazioni che un’opera risveglia in noi ogni volta che ci capita sotto gli occhi. Perlomeno sotto i miei… 4. L’economia sta tutta negli occhi dello spettatore. E come l’economista immagina uno scenario in cui le merci possano circolare liberamente attraverso un determinato sistema, così il direttore del museo immagina che le opere d’arte possano circolare da sole attraverso il sistema perpetuo del pubblico. Stando a Glenn Lowry, direttore del Museum of Modern Art di New York, i musei fareb-
19
· Paul Werner ·
bero «parte di quella matrice istituzionale che il filosofo tedesco Jürgen Habermas ha definito sfera pubblica, grazie alla quale le idee e le immagini, il sapere e il piacere si trasmettono al pubblico». Nein. Tutto ciò che Habermas dice è che il pubblico si è sviluppato nel xviii secolo, passando dal ruolo di testimone passivo dei piaceri regali a quello di partecipante attivo, non soltanto nei settori dell’opinione pubblica, dei cerimoniali e dei saloni di pittura, ma anche in quello della politica. Che il pubblico in questione sia realmente divenuto o meno la potenza che Habermas sostiene, poco importa. Ciò che conta è che il museo d’arte contemporanea non riesce a sbarazzarsi della vecchia idea aristocratica che il visitatore non sia un partecipante attivo, ma un contenitore vuoto da riempire a piacere, per la sua gioia e per la sua istruzione. Lowry deve aver sbagliato tedesco: quello a cui cercava di fare il verso non era Habermas, ma Friedrich Schiller, l’inventore del concetto di genio in Germania e nei paesi anglosassoni. È Schiller ad aver parlato delle istituzioni culturali come di quella «fonte comune grazie alla quale i flutti incandescenti della saggezza che sgorga dagli strati intelligenti e superiori della società si diffondono in dolci rigagnoli attraverso tutto lo Stato». Non così intelligenti, in realtà, e soprattutto non così dolci: fra gli operatori del museo le conoscenze si 20
diffondono solo raramente; più che altro, restano sospese sulla testa del pubblico come una carota davanti a un asino. Fra gli operatori del museo, c’è chi cerca di restituire ai visitatori il loro potere e chi, più o meno consciamente, sottolinea la differenza fra due tipologie di persone, fra gli eletti e il resto dell’umanità, fra quelli che hanno il diritto di definire l’opera d’arte e quelli che non ce l’hanno, fra le canaglie e i sognatori. Già, perché sebbene sia buona norma insistere sull’importanza dei soldi (soprattutto con quelli che non ne hanno), il museo segue anche un’altra politica: di sostenere l’arte rafforzando nel pubblico i valori che rendono desiderabile l’opera d’arte, a cominciare dalla presenza di un pubblico. Fu pensando all’arte che Karl Marx descrisse il processo consistente nell’attribuire «un soggetto all’oggetto e un oggetto al soggetto»; al concetto di denaro si sarebbe arrivati solo in un secondo momento. Ma la differenza fondamentale fra arte e denaro riguarda le dimensioni e lo stile della campagna pubblicitaria: è molto più difficile persuadere il pubblico che Rembrandt è un bravo pittore piuttosto che convincerlo che i soldi sono una cosa meravigliosa e che di lì a poco riuscirà a farne a palate. L’arte rappresenta la merce per eccellenza nella visione marxista: come il denaro, infatti, essa non possiede un valore d’uso esplicito all’interno del sistema capitalistico eurosassone. L’arte si erge al culmine dell’incomprensibile, al punto che il suo valore d’uso è quello di sfuggire alla com-
· Il genio del capitalismo, e viceversa ·
prensione. E poiché non ha alcun significato in se stessa, la sua sola fruizione diviene di per sé un’adesione all’ideologia del libero scambio, del consumo per il consumo, senza ostacoli razionali di alcun genere: «È l’applicazione giudiziosa dell’autorità del museo che rende possibile quello stato di pura fantasticheria ispirata da un’esperienza estetica senza ostacoli». Che Philippe de Montebello sia un marxista? Non ne ho la più pallida idea, chiedeteglielo voi. Strana distinzione, quella tra «fantasticheria» e cruda realtà delle opere, tra la consolazione promessa e quella realmente offerta dai musei. I direttori di museo fanno le capre e anche i cavoli, definiscono i propri interessi per poi proteggersi da quegli stessi interessi per ragioni di integrità professionale. E come accade in borsa, meno si capisce meglio è. Dall’Europa all’America all’Asia, il museo educa i visitatori a un rapporto con le opere che non riflette gli studi complessi e argomentati dello storico dell’arte, del critico o del curatore più di quanto non li nasconda. Le ricerche, la salvaguardia, il restauro, la provenienza, la tecnica, il costo, il contesto sono tutte cose che non è necessario sapere: è già abbastanza sapere che esistono. Il luogo comune secondo cui non si va al museo per divertirsi cela un altro significato: che la vostra visita non sarà concepita per aiutarvi ad amare di più ciò che già sapete o a capire meglio ciò che amate, e nemmeno a informarvi su ciò che non sapevate. In fin dei conti, si tratta solo di farvi sapere che ci sono cose che non sapete, cose note, certo, ma non a voi. Avete ancora dei dubbi? Provate a noleggiare una di quelle guide elettroniche incapaci di propinare qualsiasi altra informazione al di là del resoconto dettagliato delle pennellate del genio sulla tela. E se non siete ancora convinti, ripassatevi tutta la sfilza di critici elevati a maestri nell’arte di non dire niente con quell’aria spocchiosa di autorità incrollabile. Ascoltate la guida che agita le braccia mentre voi, improvvisamente regrediti a un moccioso di dieci anni, vi chiedete ancora, come vi chiedevate allora, se lo scopo dell’istruzione sia davvero rispondere alle vostre domande o non, piuttosto, assicurarsi che non ne farete più. Infine, aprite il catalogo del novantanove per cento delle mostre o fatevi una chiacchierata con la maggior parte degli addetti ai lavori: vi sentirete catapultati in un altro mondo, non perché le informazioni siano diverse (dopotutto, si tratta sempre degli stessi oggetti), ma perché il rapporto che vi esortano a intrattenere con le opere d’arte è completamente diverso. In quasi tutti i paesi del mondo, quando entrate in un negozio trovate dietro il bancone una persona cortese e ben informata; certo, vi dite, queste cose potrei trovarle anche da altre parti, ma qui c’è qualcuno che vuole fare affari con me, che mi tratta con gentilezza e con rispetto e mi dà consigli di cui mi fido. In quasi tutti i paesi tranne l’America, museo vivente del capitalismo sel-
21
· Paul Werner ·
vaggio. E in quasi tutti i luoghi tranne i musei e le istituzioni culturali di tutto il mondo, dove vi trattano come un intruso e finite per dirvi: «Questa gente non ha bisogno di me, piuttosto vorrebbe farmi credere che sia io ad aver bisogno di loro». È incredibile tutto quello che si può imparare in un museo…
22