Quaderni del collezionismo - vol. 2

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Volume 1

Dagli incontri promossi dalla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli le voci di quattro grandi nomi del collezionismo italiano per rendere il giusto tributo al fondamentale ruolo che svolgono all’interno del mondo dell’arte.

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1. Arturo Schwarz — Paolo Levi 2. Fulvio Ferrari — Gianluigi Ricuperati e Franco Noero 3. Patrizia Sandretto Re Rebaudengo — Cesare Cunaccia 4. Giuliana Setari Carusi — Marina Mojana

1. Claudia Consolandi ed Emma Zanella — Francesca Pasini 2. Alberto Bolaffi — Bruno Ventavoli 3. Francesco Micheli — Beatrice Panerai 4. Giorgio Maffei — Angela Madesani

Quaderni del collezionismo

Dal ciclo di conferenze organizzate dalla Pinacoteca Agnelli le interviste sul collezionismo:

Quaderni del collezionismo 2

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Quaderni del collezionismo


© 2012 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Redazione e impaginazione Cinzia Morisco Progetto grafico Silvia Gherra Per i testi © gli autori isbn

978-88-6010-073-3

Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

FONDAZIONE PINACOTECA DEL LINGOTTO GIOVANNI E MARELLA AGNELLI Fondatori / Founders Giovanni Agnelli Marella Caracciolo Agnelli Margaret Agnelli De Pahlen John Elkann Lapo Elkann Ginevra Elkann Paolo Fresco Gianluigi Gabetti Francesca Gentile Camerana Franzo Grande Stevens Alessandro Nasi

Segretario / Secretary Gianluca Ferrero Collegio Sindacale / Board of Syndics Mario Pia, Presidente/President Luigi Demartini Pietro Fornier Direttrice / Director Marcella Beraudo di Pralormo Segreteria / Secretary Emma Roccato, Elena Olivero

Comitato Direttivo / Board of Directors Presidente Onorario/ Honorary President Marella Caracciolo Agnelli

Amministrazione / Administration Mara Abbà

Presidente / President Ginevra Elkann

Ufficio Stampa / Press office Silvia Macchetto

Membri / Members Gianluigi Gabetti John Elkann Lapo Elkann Filippo Beraudo di Pralormo Sergio Marchionne

Le conversazioni sono state realizzate grazie al supporto di

Assegnista di ricerca, Sala di Consultazione / Library Marta Barcaro Main Sponsor


Quaderni del collezionismo 2



Sommario

Interviste:

1. Claudia Consolandi ed Emma Zanella — Francesca Pasini

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2. Alberto Bolaffi — Bruno Ventavoli

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3. Francesco Micheli — Beatrice Panerai

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4. Giorgio Maffei — Angela Madesani

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Profili biografici

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Claudia Consolandi ed Emma Zanella Francesca Pasini

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Introduzione

1.


fp

Francesca Pasini — ez

Emma Zanella — cc

Claudia Consolandi — cm

Cicci Mordiglia — ec

Enrico Consolandi — gm

Giorgio Maffei — p

Intervento del pubblico


Claudia Consolandi ed Emma Zanella dialogano con Francesca Pasini Conferenza presso la Sala di consultazione, 2 febbraio 2011

— Innanzitutto vi ringrazio di essere venuti così numerosi e ringrazio soprattutto la Pinacoteca Agnelli per l’invito a questa conversazione sul collezionismo dedicata a Paolo Consolandi. Dal filmato presentato per la mostra al maga* emergono già alcune indicazioni sulla struttura di una delle più importanti collezioni nazionali di arte contemporanea italiana e internazionale, quella di Paolo Consolandi. La collezione Consolandi, come lo stesso Paolo ha dichiarato più volte, ha preso avvio negli anni cinquanta, quando insieme alla moglie Franca, studiosa di archeologia e intenditrice di arte antica, frequentava conferenze e gallerie quali Cardazzo, Ariete, Milione, discutendo con l’amico Guido Ballo che poi li introdusse all’arte contemporanea. I due coniugi erano convinti che «vivendo in mezzo alla cultura contemporanea, con tutte le modernità del tempo (come la televisione e gli elettrodomestici) dovevamo ornare le pareti della nostra casa con opere eseguite dagli stessi artisti che rappresentassero l’epoca in cui vivevamo. [All’inizio] non pensavamo di formare una collezione, ma di ornare le pareti di opere contemporanee».** A mio parere, questa è una delle collezioni più importanti perché testimonia in maniera diretta il modo di collezionare di Consolandi, molto legato alla sua storia personale, al suo desiderio di avere opere che potessero stargli sempre vicino, tanto da esserne circondato in tutte le sue case: all’Elba, a Camogli, nello studio notarile e nelle case dei figli. La sua è una fp

* Cosa fa la mia anima mentre sto lavorando? Opere d’arte contemporanea dalla Collezione Consolandi, catalogo della mostra (Gallarate, Museo maga, 13 novembre 2010-13 febbraio 2011, Electa, Milano 2010. Si veda anche http://www.museomaga.it/card.aspx?id=mostre& el=09112010939786). ** “Intervista a Paolo Consolandi”, a c. di Caroline Corbetta, in De Gustibus. Collezione privata Italia, a c. di Achille Bonito Oliva, Sergio Risaliti, m&m, Pistoia 2002, p. 359.

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collezione che nasce e si espande nei luoghi in cui abitano lui e la sua famiglia. Estremamente affascinante è anche il metodo con cui allestisce le opere all’interno dell’ambiente domestico, che il collezionista spiega bene in un’intervista del 2002: «Ho cercato di seguire criteri di allestimento, per questo mi è sembrato opportuno realizzare degli spazi ad hoc in casa per potermi godere le opere e cercare di creare dei contenitori univoci: ad esempio la mia sala da pranzo è quasi interamente dedicata alle opere di Fontana e Castellani. Tale sistemazione (sono quasi interamente quadri bianchi) è inamovibile e ormai storica, e anche i miei figli hanno promesso che rimarrà così anche in futuro perché sarebbe un peccato rompere l’armonioso pensiero artistico e culturale che vi regna. Ho creato nella mia abitazione pareti mobili scorrevoli e rientranti perché tutte le opere non potevano trovare spazio sulle pareti, ma così le ho ugualmente vicine. Mi piace ammirare le opere poiché la collezione fa parte di me stesso. Ho invaso l’ufficio professionale mio e dei miei colleghi scegliendo opere più adatte, secondo il mio gusto, a uno studio. Ho attrezzato due spazi seminterrati nei quali espongo le opere più grandi e ho opere alle pareti di un appartamento a Camogli e di una casa all’isola d’Elba. Ho invaso con opere le scale del condominio in cui abito, le case dei miei figli; nel seminterrato ho allestito una stanza di proiezione per i video e ho creato uno spazio per l’arte cinetica e l’op-art: pur di poter aver tutto sott’occhio».* Allestire la propria casa con le opere possedute è probabilmente un desiderio comune a tutti i collezionisti, anche se oggi non è più una condizione così frequente perché spesso sono necessari grandi spazi, senza contare il fatto che in maniera alternativa può venire a crearsi un’interessante sinergia con i luoghi pubblici. Nella storia delle grandi collezioni americane il rapporto tra collezionista privato e spazio pubblico, dove molte opere vengono esposte in prestito permanente o in alcuni casi addirittura regalate, è una delle condizioni alla base del desiderio di collezionare e di comunicare attraverso la propria collezione. Anche Paolo Consolandi aveva questo grande desiderio di comunicazione e riusciva a realizzarlo sempre in maniera diretta, nelle stesse forme in cui deve essere il rapporto con l’arte che, nonostante la sua grande riproducibilità, oggi più di un tempo, mantiene la necessità del faccia a faccia. Paolo aveva questa propensione dovuta alla sua grande attenzione, intelligenza, curiosità e passione attraverso la quale si rapportava a tutto. * Ivi, pp. 359-360.

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Viaggiava moltissimo, passando dalle giovani gallerie italiane o straniere alle fiere, a tutte le grandi mostre e il suo gusto e la sua mano ferma nello scegliere le opere erano sicuramente legati a un grande intuito, testimoniato della sua cultura e messo costantemente alla prova delle continue discussioni che intratteneva. Si informava di tutto, parlava in modo spontaneo, diretto e appassionato dei temi e delle opere in cui si imbatteva, ma la sua scelta rimaneva indipendente, comprando secondo il suo giudizio, il suo istinto e il suo gusto. Non è un caso che questa sua indipendenza nascesse da un ampio dialogo, che in questa sede stasera proveremo a riproporre e ad avviare insieme alle persone che gli sono state vicine. Angela Vettese, che ha curato insieme a me la mostra, non è potuta venire, ma c’è Emma Zanella, direttrice del Museo maga di Gallarate, che ha partecipato in maniera attiva all’organizzazione di un’esposizione che avesse come nucleo centrale proprio l’idea del dialogo, sia tra le opere stesse che tra le opere e il pubblico, in modo tale da restituire l’attenzione che il collezionista aveva sempre dedicato a questo tema. La mostra presentata a Gallarate è nata quindi dall’appassionata richiesta che Emma Zanella fece a Paolo poco tempo prima di morire, poi riproposta ai figli che l’hanno accolta con entusiasmo, testimonianza dell’aura positiva che Consolandi riusciva a emanare intorno a sé. La sua capacità di coinvolgere chi lo circondava era riconosciuta; andando alle mostre insieme a lui c’era la garanzia che si sarebbe visto tutto in un tempo concreto e veloce. Naturalmente questo creava un clima di grande cordialità, la possibilità di diventare amici in un rapporto spontaneo e sincero che permetteva di vedere le opere e discutere assieme. In occasione della mostra, i figli di Paolo Consolandi, Claudia ed Enrico, che oggi sono qui con noi, hanno chiesto a me e ad Angela Vettese di collaborare alla realizzazione del progetto per poter, poco tempo dopo la sua scomparsa, ricordarlo attraverso le sue opere. La mostra “Cosa fa la mia anima mentre sto lavorando?” rappresenta uno dei percorsi possibili attraverso le opere della collezione Consolandi. La mia idea iniziale era quella di partire da Fontana e Manzoni, ma la chiave con la quale abbiamo selezionato e messo insieme le opere è venuta da un video, Deserts di Bill Viola.* È stata un’intuizione che mi ha permesso, andando un po’ a ritroso, di trovare un legame, per quanto distante, tra Lucio Fontana e Bill Viola, a partire dai molti manifesti sullo Spazialismo dove si diceva che * Bill Viola, Deserts, 1994, video con audio, 26 min.

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1. Claudia Consolandi ed Emma Zanella — Francesca Pasini


l’arte contemporanea doveva affrontare i temi della contemporaneità, quali la scienza, il movimento, la luce e la televisione. A questo tavolo ci sono con me oltre ai figli di Paolo Consolandi anche Cicci Mordiglia, che lo ha accompagnato negli ultimi quindici anni di vita e che quindi potrà raccontarci come Paolo sceglieva le opere e quale fosse la sua visione dell’arte. Per iniziare, però, vorrei chiedere a Emma Zanella, che intende proseguire in questo dialogo tra il Museo maga e il collezionismo privato, perché ha scelto per prima la collezione di Paolo Consolandi. — Buonasera a tutti, ringrazio la Pinacoteca Agnelli per questo graditissimo invito. Cercherò di dare una risposta a questa domanda che non sia puramente gratificatoria e che necessariamente si riallacci alla storia del museo. Il Museo maga raccoglie l’eredità della Galleria d’Arte Moderna di Gallarate, fondata nel 1966. Il trasferimento del maga in una nuova sede espositiva, inaugurata con la mostra di Modigliani nel marzo del 2010 e il passaggio di gestione del museo dal Comune alla Fondazione Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Silvio Zanella, sono le principali recenti trasformazioni che hanno segnato la vita del museo. Da diversi anni valutavo la possibilità di aprire un dialogo duraturo con i collezionisti perché ritengo che il museo debba diventare un momento di riflessione sull’arte contemporanea letta non solo dal punto di vista delle istituzioni pubbliche ma anche dei privati, tenendo oltretutto presente che le collezioni del maga vennero costituite dal Premio Nazionale Città di Gallarate, istituito nel 1950 per volontà di cittadini illuminati, artisti e collezionisti. Con la mostra dedicata alla collezione Consolandi abbiamo dunque voluto mostare le analogie e le connessioni tra le opere del museo e le opere del collezionista, gli sguardi verso il contemporaneo di un’istituzione preoccupata di costituire una collezione coerente e di un collezionista privato innamorato, negli stessi decenni e nelli stesso ambiente, dell’arte. La scelta della collezione Consolandi è stata dettata senz’altro dalla sua importanza a livello nazionale, dalla ricchezza, continuità e coerenza della raccolta, continuamente aggiornata, oltre che dall’impostazione che Paolo Consolandi le ha dato puntando sull’investimento non tanto economico quanto emotivo e culturale nelle opere che andava ad acquistare, con uno sguardo profondamente legato e coerente con le sue passioni e la sue visione dell’arte. ez

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La collaborazione è stata poi favorita da un membro del nostro comitato scientifico, Piero Giardini, a sua volta collezionista e molto vicino alla famiglia Consolandi. Giardini ha agevolato il contatto tra il museo e la famiglia, un rapporto di vicinanza e di fiducia che abbiamo stretto durante i difficili mesi della malattia di Paolo Consolandi. Grazie ai figli Enrico e Claudia abbiamo portato avanti il progetto, nonostante tutto, con l’intenzione di creare una mostra che avesse un profilo scientifico, e non fosse quindi una mera esposizione di opere; abbiamo aperto un proficuo dialogo con la famiglia e con i curatori, guardando pazientemente le opere e cercando di cogliere al meglio lo spirito che aveva mosso Paolo Consolandi, senza tuttavia dimenticare di operare precise scelte storico-critiche. Come anticipato da Francesca Pasini, l’impostazione della mostra è stata lungamente discussa: l’idea guida è stata quella di scegliere gli snodi nevralgici della collezione e le opere che ci sembravano più interessanti e significative, senza tralasciare quelle degli artisti più giovani, che nel video di presentazione sono stati chiamati “i giovani maestri”, cioè coloro che si trovavano a dialogare in casa Consolandi con i Fontana, i Manzoni, i Castellani, con Bill Viola e gli altri grandi nomi della contemporaneità. Il principio con cui Consolandi ha messo insieme la sua raccolta è sempre stato quello di acquistare opere di giovani contemporanei in grado di trasmettere idee innovative, scegliendo soprattutto un’arte capace di esprimere un concetto piuttosto che uno sfogo emotivo soggettivo.* La mostra ha voluto testimoniare quindi questa grande apertura nei dialoghi possibili tra le opere e nella grande disponibilità da parte di tutti i soggetti coinvolti nel costruire insieme un percorso espositivo che non fosse strettamente convenzionale, non seguisse una linea storico-critica cronologica e non si soffermasse su un maestro piuttosto che su un altro, ma che fosse soprattutto in grado di far scaturire una serie di inaspettati confronti tra le opere stesse. La decisione poi di aprire il maga ai privati credo sia per noi una scelta culturale strategica da realizzare nel tempo con accurata attenzione. Non vogliamo semplicemente aprire le sale del museo alle collezioni private quanto piuttosto attuare un progetto complesso che ci permetterà di costituire una serie costante di aggiornamenti e raffronti delle ricerche da noi condotte, alle quali le collezioni private apportano punti di vista del tutto * “Intervista a Paolo Consolandi”, cit., p. 259.

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differenti da quelli di un museo, legate al gusto, alla passione e all’attenzione verso la contemporaneità del collezionista. Questo è stato il punto di partenza del lavoro che abbiamo felicemente seguito tutti insieme. Anticipo inoltre che la famiglia Consolandi si è resa disponibile a depositare alcune importanti opere nel museo, a conferma della fiducia dimostrata nei nostri confronti. — Vorrei chiedere a Claudia Consolandi se c’è un’opera che potrebbe immediatamente associare alle grandi qualità di collezionista di suo padre, anche attingendo ai suoi ricordi di ragazzina.

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cc — Una in particolare forse non c’è, ma opere come quelle di Fontana e Manzoni nel loro complesso lo rappresentano al meglio, sia perché sono state le prime che io ho visto ancora bambina entrare in casa sia per la passione con cui nostro padre ce le illustrava. Erano le sue predilette perché aveva creduto nei loro autori quando ancora interessavano a pochi,* ma anche perché erano le opere che vedeva più spesso. Soprattutto credo fosse molto affezionato ai quadri di Fontana perché si trovavano nella sala da pranzo, quindi in un luogo in cui si sedeva almeno due volte al giorno in loro compagnia. Nei ricordi di famiglia un posto particolare lo ha anche la Mappa di Boetti,** che tutte le estati veniva piegata, messa in una borsa e portata all’isola d’Elba, dove abbiamo una casa, per essere esposta. Quando veniva poi ripiegata per essere riportata a Milano quel gesto segnava simbolicamente la fine della vacanza. All’inizio Boetti non era certo noto come oggi, l’opera era stata acquistata negli anni della sua realizzazione, per cui non aveva ancora il valore attuale. Quando ci si è resi conto che ormai era diventata un bene prezioso abbiamo deciso di lasciarla al suo posto e di non portarla più avanti e indietro in una borsa. Mio padre era così affezionato a quell’opera da comprarne un’altra dello stesso genere, una tela morbida non incorniciata. Negli ultimi tempi, non avendo abbastanza spazio in casa per esporla, quando c’era qualche visitatore la adagiava sul suo letto come se fosse una coperta. — La Mappa sicuramente per Paolo era tra le opere con le quali aveva un dialogo più concreto: c’era questa idea di trasportarla per averla sempre

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* Ivi, p. 361. **Alighiero Boetti, Mappa, 1972-1973, ricamo, 148 x 212 cm.

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con sé, di metterla sul letto, e ne era gelosissimo, visto che è in sostanza un lavoro unico in quanto è una delle prime mappe dell’autore in cui il mondo appare diviso geograficamente, culturalmente e politicamente, portando di conseguenza su di sé una testimonianza storico-critica, affettiva e sociale. Io sono convinta che la cultura sia uno degli elementi attraverso cui nutriamo i nostri affetti. Ricordo una mostra al mart, da me curata, dedicata agli artisti che utilizzano il ricamo o in generale ago e filo, per la quale gli avevo richiesto quell’opera e la sua risposta era stata: «È la prima volta che esce di casa». E io di rimando: «No, Paolo, non è la prima volta che esce di casa visto che va su e giù tutte le estati». «Sì» ribatteva lui «ma da casa mia è la prima volta!» e poi aggiungeva: «Te la presto volentieri perché mi fa piacere che Boetti possa essere in questa mostra». Egli aveva una grande generosità nel prestare le sue opere, valutando però attentamente il luogo e il tipo di mostra, scegliendo quindi le occasioni giuste, ma al tempo stesso viveva anche una sorta di contraddizione essendone molto geloso, per cui se qualcuno gli chiedeva per esempio tre opere lui tendeva a darne solo una per poi magari in seguito accettare di prestarne anche di più. «Prestare per me è sempre un dispiacere: c’è la malinconia del distacco, dal momento che io vivo con le opere e non le tengo chiuse nelle casse. […] Ma d’altro canto il prestito delle opere è anche un fatto culturale e c’è il piacere di sapere che altri le vedranno. Non nego neppure un certo orgoglio, soprattutto se penso a quante volte sono stato considerato nel passato una persona eccentrica solo perché amavo un’arte non facile per la maggior parte delle persone.»* Credo che il percorso della mostra sarebbe stato senz’altro diverso se costruito direttamente con Paolo, che all’inizio mi avrebbe frenata dicendo «troppe opere!», anche se nel suggerire i collegamenti tra di esse il suo aiuto sarebbe stato sicuramente prezioso. A questo proposito mi piacerebbe chiedere a Cicci Mordiglia se, secondo lei, Paolo avrebbe condiviso l’impostazione di questa mostra nel rappresentare la sua idea di collezionismo. — Decisamente sì. Gli sarebbe piaciuta moltissimo, anche se forse avrebbe preferito che venisse fatta a Milano perché la sua idea era sempre stata quella e ha desiderato a lungo la creazione di un museo di arte contemporanea in città. Purtroppo non ha fatto in tempo a vedere il Museo

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* “Intervista a Paolo Consolandi”, cit., pp. 360-361.

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del Novecento, però ha accettato molto volentieri l’invito di Emma Zanella di realizzare una mostra a Gallarate. Non so dire se Paolo avrebbe fatto altre scelte ma le opere sono state selezionate accuratamente da Francesca Pasini, con la quale è sempre andato molto d’accordo, quindi sono convinta che sarebbe stato contento. — Paolo Consolandi si è sempre dato molto da fare per stimolare le istituzioni per la nascita di un museo di arte contemporanea, che incredibilmente a Milano non c’era ancora. A loro volta le istituzioni avrebbero potuto decidere già un bel po’ di anni fa di rivolgersi a lui per offrirgli uno spazio espositivo almeno per una parte della sua collezione, ma credo che questo mancato incontro sia dovuto alla difficoltà di investire culturalmente sull’arte contemporanea in maniera non transitoria in una città come Milano, anche se di recente dopo una lunga e decennale gestazione è stato aperto il Museo del Novecento. Vorrei però ricordare che Paolo ha potuto assistere, contribuire e seguire la mostra che è stata fatta a Palazzo Reale dei suoi libri d’artista, che non sono stati poi inseriti nel percorso di quella al maga proprio per la recentissima esposizione.* Consolandi aveva raccolto una collezione molto importante e prestigiosa di libri d’artista, eclettica quanto la sua collezione d’arte. In molti abbiamo pensato che questa passione fosse legata alla sua professione di notaio e cioè all’attività di scrittura e alla necessità di dedicare una particolare attenzione ai documenti scritti, cosa che i suoi familiari possono ben testimoniare. In questa raccolta si può rintracciare uno dei criteri generali con cui Consolandi sceglieva le opere, ovvero il suo interesse per il concetto che si nasconde dentro ogni manufatto. Anche se non ha mai seguito in maniera rigida l’idea di raccogliere solo opere del periodo strettamente concettuale, oppure opere nelle quali questo elemento fosse necessariamente e totalmente esplicitato, guardando la sua collezione questa forte attenzione emerge sempre. Se ricordiamo che Leonardo da Vinci diceva che la pittura è una questione mentale, penso che Paolo Consolandi avesse una sua propensione a riconoscere questo atteggiamento nelle tante modalità di espressione dell’arte e credo che tale caratteristica renda in qualche modo unica questa collezione, donandole quel qualcosa in più. fp

* Libri d’artista dalla collezione Consolandi. 1919-2009, a c. di Giorgio Maffei e Angela Vettese, Charta, Milano 2010.

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Vorrei chiedere a Enrico Consolandi, che qualche anno fa ha scritto sia sulla collezione nello specifico che sull’arte in generale, un suo parere sul legame tra passione intellettuale e mentale e la scelta delle opere, e quali tra queste ultime in tal senso rappresentano meglio suo padre. — Quella che secondo me rappresenta meglio mio padre è Alpha Centauri di Nam June Paik,* composta da sei televisori, che trasmettono un filmato, disposti in modo da formare l’elica di un motore. È un’opera che si ispira vagamente a Fontana, di cui mio padre era anche amico perché aveva lo studio vicino a casa nostra e che, cosa che ho appreso da poco in realtà, parlava spesso di televisione. La televisione è un motore culturale che agita, riprende e fa girare queste cose impalpabili ma potentissime che sono le idee, come l’elica di un aeroplano fa con l’aria. La televisione, quindi, come strumento di comunicazione, quale può essere in fondo la stessa collezione. Come ha raccontato Claudia, infatti, c’era questa visione di un’arte “portatile” e in questo senso i libri sono arte portatile per eccellenza che può essere dischiusa in ogni momento. Così è stata la collezione, qualcosa di intimo, interno alla casa, che però di quando in quando veniva aperta a chiunque volesse entrare e vedere le idee che vi erano contenute, idee il cui filo conduttore era il gusto di mio padre. Per un collezionista lo scambio di opinioni è molto importante e per questo motivo, come dice sempre Angela Vettese, deve girare il mondo, per sapere cosa vi accade. In questo modo dimostra un’apertura al nuovo che fa parte di quel dualismo, insito nell’opera d’arte moderna, fatto di innovazione e conservazione, aspetto quest’ultimo rappresentato dal fatto che quando un museo inizia a “conservare” qualcosa, quel qualcosa perde la sua contemporaneità. Bisogna quindi trovare una nuova forma, che non risolva solo un problema di collocazione delle opere e che spinga i musei ad aprirsi alle collezioni private, qualcosa che Gallarate ha attuato e che vedo realizzato anche qui. Come dicevo prima, l’arte può essere aperta e chiusa proprio come con un libro, e proprio come con i libri si può passare di opera in opera, e questo passaggio è qualcosa che serve a far circolare le idee, anche quelle di chi non produce direttamente arte ma la colleziona offrendo comunque un “servizio”. Di quest’ultimo aspetto era particolarmente convinto ec

* Nam June Paik, Alpha Centauri, 1990, sei televisori, cerchione, tempera, recordable laser video disc, diametro 86 cm (max estensione antenna 73 cm).

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mio padre, che affermava: «Il collezionismo nasce dall’Io ma può e deve trovare una dimensione di comunicazione, assumendo così una funzione anche pubblica […]», e che aveva molto piacere di condividere con gli altri le opere della sua collezione. Era sempre felice di ospitare a casa sua direttori di musei, collezionisti e associazioni internazionali in visita a Milano, perché secondo lui questo era un modo per «dare alla città un’impressione di dinamismo culturale e ospitalità».* Paolo Consolandi è stato una guida per tanti altri collezionisti. fp — Sì, è stato sicuramente una guida per tutti perché, oltre alla passione

per la scelta e la raccolta di opere d’arte, il suo grande desiderio era riuscire a introdurre l’arte nella vita, ma non in maniera semplicistica facendo leva su qualcosa che è già insito in essa come la sua eccezionalità. Spesso rimane solamente un auspicio, Paolo invece ci riusciva, avendo poi la delicatezza di proporre questo stesso tipo di rapporto anche agli altri, non imponendolo, non enfatizzandolo, ma facendone la chiave attraverso la quale si poteva riconoscere, sia quando si andava a casa sua sia quando si andava in giro con lui per mostre, biennali e fiere, l’atteggiamento di cura verso l’oggetto ma anche la sincerità nel desiderio del collezionista di possedere quella cosa, di arrivare un attimo prima, di comperare l’opera di un artista non ancora affermato. Non voleva spendere troppo, preferiva essere abbastanza bravo da riuscire a comprare artisti sconosciuti in tempi non sospetti. Questo era un po’ un vezzo ma anche un modo per stare realmente vicino a ciò che accadeva: «A me piace provare a capire il mio tempo così come altri hanno fatto nel loro, e scegliere da solo prima che la storia mi dia suggerimenti».** Paolo aveva anche la capacità di mantenere un interesse e un affetto sincero per le opere acquistate indipendentemente da quanto riuscivano ad avere successo, pur avendo un straordinario intuito nel captare le novità e credere in artisti giovani e meritevoli. Per la mostra “Cosa fa la mia anima mentre sto lavorando?” abbiamo infatti deciso di esporre un collage di Nico Vascellari,*** comprato l’anno prima, e un piccolo lavoro di Ian Tweedy,**** probabilmente acquistato nel corso del 2010, con l’idea di dare una panoramica completa della collezione fino agli acquisti più recenti. * “Intervista a Paolo Consolandi”, cit., p. 360. ** Ivi, p. 362. *** Nico Vascellari, Untitled (Landscape), 2009, collage e spray su cornice, 36 x 28 cm. **** Ian Tweedy, The Scene, 2009, matita su retro di stampa a colori su carta, con cornice 23 x 27,8 cm.

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In merito ai libri, ciò che ha detto prima Enrico è vero, tanto che la sua passione era aprirli e chiuderli, ma questo gesto doveva essere compiuto da lui personalmente. Tra questi ce n’è uno di Warhol veramente molto prezioso che Paolo non sempre mostrava, non perché ne fosse geloso ma proprio per l’idea che un libro più lo sfogli, più lo conosci e anche perché, essendo una serie di carte serigrafate in maniera speciale, poteva rovinarsi. Era un oggetto prezioso che ci veniva offerto come un mezzo attraverso il quale potersi raccontare, un’esperienza che poteva ripetersi anche all’esterno di casa sua, quando per esempio visitavamo insieme le mostre. La stessa sincerità e partecipazione che Consolandi aveva per le opere ho potuto constatarla anche nei confronti delle mostre che ho curato, quando, accompagnato da Cicci, era per me tra i visitatori più attenti e puntuali, capace con tatto di dirmi sinceramente quello che pensava. È ovvio che fossi più contenta quando anche lui era soddisfatto, ma qui si tratta di un discorso più sottile perché a volte l’arte ci mostra semplicemente qualcosa che prima non c’era, ma ci sprona anche, magari solo nel privato, a esprimere un giudizio, a partire dal più banale “mi piace/non mi piace”, che poi tanto banale non è, e a sforzarci di apprezzare certe cose proprio per il dubbio che portano con sé. Sicuramente l’arte è maestra nel far scaturire domande, anche se a volte possono essere imbarazzanti, e parlo di un imbarazzo interno che non è necessario esprimere o esplicitare e che ci mantiene in costante esercizio. Qualcuno dal pubblico vuole chiedere qualcosa, approfittare della nostra presenza per porre qualche domanda? p

— Vorrei sapere quali sono stati i viaggi di Consolandi.

— I suoi viaggi erano soprattutto legati alle mostre nazionali e internazionali, alle biennali, da Venezia a Istanbul, alle visite a gallerie e fiered’arte, quindi sono stati tantissimi.* Viaggi che spesso sceglieva di fare anche da solo perché essendo un collezionista così appassionato, sofisticato, molto simpatico e attento era invitato sempre a tutte le più grandi manifestazioni fp

* Secondo Paolo Consolandi la fiera d’arte è una vetrina fondamentale per valutare sia artisti storici che contemporanei ed emergenti tanto da auspicare l’organizzazione di un’importante fiera di arte contemporanea anche a Milano. Si veda “Intervista a Paolo Consolandi”, in miart Magazine #02 (catalogo miart 2009, Fiera Internazionale d’arte Moderna e Contemporeanea), Milano 2009, p. 8.

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di arte contemporanea. Il bello era, e su questo vorrei una testimonianza diretta di Cicci Mordiglia che lo ha accompagnato per così tanti anni, che lui accettava qualsiasi invito. — Sì, Paolo si muoveva spesso non solo per interesse privato ma anche perché sapeva che la sua presenza faceva piacere al gallerista o all’artista di turno. Erano viaggi che potremmo definire “spontanei” e dopo il suo passaggio galleristi e critici dicevano: «L’ha visto Consolandi»; «L’ha comprato Consolandi», quasi orgogliosi della sua attenzione. Mi ricordo di tanti viaggi fatti con lui che mi hanno permesso di imparare tantissimo perché all’inizio ero veramente digiuna di arte contemporanea. Paolo mi ha fatto da maestro e insieme abbiamo scelto poi molte opere, anche se a volte dovevo star attenta a esprimere il mio parere perché sapevo che si interessava di più a un’opera se ero io a segnalargliela. Uno degli episodi che mi è rimasto impresso riguarda l’isola d’Elba, dove in un’enorme sala da pranzo di un hotel del golfo aveva visto un soffitto di Fontana: questo soffitto rischiava di essere distrutto a causa degli imminenti lavori di ristrutturazione dello stabile. Paolo si è dato quindi da fare per salvarlo, contattando l’Accademia di Brera e riuscendo a trovare una sovvenzione da Roma grazie alla quale il soffitto è stato poi trasportato a Milano, dove ora fa parte delle opere del Museo del Novecento. Pochi sanno che è stato lui a sceglierlo, ma questo episodio testimonia il suo occhio speciale per le cose.

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— Sto cercando di ricordare i posti in cui è stato per provare a fare una lista dei luoghi in cui dovrebbe andare un collezionista o una persona interessata all’arte contemporanea. Ogni anno Consolandi visitava sempre la fiera di Bologna, Artissima a Torino, la fiac e quella di Londra; ogni due andava a Venezia e a Basilea, inoltre era stato a Istanbul e a Mosca, ma forse è impossibile fare una lista completa. I viaggi sono stati numerosissimi e spesso andava anche in America, a New York. In merito a un particolare viaggio a Mosca c’è un aneddoto che rende bene l’idea di cosa possa essere capace un collezionista. All’epoca dei fatti mio padre era già in età avanzata e la mostra si teneva durante un gennaio freddissimo. Tra le opere degli artisti italiani che dovevano essere esposte alcune erano composte da materiale fotografico che i doganieri, insieme ai proiettori e i video, avevano bloccato con il pretesto che c’erano delle ec

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tasse da pagare per il transito. Consolandi si diede da fare in prima persona riuscendo a sbloccare la situazione – taccio ovviamente sulle modalità utilizzate – e a consentire lo svolgimento della mostra. — Un altro aspetto della personalità di Consolandi che mi viene in mente dopo questo episodio della dogana di Mosca, che mi sembra sia accaduto nel 2004, è che come notaio ha fornito assistenza a molti suoi amici: chi per l’acquisto di una casa, chi per qualche problema o suggerimento legale spesso ci rivolgevamo a lui. Tra quelli che hanno goduto del suo aiuto ci sono molti artisti, in un rapporto che era al confine tra la protezione e l’amicizia e che si svolgeva tra la collezione d’arte e un invito a cena. Si trattava di un altro modo attraverso cui trasportava l’arte dentro la sua vita e in quella degli altri. La sua casa, aperta a chiunque avesse una relazione con lui, ne era il fulcro, coinvolgendo quindi direttamente anche la sua professione. Per esempio quando insieme ad altri critici e artisti ho costituito a Milano un’associazione chiamata l’“Isola dell’Arte”, nel tentativo di non fare abbattere una vecchia palazzina di una fabbrica del primo Novecento, l’atto era stato sottoscritto nello studio di Paolo. Gli scambi quindi erano a tutto tondo e spesso i viaggi erano l’occasione migliore perché, come capita a tutti, ci si ritrovava per andare a vedere una mostra. Ricordo molti viaggi che ho fatto tra Milano e Torino, Milano e Bologna, Milano e Brescia, in cui usufruivo dei passaggi in macchina di Paolo e Cicci (e quasi sempre guidava Cicci!).

fp

— A questo punto vorrei che intervenisse Giorgio Maffei che ha conosciuto Paolo molto bene e con il quale ha lavorato parecchio.

cm

— In realtà posso raccontare soprattutto la mia esperienza negli ultimi mesi di Paolo per la realizzazione della mostra a Palazzo Reale. Paolo Consolandi era un magnifico rompiscatole, lo dico con enorme affetto, e un uomo molto padrone delle sue idee. Tutte le scelte fatte per allestire la mostra sono state discusse, spesso fino al litigio, e nulla è stato deciso con superficialità: ogni libro, ogni pagina aperta, è stato frutto di uno scambio, anche animato qualche volta, fatto di telefonate a qualsiasi ora, di mattina, di sera, anche di domenica, perché non era soddisfatto di qualche particolare e a dire il vero… aveva quasi sempre ragione lui!

gm

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1. Claudia Consolandi ed Emma Zanella — Francesca Pasini


— Con Paolo si discuteva realmente e ciò consentiva di avere rapporti sempre autentici. Ma per i suoi figli qual era il rapporto con l’arte? Avete avuto anche voi delle discussioni con lui o vi insegnava soltanto a guardare quello che già apprezzava?

fp

cc — Discussioni non ne abbiamo mai avute. Ci faceva vedere quello che acquistava, ma il collezionista rimaneva lui. Gli piaceva molto condividere in famiglia questa passione e ha seguito un po’ i consigli di Cicci e prima ancora quelli di mia madre, ma non abbiamo mai avuto vere e proprie discussioni perché collezionare rimaneva la sua attività ed era ciò che gli faceva piacere e sotto questa prospettiva eravamo abituati a vederlo da sempre. fp — Grazie a tutti, siamo molto contenti di essere stati qui e credo che Paolo

sarebbe stato molto contento di essere invitato alla Pinacoteca Agnelli per parlare della sua collezione ma anche di ascoltare le opinioni degli altri. Questo aspetto del suo carattere mi ha sempre affascinato molto perché mi sembrava che la sua collezione si fosse formata proprio grazie alla sua capacità di riconoscere e apprezzare le idee altrui per farle poi proprie, era molto orgoglioso e compiaciuto di aver raccolto dei pezzi così interessanti. Possiamo chiudere il nostro incontro a questo punto con un aneddoto: tra le opere in collezione c’è Ends Dead di Damien Hirst,* una vetrina in cui sono raccolti mozziconi di sigaretta che aveva acquistato a una fiera di Colonia nel 1996-1997, quindi più o meno negli anni in cui era stata realizzata. Anch’io mi trovavo in fiera, sono arrivata allo stand di questo gallerista e ho detto: «Interessante quest’opera di Damien Hirst!», che all’epoca era un artista già noto ma non era ancora la star che è diventata in seguito, e Paolo ha esclamato: «L’ho comprata!» e io gli ho detto: «Bravo, è un’opera che piace molto anche a me» e lui mi ha risposto: «Sì, e sono arrivato prima di un altro!».**

* Damien Hirst, Ends Dead, 1994, legno, vetro, mozziconi di sigarette, 91,5 x 122 x 12 cm. ** Cosa fa la mia anima mentre sto lavorando?, cit., pp. 24-25.

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