Quaderni del collezionismo - vol. 3

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Volume 1

Dagli incontri promossi dalla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli le voci di quattro grandi nomi del collezionismo italiano per rendere il giusto tributo al fondamentale ruolo che svolgono all’interno del mondo dell’arte.

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1. Arturo Schwarz — Paolo Levi 2. Fulvio Ferrari — Gianluigi Ricuperati e Franco Noero 3. Patrizia Sandretto Re Rebaudengo — Cesare Cunaccia 4. Giuliana Setari Carusi — Marina Mojana Volume 2 1. Claudia Consolandi ed Emma Zanella — Francesca Pasini 2. Alberto Bolaffi — Bruno Ventavoli 3. Francesco Micheli — Beatrice Panerai 4. Giorgio Maffei — Angela Madesani

1. Lucio Zanon di Valgiurata — Laura Cannavò 2. Gino Viliani — Andrea Viliani 3. Il collezionista anonimo — Bernard Berthod ed Elena Geuna 4. Giuliano Gori — Guido Curto

7 206 001 0 -6 ,0 88 12 8€ 97

ISBN 978-88-6010-062-7 ISBN 978-88-6010-062-7

Quaderni del collezionismo

Dal ciclo di conferenze organizzate dalla Pinacoteca Agnelli le interviste sul collezionismo:

Quaderni del collezionismo 3



Quaderni del collezionismo


© 2012 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Redazione Cinzia Morisco Impaginazione Smalltoo Progetto grafico Silvia Gherra Per i testi © gli autori isbn

978-88-6010-062-7

Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

FONDAZIONE PINACOTECA DEL LINGOTTO GIOVANNI E MARELLA AGNELLI Fondatori / Founders Giovanni Agnelli Marella Caracciolo Agnelli Margaret Agnelli De Pahlen John Elkann Lapo Elkann Ginevra Elkann Paolo Fresco Gianluigi Gabetti Francesca Gentile Camerana Franzo Grande Stevens Alessandro Nasi

Segretario / Secretary Gianluca Ferrero Collegio Sindacale / Board of Syndics Mario Pia, Presidente/President Luigi Demartini Pietro Fornier Direttrice / Director Marcella Beraudo di Pralormo Segreteria / Secretary Emma Roccato, Elena Olivero

Comitato Direttivo / Board of Directors Presidente Onorario/ Honorary President Marella Caracciolo Agnelli

Amministrazione / Administration Mara Abbà

Presidente / President Ginevra Elkann

Ufficio Stampa / Press office Silvia Macchetto

Membri / Members Gianluigi Gabetti John Elkann Lapo Elkann Filippo Beraudo di Pralormo Sergio Marchionne

Assegnista di ricerca, Sala di Consultazione / Library Marta Barcaro Main Sponsor


Quaderni del collezionismo 3



Sommario

Interviste:

1. Lucio Zanon di Valgiurata — Laura Cannavò

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2. Gino Viliani — Andrea Viliani

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3. Il collezionista anonimo — Bernard Berthod ed Elena Geuna

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4. Giuliano Gori — Guido Curto

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Profili biografici

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Lucio Zanon di Valgiurata Laura Cannavò

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Introduzione

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Laura Cannavò — lz

Lucio Zanon di Valgiurata — p

Intervento del pubblico


Lucio Zanon di Valgiurata dialoga con Laura Cannavò Conferenza presso la Sala di consultazione, 17 gennaio 2012

lc — «Il collezionista possiede una preziosa qualità, la capacità di meravigliarsi del mondo e dei suoi oggetti, di intuirne la potenza evocativa, di entusiasmarsi per la loro scoperta, di creare nessi tra i grandi capolavori e le piccole cose che ne hanno costituito il contesto storico, dando un’immagine più completa della cultura del passato.» Con queste parole di Walter Benjamin apriamo il nostro incontro che rientra nella serie delle conversazioni sul collezionismo promosse dalla Pinacoteca Agnelli. Prima di tutto mi presento, sono Laura Cannavò, lavoro al Tg5 e mi trovo qui perché, come voi, sono stata attirata da una forte passione di cui vorrei parlare questa sera. Questa passione si è trasformata prima in una raccolta, poi un una mostra, infine in un libro e chissà a cos’altro porterà in futuro. Protagonista ne è Lucio Zanon di Valgiurata che molti di voi conoscono come imprenditore, manager, una persona che dovrebbe avere un ufficio asettico, come ce l’hanno in genere tutti questi personaggi, ma in realtà l’ufficio di Lucio è…

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— Molto diverso…

— Molto diverso, esatto, perché è una sorta di hangar contenente oltre trecento modelli di aerei, oggetti carichi di storia ma soprattutto carichi dei personaggi che li hanno abitati, che li hanno guidati e che ci riportano alla mente episodi del passato. Creare una collezione di questo tipo richiede molta dedizione, energia, soldi e tanto impegno e io vorrei cominciare proprio da qui, dalla necessità di questo impegno e capire com’è nata questa passione e come è scoccato il colpo di fulmine, perché all’origine di tutte le passioni c’è sempre un evento così inatteso. Ecco, inizierei proprio chiedendo a Lucio di raccontarcelo.

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— Grazie Laura, buonasera a tutti voi. Innanzitutto ringrazio la Pinacoteca Agnelli che mi ha offerto un’occasione che è un po’ il sogno di tutti i collezionisti, cioè parlare della propria collezione, la cosa più gratificante che si possa fare, tanto che probabilmente a un certo punto della serata dovrete intervenire con la forza per farmi smettere di parlare. Per tornare alla domanda, direi che all’origine di tutto ci sono i geni, quelli dei miei genitori: di mia madre, qui presente, collezionista anche lei, soprattutto di bambole e cucine in miniatura, e quelli di mio padre, che molti di voi hanno conosciuto, grande appassionato di motori, in particolare quelli delle auto di Formula Uno, ma anche di velivoli. L’insieme di queste due personalità ha evidentemente influenzato quello che poi sarei diventato. Ma il colpo di fulmine c’è stato eccome, una mattina di primavera – se vogliamo dargli uno sfondo un po’ bucolico – su un prato di un aeroporto inglese quando sono salito su un aereo di fine anni venti, un Tiger Moss, un biplano di legno e tela mosso da un motore che assomiglia più a quello di un tosaerba che a quello di un aereo. Su questo velivolo primitivo, io davanti, con la mia tuta e i miei occhialoni, e il pilota dietro, siamo decollati raggiungendo la ragguardevole velocità di sessanta chilometri orari o forse addirittura i settanta e a balzelloni siamo saliti in cielo, e da lì si vedeva tutta la campagna sottostante: in quel momento ho provato l’ebbrezza che senz’altro avevano provato i piloti di questi biplani durante la Prima guerra mondiale. Questo mio primo volo è partito dall’aeroporto di Duxford, dove c’è un enorme e bellissimo museo dell’aviazione il cui materiale è tutto conservato in alcuni hangar, dal biplano della Prima guerra mondiale a un Concorde. Il caso ha voluto quindi che succedesse in Inghilterra, un Paese dove il collezionismo e la conservazione di questo tipo di oggetti hanno la loro massima espressione, e da quel momento ho cominciato ad appassionarmi agli aerei e alle loro storie e per estensione alle persone che vi avevano avuto a che fare, alle loro avventure.

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— La tua collezione, come abbiamo detto, è molto ampia, oltre trecento pezzi: a questo punto la definiresti completa? Oppure c’è ancora qualcosa che ti è sfuggito, qualcosa che vorresti avere, per esempio, e che non sei riuscito ancora a conquistare?

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— Qualsiasi collezionista risponderebbe a questa domanda dicendo che nessuna raccolta è mai finita, perché essa può dirsi tale solo nel momento in cui il collezionista non c’è più. Ogni collezione è un viaggio, una ricer-

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ca continua e il bello sta proprio nel continuare a cercare. Nel mio caso ormai si tratta di una collezione già abbastanza grande e di per sé molto impegnativa, ma il pezzo inedito, la nuova scoperta, la nuova storia che salta fuori, il nuovo personaggio sono sempre dietro l’angolo, insomma c’è sempre dell’“altro”. — Tu hai affermato che più che collezionare aerei collezioni storie. Ma all’inizio non è esattamente così, c’è sempre prima l’attenzione verso l’oggetto.

lc

— Sono gli oggetti che ti chiamano, ti scelgono, ti chiedono di fare delle cose, di ricostruire, ma rapidamente si passa dall’attrazione per la materialità, per il design, per la linea di un aereo, alla ricerca di quando è nato, quali imprese ha compiuto, chi l’ha pilotato e cosa ha rappresentato per l’industria del Paese nel quale è stato realizzato. Io mi considero quindi nella maniera più assoluta un collezionista di storie, un “conservatore di storie”, perché in fondo il mio compito, il mio interesse è quello di far sì che la memoria di queste cose e di queste persone non venga perduta.

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— Ancora una domanda sulla collezione. Forse molti di voi qui presenti hanno la stessa passione di Lucio, mentre altri, come me, no, e quindi mi interessava proprio capire cosa si prova ad avere un impulso come questo, che dà molto ma che richiede anche molto. Vorrei quindi domandarti qual è il piacere maggiore per un collezionista: raccogliere, quindi conservare e, come dicevi tu prima, la fase di ricerca, oppure anche condividere, che è anche un po’ quello che stai facendo adesso?

lc

— Hai parlato giustamente di fasi. Una prima è di raccolta, in cui si mettono insieme oggetti, libri, modelli, nel mio caso anche manifesti, dipinti… Tutte cose il cui piacere sta anche nel possederli, questo è innegabile! Guardarli, toccarli, pasticciarli, magari integrare pezzetti che mancano o aggiustare quelli che si sono rotti. Poi c’è una seconda fase che consiste nell’approfondire le vite di coloro che gravitavano attorno a questi oggetti; e infine c’è la fase attuale, di testimonianza, anche se devo dirti onestamente che non pensavo che una cosa del genere potesse interessare a qualcuno, la credevo una tendenza un po’ maniacale, solo mia. Siamo quindi partiti con l’idea di fare un catalogo – grazie ad amici, alcuni dei quali qui presenti, come Lino Schifano, Stefania Fornasiero e Chiara Massimello,

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1. Lucio Zanon di Valgiurata — Laura Cannavò


che mi hanno aiutato molto – che è poi diventato un libro di storie. E ho talmente apprezzato questa forma di condivisione che adesso abbiamo allestito una mostra, qui da Zabert a Torino in piazza Cavour, e in questa occasione, so che è un po’ retorico, ho quasi percepito il piacere degli aerei di andare lì! Contenti di volare di nuovo, di fare quello per cui erano nati e quindi di non stare su uno scaffale a casa mia o nel mio ufficio. — In sostanza hai un rapporto quasi intimo con questi oggetti… È vero che li costruivi anche?

lc

— Sì, è vero, e come me credo tutti gli appassionati di aviazione, e qui nel pubblico ne riconosco alcuni. Tutti siamo partiti con le scatole Airfix, o Tamiya, la nostra boccettina di colla, le vernici della Humbrol, i pennellini, e ci siamo industriati con risultati che le prime volte erano ben lontani dall’assomigliare a un aereo, e dopo invece sono diventati sempre più precisi, sempre più raffinati. Saper costruire, avere un po’ di manualità, ci vuole, ed è fondamentale soprattutto per chi come me fa un lavoro che manuale non è per niente, dato che mi occupo di finanza e quindi sto davanti a uno schermo a leggere e non uso le mani se non per scrivere e battere sui tasti. A me piace tantissimo, magari in ufficio mi prendo un aereo per una mezz’ora, me lo lucido, ed è molto rilassante, fa passare anche certe arrabbiature…

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lc

— Terapeutico!

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— Molto terapeutico!

— Tornando al libro – che potete vedere lì in vendita –, è un volume molto bello, pieno di storie, di oggetti, con bellissime fotografie, che ha un titolo molto evocativo e significativo, cioè Chi vola vale, una frase di Italo Balbo che dice moltissimo anche riguardo alla tua passione per quel determinato periodo storico. Ecco, perché hai scelto proprio gli anni ventiquaranta?

lc

— La risposta è abbastanza semplice: perché è il periodo durante il quale l’aviazione ha registrato la crescita e l’avanzamento tecnologico più intensi. Pensate che negli anni venti si parlava solo di biplani e che alla fine della Seconda guerra mondiale già volavano i primi jet, quindi è chiaro che in vent’anni lo sviluppo è stato rapidissimo. È stato anche il periodo

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in cui l’aviazione italiana era, credo sia giusto sottolinearlo, ai vertici della tecnologia mondiale, e lo è stata per lungo tempo, grazie alle capacità progettuali e realizzative di imprese memorabili e per la straordinaria abilità dei suoi piloti. Tutto questo purtroppo non si è tradotto in una corrispondente competenza industriale a causa di problemi che sarebbe inutile affrontare in questa sede, ma certamente si tratta dell’epoca eroica dell’aviazione italiana: eroica per le imprese realizzate – basta ricordare la transvolata atlantica di Balbo – e per gli atti di eroismo compiuti. Il periodo, quindi, secondo me, non può essere che quello. Dico ancora una cosa, per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco, che il mio non è un libro di storia, io non sono uno storico e non ho alcun interesse nel parlare di quegli eventi in termini storici, né tanto meno proporre tesi revisioniste. Il mio è un libro di “storie”, storie di vite, di persone, dei ragazzi che sono saliti su questi aerei, hanno compiuto imprese eroiche – perché è questo il termine giusto – e che molte volte ci hanno lasciato la pelle, e non è giusto che vengano dimenticati perché sono stati atti di enorme rilevanza non solo per l’Italia, ma per il mondo intero. — Certo, e a questo proposito mi viene in mente che leggendo il libro ci sono delle bellissime citazioni di Italo Balbo che parlano proprio della transvolata atlantica, quella del 1933, che sono dei pezzi di assoluta poesia nei quali Balbo descrive le sensazioni provate durante quell’impresa. Da dove è nata la scelta di prenderli e inserirli nel volume?

lc

— La scelta è dovuta a un motivo abbastanza ovvio, perché non si può, in un libro di questo genere e riguardante la mia collezione, non parlare delle transvolate atlantiche: quella del 1931, basata sulla “rotta del Sud” e quindi verso l’America del Sud, e quella del 1933, la transvolata decennale basata sulla “rotta del Nord” e quindi verso l’America del Nord. Ma sarebbe stato sicuramente presuntuoso e velleitario se io avessi cercato di raccontare la transvolata, l’hanno già fatto in tanti e hanno scritto dei bellissimi libri di storia. Così sono andato a rileggermi i libri di Balbo, Stormi in volo sull’oceano e La centuria alata, due testi senz’altro pieni della retorica dell’epoca, nei quali però l’aviatore racconta il viaggio attraverso immagini bellissime! Quindi non abbiamo fatto altro che prendere brevi citazioni che ripercorressero tutto l’itinerario, come se a raccontarlo fosse lo stesso Balbo, che in questo caso mi sembrava il più giusto interprete.

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1. Lucio Zanon di Valgiurata — Laura Cannavò


— Assolutamente! Rimarrei ancora su questa transvolata atlantica, che fa un po’ da spartiacque, come scrive anche Roberto Gentili, uno storico dell’aviazione, nell’introduzione del libro. Ma spartiacque tra cosa? Prima un’aviazione e un’industria aeronautica, come dicevi tu, eroiche e quindi positive, anche se utilizzate dal regime come strumento di propaganda – perché appunto simbolicamente rappresentavano la grande spinta, affascinante e coinvolgente e quindi da un certo punto di vista “utile” –, un momento eroico dell’aviazione e anche di successo mondiale, una sorta di Futurismo realizzato, perché si stavano concretizzando il punto di vista del volo e la velocità esaltati dai futuristi. Poi però succede qualcosa, si perde l’ingenuità, ancora Gentili ci parla proprio di “perdita dell’innocenza”, ma quando? Quando comincia la guerra, quando cioè questi oggetti diventano strumenti di morte, quindi con i bombardamenti in Etiopia e la guerra di Spagna, ancor prima della Guerra mondiale. La maggior parte degli aerei che fanno parte della tua collezione è di quel periodo, tu come ti sei rapportato a questa cosa?

lc

— È ovvio che la maggior parte degli aerei, delle storie, dei documenti di quell’epoca ha a che fare con la guerra, perché purtroppo il periodo è stato contraddistinto da un grande numero di conflitti – la Prima guerra mondiale, la guerra d’Etiopia, le guerre coloniali, la Guerra civile in Spagna, la Seconda guerra mondiale – è innegabile, così come è innegabile che una parte della spinta industriale all’aeronautica sia venuta proprio dalle necessità belliche, e cioè costruire mezzi più veloci, o più grandi, in grado di effettuare azioni sempre più tragicamente incisive. È un dato che bisogna accettare, ma a me interessa soprattutto raccontare storie, perché durante la guerra la gente continua a vivere e di certo non sceglie di combattere, ci si trova semplicemente coinvolta. I ragazzi che vengono chiamati alle armi magari avevano scelto l’aeronautica perché all’epoca era la cosa più bella e affascinante che si potesse fare: immagina che impatto potessero avere le imprese di Balbo, ventiquattro idrovolanti in formazione che nel 1933 arrivano a Chicago.

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— Ci sono foto bellissime…

— Oltre alle foto sono stati tributati loro onori che non ricevettero nemmeno i più grandi conquistatori: a Chicago c’è la Balbo Avenue e tuttora una certa formazione di aerei in volo viene denominata in inglese

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Quaderni del collezionismo — 3


a Balbo… I giovani quindi erano chiamati quasi naturalmente a questo tipo di carriera e solo dopo si sono trovati a dover combattere. Ci sono tanti libri, tanti titoli che mi vengono in mente che posso citare per tentare di spiegare questo aspetto, in particolare ricordo Obbedire e combattere, anche senza credere, che è la storia dei piloti italiani nella Seconda guerra mondiale. Ragazzi che salivano sugli aerei ed eseguivano gli ordini loro impartiti con atti di grandissimo eroismo, tant’è vero che perfino gli inglesi (queste cose poi spesso vengono maggiormente riconosciute fuori dalla patria che in patria) ce lo attribuiscono, e a questo proposito un altro titolo che mi viene in mente è un libro di Christopher Dunning, Courage Alone* perché quello che l’aeronautica italiana ha dato all’intero comparto e messo in campo nella Seconda guerra mondiale è proprio questo: “soltanto coraggio”. — Tra tutte queste storie eroiche, di coraggio, di giovani, qual è quella che secondo te è più emblematica, cioè quella alla quale sei più legato?

lc

— Ce ne sono tantissime! A me piace molto, anche se purtroppo è una storia tragica come quasi tutte queste storie, una che nel libro abbiamo intitolato Il cavaliere del settimo sigillo, richiamandoci al film di Ingmar Bergman, ed è la vicenda di Irnerio Bertuzzi. Quest’ultimo era un pilota di S.M.79,** forse il più noto dei nostri aerei della Seconda guerra mondiale, un trimotore, originariamente un bombardiere, poi adibito, nella seconda parte della sua vita, al ruolo di silurante. I siluranti compirono imprese straordinarie, soprattutto sfidando contraeree nemiche, ma anche accostandosi pericolosamente alle navi per lanciare i loro siluri. Bertuzzi riuscì incredibilmente a superare indenne la guerra finendo poi tra le fila della Repubblica Sociale, ma in maniera quasi casuale, come casuali furono i destini degli altri membri della stessa squadriglia: Buscaglia, l’inventore dei siluranti, finì al Sud, Faggioni e Beruzzi al Nord, ed erano commilitoni e compagni d’armi. Bertuzzi era sopravvissuto alla famosa

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* C. Dunning, Courage Alone. The Italian Air Force 1940-1943, Howell press, Charlottesville (va) 2009. ** Il Savoia-Marchetti S.M.79, detto “Sparviero”, era un trimotore ad ala bassa multiruolo, progettato come aereo da trasporto civile veloce. Impiegato per la prima volta nella Guerra civile spagnola nelle file dell’Aviazione Legionaria Italiana, la Regia aeronautica lo utilizzò durante la Seconda guerra mondiale in tutto il teatro del Mediterraneo, prima come bombardiere, poi come silurante. Restò in servizio, in Italia, fino al 1952.

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1. Lucio Zanon di Valgiurata — Laura Cannavò


azione della baia di Anzio, quando erano partiti nove o dieci siluranti e ne era tornato indietro solo uno, il suo. In fondo il destino che aspettava quei ragazzi era questo e loro lo sapevano: uscivano per un’azione, avevano contro decine e decine di caccia e il fuoco di sbarramento della contraerea a formare un muro. Lui riuscì a terminare la missione, sopravvivendo al fuoco di fila delle pallottole, finì la guerra, in seguito non ebbe una vita facile ma riuscì a impiegarsi nuovamente come pilota civile e a questo punto credo che abbia tirato un grande sospiro di sollievo, come a dire: “Ah, ce l’ho fatta, sono vivo!”. Invece diventò il pilota dell’aereo di Enrico Mattei e quindi forse potete intuire anche voi il finale: nel famoso incidente di Bascapè, che poi si scoprì essere stato un attentato, in cui Mattei morì, ai comandi c’era proprio Irnerio Bertuzzi. Dopo aver galoppato tutta la vita per sfuggire alla morte, si è presentato inconsapevole all’ultima partita a scacchi, proprio quando pensava di non dover più giocare. — Tornando alle fotografie degli aerei, devo dire che sono stati fotografati benissimo.

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— Allora bisogna citarne gli autori, Andrea Guermani e Margherita Borsano, che hanno fatto un lavoro straordinario.

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— E sono fotografati quasi come dei gioielli… C’è poi nel libro l’immagine di quell’enorme aereo, una specie di nave alata che doveva trasportare i passeggeri da una parte all’altra dell’oceano. A mio parere progettare un simile aereo in quel periodo ha un qualcosa di visionario, non credi?

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lz — Si tratta di un idrovolante, un Dornier x.* Una sorta di “nave volante”, come hai detto tu, che aveva uno scafo centrale che ricorda molto quello di un’imbarcazione, e poi un’enorme ala sopra, con dodici motori montati a coppie di due, uno spingeva e l’altro tirava. Ecco, pensate che questo aereo è stato concepito e realizzato nel 1929, quindi…

* Dornier Do x, idrovolante di linea a scafo centrale progettato dalla Dornier-Werke GmbH negli anni trenta e costruito dalla sua sussidiaria svizzera Doflung, in Italia dalla Costruzioni Meccaniche Aeronautiche sa. Degli esemplari italiani demoliti a fine servizio ne rimangono solo alcune parti conservate ed esposte al Museo del politecnico di Torino, nella sezione dedicata all’ingegnere Gabrielli.

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lc

— In piena crisi!

— Sì, in piena crisi. Inoltre immaginare di costruire un velivolo di questo tipo ma per fare cosa? Per far viaggiare: nell’idea originaria – l’aereo aveva tre ponti, quasi una nave da crociera – oltre cento passeggeri, in volo, attraverso l’Atlantico. Fu realizzato soltanto in tre esemplari: uno rimase in Germania e due li comprò l’Italia. Fece effettivamente una transvolata: possiamo dire quindi che almeno una volta il sogno originario fu realizzato e ci sono alcune foto veramente magiche, suggestive e incredibili, del Dornier x che sorvola New York, tra i grattacieli dell’epoca, un aereo maestoso che con questi dodici motori galleggia sopra la città e si avvia ad ammarare. Una sorta di “castello volante”, che mi fa venire in mente tante cose… Una volta ho parlato con il figlio di un pilota che aveva assistito al decollo del Dornier italiano, denominato “Umberto Maddalena” e di base al lago di Massaciuccoli, e mi ha raccontato che era una cosa spettacolare: il ruggito dei dodici motori e questa nave che si metteva piano in moto, in maniera lentissima, perché tirare su un gigante di quel tipo era molto, molto delicato. Il decollo degli idrovolanti è sempre molto rischioso, i galleggianti devono staccarsi lentamente, altrimenti si piantano nell’acqua e l’aereo si ribalta. Dei patemi d’animo del decollo ne parla a lungo anche Balbo nei suoi libri, anche se i suoi detrattori dicono che non era un grande pilota e che il pilota vero e proprio era il suo secondo, Cagna, che era sicuramente un “manico” assoluto… Balbo per esempio ricorda la partenza di notte da Bolama verso il Sud America di questi idrovolanti stracarichi, soprattutto di carburante, alla luce fioca di qualche galleggiante, e descrive bene l’angoscia di non doverlo tirare su troppo presto, perché l’aereo sarebbe caduto, né di lasciarlo puntare perché si sarebbe ribaltato.

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— Oggi mi stavi dicendo anche che questi piloti in realtà erano degli assoluti collaudatori…

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— Sì, non c’erano ovviamente le capacità e le possibilità di simulazione che ci sono oggi, quindi si disegnava, c’erano straordinarie capacità progettuali – qui siamo in casa fiat che ha scritto con i suoi progettisti pagine straordinarie – e i caccia e i bombardieri di Celestino Rosatelli, i caccia di Gabrielli sono delle fantastiche realizzazioni, però a un certo punto la prova del budino, come dicono gli inglesi, sta nel mangiarlo, quindi ci mettevano sopra un collaudatore e lo mandavano su. E ogni tanto succedeva lz

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1. Lucio Zanon di Valgiurata — Laura Cannavò


qualcosa che non avevano previsto: l’aereo magari era troppo pesante o con il carico aveva un comportamento diverso da quello che si aspettavano e avvenivano incidenti, anche piuttosto spesso. La storia dell’aeronautica italiana, della Regia, è costellata purtroppo di grandi promesse mancate. Ci sono tantissimi aerei che sono nati sotto i migliori auspici e sotto le migliori stelle, ma che poi alla prova dei fatti si sono rivelati inadatti o… — Come per esempio quello… come si chiamava quell’aereo che non “voleva volare”? Un aereo che descrivi come bellissimo: inutilmente bello!

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— È il Breda Ba.88,* il famoso “Lince”, un velivolo stupendo, una modernità di linee veramente impressionante, un aereo con straordinarie qualità estetiche e anche di grande successo, perché una volta decollato era in grado di andare molto veloce, quindi di vincere tutta una serie di gare di velocità. Il grande problema arrivò quando, sull’onda di questi successi, si pensò che potesse essere anche un ottimo aereo da combattimento e quindi cominciarono a metterci sopra un bel po’ di mitragliatrici e di carichi alari e l’aereo letteralmente non decollava più. Per rendere le cose più semplici decisero di mandarlo in un teatro di guerra notoriamente facile, il Nord Africa, così oltre a tutte le difficoltà già manifestatesi si aggiunsero anche la sabbia, l’aria rarefatta ecc. Alla prima missione parteciparono, se non ricordo male, in quattro: uno non riuscì proprio a decollare, gli altri non prendevano quota per cui si sollevarono, andarono dritti fino a quando non finì la benzina e poi fortunatamente riuscirono a riatterrare; uno fu anche bersagliato dalla contraerea, che non avendo mai visto un Ba.88 lo aveva preso per un Beaufighter! Le storie hanno sempre degli elementi un po’ particolari, a noi questa è piaciuta e l’abbiamo chiamata L’aereo che non voleva combattere perché abbiamo pensato che con quel comportamento l’aereo si stesse ribellando alla guerra!

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— Lucio racconta tantissime di queste storie nel suo libro, una per ogni oggetto, una per ognuno di questi modellini. Ma chi li costruisce? Dove si reperiscono?

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* Il Breda Ba.88 era un assaltatore bimotore, progettato dagli ingegneri Giuseppe Panzeri e Antonio Parano, prodotto dalla si Ernesto Breda e impiegato dalla Regia aeronautica durante la Seconda guerra mondiale.

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— Un po’ ovunque, ma diciamo che i più belli, quelli storici, erano fatti dalle stesse case costruttrici, che li realizzavano per scopi di marketing, diremmo oggi, quindi magari venivano portati alle fiere assieme all’aereo vero, oppure finivano sulla scrivania dei ministri dell’aria, dei gerarchi dell’epoca o dei comandanti dei vari stormi. In alcuni casi sono modelli realizzati, in modo un po’ più artigianale, dagli avieri, i quali, mentre aspettavano il ritorno dei loro capitani o in altri momenti morti facevano riproduzioni che poi regalavano ai loro piloti, in metallo, in legno.

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— E dove si trovano? Anche nei mercatini? Ti è mai capitato di dover combattere per conquistare un oggetto per la tua collezione? Che so, un aereo, ma anche un quadro…

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— Si trovano ovunque, a volte sono anche un po’ gli oggetti che trovano te, nel senso che oggi quando è noto che hai questa passione, questo tipo di interesse collezionistico, è molto semplice ricevere un’e-mail nella quale qualcuno ti dice “ho questa cosa o quell’altra”, ti manda una bella foto e tu capisci già se è il caso di andarla a vedere oppure no. Questa è certamente una strada. Poi c’è eBay – tutti abbiamo comprato qualche cosa su eBay – dove si trovano anche modelli o oggetti del genere, ovviamente bisogna prestare un po’ di attenzione alla provenienza e all’autenticità. Oppure le aste: qui siamo a Torino e Bolaffi è una casa d’aste che, oltre a essere specializzata in francobolli e monete come tutti sanno, si occupa di manifesti e anche un po’ di modellini. Per rispondere alla seconda parte della tua domanda, ricordo bene un episodio perché è stato abbastanza doloroso, non in occasione dell’acquisto di un aereo, ma per un manifesto di transvolate, una vera e propria battaglia con un collezionista italo-americano: mi interessavano due manifesti e io come sempre, come fanno tutti i collezionisti, mi ero posto dei limiti, bisogna porseli, io infatti non vado mai alle aste di persona perché so che una volta lì poi dopo è impossibile fermarsi e quindi in genere contratto per telefono. In questo caso però, pur avendo solo un contatto telefonico, già sul primo manifesto mi ero spinto largamente oltre, mentre l’altro continuava a rilanciare, e a un certo punto ho pensato: “Glielo lascio, speriamo che lui si sia placato e il secondo non lo voglia più!”. E invece voleva anche il secondo! Ma allora mi sono detto: “No! Questo qui non te lo lascio!”. Per fortuna non c’era lui dall’altra parte ma un suo rappresentante italiano, che a un certo punto non aveva più possibilità di contrattare,

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1. Lucio Zanon di Valgiurata — Laura Cannavò


quindi con mia grande gioia si è dovuto fermare. Quel pezzo oggi è esposto all’Officina Grandi Riparazioni alla mostra “Fare gli italiani”, a dimostrazione del suo valore. — La bellissima dedica del libro recita: «Dedicato ai ragazzi di vent’anni di ieri e di oggi». Io quindi ti chiedo: perché i ragazzi di vent’anni oggi dovrebbero interessarsi a un volume come questo?

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— Perché i ventenni di oggi, secondo me, dovrebbero interessarsi alla vita dei ragazzi dei ventenni di ieri: io ovviamente ho pensato anche ai miei figli, che hanno più o meno quell’età, una è qui presente. Messe a confronto, le loro storie sono talmente distanti e lontane che se qualcuno non aiuta i ragazzi di oggi, non li stimola e non gliele racconta, è impossibile che ci pensino da soli, perché vivono nell’era della rapidità, dei viaggi virtuali, delle comunicazioni istantanee. Come faccio quindi a raccontare a mia figlia che una volta per andare in America ci volevano cinque giorni via mare e solo l’idea di andarci in aereo era impensabile? Come faccio a dirle che uno degli obiettivi per cui si cercò un collegamento aereo era quello di riuscire a portare la posta a destinazione, perché altrimenti rischiava di perdersi, dato che le vie di comunicazione erano precarie? La dedica quindi ha un doppio destinatario, ci sono anche i ragazzi di ieri, perché ci terrei nel mio piccolo che la loro memoria non fosse dimenticata. Forse è po’ retorico, ma i collezionisti, gli appassionati mi capiranno: i personaggi del libro li sento molto reali, presenti, certo so come erano…

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— Come se li avessi conosciuti personalmente…

— Certo, so che faccia avevano, cosa pensavano, cosa facevano… In qualche caso ho anche provato a cercare i discendenti, per esempio a Roma ho conosciuto la figlia di Bruno Mussolini, che morì a ventitré anni sul Piaggio P.108,* e mi sono fatto raccontare un po’ di cose. E poi mi rivolgo ai ragazzi di oggi. Mi piacerebbe che pensassero a un mondo diverso, in cui le cose si facevano con un ritmo pacato, una lentezza maggiore, in cui sperimentare era molto rischioso, e che certe imprese, che oggi sembrano normali, allora erano assolutamente eroiche.

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* Piaggio P.108, unico bombardiere strategico quadrimotore progettato da Giovanni Casiraghi e prodotto dall’azienda italiana sa Piaggio & Co.

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Quaderni del collezionismo — 3


— Certo c’era più lentezza, ma quei ragazzi in realtà cercavano esattamente il contrario, cioè la velocità, la modernità, il gusto dell’avventura e dell’estremo, proprio il contrario della lentezza, no? Un po’ come tutti i ventenni del resto! lc

— La velocità di allora oggi può sembrare ridicola, invece era straordinaria per quei tempi. Pensa che un altro aereo mitico della Regia, il famoso Macchi M.C.72,* sul quale Agello stabilì il record mondiale. Ovviamente io allora non c’ero e l’aereo purtroppo oggi non si può provare, però ti assicuro che è un bellissimo bolide rosso, lunghissimo, che aveva due motori uno in fila all’altro e il pilota stava dietro. Quando l’aereo cominciava, con due eliche controrotanti, ad alzarsi, il pilota non vedeva quasi più niente, aveva grande difficoltà a tenerlo in linea e a farlo sollevare, dovendo poi volare a bassissima quota per raggiungere i 700 km/h… Erano cose da pazzi insomma, da “manici”… un po’ da eroi!

lz

— Stasera hai accennato varie volte a una sorta di rimozione di questo periodo, almeno dei suoi aspetti positivi, e al fatto che non c’è un riconoscimento delle storie, degli eroi, delle persone…

lc

— L’ho detto senza alcuna polemica politica. Tanti altri paesi sono orgogliosi del loro passato quando questo ha fatto registrare imprese straordinarie. Ricordavamo prima che a Chicago c’è Balbo Avenue, mentre a Orbetello, accidenti, che era la base di questi idrovolanti, non c’è nulla, nemmeno una targa, neanche un S.M.55, nemmeno un museo delle transvolate e, santo cielo!, stiamo parlando di imprese incredibili. Non è

lz

* Macchi-Castoldi M.C.72 è un idrovolante da corsa con configurazione a scarponi creato nel 1930. Il 10 aprile 1933 il maresciallo Francesco Agello, decollato a bordo dell’M.C.72 siglato MM.177, effettuò cinque giri del circuito prescelto sul lago di Garda alla velocità media di 682,078 km/h; dopo l’ultimo passaggio Agello, resosi conto del successo, si lanciò verso l’idroscalo colmo di spettatori concludendo con una secca virata a coltello come segno di saluto. Il successivo e ultimo traguardo fu fissato al superamento del muro dei 700 km/h, e anche questo obiettivo fu raggiunto: il 23 ottobre 1934 Agello, a bordo dell’M.C.72 siglato MM.181, con una velocità media di 709,209 km/h batté il suo stesso record; quest’ultimo primato rimane da allora imbattuto per quanto concerne la categoria idrovolanti propulsi da motore alternativo. Lo stesso M.C.72 MM.181, l’ultimo rimasto dei cinque esemplari prodotti, è gelosamente custodito nel Museo storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, sul lago di Bracciano (Roma).

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giusto annullarne il ricordo perché il periodo è stato cancellato dalla storia. Il giudizio storico rimane, è quello, nessuno vuole metterlo in discussione. Però, questa gente, questi ragazzi, queste imprese ricordiamole! Dimenticarle è sbagliato! — Per esempio in occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, appena trascorso. Quella cosa di cui dicevi di Orbetello, che hai già scritto altrove e che c’è anche nell’intervista che fa da prefazione al volume, è un pensiero che hai cercato di concretizzare in qualche modo, magari parlando con gli amministratori locali? Potrebbe essere una buona idea, no?

lc

— Certo, quando ti occupi di queste cose poi trovi intorno a te delle persone, che arrivano una alla volta e condividono con te questa passione, quindi cominci a cercare di realizzare qualcosa, anche piccola… Questo libro è un piccolo gesto per restituire un po’ di quella memoria. In Italia c’è un museo bellissimo a Vigna di Valle, dove ci sono degli straordinari aerei, e adesso ne è stato fatto uno vicino a Malpensa, Volandia, che ha una finalità po’ più “turistica”, anche se qualcosa di interessante c’è pure lì. Sicuramente Orbetello è il posto dove la storia invocherebbe un museo e per quanto mi riguarda mi piace pensare che a un certo punto la mia collezione possa finire in un luogo dove gli oggetti siano visti, apprezzati, amati, così come li amiamo noi appassionati collezionisti.

lz

— Quindi tu li daresti a un museo, ti separeresti da loro, se potessero essere conservati in un luogo di questo tipo: ma a quale condizione?

lc

— Certo che me ne separerei, perché ho capito che – prima parlavamo di prima, seconda e terza fase – la terza fase è la fase della condivisione, del mostrare queste cose, e quindi se trovassi una collocazione all’interno della quale potessero essere apprezzate ne sarei felicissimo. Non voglio che finiscano in uno scantinato, ecco, questo non lo accetterei… perché purtroppo in Italia, dobbiamo dirlo, anche altrove ma in Italia in particolare, i grandi patrimoni artistici finiscono un po’ nel dimenticatoio. Se devono finire in una cantina preferisco che stiano con me, perché non sono in cantina e sono apprezzati. Poi ci penseranno Sofia e Ignazio a decidere cosa farne! Comunque, a parte gli scherzi, se in Italia si facesse un bel museo le cederei molto, molto volentieri.

lz

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— Non so se qualcuno del pubblico vuole fare delle domande, raccontare qualche episodio o ha qualche curiosità, ecco c’è una mano che si è alzata…

lc

p — Ho lavorato per parecchio tempo in ambito aeronautico, prima in fiat Aviazione, poi in Alitalia, infine in Alenia, e sono anche un collezionista, un appassionato di modellismo, soprattutto navale, ma anche gli aerei mi piacciono molto. Appena sono andato in pensione ho cercato di darmi da fare per dare una scossa alla città di Torino, che per quanto riguarda l’aeronautica ha un patrimonio pazzesco: il primo volo è avvenuto qui a Mirafiori, le prime industrie aeronautiche erano torinesi e poi sono confluite tutte in fiat Aviazione, abbiamo un gruppo di appassionati che restaurano velivoli reali, in scala 1:1, e che hanno messo insieme una quindicina di aeroplani fra cui il G.55,* il Macchi 50 e tanti altri, abbiamo presso l’Alenia, ex fiat Aviazione, tutta una collezione di disegni che risalgono ai Bleriot ix che costruivamo nella Prima guerra mondiale, abbiamo settantadue motori aeronautici presso il Politecnico… perché non possiamo realizzare un museo aeronautico a Torino?

lc

p

— Questa è una vera e propria proposta!

— E avremmo anche un posto: il Palazzo del Lavoro!

— Infatti non ho niente da aggiungere, anzi sottoscrivo! Anche il posto mi sembra molto adatto! In fondo è quello che cerchiamo di fare un po’ tutti, creare un certo interesse e uno scambio su temi nei quali, come giustamente lei ha ricordato, la nostra città eccelle e che sarebbe giusto valorizzare. Qui a Torino in genere siamo dei grandi criticoni, io per primo mi lamento di tante cose che riguardano la nostra città, però dobbiamo anche riconoscere in questi anni è diventata sicuramente più bella e più piacevole per i turisti. Ha moltissimi centri di attrazione, la Pinacoteca Agnelli è uno di questi, il Museo dell’Automobile, recentemente restaurato, il Museo Egizio, il Museo del Cinema… quindi un Museo dell’Aviazione ci starebbe veramente benissimo!

lz

* Il fiat G.55, detto “Centauro”, era un aereo da caccia diurno, monoposto e monomotore, da intercettazione e superiorità aerea, progettato nel 1942 dall’ingegnere Giuseppe Gabrielli, da cui la “G” della sigla.

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1. Lucio Zanon di Valgiurata — Laura Cannavò


— Io innanzitutto volevo ringraziarla moltissimo per tutte le cose magnifiche che ci ha detto, e aggiungere solo un paio di cose. La prima ha a che fare con gli eroi, molti di questi sono stati anche torinesi e io ne ho conosciuti due personalmente, Giorgio Solaroli e Vittore Catella, e devo dire che una cosa che mi ha sempre impressionato è che non li ho mai sentiti raccontare o vantarsi delle loro imprese, pur avendo vissuto episodi straordinari e ricevuto diverse decorazioni importanti. La seconda cosa è che, grazie a una decisione del dottor Marchionne, nel 2011 abbiamo riaperto il Centro storico fiat alle visite, tutte le domeniche con ingresso gratuito, dove c’è una collezione di modellini di arerei, molti dei quali purtroppo avrebbero bisogno di restauro. Ci sono poi i disegni di Rosatelli e di Gabrielli e moltissime fotografie, c’è anche un G91 al vero, e poi anche tantissimi filmati, circa duecento ore totali, di cui molti riguardano l’aviazione, oltre naturalmente a tutte le altre produzioni fiat. Per vedere i filmati però è meglio prenotare, magari in un giorno feriale. Tutto questo, penso, si colloca sulla scia di quello che dicevamo prima, e cioè che Torino ha molto e ha dato molto anche alla storia dell’aviazione e forse dovrebbe vantarsene un po’ di più, quindi ottimi questo libro e questa presentazione se risvegliano l’interesse, come spero, della città e della regione.

p

lc

— Grazie! Quindi abbiamo già un’idea per un museo, abbiamo…

lz

— Abbiamo già due musei…

lc

— Uno a Orbetello sulla transvolata atlantica e uno a Torino…

— A questo proposito mi riallaccio a quello che diceva il dottor Pralormo, che ha citato Solaroli: quando abbiamo presentato la mostra è venuto il figlio di Solaroli che mi ha detto, visibilmente commosso, davanti a un’elica in mio possesso di un Nardi 305:* «Su questo aereo ha volato mio padre!». Sta qui la risposta alla domanda che mi facevi prima, il “che cosa si prova?”, si prova questo! Si prova l’emozione di ritrovare un pezzo di vita, di restituire un ricordo a una persona che lo aveva momentaneamente perduto, e questo è molto bello e gratificante per un collezionista di storie come me.

lz

* Nardi FN.305, monoplano da addestramento caccia e trasporto leggero, sviluppato dall’azienda italiana Fratelli Nardi negli anni trenta e prodotto dalla Rinaldo Piaggio.

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Quaderni del collezionismo — 3


— Di “storie”, ma poi alla fine anche di “storia”, perché storie e storia hanno moltissime cose in comune… la macrostoria passa attraverso le piccole storie!

lc

— Diciamo che la grande storia la conosciamo già, no? Poi al suo interno ci sono tutte queste piccole storie, di persone comuni, come noi, che si sono trovate dentro a eventi spesso più grandi di loro e che hanno agito per spirito di obbedienza, per disciplina, per eroismo, per un ideale, magari sbagliato, magari retorico, ma comunque molto sentito, facendo cose assolutamente straordinarie. Io non ho paura a parlare di eroi che hanno cognomi anche un po’ ingombranti, e credo onestamente che la cosa più giusta e più bella su Bruno Mussolini l’abbia scritta suo padre nel famoso libro Parlo con Bruno, quando dice: «Ci sono uomini che sono nati per volare, tu avevi le ali». Bruno Mussolini è morto a ventitré anni dopo aver realizzato tantissime imprese come pilota, tutto il resto non importa, solo il suo valore di aviatore! E Roberto Festorazzi, nel suo libro a riguardo,* scrive che già a diciotto anni Bruno aveva capito che il suo destino era il volo, che la sua passione era quella e che vi avrebbe dedicato tutta la sua vita, tutto il resto è venuto di conseguenza. Queste sono le cose che mi interessa capire, che mi interessa vivere e ripercorrere dal di dentro.

lz

— Ricordare, anche per strapparle all’oblio, alla dimenticanza delle persone, ma anche della ricostruzione storica in senso più ampio. Quindi, partita da una raccolta di aerei artigianali, passata al volo, alla collezione, alla mostra, al libro, questa passione sta camminando e non sappiamo dove arriverà! Già progettiamo dei musei… queste idee poi alla fine vanno un po’ per conto loro, no?

lc

lz — Eh sì, anch’io non so dove arriverà… A dire la verità non sapevo nemmeno che sarebbe arrivata fin qua, perché all’inizio con Chiara Massimello il progetto era quella di pubblicare un catalogo sulla mia collezione. Ma un catalogo è un elenco di fotografie con delle didascalie e alla fine siamo arrivati a fare una cosa un po’ diversa. Io le persone che hanno contribuito con me alla nascita di questo progetto le chiamo “la mia squadriglia dei sorci verdi”, perché anche noi siamo “quelli dei sorci verdi”, e nella pagina

* R. Festorazzi, Bruno e Gina Mussolini. Un amore del ventennio, Sperling & Kupfer, Milano 2007.

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1. Lucio Zanon di Valgiurata — Laura Cannavò


che apre il libro c’è un ringraziamento, ma c’è anche scritto «pronti a riaccendere i motori». Noi siamo sempre così, pronti a partire per raggiungere un’altra tappa di questa avventura straordinaria. lc

— C’è un’altra domanda, un’altra mano che si alza…

p — Sono Franco Scarabellotto, figlio della prima medaglia d’oro dell’ultima guerra. Mio padre Valerio Scarabellotto fu inviato col suo stormo, dopo essere stato in Africa e in Spagna, a combattere sull’isola di Malta, era uno dei membri del cosiddetto aeroporto “fantasma”; volava sui SavoiaMarchetti S.M.79. Ho molta documentazione che desidererei farle vedere, magari in futuro, qualcosa ho portato anche qui…

lz

— Lei mi fa un regalo!

p — Io invece vorrei ricordare – perché Torino è una città fatta per ricordare e quando si parla di aviazione a Torino si dice Mirafiori – qualcosa che probabilmente è poco noto. All’angolo di corso Ferrucci con la Spina c’è una lapide sul muro di una piccola palazzina che si affaccia su una strada che si chiama via D’Annunzio – scommetto che tutti sanno dov’è – e su quella lapide c’è scritto che lì dietro si trovava un campo d’aviazione dove volò il primo aereo progettato da un italiano. Vale la pena di andare a fotografarla! lz — Assolutamente! Questo per me è un altro regalo perché non lo sapevo! Grazie.

lc

— Bene, tantissimi ricordi, tantissime idee… c’è un’altra domanda.

— All’inizio lei ha accennato che questi oggetti sono in mostra. Dove e qual è l’orario? p

— Questo è facile! Sono in mostra a partire da domani – la mostra l’abbiamo allestita ieri – alla Galleria Zabert, piazza Cavour 10, e l’orario dovrebbe essere 10.30-13.00, 15.00-18.00. C’è qui mia madre la quale suggerisce che, visto che abita nello stesso palazzo, se dovesse trovare la mostra chiusa, può suonare a Zanon: la mamma scende, le offre un caffè e le apre la porta. Dura circa un mese, poi chissà!

lz

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— Se non ci sono altre domande, inizierei con i ringraziamenti. Ringrazio tutti per essere venuti, grazie Lucio e grazie a tutti voi. Il libro naturalmente è acquistabile, e desidero ricordare che l’incasso ricavato dalla sua vendita sarà devoluto in beneficienza all’abio – Associazione Bambino In Ospedale. Quindi chi lo compra fa anche una buona azione a favore di un’associazione che si occupa dei piccoli ricoverati. Grazie a tutti! lc

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1. Lucio Zanon di Valgiurata — Laura Cannavò


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