Robert Rauschenberg. Un ritratto

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«Ammiro Calvin Tomkins, come Berenson ammirò Vasari, perché è un critico generoso, cordiale e perspicace.» The New York Times Book Review «Come cronista delle avanguardie per il New Yorker, Calvin Tomkins si è specializzato nel rendere accessibili i lavori esoterici degli artisti.» The Washington Post Book World

Calvin Tomkins

Calvin Tomkins è critico d’arte del New Yorker dove pubblicò il pr imo profilo di Rober t Rauschenberg nel 1964. Ha scritto numerosi libri fra cui The Bride and the Bachelors: Five Masters of the Avant-Garde e Duchamp: a Biography. Vive e lavora a New York

Robert Rauschenberg. Un ritratto

Artista fra i più innovativi e influenti della sua generazione, Robert Rauschenberg (Port Arthur, 1925 – Captiva, 2008), è figura chiave nei cambiamenti radicali che animano l’arte visiva americana dalla fine degli anni cinquanta, nel periodo di transizione dall’Espressionismo Astratto alla Pop Art. Nato in Texas e di s a n g u e c h e r ok e e d a p a r t e d i m a d r e, Rauschenberg compie i suoi primi passi nel mondo dell’arte sfidando con audacia ogni presupposto. Dal primo soggiorno-studio a Par igi all’esper ien za for mativa di Black

Foto di copertina: Robert Rauschenberg, 1969 © Malcolm Lubliner / Corbis

Calvin Tomkins Font: Futura heavy Colori: Pantone

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Robert Rauschenberg Un ritratto

Mountain College sotto Joseph Albers, dal viaggio a Roma insieme a Cy Twombly al sodalizio con John Cage e Merce Cunningham fino al Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1964 che lo consacra come artista riconosciuto a livello internazionale, il suo percorso esce dai tracciati convenzionali e si colloca nel campo di una sperimentazione che infrange ogni regola, trasformando lo spazio bidimensionale del dipinto in un ricettacolo di materiali eterogenei. Ritagli di giornale, pezzi di stoffa, fotografie, objets trouvés, nulla è escluso dai combine paintings, creazioni ibride a metà strada fra pittura e scultura, che coniugano l’amore per l’oggetto di rifiuto, ereditato dal collage dadaista, con la pennellata astratto-informale. Calvin Tomkins ci offre uno straordinario spaccato della rivoluzione che ha visto l’arte uscire da musei e gallerie per proiettarsi al centro dello scenario sociale; ce ne presenta i protagonisti: gli esponenti della vecchia guardia Pollock e de Kooning, le nuove leve Jasper Johns, Frank Stella e Andy Warhol, affiancati da mercanti e galleristi quali Betty Parsons, Leo Castelli e la mecenate Peggy Guggenheim; documenta l’ascesa che ha portato ai vertici dell’arte e del successo l’artista che più di ogni altro, in questo contesto, ha mirato a un’arte cumulativa, l’incontenibile innovatore che disse di voler creare una situazione «in cui ci sia tanto spazio per l’osservatore quanto per l’artista».

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Calvin Tomkins

Robert Rauschenberg Un ritratto Traduzione di Irene Inserra e Marcella Mancini



1 Venezia 1964

Più di una volta nel corso della caotica settimana che precedette l’inaugurazione, Alan Solomon, commissario per gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia del 1964, ebbe la netta impressione che troppe persone, in troppe lingue, si preoccupassero di dirgli che cosa fare. Qualcuno, come la sua vice Alice Denney, abituata a parlargli schiettamente, pensava che fosse troppo aggressivo ed esigente. Leo Castelli, che godeva di una certa influenza perché la sua galleria newyorkese rappresentava sia Robert Rauschenberg sia Jasper Johns, riteneva che non fosse abbastanza combattivo. Solomon trovava poi altrettanto irritanti le dicerie secondo cui era Castelli a gestire realmente l’organizzazione della mostra americana di quell’anno, aiutato dall’astuta ex moglie Ileana Sonnabend, direttrice di una galleria d’arte a Parigi e abile stratega. A pagare le conseguenze di tutto ciò fu Robert Rauschenberg, papabile vincitore del prestigioso premio internazionale di pittura (mai assegnato fino ad allora a un artista americano), che all’improvviso corse il rischio di essere squalificato per una serie di errori attribuibili all’inesperienza o all’aggressività di Solomon, se non a entrambe le cose. Il problema si pose perché soltanto uno dei ventidue lavori di Rauschenberg era esposto nel padiglione ufficiale degli Stati Uniti, mentre gli altri erano in mostra nelle sale dell’ex consolato americano sul Canal Grande. Solomon credeva di aver risolto ogni complicazione mesi prima.1 Il padiglione statunitense era del tutto inadeguato, un edificio in finto stile georgiano con ridicole colonne di proporzioni esagerate e uno spazio interno molto ridotto. Quasi tutti gli americani che visitavano la Biennale, la più antica e prestigiosa delle grandi esposizioni d’arte europee, rimanevano sorpresi e contrariati nel vedere che il padiglione del loro paese era molto più piccolo rispetto a quelli di Francia, Gran Bretagna, Germania e addirittura di quello dei paesi Scandinavi. Era stato costruito nel 1929 con i fondi di Grand Central Art Galleries, un centro d’arte privato di New York che finanziò la parteci-

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pazione statunitense alla Biennale finché non fu sostituito dal Museum of Modern Art nel 1948. Quando il museo decise di sospendere i finanziamenti nel 1962 adducendo a pretesto la mancanza di fondi, intervenne finalmente il governo federale (tutti gli altri paesi godevano di sovvenzioni statali), che affidò la responsabilità dell’organizzazione alla United States Information Agency (usia), all’epoca diretta da Edward R. Murrow. Anziché limitarsi a sostenere l’onere economico delegando ancora al Museum of Modern Art il compito di progettare la manifestazione ogni due anni, l’usia fece le sue ricerche nel mondo dell’arte e offrì l’incarico di preparare l’edizione del 1964 a Solomon, un brillante studioso che già in qualità di direttore del Jewish Museum di New York aveva dato prova di possedere un vero talento per gli allestimenti e una spiccata simpatia per le più innovative tendenze dell’arte americana (Solomon aveva inaugurato il proprio mandato al Jewish Museum con una retrospettiva su Rauschenberg che contribuì a fare dell’artista una sorta di eroe della nuova generazione e nel 1964 avrebbe organizzato una mostra di Johns altrettanto importante). Per preparare l’esposizione vene14

ziana Solomon chiese e ottenne carta bianca e, soddisfatto sia della competenza dei rappresentanti dell’usia con cui si era confrontato sia di quello che considerava il nuovo orientamento culturale dell’amministrazione Kennedy, accettò l’incarico. Nello stesso periodo − era il 1963 − si discusse anche della possibilità di ingrandire il padiglione americano a Venezia. L’architetto Philip Johnson si era offerto di progettare gratuitamente l’ampliamento e l’usia aveva mostrato un certo interesse per la questione. L’assassinio di John F. Kennedy, avvenuto in autunno mentre Solomon era in viaggio per Venezia dove avrebbe preso gli accordi preliminari, mandò a monte il progetto. Durante il periodo di transizione a Washington, gli stanziamenti di fondi furono sospesi a tempo indeterminato e poiché mancavano soltanto sei mesi all’inaugurazione della Biennale non ci sarebbe stato tempo di fare nulla. Sconvolto dalle notizie provenienti da Dallas e incerto se proseguire nella missione o tornare subito in patria, Solomon giunse a Venezia e incontrò i funzionari della mostra. Si recò ai Giardini, l’area espositiva permanente all’estremità orientale della città, per ispezionare il padiglione degli Stati Uniti che lo colpì per la totale inadeguatezza rispetto al genere di allestimento che aveva in mente. Aveva saputo che alcuni spazi del vasto padiglione Italia potevano essere offerti ad altri paesi, ma quando aveva chiesto ulteriori delucidazioni gli era stato risposto che erano già state presentate numerose richieste. Solomon domandò allora se fosse possibile esporre parte delle opere americane in un


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edificio non compreso nella sede della Biennale. La cosa era fattibile, gli venne detto. Dopo aver visitato diversi spazi, ebbe modo di vedere l’ex consolato degli Stati Uniti sul Canal Grande, di fronte all’hotel Gritti, e adiacente al tozzo e piuttosto brutto palazzo di Peggy Guggenheim. Chiuso ufficialmente un mese prima per effetto di una campagna di risparmio avviata dal Dipartimento di Stato, l’edificio apparteneva ancora al governo americano e i suoi grandi ed eleganti saloni sembravano fatti apposta per ospitare una mostra. Dopo che il professor Mario Marcazzan, presidente della Biennale, lo ebbe rassicurato a sufficienza sul fatto che ogni dipinto esposto in quella sede avrebbe fatto ufficialmente parte dell’esposizione statunitense, Solomon misurò con attenzione le sale del pianterreno e tornò a New York per programmare l’evento. I suoi progetti, una volta sviluppati, si rivelarono come di consueto ambiziosi. Solomon voleva allestire una mostra che rivelasse all’Europa ciò che l’arte americana era diventata negli ultimi dieci anni, un po’ come era accaduto con l’Armory Show del 1913 negli Stati Uniti. Poiché la prima e pioneristica generazione degli espressionisti astratti aveva già trovato spazio nelle Biennali precedenti – nel 1950 c’era stata una collettiva con Jackson Pollock, Willem de Kooning e altri, nel 1952 una personale di de Kooning – Solomon decise di puntare su quelli che considerava i due principali sviluppi di quel movimento: il puro astrattismo cromatico di Morris Louis e Kenneth Noland e i dipinti e gli assemblaggi estremamente complessi di Rauschenberg e Johns, nei quali le tecniche dell’Espressionismo Astratto venivano applicate a soggetti presi dalla vita quotidiana. Oltre a questi artisti “germinali”, Solomon avrebbe incluso altri quattro giovani pittori: Claes Oldenburg, Jim Dine, Frank Stella e John Chamberlain. In Europa, per lo meno, Rauschenberg era già noto. Ancora ritenuto una sorta di bête noire in America, dove la prima generazione di espressionisti astratti e la maggior parte dei critici consideravano come una beffa di cattivo gusto i suoi assemblaggi più stravaganti in cui comparivano cianfrusaglie quali un pollo imbalsamato o un caprone con un copertone attorno alla vita, il giovane artista texano aveva di recente suscitato una notevole attenzione in ambito europeo. Ileana Sonnabend gli aveva organizzato due personali a Parigi nel 1963, mentre nel febbraio del 1964 la retrospettiva allestita presso la Whitechapel Art Gallery a Londra aveva superato ogni record di visitatori, spingendo il critico del Sunday Telegraph a definire Rauschenberg “il più importante artista americano dopo Jackson Pollock”. Il successo europeo di Rauschenberg fu uno dei fattori che

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indussero Solomon a convincersi che avrebbe potuto essere lui il primo pittore americano a vincere la Biennale. Da sempre il sistema di assegnazione dei premi alla Biennale suscitava un’accesa lotta politica tra le varie nazioni partecipanti.* Il regolamento prevedeva l’attribuzione di due premi internazionali, solitamente uno per la pittura e uno per la scultura (nel 1964 ammontavano a una somma di 3.200 dollari ciascuno). Il Comune di Venezia, inoltre, premiava i principali artisti italiani e nel corso della manifestazione venivano assegnati svariati altri riconoscimenti. I più importanti, tuttavia, erano i premi internazionali e fino ad allora soltanto un artista americano, lo scultore Alexander Calder, ne aveva vinto uno, nel 1952. In realtà, gli unici due americani ad aver ottenuto un qualche riconoscimento per la pittura alla Biennale erano stati Mark Tobey nel 1958 e James Abbott McNeill Whistler nel 1895, anno in cui la mostra era stata inaugurata. Dopo la Seconda guerra mondiale, il Gran Premio per la pittura era andato quasi senza eccezioni ad artisti già molto affermati della Scuola di Parigi: Georges Braque nel 16

1948, Henri Matisse nel 1950, Raoul Dufy nel 1952 (l’anno in cui gli Stati Uniti erano rappresentati da de Kooning), Max Ernst nel 1954, Jacques Villon nel 1956, Jean Fautrier e Hans Hartung nel 1960 (in quell’edizione non venne assegnato alcun premio per la scultura) e Alfred Manessier nel 1962. Le giurie della Biennale non avevano prestato la benché minima attenzione alla spettacolare ascesa della Scuola di New York, che dalla fine degli anni quaranta aveva prodotto le opere più significative dell’arte contemporanea e trasformato New York nella nuova capitale dell’arte internazionale, esercitando un’influenza tale da far apparire la maggior parte dei dipinti esposti all’edizione del 1964, padiglione dopo padiglione, come una sbiadita imitazione di Pollock o de Kooning. Solomon sentiva che l'opportunità di cambiare la situazione era a portata di mano, se non fosse stato per quella parte della giuria intenzionata a squalificare Rauschenberg perché le sue opere non erano esposte nella sede della Biennale. Il commissario americano aveva allestito una piccola ma straordinaria retrospettiva dell’artista – ventidue lavori tra dipinti e assemblaggi – nelle sale del consolato, che ospitavano anche altri dipinti di Johns, Stella e Dine nonché alcune sculture di Oldenburg e Chamberlain. All’interno del padiglione statunitense ai Giardini erano esposti i cerchi concentrici e i galloni di Noland, come pure le velature di colore dilavato

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I premi furono aboliti nel 1970.


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di Morris Louis. Quasi tutti concordavano sul fatto che Solomon avesse realizzato uno splendido allestimento, ma adesso il professor Marcazzan sosteneva che l'aver concesso al commissario statunitense di utilizzare un edificio esterno alla sede della Biennale non implicava che i lavori lì esposti fossero ammessi al concorso. Il ruolo di Marcazzan comportava la selezione di sette giurati, un esercizio di abilità diplomatica in virtù del quale nessun paese doveva avere la sensazione che i propri interessi fossero stati trascurati. Tra le candidature avanzate dai commissari dei trentaquattro paesi partecipanti, il professore aveva scelto due italiani, un brasiliano, un polacco, un olandese, uno svizzero e – all’ultimo momento e a quanto pare sotto forti pressioni provenienti da più parti – un americano, Sam Hunter, presidente del dipartimento d’arte della Brandeis University e storico dell’arte di chiara fama. Hunter aveva convinto gli altri giurati a visitare la mostra del consolato, ma il presidente della giuria aveva fatto sapere che non avrebbe accettato di premiare opere esposte al di fuori della sede ufficiale (in effetti ai Giardini c’era un piccolo Rauschenberg, sistemato in un prefabbricato di compensato insieme a singoli lavori degli altri artisti presentati al consolato, ma nessuno credeva che la giuria potesse assegnare il premio in base a un solo dipinto). Solomon apprese che nel corso di una prima votazione quattro giurati su sette si erano espressi a favore di Rauschenberg, ma il presidente aveva minacciato di dimettersi per protesta. La situazione rimaneva incerta. Correva voce che la giuria potesse scendere a compromessi e premiare Noland, in omaggio alla complessiva superiorità della pittura americana. Non appena Solomon lo venne a sapere, annunciò che nel caso di un’eventuale squalifica di Rauschenberg gli Stati Uniti si sarebbero ritirati dal concorso. Si trattava del tipico pasticcio veneziano, forse peggiore di quello avvenuto nel 1962, quando il pittore canadese Jean-Paul Riopelle aveva scoperto che il premio era stato assegnato al francese Alfred Manessier solo mentre si stava avviando al ricevimento organizzato per la sua presunta vittoria. Tutto ciò infastidiva Solomon, che si considerava sufficientemente abile e scaltro e con la sua barba scura ben curata, gli occhi neri penetranti e la sempre maggiore padronanza delle parolacce italiane poteva persino essere scambiato per un veneziano. Si faceva vedere di rado al Caffè Florian in piazza San Marco, principale luogo d’incontro degli addetti della Biennale, e non cenava neppure All’Angelo o alla Colomba, i ristoranti di moda quell’anno. Al Caffè Florian Leo Castelli e la sua seconda moglie

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francese facevano salotto a un tavolo affollato, ricevendo e dispensando le ultimissime notizie e congetture, mentre la prima moglie Ileana presiedeva il tavolo accanto in compagnia del secondo marito Michael Sonnabend. Secondo le ultime informazioni il premio per la pittura sarebbe stato assegnato al francese Roger Bissière o al belga Karel Appel; a quanto si diceva quello per la scultura era in bilico tra il francese Jean Ipousteguy e Zoltan Kemeny, un esule ungherese che esponeva nel padiglione svizzero. La vittoria di quest’ultimo era tanto probabile che tutte le sue sculture in mostra erano state vendute, a dimostrazione di quanto fosse importante, secondo i criteri grossolani del mercato dell’arte, aggiudicarsi uno dei premi più ambiti della Biennale. Ileana Sonnabend, formidabile stratega a dispetto dei modi sobri, mostrò segni d’insofferenza quando l’ennesimo latore di notizie le ribadì che era un peccato che Rauschenberg non avrebbe vinto. «Detesto questi giochetti politici» confidò a Michael «ma se ci tocca giocare dobbiamo farlo bene.» 18

In quel momento critico giunse a Venezia Rauschenberg in persona. L’artista arrivò nella città lagunare in qualità di direttore di scena e ideatore delle luci della compagnia di danza moderna di Merce Cunningham, che si sarebbe esibita alla Fenice la sera successiva. L’impegno del coreografo a Venezia era fissato già da molto tempo, ma qualcuno interpretò la coincidenza come un ulteriore stratagemma nel gioco di pressioni degli americani, soprattutto perché nei cartelloni dello spettacolo affissi in città il nome di Rauschenberg – autore di scene, costumi e luci – aveva quasi la stessa rilevanza di quelli di Cunningham e del compositore John Cage. In realtà il pittore avrebbe dovuto essere a Venezia due giorni prima della compagnia per partecipare a un programma radiofonico locale e incontrare la stampa, ma diverse telefonate di Leo Castelli lo avevano persuaso a tenersi alla larga da quell’imbroglio politico. Rauschenberg si fermò insieme alla compagnia all’hotel Serenissima (luogo tutt’altro che sereno, stando alle lamentele dei ballerini) e il giorno successivo al suo arrivo rimase a lavorare in teatro. Nel corso del pomeriggio fece una rapida visita al consolato per vedere l’allestimento di Solomon, del quale fu molto soddisfatto. «I quadri emanano lo stesso senso d’intimità che hanno in studio» spiegò a Solomon. «I primi sembrano bambini che non cresceranno mai.» L’artista acconsentì inoltre a riparare una delle opere più piccole, intitolata Coca Cola Plan, in cui una delle tre bottiglie di Coca racchiuse in un telaio di legno si era rotta durante il trasporto. Castelli e il conte Giuseppe Panza di Biu-


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mo, proprietario dell’opera, avevano scoperto con grande disappunto che le bottiglie in vendita in Europa non avevano le stesse dimensioni né lo stesso colore di quelle americane. Alla fine erano riusciti a farne arrivare un’altra da New York, ma Panza, il più energico e appassionato collezionista europeo della nuova arte americana, aspettava con ansia che l’autore approvasse la sostituzione prima che il lavoro fosse esposto. Rauschenberg, all’epoca trentottenne, aveva l’aspetto di chi non ha fretta di crescere. Alto circa un metro e ottanta, magro, con i capelli scuri tagliati corti e bei lineamenti da ragazzo, aveva un modo di ascoltare e parlare che lo faceva apparire una persona aperta e amichevole – come in effetti era – e talvolta molto semplice, cosa che invece non corrispondeva alla realtà. Parlava lentamente, con una voce risonante resa più morbida da un accento palesemente meridionale anche se non collegabile a un luogo preciso. A volte una risata lo coglieva nel mezzo di una frase. Si intendeva alla perfezione con i macchinisti italiani, con i quali comunicava a gesti e in un inglese disinvolto inframmezzato occasionalmente da una frase in italiano appresa sul momento («Lui prima» disse meravigliandosi, «lui prima. Louis Prima?»), riuscendo ad apparire tranquillo anche nei momenti di massima confusione. In quel periodo non beveva troppo, ma aveva sempre a portata di mano una bottiglia di Jack Daniel’s. Gli occhi castani erano vigili e pronti: «Ho un tipo di attenzione particolare» dichiarò nel corso di un’intervista. «Tendo a notare tutto ciò che mi sta attorno.»2 La tensione che cominciava a sorgere tra Rauschenberg da una parte e Cunningham e Cage dall’altra non era ancora evidente agli occhi degli estranei. Rauschenberg era più giovane degli altri due e nutriva per il coreografo un’ammirazione talmente esagerata da essere quasi disposto a trascurare la pittura nei sei mesi in cui la compagnia sarebbe stata in tournée in tutto il mondo. Per lui la collaborazione era sempre stata una condizione di lavoro ideale e non poteva pensare a un collaboratore migliore di Cunningham, il coreografo di danza moderna più rigoroso e straordinariamente innovativo dopo Martha Graham. Il compositore John Cage aveva un’importanza ancora maggiore nella sua vita. Non era mai stata una questione d’influenza. Una volta Cage descrisse la loro amicizia come un caso di "affinità a prima vista". In effetti, il musicista lo aveva incoraggiato in una fase precoce della sua carriera in cui il giovane Rauschenberg ne aveva un disperato bisogno e l’esempio del suo lavoro, il suo atteggiamento nei confronti della professione e la sua incorruttibile voglia di sperimentare erano sempre stati un sostegno e una fonte d’ispirazione per l’artista. I

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tre lavoravano bene insieme: ciascuno svolgeva il proprio compito in assoluta autonomia, fiducioso che gli altri avrebbero fatto altrettanto e che il risultato finale – nel momento in cui luci, musica e danza si sarebbero fuse in scena – sarebbe stato interessante e spesso sorprendente tanto per loro quanto per il pubblico. Sotto la superficie, tuttavia, covava qualche tensione e il fatto che a Venezia Rauschenberg fosse oggetto di tanta attenzione e tutti volessero intervistarlo non migliorava la situazione. La Fenice è una sorta di Fragonard architettonico, tutta curve ampie e dorate, accenti rococò e maschere con calzoni giallo oro e giubbe blu, un teatro con l’intimità di un salotto settecentesco, in cui ogni poltrona sembra vicina al palcoscenico. La sera della prima nel foyer c’era una calca spaventosa. Sembrava che tutti a Venezia non solo volessero entrare ma lo pretendessero, perché tutti avevano amici influenti che avrebbero provveduto a farli entrare. Fra la confusione e il vocio nel ridotto, l’inizio dello spettacolo fu posticipato di quasi un’ora e il pubblico, impaziente e nervoso, generò in sala una sorta di elettricità volatile. In questo conte20

sto i danzatori di Cunningham superarono se stessi. Agli applausi fragorosi che scuotevano il teatro dopo e perfino durante i balletti, facevano eco i fischi e le proteste rumorose, alcuni presumibilmente indirizzati alla musica elettronica di Cage e alle scene di Rauschenberg. Le scenografie di Story cambiavano a ogni spettacolo perché erano costituite da qualsiasi oggetto l’artista trovasse nel retropalco o nei dintorni del teatro in cui la compagnia si esibiva; in quel caso Rauschenberg aveva chiesto ad alcuni macchinisti di muoversi sullo sfondo, spingendo scope e trasportando attrezzi. La cosa fece infuriare certi settori piuttosto chiassosi della platea, ma la compagnia di Cunningham era abituata a questo genere di reazioni e i ballerini non ebbero mai tentennamenti. Quando Rauschenberg entrò in scena insieme ai danzatori per una delle tante chiamate alla ribalta, applausi e fischi si fecero più intensi alimentando un’atmosfera decisamente bellicosa. In gioco c’era ovviamente l’orgoglio culturale di due nazioni. Il mattino dopo, di buon’ora, il fotografo italiano Ugo Mulas scattò una fotografia destinata a diventare famosa, che mostrava due uomini impegnati a caricare con cura un grande dipinto di Rauschenberg su una chiatta a motore, sulla cui poppa era già stata sistemata un’altra tela. Gli articoli che apparvero in seguito sulla stampa usarono l’immagine come prova delle congiure machiavelliche che circondavano la Biennale, quasi a intendere che i dipinti fossero stati trasferiti illegalmente o in segreto. La spiega-


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zione era più semplice. Alan Solomon era giunto a un accordo con la giuria della mostra: aveva accettato di spostare tre Rauschenberg dal consolato al padiglione americano ai Giardini, mentre la giuria si era impegnata ad assegnare all’artista americano il premio internazionale per la pittura. La notizia si diffuse rapidamente. Prima che facesse sera al ristorante All’Angelo era già in corso una festa organizzata da un gruppo di giovani artisti italiani che avevano sostenuto con passione la vittoria di Rauschenberg (la loro venerazione per l’artista rifletteva in parte la delusione per la Scuola di Parigi). A causa di un altro equivoco, il pittore era andato a cena altrove con Castelli e altri, ma gli artisti all’Angelo continuarono allegramente a festeggiare anche senza di lui, sicuri che prima o poi si sarebbe presentato. Quando intorno a mezzanotte Rauschenberg giunse finalmente in piazza San Marco, gli italiani si riversarono in massa fuori dal locale per abbracciarlo. Lo caricarono in spalla, sfilarono in parata per la piazza tra canti e acclamazioni, poi fecero ritorno al ristorante (dove i camerieri stavano riordinando la sala prima della chiusura) e vi rimasero fino alle quattro del mattino bevendo vodka fornita dal giurato polacco e champagne offerto dalla casa. Più tardi quella mattina, dopo la cerimonia ufficiale di premiazione ai Giardini (Rauschenberg per la pittura, Kemeny per la scultura), Castelli organizzò un altro ricevimento per quaranta persone in un ristorante sull’isola di Burano. Raggiungemmo il locale a bordo di motoscafi. La giornata era serena e tiepida, il pesce squisito, il vino frizzante. Il pranzo alla lunga tavolata si protrasse, portata dopo portata, per più di tre ore. Quando tutto fu finito ci dirigemmo a piccoli gruppi verso il molo; fu allora che chiesi a Rauschenberg come si sentisse dopo aver vinto la Biennale (all’epoca stavo scrivendo un suo profilo per il New Yorker ed ero andato a Venezia anche in vista della sua vittoria). Si fermò a riflettere per un minuto, concentrandosi intensamente sulla domanda banale. «La scena di ieri a San Marco mi ha davvero colpito» mi rispose. «Farfalle nello stomaco e un nodo in gola, come se significasse realmente qualcosa, dopotutto.» Continuammo a camminare per un po’ in silenzio. Dopo – a distanza di settimane – mi resi conto che ciò che più mi aveva commosso in quei pochi momenti era stato il suo sforzo di capire che cosa gli stesse accadendo. Molte cose nella sua vita sarebbero cambiate. Adesso che il mondo internazionale dell’arte aveva puntato ufficialmente sulla sua carriera, la libertà che aveva usato in maniera tanto sfrenata e brillante avrebbe potuto ritorcersi contro di lui; qualsiasi cosa avesse fatto da allora ora in poi sarebbe stata di

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dominio pubblico. «È come se fossi entrato nella pelle sbagliata, e la cosa mi spaventa un po’» disse. «Insomma, se il lavoro è più o meno tutto quello che fai, puoi sentirti un po’ isolato. Sto iniziando a chiedermi quanto sarà difficile restare in contatto.» Rimase in silenzio per qualche secondo ancora. «Non posso permettermi di perdere il contatto con me stesso» aggiunse ridendo «perché questo è davvero tutto ciò che possiedo.»

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7 Un luogo in cui l’arte si fa

Una volta Saul Steinberg raffigurò Betty Parsons nelle sembianze di un cane. Il ritratto era straordinariamente somigliante e per nulla offensivo: le orecchie dello spaniel diventavano i capelli dritti e lisci, la fronte alta risultava immediatamente riconoscibile. «È la fronte da filosofo di Leonardo, dei neonati e degli spaniel» avrebbe affermato Steinberg. Come i migliori mercanti d’arte, Betty ha qualcosa di irreale, anche fisicamente. Fa pensare a una fotografia di un’altra epoca: sai di chi si tratta ma non ne sei proprio sicuro. Se la osservi da vicino vedi la Sfinge o qualcosa che richiama Greta Garbo. E detto tra noi, la Sfinge ricorda un cane.

Betty Parsons veniva da una famiglia newyorkese agiata, conservatrice e assolutamente conformista che considerava l’arte un argomento di cui le persone perbene non si interessano. Sposata all’età di diciannove anni con un avvenente ubriacone, andò a Parigi per divorziare e ci rimase dieci anni, dopo aver scoperto che la sua vera aspirazione nella vita era fare l’artista. Studiò con Antoine Bourdelle, lo scultore, e Ossip Zadkine e conobbe molte delle personalità più brillanti dell’ambiente artistico parigino. Quando la Grande Depressione le tagliò i fondi tornò in America, ma anziché ristabilirsi a New York se ne andò a Hollywood, dove si mantenne dando lezioni di disegno e scultura, eseguendo ritratti e lavorando in un negozio di liquori. Giocava anche a tennis con Greta Garbo, per la quale veniva spesso scambiata. Tornata infine sulla costa orientale, aprì una piccola galleria nel seminterrato del Wakefield Bookshop, sulla East 57th Street. Qui espose i primi dipinti astratti di Adolph Gottlieb, presentò opere di artisti come Joseph Cornell, Alfonso Ossorio e Theodoros Stamos e organizzò la prima personale di Saul Steinberg, appena arrivato dalla Romania dopo essere passato per Parigi. La sua fama di talent scout si diffuse e quando Mortimer Brandt, un afferma-

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to mercante d’arte antica, decise di aprire una sezione moderna nella propria galleria, che occupava tutto il quinto piano dell’edificio al 15 di East 57th Street, chiese a Betty di dirigerla, cosa che la giovane fece dal 1944 al 1946. In quell’anno Brandt si trasferì in un altro immobile poco distante e siccome aveva deciso che tutto sommato non gli andava più di occuparsi di arte moderna, comunicò alla Parsons che poteva fare del vecchio spazio quel che voleva. Lei ne affittò metà a Samuel Kootz, dopodiché prese un bel respiro, si fece dare in prestito da quattro amici – tra cui Saul Steinberg – mille dollari ciascuno e aprì la Betty Parsons Gallery. Fin dalla prima mostra, intitolata “Northwest Coast Indian Painting” e inaugurata nell’autunno del 1946, risultò evidente che la sua non sarebbe stata una galleria tradizionale. All’epoca la maggior parte degli spazi espositivi di New York imitava lo stile europeo, con pareti scure rivestite di tessuti, folti tappeti e dipinti di piccole dimensioni racchiusi in cornici elaborate: arte presentata come decorazione lussuosa. La galleria di Betty Parsons, al contrario, somigliava a un loft di artisti: le pareti bianche, i pavimenti di legno spogli 62

e la totale assenza di ornamenti la rendevano decisamente diversa da un interno piccolo borghese. Essendo a sua volta un’artista (e per giunta un’aristocratica), Betty Parsons si sentiva perfettamente a proprio agio tra i pittori e la sua galleria, come scrisse una volta Clement Greenberg, fu sempre «un luogo in cui l’arte si fa e non viene semplicemente esposta e venduta».1 In quegli anni il suo miglior amico e consulente di fiducia era Barnett Newman. Anche se la sua prima personale si sarebbe tenuta solo nel 1950, Newman era da oltre un decennio una figura ben nota nel mondo dell’arte. Alcuni amici lo consideravano principalmente uno scrittore: produsse in effetti un fiume di articoli e saggi critici che richiamavano l’attenzione sulla nuova pittura e già nel 1943 aveva pronosticato, in un suo scritto, che l’America sarebbe presto diventata il nuovo centro dell’arte mondiale. Socievole e arguto, affabulatore nato, polemista e teorizzatore, Newman era originario di New York (praticamente l’unico tra gli espressionisti astratti di prima generazione). La moglie, Annalee, ricopriva un ruolo di spicco nel Board of Education e lui stesso si era candidato come sindaco di New York presentando un programma che proponeva, tra i vari punti, la realizzazione di parchi gioco per adulti. Per quanto Betty Parsons ripetesse spesso che le aveva insegnato più lui sull’estetica di qualsiasi libro mai letto, Newman non era affatto un intellettuale pedante. «L’estetica» gli capitò di affermare «rappresenta per gli artisti ciò che l’ornitologia è per gli uccelli.»2 Newman aveva organizzato la mostra “Pre-Columbian Stone Sculpture” al-


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la Wakefield Gallery quando Betty ne era la direttrice, ed era stato lui a lanciare l’idea di inaugurare la nuova Parsons Gallery con una serie di dipinti (molti dei quali erano stati presi in prestito dal seminterrato dell’American Museum of Natural History) degli indiani della costa nord-occidentale, tra i quali – come lui stesso scrisse nel saggio in catalogo – «l’arte astratta era la tradizione normale, prevalente e accettata».3 Qualche mese più tardi Newman presentò alla Parsons una collettiva dal titolo “The Ideographic Picture” di cui facevano parte opere sue e di Clyfford Still, Hans Hofmann, Mark Rothko, Ad Reinhardt e Theodoros Stamos. «Negli anni della guerra, la pittura americana ha visto emergere da più parti una nuova forza spontanea che costituisce il corrispettivo moderno dell’impulso artistico primitivo» scrisse nel catalogo dell’importante esposizione. «Ecco un gruppo di pittori che non sono astratti benché utilizzino ciò che è noto come stile astratto.»4 Newman aveva tracciato una distinzione fondamentale. Gli artisti in questione non erano astratti perché, secondo lui, non si preoccupavano solo dei rapporti spaziali e cromatici ma erano anche interessati a un tema della massima serietà, ciò che l'artista definiva «l’idea pura… che tocca il mistero della vita, dell’uomo, della natura, del caos oscuro e arduo che è la morte o di quello più grigio e lieve che è la tragedia». Newman non 5

era il solo a rifiutarsi di porre la nuova pittura sotto il segno dell’astrattismo. La scuola d’arte fondata nel 1948 da Motherwell e Rothko si chiamava Subjects of the Artist, a sottolineare l’enorme importanza che essi attribuivano a quel tema così intimamente connesso all’emotività. La nuova pittura americana, a loro modo di vedere, stava riportando l’arte alle sue origini primordiali legate al mistero e alla magia; l’artista tornava a essere uno sciamano, un veggente nel significato proprio di chi scruta in profondità gli abissi dell’umana esperienza. Newman si fece a tal punto portavoce di questa visione estetica che la maggior parte dei suoi contemporanei rimase stupita e non poco indignata quando, nel 1948, compì la propria svolta artistica approdando all’“idea pura” dei dipinti monocromi divisi da una o più bande verticali. Per quanto tenesse in considerazione i suggerimenti di Newman, Arshile Gorky e qualche altro, Betty Parsons non temeva di affidarsi al proprio intuito o al proprio occhio sicuro. Quel che cercava nella pittura era la sensazione che dietro un dipinto ci fosse qualcosa, un senso di autorevolezza e convinzione, «quello che intendeva Cézanne quando diceva di voler dipingere ciò che stava dietro la mela». Hofmann, Pollock, Still e Rothko erano passati tutti dalla galleria di Peggy Guggenheim a quella di Betty per via dell’evidente entusiasmo che le loro opere suscitavano nella donna. «Picasso non avrebbe mai potuto fare quel che ha fatto Pollock» dichiarò la gallerista a distanza di anni.

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· Robert Rauschenberg ·

Pollock ha scatenato la fantasia di questo paese, ne ha liberato l’impulso creativo. È stata una fase straordinaria, un periodo assolutamente magico. Passeranno altri cent’anni prima che accada di nuovo qualcosa di analogo.

Il problema era che spesso Betty Parsons sembrava interessata ai propri artisti più in quanto artisti che non in quanto clienti. Li adorava, ma non riusciva a vendere le loro opere in quantità sufficiente. In parte era colpa del momento storico. All’inizio degli anni cinquanta il clima era ancora estremamente ostile all’arte moderna. In tutta la sua vita Pollock non ricavò mai più di 5.340 dollari dalla vendita di un dipinto, anche dopo aver lasciato la Parsons nel 1952 per la Sidney Janis Gallery (nel 1953 Janis vendette il suo One a Ben Heller per ottomila dollari prendendo una commissione del 33,3 percento), e non guadagnò mai abbastanza da affrancarsi dalla propria condizione di povertà. La quotazione massima di un Rothko alla prima mostra dell’artista organizzata alla Parsons Gallery era di centocinquanta dollari e i quadri venduti furono pochissimi. «Gli artisti non mi ritengono abbastanza tenace» disse una volta 64

la Parsons. «Pensano che dovrei sollecitare di più i clienti, chiamarli di continuo. So quanto la gente odi questo genere di cose perché le detesto io stessa, ed è per questo che non le faccio.» Una sera, all’inizio degli anni cinquanta, Rothko, Still, Pollock e Newman andarono a cena da lei. Si sedettero sul divano davanti a me come i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse e mi dissero che se avessi mollato tutti gli altri artisti della galleria avrebbero fatto di me l’agente più famosa del mondo. Probabilmente avevano anche ragione, ma non era ciò che volevo. Risposi che la mia natura mi portava a preferire un giardino più grande e loro capirono.

Tutti e quattro avrebbero finito per abbandonarla, ottenendo subito dopo il successo finanziario (postumo nel caso di Pollock). Benché nei primi anni cinquanta gli espressionisti astratti vendessero ancora poco o niente, la loro fiducia in se stessi cresceva in misura notevole. A incoraggiarla in maniera significativa contribuì il “Ninth Street Show”, la collettiva che organizzarono autonomamente nella primavera del 1951 in uno spazio del Greenwich Village. L’idea nacque quando qualcuno al Club accennò al fatto che l’edificio dietro l’angolo, al 60 di East 9th Street, stava per essere demolito e di conseguenza l’area occupata in precedenza dal negozio di antiquariato al pianterreno era rimasta temporaneamente inutilizzata. In linea di principio il Club non voleva essere coinvolto in mostre di


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natura promozionale, ma alcuni dei suoi membri si lanciarono a capofitto nel progetto. Leo Castelli, che apparteneva al Club in virtù del suo entusiasmo per la nuova arte (all’epoca non aveva ancora aperto la sua galleria), finanziò l'imbiancatura del locale e la stampa del volantino pubblicitario, che venne disegnato da Franz Kline. Fu istituito un comitato per l’installazione, ma la maggior parte degli artisti arrivava, discuteva dello spazio assegnato e appendeva (o riappendeva) i propri dipinti. La coraggiosa esposizione, in cui vennero infine presentate sessantuno opere appartenenti ad artisti diversi, offriva per la prima volta l’opportunità di osservare in tutta la loro ricchezza i risultati dell’Espressionismo Astratto, di cui molti lavori riflettevano il nuovo stile gestuale e audace. Centinaia di persone parteciparono al festoso vernissage (da una parte all’altra di 9th Street era stato appeso uno striscione) e molti rimasero colpiti da ciò che videro. Alfred Barr, il cui moma aveva finora prestato scarsa attenzione a Pollock o agli altri, trascorse diverse ore tra i dipinti e quando più tardi Castelli lo portò al Club, dove erano in pieno svolgimento i festeggiamenti per il successo, entrambi furono salutati da un applauso spontaneo. Il dipinto bianco con numeri di Rauschenberg era l’unico che non sembrava accordarsi con lo spirito generale dell’esposizione. Nel corso di quello stesso mese era stato presentato anche alla galleria di Betty Parsons insieme ad altre sedici opere del giovane artista, non una delle quali era stata venduta. Quella mostra si era rivelata una sorpresa per la stessa agente, poiché conteneva pochissime delle tele che lei e Clyfford Still avevano scelto nell’appartamento di 95th Street un paio di mesi prima. Rauschenberg aveva coperto la maggior parte di quelle con un altro strato pittorico, convinto com’era all’epoca che la nuova versione sarebbe stata migliore. Betty era rimasta meravigliata, ma non più di tanto: i giovani artisti facevano cose strane. «Si vedeva subito che stava seguendo una sua strada» avrebbe dichiarato in seguito «e non si lasciava influenzare da nessuna scuola e nessun pittore.» La prima mostra di Rauschenberg alla Parsons ottenne critiche lievemente sprezzanti. «Non c’è traccia d’avarizia nell’inventiva di Bob Rauschenberg» scrisse Stuart Preston sul New York Times. Le opere in mostra alla Betty Parsons Gallery presentano frammenti di specchi, eleganti scarabocchi in bianco e nero e generose dosi di argento. Il fatto che i dipinti sembrino terreno fertile per idee nuove piuttosto che rappresentazioni compiute conferisce loro un senso di irrequietezza.6

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La rivista Art News li descrisse come «tele di grandi dimensioni con uno sfondo generalmente bianco, ingenuamente solcate da una geometria esitante ed eccentrica».7 Il dipinto bianco con numeri è l’unica di queste opere a essere giunta fino a noi. Rauschenberg l’aveva spostata dalla Parsons per esporla al “Ninth Street Show” in sostituzione di un’altra. Successivamente l’artista portò tutte le tele che si trovavano nella galleria di Betty, insieme ad altre che reputava valesse la pena di conservare, dai Weil a Outer Island, dove erano ancora custodite quando diversi anni dopo un incendio distrusse la casa. Il dipinto con i numeri l'aveva tenuto a New York. Nella prima mostra di Rauschenberg non erano molti gli elementi identificabili come una sfida all’Espressionismo Astratto. È vero che l’artista seguiva una sua strada ma non lo sbandierava ai quattro venti e i lavori non esprimevano alcuna arroganza. Rauschenberg aveva osservato con grande attenzione i dipinti dei maggiori esponenti dell’Espressionismo Astratto e ne era stato, per citare le sue parole, «sconvolto e affascinato». In quel periodo de Kooning e Pollock stavano realizzando alcune tra le loro opere 66

più grandiose. Nella personale tenutasi nel 1950 alla Parsons, Pollock aveva esposto due dei suoi capolavori, Lavender Mist e Autumn Rhythm. De Kooning, dal canto suo, aveva iniziato la serie delle Women, scandalizzando persino i suoi più fervidi ammiratori reintroducendo la figura. Rauschenberg aveva visto per la prima volta i lavori di Franz Kline nel 1950 alla Egan: era tardo pomeriggio, le luci della galleria erano spente e le tele gli erano sembrate vigorose presenze che brillavano nell’oscurità. «Ancora non sapevo cosa stessero facendo queste persone» ricorda. Nessuno dei miei insegnanti aveva mai neppure accennato alla loro esistenza. Da Betty avevo visto una mostra di Rothko: la stanza era carica di eccitazione, l’atmosfera frenetica. Ben presto ebbi comunque la sensazione che c’era spazio per tutti e nessuno avrebbe avuto bisogno di copiare l’altro. Oltretutto non sarei stato in grado di imitare qualcosa per cui provavo tanta soggezione. Quando vidi i dipinti di Pollock e tutti gli altri mi dissi: “Okay, non posso seguire questa strada”. Forse sono state le deviazioni che mi sono imposto a farmi scoprire la mia originalità.

La “deviazione” successiva lo avrebbe portato in un territorio ben più ignoto e non sarebbe piaciuta a nessuno, meno che mai agli espressionisti astratti.


9 Feticci personali

Susan Rauschenberg avviò le procedure di divorzio in autunno. Alcuni amici pensavano che non fosse davvero convinta di compiere quel passo e che forse non lo avrebbe fatto se la famiglia non avesse insistito tanto. La natura bisessuale di Rauschenberg era ormai un dato evidente per tutti, anche per lo stesso Rauschenberg, ma lui e Susan erano ancora innamorati e profondamente dipendenti l’uno dall’altra, pertanto la rottura fu estremamente dolorosa per entrambi. Scosso e avvilito, Rauschenberg sentì il bisogno di allontanarsi da tutta la situazione e all’improvviso l’occasione si presentò. Cy Twombly, un giovane artista che era stato a Black Mountain quell’estate (lui e Rauschenberg si erano già conosciuti all’Art Students League), era in procinto di partire per l’Europa con una borsa del Virginia Museum of Fine Arts di Richmond e gli aveva chiesto più volte di accompagnarlo. L’orientamento artistico di Twombly era originale quanto quello di Rauschenberg e per certi versi più sviluppato. Il giovane stava elaborando una sorta di calligrafia astratta che a prima vista ricordava gli scarabocchi di un bambino su una parete; un esame più attento, tuttavia, permetteva di cogliere la raffinatezza della linea e del colore come pure l’elegante sensibilità che si celava dietro l’aspetto informale delle tele. Twombly era originario di Lexington, in Virginia. Suo padre, come quello di Rauschenberg, amava la vita all’aria aperta; era stato lanciatore dei Chicago White Sox nonché giocatore di golf professionista, e aveva diretto il dipartimento di atletica di un piccolo college. Rauschenberg nutriva grande ammirazione per l’opera di Twombly. Apprezzava molto anche la sua stravaganza risoluta e la sua bella figura slanciata e aristocratica. Nel mese di ottobre partì insieme a lui per Roma. Roma era economica e infinitamente seducente. Rauschenberg e Twombly vivevano in un appartamento in piazza di Spagna, in fondo alla scalinata, e giravano a piedi per il centro storico. Rauschenberg doveva es-

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· Robert Rauschenberg ·

sere trascinato a forza nei musei e Twombly trovava strano che un uomo così attivo fosse tanto difficile da coinvolgere. Dopo un mesetto divenne chiaro che due persone non avrebbero potuto sopravvivere a lungo con la borsa di studio del museo, che era sembrata tanto generosa prima della partenza. Rauschenberg aveva portato con sé trecento dollari. Quando ne rimase una cinquantina decise di cercarsi un lavoro. In un caffè conobbero un americano che lavorava per un’impresa edile statunitense in Nordafrica e diceva di guadagnare bene. L’idea piacque a Rauschenberg, poco allettato dalla prospettiva di passare l’inverno nel gelido appartamento romano. Con i cinquanta dollari rimasti comprò un biglietto aereo per Casablanca, e una volta lì si presentò fiducioso all’ufficio assunzioni dell’americana Atlas Construction Company, dichiarandosi disposto a svolgere qualsiasi genere di mansione. La mossa si rivelò sbagliata. La Atlas Construction era il regno della burocrazia: bisognava fare domanda per un incarico specifico ed essere in possesso di documenti e referenze. Scoraggiato, Rauschenberg andò a sedersi su una panca fuori 78

dell’ufficio. Mentre rifletteva sul da farsi, alzò gli occhi e vide avvicinarsi una giovane impiegata che gli disse di aver sentito che veniva da New York. Iniziarono una conversazione, nel corso della quale venne fuori che anche lei era newyorkese e conosceva diversi artisti dei quali lui poté darle notizie fresche. Poi la giovane affermò che forse avrebbe potuto aiutarlo a ottenere un posto alla Atlas, ma che avrebbe dovuto memorizzare un gran numero di informazioni. Rientrò in ufficio e poco dopo tornò con un fascicolo, preso dall’archivio, che riguardava un magazziniere. Rauschenberg passò l’ora successiva a studiarne il curriculum, dopodiché si ripresentò all’ufficio assunzioni. Né lui né la sua benefattrice avevano considerato la possibilità che Rauschenberg potesse trovarsi di nuovo di fronte allo stesso impiegato con cui aveva parlato poco prima, come ovviamente accadde. L’uomo gli rivolse alcune domande, prese qualche appunto frettoloso e poi chiese senza la minima traccia di diffidenza: «Perché tutte queste cose non me le ha dette prima?». Gli servivano solo alcuni dati per i suoi registri. Rauschenberg fu assunto con una paga di trecentocinquanta dollari alla settimana. Per i successivi due mesi lavorò come magazziniere, che alla Atlas Construction significava sostanzialmente stilare inventari. Robert andava in giro con altri due impiegati, un francese e un arabo (le norme di assunzione ne specificavano le quote): indicava un articolo su uno scaffale, il francese leggeva a voce alta il numero dell’articolo e la quantità necessaria e l’arabo annota-


· Feticci personali ·

va su un foglio. Fu un’esperienza piuttosto illuminante per Rauschenberg, il quale aveva sempre immaginato che ogni lavoro implicasse una qualche forma di fatica. Quando ebbe messo da parte mille dollari si licenziò. Il Nordafrica lo affascinava. Twombly lo raggiunse in aereo da Roma e insieme presero un autobus diretto ai margini del Sahara, nel punto più meridionale che si potesse raggiungere all’epoca. Arrivati nel Marocco spagnolo, rimasero per un certo periodo a Tetuan, dove conobbero lo scrittore americano espatriato Paul Bowles. Secondo Rauschenberg «non fu un incontro molto piacevole. Avevo sentito dire che aveva conosciuto Gertrude Stein a Parigi e mi interessava solo conoscere qualche aneddoto su di lei». Prima di lasciare Roma Rauschenberg aveva deciso di non dipingere mentre era via. Scattò invece delle foto con la sua Rolleiflex di seconda mano. A Black Mountain aveva studiato fotografia con Hazel-Frieda Larsen, conosciuto i fotografi Harry Callahan e Aaron Siskind e seguito i seminari di Beaumont Newhall, il primo curatore del dipartimento di fotografia del Museum of Modern Art, appassionandosi talmente alla materia da sentirsi quasi obbligato a scegliere tra la carriera di fotografo o quella di pittore. A un certo punto gli era anche venuta la fissazione di fotografare tutti gli Stati Uniti metro per metro, un progetto così ambizioso che, come calcolò in seguito, avrebbe richiesto una decina d’anni solo per coprire l’area dal college ad Asheville. Le foto scattate a Black Mountain e negli anni a seguire hanno diversi punti in comune con i dipinti e i collage che Rauschenberg eseguiva in quel periodo, immagini serene che catturano l’attenzione dell’osservatore senza richiamarla in alcun modo su di sé: l’interno di una vecchia carrozzina nera, un raggio di sole che attraversa in diagonale lo schienale di una sedia di legno in una stanza vuota, una lampadina nuda appesa a un soffitto di alluminio, un muro sgretolato di Roma su cui è affisso un manifesto strappato del leader sovietico scomparso da poco recante la scritta “Stalin è morto”. Sebbene Rauschenberg avesse optato per la pittura, le fotografie divennero un elemento importante della sua produzione successiva. Una delle immagini scattate a Black Mountain, quella della carrozzina nera, fu inoltre il primo dei suoi lavori a essere acquistato da un museo: Edward Steichen la comprò per il moma nel 1952, sei anni prima che l’istituzione acquisisse qualsiasi altra opera dell’artista. L’atto del fotografare in sé, tuttavia, non soddisfece mai del tutto l’esigenza di coinvolgimento totale con il medium nutrita da Rauschenberg. Anche mentre girava per il Nordafrica, l’artista sentiva il bisogno impel-

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· Robert Rauschenberg ·

lente di impegnarsi in qualche attività manuale. Cominciò allora a realizzare piccoli collage e insoliti oggetti dall’aspetto primitivo, ottenuti legando con pezzi di corda o di spago frammenti di tessuto, ossa, capelli, attrezzi rotti, piume, pezzetti di legno colorati, sassi, conchiglie e altre cianfrusaglie. Fabbricò anche rudimentali scatole in legno con oggetti al loro interno (ciò accadeva prima ancora di aver visto le opere di Joseph Cornell), utilizzando come materiale qualsiasi cosa trovasse per strada. Due delle scatole producevano un suono: girandole con delicatezza, i sassolini all’interno urtavano vecchi chiodi lavorati a mano, creando una musica tenue che ricordava le composizioni di Cage. Altre furono lasciate aperte, in modo che chiunque potesse ridisporre gli oggetti nei loro compartimenti o anche aggiungerne di nuovi. Diverse contenevano specchietti incollati uno di fronte all’altro per riflettere un infinito in miniatura. «Scatole contemplative e feticci personali»: così il proprietario della Galleria dell’Obelisco di Roma chiamò questi oggetti bizzarri quando li espose nel corso di quella primavera. La mostra, a dire di Rauschenberg, 80

fu considerata una burla da tutti, compreso il proprietario della galleria. Il prezzo assegnato ai pezzi era talmente basso che diverse persone li acquistarono per gioco. Rauschenberg si vendicò realizzandone altri quanto più possibile simili in modo che nessuno potesse averne l’“esclusiva”. Twombly si era innamorato di Roma e dei suoi abitanti. Vi sarebbe tornato quattro anni dopo per stabilirvisi definitivamente dopo aver sposato la figlia dei Franchetti (una famiglia illustre e facoltosa che era stata proprietaria della Ca’ d’Oro a Venezia e ora possedeva una villa a Roma, un castello nelle Dolomiti e una casa a Venezia) ed essere diventato padre. L’artista acquistò notorietà e successo in Europa anni prima di affermarsi negli Stati Uniti. Rauschenberg, dal canto suo, non ebbe mai la minima intenzione di lasciare l’America. Sei mesi all’estero gli erano bastati e la mostra di Roma gli aveva permesso di guadagnare abbastanza per comprarsi il biglietto di ritorno. Prima di partire, tuttavia, doveva fermarsi a Firenze, dove l’innovativa Galleria d’Arte Contemporanea esponeva le sue scatole e i suoi feticci. La mostra, inaugurata il 14 marzo, fu recensita dal più eminente storico dell’arte fiorentino con un articolo che occupava mezza pagina di un quotidiano locale. Il critico descriveva come, per raggiungere l’esposizione, fosse passato accanto alla Galleria degli Uffizi e ai suoi tesori, avesse rivisto il duomo, il campanile e i grandi monumenti della città, culla della più nobile tradizione artistica, per approdare infine a quello che definiva “il caos psicologico” in mostra alla Galleria d’Arte Contem-


· Feticci personali ·

poranea. La sua conclusione, dopo una lunga tirata piena di sarcasmo, fu che le opere di Robert Rauschenberg erano da gettare nell’Arno. Rauschenberg si fece tradurre l’articolo. Il primo pensiero che formulò dopo averne letto la conclusione fu: «Questa sì che è un’idea geniale!». Di lì a qualche giorno avrebbe lasciato l’Europa ed era in difficoltà con i bagagli. Dopo aver messo da parte cinque o sei degli oggetti che voleva portare in aereo, fece un fagotto di ciò che restava e la domenica mattina presto – il giorno prima della partenza – camminò lungo l’Arno finché non giunse in un punto abbastanza appartato dove l’acqua sembrava sufficientemente profonda. Non voleva che qualcuno potesse ripescare gli oggetti in un secondo momento, per lui era importante che «scomparissero davvero». Nessuno lo vide gettarli in acqua e non uno di essi è mai stato ritrovato. Rauschenberg ha ripetuto più volte che non intendeva compiere un gesto dadaista, ma ha effettivamente ammesso di aver pensato che l’eminente critico si sarebbe sentito in imbarazzo se ne fosse venuto a conoscenza, perciò prima di partire gli scrisse un biglietto in cui diceva: «Ho seguito il suo consiglio». All’aeroporto di New York, il funzionario della dogana gli fece aprire il baule di vimini con le scatole e gli oggetti di corda che aveva conservato. «Di che si tratta?» chiese l’uomo. Senza pensarci su, Rauschenberg rispose che erano oggetti cerimoniali fatti dagli indiani d’America, aggiungendo di essere stato in Europa per tenere un ciclo di seminari sulla cultura di quelle popolazioni. Il funzionario pensò che come docente sembrava un po’ giovane, ma lo fece passare comunque.

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Monogram, 1955-59 Combine painting: pittura a olio, carta, tessuto, carta stampata, riproduzioni a stampa, metallo, legno, tacco da scarpa in gomma e palla da tennis su tela con pittura a olio su capra d’angora impagliata e pneumatico su piattaforma in legno, montato su 4 ruote. Collezione Moderna Museet, Stoccolma Foto Moderna Museet, Stoccolma


Untitled combine, 1955

su struttura in legno con cinque rotelle.

Combine painting: pittura a olio, matita, gesso, carta, tessuto, carta di giornale,

The Museum of Contemporary Art, Los

fotografie, legno, vetro, specchio, latta,

Angeles - The Panza Collection

sughero, dipinto trovato, scarpe in pelle

Foto Brian Forrest/moca, Los Angeles;

dipinte, erba essicata, gallina impagliata

Archivio Panza/Giorgio Colombo, Milano


Canyon, 1959 Combine painting: pittura a olio, matita, tessuto, metallo, scatola in cartone, carta stampata, riproduzioni stampate, fotografia, legno, tubetto di vernice e specchio su tela con pittura a olio su aquila di mare, corda e cuscino. Sonnabend Collection, New York Courtesy Robert Rauschenberg, Inc.


Painting with Grey Wing, 1959

The Museum of Contemporary Art,

Combine painting: pittura a olio, riprodu-

Los Angeles - The Panza Collection

zioni stampate, tracciato da disegno non

Foto Gian Sinigaglia - Archivio Panza/

colorato, carta dattiloscritta, fotografie,

Giorgio Colombo, Milano

tessuto, ala d’uccello impagliata, moneta da 10 cent.


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