Programmare l'arte. Olivetti e le neoavanguardie cinetiche

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Programmata”. Il nome si deve a Bruno Munari, ispiratore dell’iniziativa, mentre la teorizzazione di un’arte cinetica come paradigma di “opera aperta” è di Umberto Eco che firma il catalogo edito per l’occasione. Gli artisti sono giovani e giovanissimi: i milanesi del Gruppo T (Anceschi, Boriani, Colombo, Devecchi, Varisco), i padovani del Gruppo Enne (Biasi, Costa, Chiggio, Landi e Massironi), a cui si aggiungono Enzo Mari e lo stesso Munari. Altri arriveranno nel corso della lunga tournée […] che la mostra compirà per più di due anni a venire. Imballate in casse dipinte di arancione, con il nome Olivetti in bella evidenza, le opere sono un piccolo ma importante simbolo dell’Italia degli anni del boom, del matrimonio virtuoso tra avanguardia artistica e ricerca industriale […]. Olivetti infatti produce e sponsorizza la mostra – prima azienda in assoluto a porsi come committente – negli

PROGRAMMARE L’ARTE

Il 15 maggio 1962 viene inaugurata nel Negozio Olivetti della galleria Vittorio Emanuele di Milano la mostra “Arte

PROGRAMMARE L’ARTE

Olivetti e le neoavanguardie cinetiche

a cura di Marco Meneguzzo

anni in cui la casa di Ivrea si lancia nell’avventura dell’elettronica, realizzando con l’Elea 9003 il primo grande

Enrico Morteo

computer transistorizzato al mondo.

Alberto Saibene

A cinquant’anni di distanza non abbiamo soltanto voluto ricostruire la mostra attraverso le opere e i documenti che ne narrano la genesi (compresa la riproduzione anastatica del catalogo originale), ma anche allargare lo sguardo all’avventura elettronica dell’Olivetti […] un’azienda che si interrogava sulle implicazioni sociali e culturali dell’era digitale, allora soltanto agli albori. Marco Meneguzzo (1954) insegna all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. Come curatore indipendente, sull’argomento in questione, ha realizzato importanti rassegne, tra cui “Azimuth & Azimut” al pac di Milano (1984), “Arte Programmata 1962” al Museo di Galliate (2000), “Arte Cinetica e Programmata in Italia” alla Galleria Niccoli di Parma (2000), “Kinetische Kunst aus Italien 1958-1968” (2002-03), “Zero. Tra Germania e Italia 1958-1968” al Palazzo delle Papesse di Siena (2004). Collabora alle pagine d’arte di Avvenire e di Artforum. Per i tipi di Johan & Levi ha pubblicato di recente Arte Programmata cinquant’anni dopo. Enrico Morteo (1958), architetto, si occupa di critica del design dal 1987. Ha lavorato e scritto per le più importanti testate italiane e insegnato presso lo iuav di Venezia. È autore di volumi su Mario Bellini, Roberto Sambonet e sulla Olivetti, di cui ha curato nel 2008 la mostra “Olivetti: una bella società” e nel 2010 la trasmissione radiofonica Adriano Olivetti: progettare per vivere andata in onda su Rai-Radio3. Per Electa ha pubblicato nel 2008 il Grande atlante del Design. Alberto Saibene (1965), consulente editoriale, organizzatore culturale, si occupa di storia della cultura italiana del Novecento. In particolare, rispetto ai temi olivettiani, ha curato nel 2010 la trasmissione radiofonica Adriano Olivetti: progettare per vivere andata in onda su Rai-Radio3 e nel 2011 un’antologia di scritti di Adriano Olivetti per le Edizioni dell’Asino.

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Programmare l’arte

Olivetti e le neoavanguardie cinetiche



L’importanza di chiamarsi programmati — Marco Meneguzzo

Quando agli inizi del 1962 Bruno Munari, allora consulente

rispettivi “capolavori”: Giovanni Anceschi le Strutturazioni

di Olivetti, d’accordo con Giorgio Soavi, allora consulente

fluide, Davide Boriani le Superfici magnetiche, Gianni Colom-

dell’ufficio Ricerche Pubblicità, contatta i gruppi T ed Enne,

bo le Strutturazioni pulsanti, Gabriele Devecchi la Scultura da

oltre a Enzo Mari (Getulio Alviani si aggiunse poco più tar-

prendere a calci, Grazia Varisco gli oggetti luminoso-cinetici,

di), per costruire quella che poi sarà la mostra “Arte Pro-

mentre il Gruppo Enne – di pochissimo più giovane, essen-

grammata”, quei gruppi godono già di una discreta fama

dosi formato tra il dicembre 1960 e il principio del 1961, e per

presso gli addetti ai lavori e un po’ anche presso il grande

questo ancor più calvinista dei milanesi – si presentava all’i-

pubblico, se non altro per alcuni exploit provocatori che li

nizio della sua attività in forma anonima, indicando al mas-

avevano fatti finire sulle pagine dei giornali in qualche spi-

simo gli esecutori materiali delle opere. Va detto anche che

ritoso elzeviro. Qualcuno – la Galleria Pater, per esempio, o

la critica – la critica, non il giornalismo – era stata attenta,

il negozio di Bruno Danese a Milano – aveva dato loro fidu-

tempestiva e benevola, vista anche la temperie di rivolta

cia, e quando non erano riusciti a ottenerla presso qualche

nei confronti dell’Informale che allora stava montando, e

gallerista o piccola istituzione privata, se la erano data da

che imponeva di cercare qualcosa che fosse assolutamente

soli, surrogando l’assenza di attenzione del mondo dell’arte

diverso: e cosa poteva esserci di più diverso dall’espressio-

nei loro confronti costruendo essi stessi il proprio sistema

nismo individualista, psicologico, materico, gridato, irripe-

dell’arte, a partire dalle gallerie in cui esponevano e che

tibile dell’artista informale di un gruppo, collettivo, anoni-

quasi sempre appartenevano a loro stessi o a qualcuno o

mo, razionale, fisiologico e seriale?

qualcosa che gli assomigliava (come la Galleria Azimut ani-

In questo contesto i gruppi e gli artisti cinetici italiani

mata da Piero Manzoni). Sempre in quel 1962, che prelude-

di quella generazione – cui va accreditato più di un prima-

va all’anno in cui sarebbe nata l’Arte Programmata, i giova-

to concettuale su tutti gli altri e una realizzazione di opere

ni appartenenti ai due gruppi, milanese e padovano, ave-

straordinariamente interessanti e nuove rispetto all’inte-

vano maturato e messo a punto le loro ricerche di matrice

ra produzione europea – si sarebbero misurati con i corri-

essenzialmente cinetico-percettiva, con qualche residuo

spondenti continentali e americani su un piano di parità,

dadaista in via di sparizione, realizzando opere pienamen-

riscuotendo, come di fatto stavano già facendo, un buon

te compiute, nonostante la loro giovane età (erano tutti

successo e richieste di collaborazione, di contatto, di espe-

attorno ai venticinque anni, eccetto Mari, di circa cinque

rienze e di mostre comuni come accadeva per esempio con

anni più vecchio e mai entrato a far parte di alcun gruppo,

il Gruppo Zero tedesco e con il grav francese, sicuramente

e Munari, il maestro, o almeno il mentore di questa nuova

i più strutturati gruppi del momento con finalità simili alle

iniziativa). Tutti, a quell’epoca, avevano già realizzato i loro

loro, in manifestazioni di prestigio come le mostre jugosla-

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ve e francesi di “Nouvelles Tendances” (1961, 1963 e 1965). Sicuramente sarebbero stati invitati alle biennali veneziane di quei primi anni sessanta – come di fatto furono, nel 1964 e nel 1966, mentre nel 1968 solo alcuni di loro – e avrebbero raccolto plausi e premi in varie rassegne italiane: avrebbero sviluppato cioè il loro discorso secondo le stesse linee di pensiero e di ricerca che svilupparono di fatto nei pochi anni di vita che un gruppo artistico di solito ha (circa cinque nel xx secolo: più o meno come quelli destinati a un droide di Blade Runner…), prima di sciogliersi. Tuttavia, in questo scenario che corrisponde esattamente a quanto accaduto – perché allora l’uso della forma condizionale? – si innesta con forza dirompente, benché a scoppio ritardato, l’inven-

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zione di una mostra, o forse anche solo l’invenzione di una definizione: “Arte Programmata”. L’invenzione del nome Arte Programmata, unanimemente attribuito a Bruno Munari, è forse uno dei maggiori servigi – oltre alle sue opere, naturalmente – che Munari abbia portato all’arte italiana. Sotto quell’ombrello mentale, frutto di una di quelle intuizioni geniali e al contempo semplici, puntuali sia nell’appuntamento con la cronaca che con quello con la storia, così tipiche di Munari, quei gruppi, quelle opere e soprattutto quelle idee hanno acquisito nel tempo una portata storica e uno spessore di pensiero teorico tali da farli uscire nettamente dal più vasto alveo dell’arte cinetica, sino a costituire un possibile modello concettuale applicabile non solo storicamente a quelle esperienze, ma forse anche a quelle future che agiscano con le stesse premesse ideali. Per questo spiace ancor di più che il sistema dell’arte italiano – che pure ha saputo imporre movimenti e definizioni italiane come Arte Povera e Transavanguardia (per la verità, quest’ultima Inaugurazione della mostra al Negozio Olivetti in galleria Vittorio Emanuele, Milano, maggio 1962; sotto dietro la vetrina si riconoscono da sinistra Gianni Colombo, Enzo Mari, Grazia Varisco, Gabriele Devecchi, Giovanni Anceschi e Davide Boriani. Colombo in primo piano a sinistra, di fronte alla sua opera, sullo sfondo Boriani, Anceschi, Devecchi, uno spettatore, Varisco (seduta) e Mari (in piedi). Courtesy Mario Dondero e Galleria Massimo Minini.

declinabile e declinata anche in altre lingue) – non sia riuscito a far passare in campo internazionale questa definizione, che avrebbe dato una rinnovata impronta italiana a un campo, quello dell’arte cinetica, che cominciava ad


assomigliare un po’ troppo a un retaggio dell’avanguardia

della mostra: fondamentale in quest’ultimo ruolo (che si

storica. Questo, naturalmente, non per un anacronistico

vedrà più avanti), e influente nell’indirizzare il pensiero dei

orgoglio nazionale, quanto per la carica teorica sprigio-

curatori verso le esperienze più innovative che in quell’a-

nata già dalla definizione, che avrebbe cambiato netta-

zienda si andavano sviluppando (cfr. i saggi di Enrico Mor-

mente la prospettiva ideale entro cui si sarebbe potuta

teo e di Alberto Saibene).

considerare, d’ora in poi, ogni tipo di espressione artistica

Un meccanismo, generalmente un motore elettrico,

assimilabile all’arte cinetica: se infatti i concetti generici

ma anche un movimento obbligato dello spettatore, ge-

di arte cinetica, o da marketing di Op Art, o ancora palu-

nera un cinetismo, le cui “quantità” sono misurabili e il cui

dati e seriosi di art visuel mostravano già (e oggi ancor più)

movimento è assolutamente preordinato (si trattava di

derive concettualmente e storicamente sdrucciolevoli

piccoli motorini elettrici con un riduttore, solitamente di

verso il passato, verso la decorazione, o ancora verso una

quelli usati nelle lavatrici per programmare il lavaggio, o

presunta scientificità ormai più che assodata in altre di-

di modesti spostamenti della persona di fronte all’opera),

scipline, l’idea di “programmare” l’arte non solo era allora

ma il cui risultato formale è assolutamente imprevedibile e

nuovissima e intelligentemente provocatoria, ma regge

sostanzialmente casuale, tanto da risultare diverso a ogni

in modo egregio anche oggi. Il concetto era relativamente

ciclo completo di movimento: a una premessa del tutto

elementare, ma si innestava in un dibattito tutt’altro che

misurabile e programmabile, corrisponde dunque un esito

semplice, che coinvolgeva addirittura quella che sarebbe

imponderabile e in parte inaspettato. In sintesi, questa è

stata la più grande rivoluzione della seconda metà del xx

l’Arte Programmata.

secolo: la rivoluzione informatica (tra l’altro tutto l’annuario Almanacco Letterario Bompiani 1962, uscito nel dicembre 1961, era dedicato alle possibili applicazioni del linguaggio binario e genericamente elettronico a tutti i linguaggi creativi, e lì era apparsa per la prima volta la definizione di “Arte Programmata”). Programmare, per Munari, per Umberto Eco e per gli artisti coinvolti significava qualcosa che non era proprio una stretta derivazione dal linguaggio informatico che si stava elaborando allora da parte di matematici e di tecnici, ma che sicuramente ne teneva conto in quelle che potevano essere le conseguenze per il linguaggio – anche colto, artistico, disciplinare – di tutti i giorni, esattamente come i concetti di spazio-tempo e di relatività non erano magari conosciuti profondamente dai futuristi d’inizio secolo, ma erano percepiti, sentiti, “annusati” nell’atmosfera culturale del tempo, e applicati all’arte. Inoltre, non va assolutamente sminuito il ruolo, persino la sola presenza, della Olivetti come committente

Mari fuori dal Negozio Olivetti, mentre all’interno si scorge Devecchi che parla con uno spettatore. Courtesy Mario Dondero e Galleria Massimo Minini.

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L’arida descrizione astratta del “metodo” è efficace per la spiegazione, ma non dà conto né dell’effetto sensibile delle opere sul loro fruitore, né della complessità teorica che questo atteggiamento operativo si porta dietro, e neppure del significato storico che questa tendenza aveva provocato all’inizio di quegli anni sessanta. Lo spostamento, l’ascesa e la caduta della limatura di ferro nelle Superfici magnetiche di Boriani, la variabilità cangiante a ogni minimo spostamento dell’occhio dei Rilievi ottico-dinamici del Gruppo Enne (poi portati avanti sostanzialmente da Biasi), l’evidenziazione sottile della forza di gravità nell’Oggetto autocondotto di Mari – solo per citare al24

cuni esempi, ma tutte le opere godevano della stessa “meraviglia” indotta nel pubblico – sono tuttora ipnotiche, proprio perché la premessa è semplice, ma il risultato è potenzialmente infinito. Se a questo effetto si aggiunge la novità assoluta, per il tempo, di una quantità di opere tutte dotate di un qualche apparecchio – reale, tendenzialmente, per i lavori del Gruppo T, ottico per quasi tutti quelli del Gruppo Enne –, che stravolgeva l’idea tradizionale di opera d’arte (nonostante i molti precedenti dispersi nel corso dei primi cinquant’anni del xx secolo, era la presenza in massa a creare scompiglio) si comprende bene come questo tipo di arte potesse turbare gli addetti ai lavori, e incuriosire come la visita a una fiera campionaria il grande pubblico o i giornalisti di “costume”. Questo effetto si era tradotto in numerosi articoli tra il serio e il faceto su giornali a grande tiratura, che andavano scoprendo l’arte contemporanea come fenomeno di costume se non proprio di moda (avevano iniziato con i “tagli” di Lucio Fontana e le “bizzarrie” di Piero Manzoni), ma anche con manifestazioni che uscivano dal ristretto mondo dell’arte, come per esempio la sigla del cinegiornale Radar, realizzata facendo ruotare un “oggetto misterioso” che altro non era che una Strutturazione acentrica di Gianni Colombo, o le straordinarie realizzazioni cinetico-luminose organizzate in tutta Milano in occasione delle feste natali-

Il pubblico si specchia nell’opera di Davide Boriani Superficie magnetica, maggio 1962. Courtesy Mario Dondero e Galleria Massimo Minini.


25 Gli artisti guardano il pubblico dei passanti durante l’inaugurazione, maggio 1962. Courtesy Mario Dondero e Galleria Massimo Minini.

zie del 1962, dove si arrivò persino a costruire niente meno

ta” decisiva per la creazione di un circuito davvero diverso

che il “campanile” del Duomo, un traliccio di tubi Innocenti

per queste nuove espressioni artistiche, sostenute da un

dotato di strumenti ottici e sonori, frutto della collabora-

apparato teorico non ristretto al solo campo dell’arte, e

zione dell’architetto Viganò, di Munari e del Gruppo T. Da

appoggiate da un’azienda all’avanguardia la cui forza eco-

tutte queste attività il grande assente – per (dis)amore o

nomica era di gran lunga superiore a quella di qualunque

per forza – era il mercato dell’arte. Il disinteresse era pro-

componente del sistema dell’arte di allora. Di più, apparato

babilmente reciproco – Munari e Mari lavoravano soprat-

teorico e appoggio dell’industria non erano elementi se-

tutto per il design, mentre i gruppi, secondo una ben ra-

parati di uno stesso progetto, ma erano al contrario indis-

dicata tradizione dell’avanguardia, si scagliavano contro

solubilmente legati: dell’apparato teorico faceva parte la

il mercato affermandone l’obsolescenza e la ristrettezza

presenza attiva dell’industria e viceversa. Al modo in fondo

di vedute – ma alla lunga fu anche la mancanza di questo

semplice e persino artigianale di costruire oggetti cinetici

elemento a tarpare le ali di quella che in Italia andava or-

o ottico-cinetici da parte degli artisti corrisponde un retro-

mai affermandosi come Arte Programmata: si riscontra in

terra concettuale di grande portata, come si è accennato

effetti uno iato notevole tra la presenza degli artisti cinetici

sopra. Umberto Eco, per esempio, nel breve saggio intro-

in manifestazioni pubbliche di prestigio o create in occasio-

duttivo alla mostra, vi appende l’idea di “opera aperta” che

ne di qualche evento, e la presenza degli stessi artisti sul

aveva già elaborato poco prima per il più generico concetto

mercato reale, come prodotto economicamente possibile.

di arte contemporanea, aggiungendo alcuni elementi so-

Anche per questo, la realizzazione della mostra “Arte

ciologici interessanti, come la considerazione che questo

Programmata”, in quel 1962, per i modi e i metodi sottesi

tipo di arte avrebbe potuto incidere sulla società in misura

all’evento, poteva in un certo senso costituire la “spalla-

nettamente più ampia di quanto non facesse la figura tra-


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dizionale dell’artista borghesemente ultraindividualista;

realizza la mostra. La Olivetti è il committente e gli artisti

ma è ancora il concetto di “programmazione” a costituire

diventano soci-fornitori sia di idee, che di know how, che di

lo zoccolo duro della tendenza. Con questa idea la distan-

manufatti: dal lungo carteggio conservato nell’archivio del

za tra i diversi linguaggi, e soprattutto tra quelli scientifici

Gruppo Enne – e che presumibilmente riproduce le mede-

e artistici, si riduce enormemente, pur mantenendo cia-

sime comunicazioni con il Gruppo T e con i singoli artisti in-

scuno la propria specificità, entro l’alveo più vasto di un

vitati all’operazione – si vede come la comunicazione tra le

rinnovamento globale della comunicazione. Davvero, se

parti ricalchi esattamente un modello di “fornitura” di ma-

si pensa all’anticipo con cui si è visto chiaramente il futu-

teriali, non importa se intellettuali o fisicamente concre-

ro – un anticipo di almeno vent’anni – si rimane sbalorditi

ti, in cui si fattura l’impegno ideativo, una sorta di diritto

per l’intuizione e dispiaciuti per il mancato riconoscimento

d’autore, ma che non è che uno dei componenti del proget-

internazionale di questo primato: forse, è proprio la porta-

to e del prodotto. Questo atteggiamento, che dalle lettere

ta cronologica dell’anticipazione – troppo anticipo! – del

intercorse appare addirittura enfatizzato, porta con sé,

futuro ad aver fatto fallire l’esperimento, ma è altrettanto

a cascata, una serie di conseguenze importanti sia nella

curioso che in questo momento l’arte abbia precorso, con

definizione di un possibile circuito alternativo a quello un

mezzi minimi, non tanto certi aspetti concettuali, che era-

po’ asfittico dell’arte d’allora, sia a maggior ragione della

no ben presenti nelle discussioni tra intellettuali e negli am-

definizione di una nuova figura per l’artista. A proposito di

bienti scientifici (dove si parlava tanto di “cibernetica”, ter-

quest’ultima conseguenza, va ricordato che è con questo

mine oggi caduto in disuso, e denotante a posteriori quel

esperimento che nel dopoguerra si verifica la possibilità di

preciso momento storico), ma gli aspetti realizzativi. L’Arte

trasformare l’artista in quella figura di “operatore estetico”,

Programmata ha messo in scena, alla portata di tutti, il

già teorizzata in passato (in fondo, il Bauhaus pensava a

modello di sviluppo che avrebbe preso l’intera società, sot-

questo), e che oggi si riproponeva sia in virtù di una sor-

to forma di opere probabilmente più interessanti dal punto

ta di democratizzazione anche linguistica della diffusione

di vista teorico che percettivo-sensibilista (con le debite ec-

dell’arte, sia per la reale possibilità per l’artista di rientrare

cezioni, e tenendo conto che questo anche per loro non era

in un sistema produttivo reale e di riacquistare in tal modo

l’obiettivo principale), ma comunque realizzate, ben prima

un ruolo definito nella società, dotato quasi di un mansio-

che la più lenta e difficile elaborazione di un vero e proprio

nario, come si addice a ogni mestiere. Si abbassa dunque

progetto informatico “popolare” potesse aver luogo. All’idea

la temperatura creativa, fino a farne qualcosa che assomi-

di una vera programmazione, con una sorta di hardware

glia a un’applicazione, a una corretta attuazione di princìpi

tecnico dalle poche possibilità, e con un software percetti-

base assegnati una volta per tutte. E se anche la fortuna

vo di portata quasi illimitata, elementi mimetici di ciò che

di questo termine gli viene più dalla sua connotazione so-

sarà l’informatica, l’Arte Programmata aggiunge poi anche

ciale che linguistica, è in quest’ultimo campo che nasce

certi corollari filosofici non indifferenti, come quello di una

teoricamente: “operatore estetico”, infatti, trova oggi una

sorta di misurabilità della reazione estetica, e non solo ot-

singolare vicinanza con il termine “programmatore”, come

tico percettiva, così come stava studiando in quegli anni

se – al pari di questo – il compito dell’arte fosse quello di

Max Bense. Ma ancor più dirompente, dal punto di vista del

fornire strumenti collettivi per la creazione individuale, a

sistema dell’arte, è il modo e il processo operativo con cui si

partire da un linguaggio di base condiviso, comprensibile


e universale. Del resto, è quello che a chiare lettere andava

ai cambiamenti al vertice e all’abbandono del programma

predicando Mari quando equiparava arte e informazione, e

elettronico (cfr. “Olivetti e il bello dell’elettronica”), ma in quel

ne discuteva le possibilità operative negli incontri di Nuove

breve volgere di anni, 1962-65, l’intervento della Olivetti ave-

Tendenze. Che poi per tutti gli anni settanta la denomina-

va di fatto posto i gruppi e gli artisti italiani in una posizione

zione venisse usata dagli artisti stessi come dichiarazione

che nessuno degli altri artisti di Nuove Tendenze avrebbe

d’identità rivoluzionaria, per far uscire la figura dell’artista

mai neanche osato sperare, perché metteva in atto molte

dal suo tradizionale individualismo, non è che una diretta

delle aspirazioni teoriche che aleggiavano nelle dichiarazioni

conseguenza di quel ruolo interpretativo e non più cre-

o nei pseudomanifesti dei gruppi cinetici. Profezia – poi veri-

ativo che gli era stato tagliato addosso, e se alla fine nel

ficata – di una nuova società, arte per tutti, arte industria-

linguaggio comune non ha attecchito è stato da un lato

le, diffusione di massa e internazionale (la mostra, dopo le

il risultato di un mutamento radicale del concetto di arte

tappe italiane, era andata a Düsseldorf, a Londra, e infine in

negli anni ottanta, ma un po’ anche per lo scarso appeal

una serie di luoghi espositivi nordamericani), aggiramento

dei termini stessi, così forzati ideologicamente da un lato

ed esclusione del mercato tradizionale, mutamento del ruo-

e così dichiaratamente “politicamente corretti” dall’altro.

lo dell’artista, sconfinamenti linguistici preordinati, dibattiti

Resta il fatto, come si è detto, che gli artisti “programma-

teorici pluridisciplinari: ce n’è abbastanza per collocare l’Arte

ti” furono forse i primi a adottare questa definizione che in

Programmata tra i movimenti di punta della Modernità.

tempi di rivoluzioni annunciate faceva immediatamente comprendere da che parte si stava. Infine, ma non ultimo, il risultato dell’intervento diretto della Olivetti nella produzione di oggetti e nella totale gestione di una mostra avrebbe potuto essere il primo segnale di un rinnovamento radicale del sistema dell’arte. Quando

Nota bibliografica Dei resoconti e delle riflessioni contemporanei delle esperienze di Arte Programmata si dà conto quasi esauriente tra gli apparati di questo volume. Le analisi storiche sulla tendenza, invece, quasi mai si sono concentrate sulla sola esperienza di Arte Programma-

Mari a Zagabria parla di produrre oggetti d’arte moltiplicata,

ta, aggiungendo o facendo precedere sempre l’aggettivo “cinetica”,

in numero illimitato, che non costino più di cinque dollari,

in modo da conglobare l’Arte Programmata in un movimento sto-

pensa ovviamente al coinvolgimento dell’industria, la sola

ricamente più ampio: ciò è avvenuto non solo nei contributi non

entità che abbia la possibilità pratica di utilizzare mezzi di

italiani (cosa comprensibile, come è stato rilevato nel testo), ma

produzione di massa. È un’utopia – anche se da questa re-

anche in quelli nazionali, a cominciare dalla prima vera revisione

sterà e si affermerà il concetto di “multiplo”, come di un oggetto a funzionamento estetico pensato per una diffusione vasta presso un pubblico che si sta allargando, e un’idea di abbattimento dei confini linguistici tra arte e design –, ma ha alle spalle quel che poteva essere il primo passo di questa rivoluzione: la mostra “Arte Programmata” voluta e prodotta dalla Olivetti. Che il reale interesse dell’azienda non fosse poi

critica, attuata da Lea Vergine nel 1983 con la mostra (e catalogo), Arte programmata e cinetica 1953-1963. L’ultima avanguardia, catalogo della mostra (Palazzo Reale, Milano, 1983-84), Mazzotta, Milano 1983, per continuare con il mio Arte programmata e cinetica in Italia 1958-1968, catalogo della mostra (Galleria Niccoli, Parma, dicembre 2000-gennaio 2001; man, Nuoro, maggio-giugno 2001), e ancora con V.W. Feierabend, M. Meneguzzo, 1958-1968 Luce, movimento e programmazione. Kinetische Künst aus Italien, Silvana Editoriale,

così spiccato lo si è visto dagli sviluppi successivi degli inter-

Cinisello Balsamo 2001, che, pur essendo un volume in lingua te-

venti nel campo dell’arte da parte della stessa, dovuti anche

desca, catalogo di una mostra itinerante in sei musei tedeschi e

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austriaci, è stato pensato e progettato interamente in Italia. Solo

Sull’esperienza di Nuove Tendenze, oltre al saggio di Giovan-

una piccola mostra in una galleria privata – Stefano Fumagalli di

ni Rubino in questo volume, si veda anche T. Hoffmann, Die Neuen

Bergamo – nel 1996 e il suo volumetto d’accompagnamento con

Tendenzen: Eine europäische Künstlerbewegung 1961-1973, Edition Braus,

il primo reprint anastatico del catalogo originale, curato da me

Berlin 2006.

[Arte Programmata 1962, catalogo della mostra (Galleria Fumagalli,

Sui rapporti con la Olivetti e sul pensiero di Adriano Olivetti,

Bergamo, 1996) ed. Stefano Fumagalli, Bergamo 1996, ristampato

ispiratore di questa collaborazione tra arte e industria, oltre ai saggi

praticamente identico nel 2000 per la mostra al Castello Viscon-

di Enrico Morteo e di Alberto Saibene in questo volume, si vedano

teo di Galliate] si discostava dalla tendenza generale per accen-

anche M. De Giorgi, E. Morteo, Olivetti: una bella società, catalogo del-

trare l’attenzione solo sull’Arte Programmata. Da allora in poi non

la mostra (Promotrice delle Belle Arti, Torino, maggio-luglio 2008),

ci sono stati più studi specifici sul concetto di “programmazione”

Allemandi, Torino 2008, e A. Olivetti, Fabbrica e comunità. Scritti auto-

legato a quell’esperienza del 1962, fino a questo volume e al mio, di

biografici, a c. di A. Saibene, Edizioni dell’Asino, Roma 2011.

pochissimo precedente Arte Programmata cinquant’anni dopo, Johan & Levi, Milano 2012, che hanno preso spunto dal cinquantenario

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dell’avvenimento, in maniera comunque molto differenziata: questo volume ha intenti dichiaratamente filologici e di indagine dei rapporti con l’industria, l’altro si interroga sui motivi del rinnovato interesse e del successo di una tendenza apparentemente superata nella tecnologia applicata alle opere e dichiaratamente “moderna” nelle intenzioni teoriche. Altra cosa sono gli studi relativi ai gruppi e ai singoli artisti: ci limiteremo a citare il precoce I. Mussa, Il Gruppo Enne. La situazione dei gruppi in Europa negli anni 60, Bulzoni, Roma 1976, e L. Meloni, Gli ambienti del Gruppo T, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2004; V.W. Feierabend, L. Meloni, Gruppo N. Oltre la pittura, la scultura, l’arte programmata, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2009; mentre per i gruppi non italiani si ricordano, per il grav, Stratégies de participation. grav – Groupe de Recherche d’Art Visuel 1960-1968 (1998), Le Magasin Centre d’art contemporain de Grenoble, 1998, e in italiano ancora utilissimo L. Caramel (a c. di), grav. Groupe de Recherche d’Art Visuel 1960-1968, Electa, Milano 1975. Sulle relazioni tra questi gruppi italiani ed europei si possono consultare M. Meneguzzo, S. Von Wiese, Zero 1958-1968. Tra Germania e Italia, catalogo della mostra (Palazzo delle Papesse, Siena, maggiosettembre 2004), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2004; M. Meneguzzo, “Il grav e l’Italia: storie di gruppi negli anni Sessanta”, in C. De Carli, F. Tedeschi (a c. di), Il presente si fa storia. Scritti in onore di Luciano Caramel, Vita e Pensiero, Milano 2008; N. Vigo (a c. di), Zero & Avantgarde, catalogo della mostra (mann, Mosca, settembre 2011), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2011.


Olivetti e il bello dell’elettronica — Alberto Saibene

Il 24 dicembre 1955 Adriano Olivetti pronuncia uno dei suoi

mettendogli a disposizione mezzi e capitali per impianta-

discorsi più ispirati nel Salone dei Duemila della fabbrica

re un laboratorio di ricerca. La sede è posta in una villetta

di Ivrea. Ripercorrendo gli ultimi sei tumultuosi anni di

fin de siècle a Barbaricina nei pressi di Pisa. Qui emergono

vita della fabbrica ricorda le conquiste sociali, l’espansio-

rapidamente le doti di Tchou non solo di scienziato, ma di

ne commerciale, le nuove fabbriche. Poi si sofferma su “un

leader di un gruppo di giovani e giovanissimi ricercatori,

ramo nuovo”, l’elettronica. E, confrontandosi con quanto

fungendo anche da parafulmine rispetto alla rivalità che si

avviene Oltreoceano, aggiunge: «Una nuova sezione di

instaura con i tecnici di Ivrea, a cui non è chiaro quel che

ricerca potrà sorgere nei prossimi anni per sviluppare gli

sta avvenendo a Pisa. Il ricercatore, siamo nel 1956, chiede

aspetti scientifici dell’elettronica, poiché questa rapida-

tre anni di tempo per produrre il primo calcolatore, ma già

mente condiziona nel bene e nel male l’ansia di progresso

nella primavera successiva è in grado di presentare la Mac-

della civiltà di oggi», e prosegue rassicurando i lavorato-

china Zero (questo il nome di lavorazione) a Adriano Olivet-

ri di un’industria, fino a quel momento meccanica, sulla

ti e al figlio Roberto (nato nel 1928), che il padre coinvolge

possibile coesistenza delle calcolatrici elettroniche con le

fin dall’avvio nell’avventura dell’elettronica. Nell’autunno

tradizionali macchine di calcolo.

del 1957 Tchou prende la strategica decisione di realizzare

La storia dell’elettronica Olivetti nasce nel 1952 a New

una macchina elettronica a transistor e non a valvole. Nel

Canaan in Connecticut dove Dino Olivetti, il fratello mino-

frattempo Adriano dota l’équipe di una nuova sede a Bor-

re di Adriano, impianta un laboratorio di ricerca diretto da

golombardo alle porte di Milano: è soltanto un capanno-

Michele Canepa. I risultati non vengono ritenuti soddisfa-

ne, ma nel frattempo chiede a Le Corbusier di progettare

centi da Adriano che, recatosi negli Stati Uniti nel giugno

la nuova sede per la divisione elettronica. Nell’agosto 1958

del 1954, incontra, su suggerimento di Guglielmo Negri,

Borgolombardo è operativo, così come è in funzione l’Elea

un giovane ingegnere italo-cinese, Mario Tchou. Nato nel

9000, che, nell’evoluzione 9003, diviene nel 1959 il primo

1924, figlio di un diplomatico cinese in Vaticano, Tchou cre-

computer mainframe al mondo. Come ha scritto Ettore

sce in Italia conseguendo la maturità classica al liceo Tor-

Sottsass, responsabile del design del computer e stretto

quato Tasso di Roma e, finita la guerra, parte per gli Stati

collaboratore di Tchou e Roberto Olivetti nella conduzione

Uniti, dove Olivetti lo incontra divenuto assistant professor

della divisione elettronica: «Eravamo impegnati in un pro-

presso la Columbia University di New York. Non è il caso di

getto talmente nuovo che nessuno dei tre aveva idee già

soffermarsi su cosa gli usa rappresentassero per l’Europa

pronte».

e per l’Italia soprattutto negli anni cinquanta, ma Olivetti

Dal 1949 la Olivetti ha prodotto una serie di film indu-

ha gli argomenti per convincere Tchou a ritornare in Italia,

striali e non solo (i critofilm di Carlo Ludovico Ragghianti)

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teca Comunale di Milano (la “Sormani”) e nella Biblioteca Braidense. Il film, della durata di 32’, cerca di conciliare alcuni classici temi olivettiani come la comunità e il rapporto armonico tra città e campagna o la cultura come strumento di conoscenza e di liberazione dell’uomo (nel commento si allude all’“alienazione sociale”), con la necessità di immaginare e illustrare un mondo che è solo agli albori. Visto oggi è abbastanza evidente il richiamo al mondo della ricerca scientifica come il luogo dove si costruisce il futuro – sono gli anni delle prime conquiste aerospaziali –, con i tecnici di laboratorio che indossano candidi camici bianchi. Sottsass, che è all’inizio di una lunga collabora40

Roberto Olivetti e Mario Tchou. Per gentile concessione della Fondazione Adriano Olivetti.

zione con l’azienda d’Ivrea, coglie bene la novità dell’Elea: «Destinato ad ambienti di lavoro collettivo, il calcolatore elettronico assume necessariamente la presenza e il peso di un “personaggio”, intorno al quale non può non crear-

come strumento di propaganda, ma soprattutto di iden-

si una particolare atmosfera». Il film riesce a trasmettere

tità aziendale. Il documentario Elea classe 9000 (1960) è

solo in parte quell’atmosfera, nonostante l’uso della gra-

oggi una preziosa testimonianza per comprendere come

fica, dell’animazione e della musica elettronica, perché

l’azienda di Ivrea volesse comunicare i risultati di un’im-

appesantito da un commento puntuale ma leggermente

presa così innovativa da richiedere un nuovo paradigma

enfatico e, soprattutto, in difficoltà nel rappresentare

linguistico e formale. Al film collaborano dipendenti della

un’attività non visibile, astratta, come l’elettronica.

Olivetti come Muzio Mazzocchi Alemanni, vicedirettore

Negli ultimi mesi del 1959 Adriano Olivetti torna negli

della direzione Pubblicità e Stampa che aveva sede a Mila-

Stati Uniti per rilevare la Underwood, la grande fabbrica di

no (il direttore è Riccardo Musatti), Giovanni Pintori, il più

macchine per scrivere. Un acquisto pieno di insidie, come

sperimentato e geniale grafico dell’azienda, Nelo Risi, un

nota anche Italo Calvino in quei mesi a New York, ma –

regista che già aveva lavorato con Olivetti, mentre risulta

aggiunge lo scrittore – «mi pare che per l’industria italiana

nuova e azzeccata la collaborazione per le musiche di Lu-

sia una data storica. E per Adriano che tornerà vincitore

ciano Berio, fondatore, qualche anno prima, dello Studio

in azienda». Calvino sembra conoscere da vicino le dina-

di Fonologia della rai di Milano, e di Gianni Polidori e Giu-

miche dell’impresa d’Ivrea, con un pacchetto societario

lio Giannini, specialisti del cinema d’animazione. Lo stes-

diviso tra parenti litigiosi. L’8 novembre 1959, nella sede

so Tchou compare nel documentario per spiegare il fun-

milanese di via Clerici, Olivetti presenta con orgoglio l’E-

zionamento dell’Elea, mentre gli esempi applicativi sono

lea al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Lo fa

scelti dal mondo delle grandi aziende, ma si sottolineano

con un discorso di ampio respiro, ricostruendo le origini

anche le possibilità offerte dal calcolatore nell’organizzare

della ricerca che ha portato al primo computer e conti-

i grandi depositi della cultura con scene girate nella Biblio-

nua: «L’elettronica non solo ha reso possibile l’impiego


dell’energia atomica e l’inizio dell’era spaziale, ma […] sta

di quell’anno in un incidente stradale tra Milano e Ivrea.

avviando l’uomo verso una nuova condizione di libertà e di

È una noticina siglata da Muzio Mazzocchi Alemanni, an-

conquiste», sottolineando che «il più alto fine che un’indu-

tico compagno al liceo classico Tasso di Roma (insieme

stra deve porsi» è «il progresso comune dell’intera collet-

a Riccardo e Nuccia Musatti, Franco Lucentini e a un bel

tività». Non sono soltanto le parole di un capo visionario

pezzo della “meglio gioventù”). Così Mazzocchi: «Filologia

– nel frattempo la rete commerciale, guidata da Elserino

provenzale e tecnica elettronica, indagine storica e rifles-

Piol, vende la prima Elea alla Marzotto – ma di un uomo di

sione matematica, un dialogo difficile? Necessario, dun-

pensiero che coglie bene le possibilità dell’elettronica nelle

que, schematizzare l’ipotesi, ricorrere alla formula (astrat-

implicazioni della vita quotidiana. Il 27 febbraio 1960, col-

ta come ogni formula), all’allusione di moda: le due culture.

to da un infarto su un treno Milano-Losanna, Adriano Oli-

[…] Con Mario Tchou – direttore del Laboratorio Elettro-

vetti muore a cinquantanove anni. Per una società tutta

nico della Olivetti – non occorrevano schemi o formule di

sbilanciata in avanti come l’Olivetti il contraccolpo è mol-

comodo. Occorreva soltanto accorgersi che lui, appunto,

to forte, ma i programmi dell’elettronica proseguono con

era al di là degli schemi, al di là delle barriera che la pigrizia

il lancio, nell’aprile del 1961, dell’Elea 6001, di dimensioni

o il conformismo o la grettezza economicistica continua-

minori e quindi adatto a un’utenza più vasta, come istituti

no a innalzare, a “difendere”». Il ricordo appare in calce a

universitari, enti pubblici e media industria. Il nuovo presi-

un articolo che dava conto dei risultati dell’applicazione

dente è Giuseppe Pero, olivettiano di vecchio corso, men-

del calcolatore alla omogeneizzazione degli indici di testi

tre Roberto Olivetti diviene responsabile della divisione

di filologia romanza a cura di Aurelio Roncaglia.

elettronica a cui vengono confermati i finanziamenti. Una

L’Almanacco Letterario Bompiani 1962, curato da Sergio

riprova sta nel fatto che nell’aprile 1962 Roberto scrive a

Morando, è la prima riflessione che la cultura italiana

Le Corbusier dopo aver visitato La Tourette: «Il convento

compie sulle possibilità artistiche, estetiche e di organiz-

mi ha fortemente impressionato, e per molte ragioni. La

zazione della cultura da parte del calcolatore. A collabo-

vostra architettura, rispondendo ai dati particolari di una

rare sono chiamati Bruno Munari (che firma la copertina)

tradizione monastica, ha saputo creare un’atmosfera spi-

e Mazzocchi Alemanni che, per conto della Olivetti, cura

rituale vera e forte, propizia alla preghiera e alla ricerca,

un’inchiesta sulle “due culture”, in particolare sulle possi-

organizzando al tempo stesso la vita comunitaria del mo-

bilità offerte dal calcolatore nel campo della ricerca filo-

nastero. Ho ritrovato in questo convento ciò che immagi-

logica, con risposte di D’Arco Silvio Avalle, Cesare Cases,

navo, a dire il vero, per il nostro laboratorio elettronico di

Gianfranco Contini, Giacomo Devoto, Gianfranco Folena,

Rho». Nello stesso anno Le Corbusier si metteva all’opera

tutte molto possibiliste sull’uso “intelligente” dell’elabora-

per progettare il nuovo laboratorio, progetto che conse-

tore come ausilio alla ricerca. Mazzocchi coinvolge il vec-

gnerà nel giugno 1964, ma Roberto poco prima aveva do-

chio compagno Franco Lucentini che contribuisce con un

vuto affrontare, dopo la morte del padre, un altro lutto.

racconto fantascientifico e curando una piccola antologia

L’Almanacco Letterario Bompiani 1962, uscito nel dicem-

letteraria sui robot. La parte però più nuova dell’Almanacco

bre 1961 e dedicato alle “applicazioni dei calcolatori elet-

è quella curata da Umberto Eco e dedicata alle possibilità

tronici alle scienze morali e alla letteratura”, riporta la no-

espressive del calcolatori. Qui si trova Tape Mark I di Nanni

tizia della morte di Mario Tchou, avvenuta nel novembre

Balestrini, esempio di poesia elettronica o scrittura auto-

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matica, e il saggio La forma del disordine dello stesso Eco, esemplificato da illustrazioni di opere di Giovanni Anceschi, Gianni Colombo, Enzo Mari, Davide Boriani, Bruno Munari (a cui si riconosce il ruolo di capofila), Gabriele Devecchi, Gianni Colombo, Enrico Castellani, Dieter Roth, Karl Gestner. Eco, allora redattore alla Bompiani ma già funambolico incursore in diversi campi della cultura (siamo alla vigilia del Gruppo 63), riconosce come l’arte «colga confusamente la forma del nuovo mondo in cui l’uomo va abitando e cerca di esprimerlo come può e come deve, per figure». Cambia anche lo statuto dell’artista: «Pittori? O programmatori? Pianificatori di forme. […] Costoro, come si vede, assumono dunque per lo più una conformazione

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geometrica di base e la sottopongono a rotazioni e permutazioni (così come avviene per certe serie musicali) programmandone tutte le variazioni necessarie e allineandole tutte senza discriminazione. Risultato: non una forma, ma la pellicola di una forma in movimento, o la scelta complementare tra varie forme». L’Almanacco Bompiani è l’incunabolo della mostra milanese del maggio 1962 sull’Arte Programmata. L’occasione è il rifacimento del Negozio Olivetti in galleria Vittorio Emanuele di Milano (aperto, circa quarant’anni prima, da Camillo, padre di Adriano Olivetti). Artefice è Bruno Munari che si rivolge a Giorgio Soavi, consulente artistico dell’Olivetti (era allora marito di Lidia, figlia di Adriano), uomo di raffinata cultura figurativa, ma pronto a cogliere i semi del nuovo. Così ne racconta la genesi Riccardo Musatti, quando, nel 1964, la mostra approda negli Stati Uniti «organized and sponsored by the Olivetti Company of Italy. Circulated by the Smithsonian Institution»: In April 1962, Giorgio Soavi, art consultant to Olivetti’s Advertising Department, and I went to a workshop in Milan Adriano Olivetti a Ivrea davanti alla ico, 1958 ca.; sotto Adriano Olivetti con Alvar Aalto. Per gentile concessione della Fondazione Adriano Olivetti.

to see some objects made by a group of young artist, known as Group T. It was Bruno Munari, the designer that unfa-


sentable piece, the one in best shape. It was a delicate confusion, befitting the youth of the artists. I seem to remember that at a certain point one of them said, “There, you see, this object is mine… No, excuse me, that one’s mine, your’s down there”. An immense wall of expanded-plastic cubes moved like an excited sinusoid; then, an instant later, the crisis: burnt out tubes, pilers, switches, screwdrivers, limping motors, iron dust, magnets. All objects for our amusement. The first impression was joyous and positive. It was then we decided to hold a small exhibition of these objects in motion, the first exhibit of Arte Programmata. We invited Group T to perfect the objects, not so much in concept as in detail, as frequently a motor would burn out or the box contaning a given mechanism would be crude. Together with the Group T we invited the artist belonging to Group Enne from Padua and, with them, naturally, Munari and designer Enzo Mari. C’è un certo gusto letterario nella ricostruzione di Musatti (1920-1965), laureato in storia dell’arte con Pietro Toesca, ma è importante notare come la Olivetti non solo ospiti la mostra e la faccia circolare per il mondo, ma intervenga nella produzione dei singoli oggetti. Lo ribadisce Bruno Munari in una lettera non datata al Gruppo Enne, ma probabilmente dei primi mesi del 1962, in cui scrive che «la Olivetti desidera che gli oggetti siano ben finiti e, se hanGiorgio Soavi alla Biennale di Venezia del 1962 con Alberto Giacometti. © Rolly Marchi.

no un meccanismo, che questo non si guasti durante la mostra, essa dispone di bravissimi esecutori abili in qualunque materiale che potrebbero costruire l’oggetto». La scena viene un po’ ingenuamente riproposta nel film Arte

stened us from the office and took us there. Had we asked

Programmata (1963, ma girato nel 1962) di Enzo Monache-

him to produce an example of vitality we couldn’t be more

si, con testi di Bruno Munari, Marcello Piccardo, Giorgio

satisfied. Munari is not a temperamentally introspective

Soavi, musica di Luciano Berio, dove, secondo la sinossi,

artist; that morning he was on the move, like the objects of

si vede un artista muoversi in un laboratorio scientifico

Group T he was showing us. Each of the young artists ex-

dove osserva diversi materiali e li mette a confronto cer-

tracted, from a mountain of wires and little boxes, the pre-

candone le possibilità espressive.

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Quando la mostra torna dagli Stati Uniti, nel 1965, la

pieghevole di presentazione allestito per la tournée americana del

divisione elettronica, «un neo da estirpare» secondo Vit-

1964 della mostra “Arte Programmata”. Su Riccardo Musatti, figura

torio Valletta, è stata ceduta alla General Electric, men-

che rappresenta al meglio l’intellettuale olivettiano del dopoguerra,

tre Riccardo Musatti muore improvvisamente nel giugno 1965 negli uffici di via Clerici. Al suo posto si insedia Renzo Zorzi, responsabile della stagione delle grandi esposizioni internazionali che inaugura, nel 1968, a seguito dell’alluvione del 1966, con la mostra allestita da Carlo Scarpa, Frescoes from Florence. Nasce la sponsorship culturale, segno che la cultura del progetto olivettiana stava pren-

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si veda anche Id., Le vie del Sud e altri scritti, Edizioni di Comunità, Milano 1972. La lettera di Bruno Munari fa parte di una corrispondenza tra l’artista milanese e il Gruppo Enne conservata presso l’Archivio Alberto Biasi (Padova) e riprodotta in altra parte del presente volume. Sull’acquisto della Underwood e la vendita della divisione elettronica, vicende che continuano ancora oggi a suscitare molte polemiche, la miglior ricostruzione è di F. Barbiellini Amidei, A. Goldstein e M. Spadoni, “European Acquisition in United States – Re-examing

dendo altre strade, ma forse anche che la cultura italiana

Olivetti-Underwood Fifty Years Later”, in Quaderni della Banca d’Italia,

cominciava a guardare più al passato che davanti a sé.

n. 2, Roma, marzo 2010. Più in generale per un approccio estetico alla storia della Olivetti si rimanda a M. De Giorgi, E. Morteo (a c. di),

Nota bibliografica

Olivetti: una bella società, catalogo della mostra (Torino, Promotrice

Il discorso di Adriano Olivetti è in Città dell’uomo, Edizioni di Comuni-

delle Belle Arti, maggio-luglio 2008), Allemandi, Torino 2008: in par-

tà, Torino 2001 (1960), p. 106. Le vicende dell’elettronica Olivetti sono

ticolare si fa riferimento alle voci stese da Alessandro Uccelli.

state ricostruite e poi sintetizzate da Giuseppe Rao in “Mario Tchou e l’Elea 9003”, in Limes, luglio 2008, pp. 1-13. La prima citazione di Ettore Sottsass è tratta dall’autobiografia Scritto di notte, Adelphi, Milano 2010, p. 233. Un catalogo ragionato dei film prodotti dalla Olivetti lo ha steso Adriano Bellotto, La memoria del futuro. Film d’arte, film e video industriali Olivetti: 1949-1992, Fondazione Adriano Olivetti – Archivio Storico del Gruppo Olivetti, Ivrea 1994. La seconda citazione di Sottsass è tratta dall’articolo “Disegno di calcolatori elettronici”, in Stile industria, n. 22, 1959, pp. 5-6. La lettera di Italo Calvino è in Lettere: 1940-1985, a c. di L. Baranelli, Mondadori, Milano 2000, p. 640. Il discorso di Adriano Olivetti, Inaugurazione calcolatore elettronico, Milano, via Clerici 4/6 – 8 novembre 1959 è conservato nel Fondo Adriano Olivetti della Fondazione Adriano Olivetti depositato presso l’Archivio Storico Olivetti, Ivrea. La lettera di Roberto Olivetti a Le Corbusier è nella cartella “Le Corbusier” presso l’Archivio Storico Olivetti, Ivrea. Il ricordo di Mario Tchou appare, senza titolo e siglato mma in Almanacco Letterario Bompiani 1962, Bompiani, Milano 1961, p. 140. Ringrazio Muzio Mazzocchi Alemanni (classe 1921), per la testimonianza che mi ha reso a Roma nel gennaio 2010, mettendomi sulle tracce della storia qui raccontata. Si cita poi da Umberto Eco, “La forma del disordine”, in Almanacco Letterario Bompiani 1962, op. cit., p. 175. Il testo di Riccardo Musatti, “Arte Programmata – Kinetic Art” si trova nel


Sofisticate astratte ingenuità. Arte-industria-innovazione: appunti a margine della mostra “Arte Programmata”, Negozio Olivetti, Milano 1962 — Enrico Morteo

L’industria conosce benissimo le sfide della complessità:

ve opportunità vengano capite, assimilate e declinate nel

potremmo anzi dire che dominarla è allo stesso tempo pre-

migliore dei modi.

messa e obiettivo dell’industria stessa.

Può suonare strano, ma anche nel mondo dell’industria

In un certo senso, l’industria prima scompone ciò che è

il nuovo introduce sempre un disturbo rispetto all’ordine

complicato in una somma di elementi semplici (in modo da

consolidato delle cose. In altre parole, ogni innovazione cau-

poterli cartesianamente affrontare e risolvere uno a uno) e

sa un temporaneo rallentamento del sistema, costretto ad

poi li riassembla in insiemi a maggior complessità. Gover-

azzerare alcuni parametri che solo in un secondo momento

nare dunque l’articolazione del lavoro e delle sue sequenze;

troveranno un punto di equilibrio migliore e più avanzato.

governare l’operatività delle macchine utensili; governare il

È in questi momenti d’incertezza e di sperimentazione

disegno di prodotti che di volta in volta devono nascondere

che i rapporti fra arte e industria si fanno meno scontati e

le proprie complicazioni per apparire semplici e intuitivi o,

prevedibili. Infatti, sebbene il senso comune tenda a con-

al contrario, enfatizzare inesistenti complessità per acqui-

siderare arte e industria come due dimensioni sostanzial-

sire maggior valore.

mente antagoniste, i rapporti fra i due campi sono in realtà

Se questo atteggiamento costituisce uno scenario ge-

stretti e ben consolidati nel tempo. Non è il caso di evocare la

nerale di riferimento, ogni innovazione introdotta nel siste-

tekne greca o il genio di Leonardo. Basta più semplicemente

ma ingenera una sorta di turbolenza, il cui svolgimento se-

risalire all’inizio dell’Ottocento per vedere come l’industria

gue uno schema a grandi linee ricorrente. L’introduzione di

moderna si sia fatta le ossa replicando prodotti e manufat-

una nuova tecnica di lavorazione, di un materiale o di una

ti delle cosiddette “arti minori”, chiedendo alla tecnica sforzi

macchina ha sempre lo scopo di migliorare le prestazioni

straordinari per imitare preziosi dettagli o delicati decori.

complessive del sistema, ma per essere compresa e appli-

Anche l’apparire di nuove tecnologie ha quasi sempre sfrut-

cata in tutte le sue potenzialità richiede tempo, sperimen-

tato il rassicurante ombrello offerto dai linguaggi delle arti

tazioni e messe a punto. Un materiale può garantire una

più o meno ufficiali. Prendiamo il caso delle seggiole Thonet:

migliore resistenza ma, in una prima fase, può non essere

per quanto fosse innovativa la tecnica di piegatura del legno

disponibile in una gamma di colori abbastanza ampia. Così

messa punto alla fine dell’Ottocento da Michael Thonet, lo

una macchina, che può accelerare il ciclo produttivo ma

sviluppo delle celeberrime sedie viennesi si snoda tutto entro

non essere immediatamente in grado di ottenere finiture la

i confini stabiliti dalle sobrie volute dello stile Biedermeier e

cui qualità rivaleggi con quanto offerto in precedenza. Nel

le sinuose linee di un trattenuto stile floreale.

caso si tratti poi di una vera e propria invenzione tutto ciò

Le cose diventano ancora più interessanti nel momento

sarà amplificato e servirà ancora più tempo perché le nuo-

in cui la modernità, mettendo in crisi i paradigmi del pas-

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sato, inizia ad affermare la propria identità non solo attra-

superavano di slancio il legno e le leziosità degli ebanisti.

verso prodotti originali, quanto determinando nuovi com-

D’improvviso sembrò possibile ridisegnare l’intera sceno-

portamenti sociali e collettivi. Ciò che il “fare moderno” allo

grafia domestica e anche le innovazioni di Thonet appar-

stesso tempo chiede e impone all’arte è di cimentarsi con

vero di colpo romanticherie invecchiate. Ma, perché pren-

un mondo nuovo e artificiale, che non ricalca le forme della

desse forma la moderna sedia d’acciaio, fu necessario che,

natura ma si costruisce sulle scelte della ragione.

all’inizio degli anni venti, nelle aule del Bauhaus le logiche

Non più modello di riferimento o autorevole garante

della produzione modernista incontrassero il purismo neo-

del bello, l’arte del Novecento si fa protagonista e interpre-

plastico del De Stijl, le scomposizioni geometrico-cromati-

te nell’elaborazione di nuovi codici e nuovi linguaggi degli

che di Kandinskij, il poetico sguardo analitico di Paul Klee.

oggetti e delle cose. Anche solo rappresentare il reale di-

Guardiamole però da vicino quelle seggiole, e pren-

venta terreno di sperimentazione: vacillano le forme del ve-

diamole anche in mano. A dispetto della loro essenzialità,

rismo, insidiate da un lato dalla presunta oggettività della

sono pesanti, non particolarmente comode e formalmente

fotografia e dall’altro dalle ricerche scientifiche che svelano

ingenue. Fugace illusione di far esattamente coincidere la

l’invisibile alla scala dell’infinitamente piccolo e dell’infi-

forma con una tecnica, una funzione e una struttura, l’este-

nitamente grande; al canone universale dei sentimenti si

tica di quelle sedie è la perfetta icona di un’epoca, di cui sve-

sostituisce la dimensione di universi individuali, in cui regi-

la inganni e speranze: i limiti di una tecnologia tanto nuova

strare in presa diretta la tempesta di passioni ed emozioni;

quanto elementare; il sogno di un mondo aurorale che la

l’armonia del visibile è scomposta dall’analisi della ragione,

ragione si illude di poter rendere semplice e funzionale.

che porta in primo piano la trama di strutture rette da re-

Ci vorranno più di vent’anni perché Charles Eames, in

gole matematiche, geometriche e, perché no, meccaniche.

California, avvii un percorso che lo porterà a disegnare raf-

Rimessi in gioco i propri fondamenti, l’arte esplora la

finate seggiole in alluminio la cui forma – sensibile interpre-

nuova grammatica delle forme e dei comportamenti che

te di una tecnica evoluta – esprima una modernità matura

scienza e industria vanno continuamente rielaborando e

e consapevole. Ma, nel frattempo, a spazzar via le illusioni

intraprende un percorso di riscrittura e di risignificazione di

di un ingenuo progresso ci hanno pensato le tragedie della

un presente che pare ineluttabilmente annettersi il futuro.

guerra e, in America, l’arte ha già scoperto l’iper-reale, l’in-

Un’arte nuova, non più al di sopra delle cose ma coinvolta

formale, il gestuale, la forza autonoma del colore e si appre-

nel loro farsi, continuamente costretta a fare i conti con i

sta a digerire l’universo stesso degli oggetti e delle merci.

progressi della tecnica, con una nuova percezione del tem-

Vent’anni. Lo stesso tempo che servì a Adriano Olivetti

po e nuove dimensioni dello spazio, con consumo e valore,

per superare l’orizzonte meccanico delle prime macchine

utilità e bellezza. Un’arte allo stesso tempo critica e com-

per scrivere e approdare a dei veri e propri oggetti elegan-

plice della modernità, capace di svelarne le contraddizioni

temente levigati. Alla fine degli anni venti, quando Adriano

ma irresistibilmente attratta dai nuovi meccanismi della

assume nell’azienda di famiglia ruoli di concreta responsa-

produzione e del consumo.

bilità, il catalogo della casa d’Ivrea aveva registrato tre soli

Torniamo adesso alle sedie. A sconvolgere il mondo

modelli, tutti nati dall’inventiva del padre, Camillo, capace

dell’arredamento fu sufficiente un tubo metallico. Lucido

di migliorare radicalmente l’impianto della preesistente pro-

e continuo, il tubo Mannesmann apriva prospettive che

duzione americana. Adriano cambia subito passo e allarga i


confini dell’azienda ben oltre l’orizzonte della fabbrica e del-

confini della grafica alla scala di un paesaggio che include

la meccanica. Immagina un’industria non solo impegnata a

rigore pedagogico e divagazioni illustrate, fotografia e col-

sfornare ottime macchine e realizzare profitti (cose queste

lage, materico e allegorico, sarà Marcello Nizzoli a sintetiz-

in cui si rivelerà bravissimo), quanto in grado di elaborare

zare il disegno delle macchine Olivetti. Le prime calcolatrici

progresso, bellezza e cultura, perché sa che non basta pro-

dell’immediato dopoguerra, la Lexikon del 1948 e la celeber-

durre oggetti innovativi, ma occorre promuovere la crescita

rima Lettera 22 del 1950, segnano l’avvenuto trapasso dalle

di una società moderna che li sappia accogliere e capire.

ruvidità della meccanica alla maturità di oggetti pensati

Emblematici i suoi primi passi: mentre introduce in

per entrare elegantemente in relazione con chi li usa e con

fabbrica l’organizzazione scientifica del lavoro e stimola la

lo spazio che li accoglie. Un’addomesticazione della tecnica

ricerca avviando l’assunzione di molti giovani tecnici e in-

e un’educazione della funzione che varrà alla Olivetti premi

gegneri, contemporaneamente rompe il recinto dell’impre-

e riconoscimenti in tutto il mondo.

sa e inaugura a Milano un ufficio Ricerche Pubblicità in cui

Nel momento in cui però la definizione della macchina

coinvolge poeti, grafici, intellettuali, architetti, artisti. Non

sembra aver raggiunto la compiutezza di un paradigma

si tratta di presenze di contorno: ai collaboratori milanesi

stabile, l’interesse e la curiosità di Adriano verso l’innova-

Adriano chiede di partecipare sia allo sviluppo dei nuovi

zione tecnologica rimettono tutto in discussione.

prodotti, sia di contribuire alla loro commercializzazione

Con la fine della guerra cominciano a circolare con

ed elaborare strategie d’immagine, sia di entrare nel merito

maggior libertà notizie e informazioni riguardanti lo svilup-

alla gestione delle multiformi attività dell’Olivetti.

po del calcolo elettronico, tecnologia d’avanguardia svilup-

Sebbene Adriano non abbia mai manifestato atteggia-

pata negli Stati Uniti con scopi prevalentemente militari e

menti da collezionista o connaisseur d’arte, ha chiarissimo

grazie a ingenti finanziamenti governativi. Adriano e il fra-

quale ruolo questa possa svolgere con e per l’azienda: far

tello Dino, che negli Stati Uniti vive, intuiscono che non è

entrare l’arte nell’industria aiuta a capire il mondo reale;

possibile restare indifferenti di fronte a un cambiamento

usare l’arte per raccontare ciò che si fa in fabbrica aiuta a

che inevitabilmente interseca le attività dell’Olivetti.

spiegare il senso dell’innovazione e della produzione.

Dopo i primi studi condotti a Ivrea già nel 1949 e il con-

A Ivrea si sviluppano nuove tecnologie, come la pres-

temporaneo avvio di una collaborazione con la francese

sofusione in alluminio; si studiano macchine sempre più

Bull, le iniziative dell’Olivetti procedono con una sequenza

versatili e funzionali; si diversifica dalla scrittura al calcolo:

di decisioni di straordinaria velocità e determinazione: nel

però sarà solo attraverso il dialogo con l’anomalo avampo-

1952 viene aperto a New Caanan (Connecticut) il primo la-

sto milanese che quelle idee prenderanno forma di prodot-

boratorio di elettronica; nel 1954 la Olivetti assume il giova-

to e troveranno un’identità commerciale fatta di linguaggi

ne e brillantissimo ingegnere italo-cinese Mario Tchou e de-

pubblicitari, vivaci negozi, raffinatissimi showroom. Arte

cide di riportare la ricerca in Italia; lo stesso anno aderisce al

non quale colto ingrediente di un progetto di corporate iden-

progetto di una calcolatrice elettronica varato su suggeri-

tity, quanto sperimentale strumento per la ricerca dei lin-

mento di Enrico Fermi dall’università di Pisa; nel 1956, vista

guaggi della modernità.

l’impostazione troppo teorica del progetto universitario,

Se Giovanni Pintori si assumerà il compito di elabora-

l’Olivetti apre una propria divisione elettronica a Barbarici-

re una comunicazione di straordinaria libertà che dilata i

na (Pisa), coordinata da Roberto Olivetti e diretta da Mario

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Tchou; nel 1957, con due anni di anticipo sul programma, è pronta la prima macchina sperimentale a valvole (Macchina Zero, poi ribattezzata Elea 9001); nell’autunno dello stesso anno, durante il lavoro di sviluppo del prototipo in chiave commerciale, Tchou decide di abbandonare la tecnologia delle valvole e puntare tutto sui transistor e, contemporaneamente, l’Olivetti fonda insieme alla Telettra, la sgs – Società Generale Semiconduttori; nel 1958 il laboratorio di elettronica viene spostato a Borgolombardo (Milano), dove viene terminata la messa a punto dell’elaboratore Elea 9003, il primo calcolatore commerciale al mondo a essere interamente transistorizzato; nel 1959, viste le buone pro48

spettive dei nuovi prodotti elettronici, l’Olivetti acquisisce l’americana Underwood, fabbrica di macchine per scrivere oramai obsoleta, la cui capillare rete di distribuzione può però assicurare alla società d’Ivrea una eccellente penetrazione nel mercato statunitense; sempre nel 1959 Adriano incarica Le Corbusier di progettare alle porte di Milano la nuova grande sede del settore elettronico Olivetti. Sono passati solo dieci anni, ma tutto sta per cambiare. Che sia una vera e propria rivoluzione, e come tale anche un po’ pericolosa, Adriano lo intuisce, tant’è che, nel 1955, quando per la prima volta accenna alle prospettive dell’elettronica in un discorso alle maestranze, rassicura tutti parlando di un settore destinato ad affiancarsi alle produzioni più tradizionali. Comunque, per prudenza, avrà sempre cura di tenere la divisione elettronica lontana da Ivrea e dalla potente casta degli ingegneri meccanici. Ma non è solo una rivoluzione di prodotto. L’apparire dell’elettronica coincide con un cambio di paradigma: non si tratta più di governare un’energia applicata al movimento, come nel caso delle macchine, ma è il flusso stesso dell’energia a produrre il lavoro. Le teorie fisiche e matematiche che prima servivano per progettare meccanismi tridimensionali ora diventano il tracciato stesso dei circuiti elettronici. Non più forza ma intelligenza, informazione più che funzione.

Sopra: Elea 9003. In primo piano il pannello di controllo al cui disegno partecipò anche Tomás Maldonado. Sotto: particolare dei moduli transistorizzati. Courtesy Archivio adi.


Uno spostamento brusco dalla centralità della materia

stanza bassi da permettere ai numerosi tecnici che vi si af-

alla supremazia del concettuale. La necessità di ricreare in

faccendano intorno di essere sempre a portata di sguardo:

un’apparecchiatura artificiale processi in qualche misura si-

nessuno deve essere mai solo con la complessità dell’elabo-

mili al pensiero mette l’industria a confronto con dimensioni

ratore elettronico; allo stesso modo, alla neutralità astratta

sino ad allora estranee, quali logica e linguistica. Più che dise-

dell’insieme contrappone l’imponente cruscotto che segna-

gnare oggetti si tratta di definire le strutture dell’intelligenza,

la ogni malfunzionamento, billboard di tasti colorati e spie

le forme della memoria, l’organizzazione del linguaggio.

lampeggianti quasi fosse un giocattolo per adulti.

Inevitabilmente, la forma cessa di essere una sintesi

Per quanto raffinato, il lavoro di Sottsass non può che

compiuta e diventa invece terreno di ricerca, campo aperto

cercare di far coincidere la forma con l’architettura stessa

in cui investigare le strutture di nuovi fenomeni di cui fati-

della tecnologia e con le strutture logiche che ne sovrain-

cosamente si cerca di comprendere le regole. Sono esatta-

tendono il funzionamento. Di fatto, Sottsass immagina un

mente gli stessi temi con i quali anche l’arte è chiamata a

impianto aperto, modulare e componibile che possa asse-

confrontarsi, smontando le strutture dell’opera che, come

condare diverse configurazioni a misura delle esigenze di

ben sintetizzò Umberto Eco, diventa paradigmaticamente

chi acquisterà l’elaboratore. Ma c’è sempre qualcosa di in-

aperta, pluriverso, molteplice.

genuo nel tentativo di asciugare il progetto fino alla sem-

Non può essere il vecchio Nizzoli a disegnare il nuovissi-

plicità astratta di uno schema teorico.

mo calcolatore elettronico che Mario Tchou e la sua équipe

Sottsass non è certo il solo a essere catturato dalla

stanno ultimando fra Barbaricina e Borgolombardo: pur

forza della tecnologia elettronica e delle teorie che ne ac-

con qualche resistenza, Adriano accetta la proposta di suo

compagnano lo sviluppo. In letteratura, musica, poesia,

figlio Roberto e affida l’incarico a Ettore Sottsass.

linguistica è in atto un fiorire di ricerche sperimentali che

Di fronte all’ammasso informe di cavi, circuiti, transi-

antepongono le strutture narrative alla storia, le strutture

stor, memorie, Sottsass ricalca lo schema generale dell’e-

della percezione all’elaborazione della forma, le strutture

laboratore per ricomporre l’ordine delle diverse parti: evi-

del linguaggio alla costruzione del senso.

denzia i percorsi di connessione, le enormi memorie, gli

Sono temi attualissimi e sensibili. Nonostante le im-

elementi che contengono i programmi che di volta in volta

provvise morti di Adriano (1960) e di Mario Tchou (1961)

ne informano e ne indirizzano il funzionamento, le appen-

e a dispetto delle nubi che si addensano sulla divisione

dici periferiche in cui immettere dati, ottenere risultati, so-

Elettronica, l’Olivetti non interrompe la sua consolidata

vraintendere che tutto funzioni al meglio.

frequentazione con il mondo delle arti, offrendo le pro-

Tutto è schematico, i volumi sono elementari, il mate-

prie competenze elettroniche a ricerche universitarie

riale è neutro alluminio, i segni e i colori ridotti al minimo, la

sull’analisi di testi antichi o collaborando alla redazione

composizione modulare, l’aspetto è ermetico e un po’ magi-

di un’ampia quanto trasversale raccolta di studi a cavallo

co, anche se tutto è apribile perché sono ancora attrezzatu-

fra scienze, poesia e cibernetica, pubblicata nell’Almanac-

re poco più che sperimentali che s’inceppano e si rompono

co Letterario Bompiani 1962. Naturale dunque che, quan-

con grande frequenza. A due soli elementi Sottsass impone

do nell’aprile del 1962 Bruno Munari introdusse Riccardo

dei vincoli precisi: per quanto grande possa essere il calcola-

Musatti e Giorgio Soavi – rispettivamente responsabile e

tore, i moduli che lo compongono devono essere tutti abba-

consulente artistico dell’ufficio Ricerche Pubblicità Oli-

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Bozzetti di Ettore Sottsass pubblicati a corredo dell’articolo in Stile industria. Courtesy Archivio Sottsass.


vetti – ai lavori sperimentali di un gruppo di giovani artisti

gica. Quando nel 1969 la Olivetti tornerà a organizzare una

milanesi (il Gruppo T: Giovanni Anceschi, Davide Boriani,

mostra d’arte sarà di arte antica (gli affreschi fiorentini re-

Gianni Colombo, Gabriele Devecchi, Grazia Varisco) tutti

staurati dopo l’alluvione del 1966) e il ruolo dell’azienda sarà

incentrati sull’idea di arte cinetica, l’incontro suscitasse

quello di illuminato sponsor culturale.

interesse e curiosità. Prese così corpo il progetto della pri-

Intanto, a New York, mentre Andy Warhol espone sca-

ma mostra di Arte Programmata, come la volle chiamare

tole di zuppa Campbell’s, l’ingegneria elettronica e multime-

lo stesso Munari, mostra che l’Olivetti produsse offrendo

diale incontra la performance. Nell’autunno del 1966 vanno

agli artisti sia il supporto tecnico necessario alla messa

in scena “9 evenings: theatre & engeneering”, altrettanti

a punto delle parti elettromeccaniche delle opere, sia gli

allestimenti che combinano l’arte e la tecnologia con la fisi-

spazi dello storico Negozio Olivetti nella galleria Vittorio

cità dell’azione scenica. Vi partecipano a vario titolo alcuni

Emanuele di Milano, dove la mostra fu inaugurata nel

dei nomi più importanti della scena americana, artisti affer-

maggio dello stesso anno. Ai cinque artisti del Gruppo T

mati o giovani promesse. Citiamo fra i molti protagonisti e

Munari aveva intanto voluto affiancare i cinque compo-

comprimari Steve Paxton, Alex e Deborah Hay, Robert Rau-

nenti del padovano Gruppo Enne (Alberto BIasi, Ennio

schenberg, David Tudor, Yvonne Rainer, John Cage, Lucinda

Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi)

Child, Robert Whitman, Oyvind Fahlstrom, Frank Stella, Carl

più Enzo Mari e se stesso (di lì a poco anche Getulio Alvia-

Andre, Meredith Monk, Terry Riley.

ni si sarebbe aggiunto al gruppo). Dodici artisti per dodici

Con la complicità dello spettacolo, l’industria è pronta a

opere: dodici astrazioni meravigliosamente ingenue, do-

far rientrare arte e tecnologia elettronica nella più prosaica

dici composizioni cinetiche che superano l’unità formale

dimensione del consumo.

dell’opera grazie all’interazione di elementi mobili che si spostano sia con semplici movimenti casuali sia dettati dal ciclico ripersi di elementari sequenze dinamiche. Ancora una volta ricerche costruite sull’immediata coincidenza concettuale fra struttura e forma, fra premessa tecnica ed effetto percettivo, fra modularità e composizione. Sarà una breve quanto luminosa stagione dell’avanguardia artistica italiana, i cui effetti sopravvivranno fruttuosamente in alcune ricerche grafiche e di design, ma sarà anche l’ultima volta che la Olivetti affiderà all’arte il compito di investigare nel merito delle vicende aziendali. Quando nel 1965 Mario Bellini disegnerà per la stessa Olivetti la Programma 101, il primo personal computer da tavolo, la miniaturizzazione dei componenti tecnici gli consente di pensare già l’elettronica in termini di relazioni fisiche con l’uomo e non in quelli di un’astratta struttura lo-

Ettore Sottsass Jr. appoggiato a Elea 9300. Foto Ugo Mulas, © Eredi Ugo Mulas.

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L’Elea 9001 installato nel centro di calcolo Olivetti di Ivrea. Foto Ugo Mulas, Š Eredi Ugo Mulas.


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