Scritti di Lewis Baltz. Edizione italiana a cura di Antonello Frongia

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«Questo volume di Scritti intende contribuire alla conoscenza di un pensiero critico che Lewis Baltz, come altri autori della sua generazione accomunati dall’etichetta “topografica”, ha sviluppato pubblicamente per oltre quarant’anni, in tandem con una pratica visiva basata sulle virtù dell’esattezza, del silenzio e dell’ermetismo.» Dalla postfazione di Antonello Frongia

Lewis Baltz

Lewis Baltz (1945) è tra i maggiori esponenti della fotografia di derivazione concettuale diffusasi alla fine degli anni sessanta negli Stati Uniti e resa celebre nel 1975 dalla mostra “New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape”. Autore di opere che hanno cambiato il modo di pensare questo medium, come The Tract Houses (1969-1971), The New Industrial Parks near Irvine, California (1974), Park City (1978-1980), San Quentin Point (1981-1983) e Candlestick Point (1987-1989), negli anni ottanta Baltz si è trasferito in Europa dedicandosi esclusivamente a progetti site-specific, su commissione e in collaborazione con altri artisti. Dal 2003 al 2013 è stato docente di arti visive presso la Facoltà di Design e arti dell’Università iuav di Venezia. Vive e lavora a Parigi.

Scritti

Nella stessa collana: 1. Annie Cohen-Solal Americani per sempre. I pittori di un mondo nuovo: Parigi 1867 – New York 1948 2. Clement Greenberg L’avventura del modernismo. Antologia critica 3. Ai Weiwei Il blog. Scritti, interviste, invettive 2006-2009 4. Brian O’Doherty Inside the White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo 5. Marco Meneguzzo Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze) 6. Frederic Spotts Hitler e il potere dell’estetica 7. Pierre Schneider Louvre, mon amour. Undici grandi artisti in visita al museo più famoso del mondo 8. Miriam Bratu Hansen Cinema & Experience. Le teorie di Kracauer, Benjamin e Adorno 9. Aldo Grasso – Vincenzo Trione Arte in tv. Forme di divulgazione

ISBN 978-88-6010-117-4

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landscape problems / the most american photographer / the new west / notes on park city / american photography in the 1970s: too old to rock, too young to die / notes on waffenruhe / deaths in newport / city limits (or has this been used before?) / learning from Lewis Baltz luxembourg / a better tomorrow / the painter of modern life / fishes and submarines / untitled: félix gonzález-torres / auf diese dinge gibt es keine antwort / what does possession mean to you? / maybe it’s about kim novak / michelina / tosca / notes on thomas ruff / velocity piece #2 (impact run), barry le va / migropolis / meetings with remarkable men: john mclaughlin / notes on sandro laita / war, peace, etc. / the city and its double / obscene

Scritti

Lucido protagonista della “nuova topografia” americana degli anni settanta, artista costantemente impegnato a decostruire la politica dei luoghi e delle rappresentazioni, sin dai suoi esordi Lewis Baltz ha accompagnato alla ricerca visiva una meditata attività di scrittura critica e autocritica. Le riflessioni raccolte in questo volume illuminano da prospettive differenti la sua opera ultraquarantennale e il contesto transatlantico nel quale si è sviluppata: interventi che hanno affiancato le opere topografiche del primo periodo, narrazioni incorporate nei lavori testo-immagine della fine degli anni ottanta, ma anche una corposa serie di saggi dedicati ad alcuni tra i più importanti fotografi e artisti del Novecento. In questi ultimi l’ascolto dell’enigmatica materialità delle opere si fonde con un ragionare secco e disincantato sulla loro adeguatezza culturale e, infine, politica. Rientrano in tale filone gli scritti dedicati a Walker Evans, Edward Weston, Robert Adams, Michael Schmidt, Allan Sekula, Thomas Ruff e Jeff Wall, che in modi diversi interrogano le possibilità e i limiti delle pratiche fotografiche di stampo modernista; in alcuni passi affiorano inoltre circostanziati apprezzamenti di artisti come Krzysztof Wodiczko, Félix González-Torres, Barry Le Va, Chris Burden, James Turrell, Robert Irwin, John McLaughlin e Alessandro Laita, con i quali Baltz ha condiviso aspetti cruciali della ricerca e, in diversi casi, della propria biografia. ll volume, tuttavia, contiene anche considerazioni su temi di portata più generale, per esempio sul paesaggio o sulle città «nell’epoca del nulla di speciale». Se il gelido silenzio dell’immaginario post-apocalittico di Baltz ha contribuito a depurare la fotografia degli ultimi trent’anni dalle opposte retoriche della denuncia e della rivelazione, la voce rauca e talvolta caustica di questi scritti continua a risuonare e a contaminare le presunte certezze su cui amano poggiare le istituzioni dell’arte e della fotografia.



Saggi d’arte 10


© 2014 Johan & Levi Editore Note bibliografiche a cura di Chris Balaschak Progetto grafico Paola Lenarduzzi Impaginazione Smalltoo Stampa Arti Grafiche Meroni Lissone (mb) Finito di stampare nel mese di giugno 2014 isbn 978-88-6010-117-4 Testo © Lewis Baltz, 2013 Titolo originale: Texts Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

Volume realizzato nel rispetto delle norme di gestione forestale responsabile, su carta certificata Arcoprint Edizioni.


Lewis Baltz

Scritti Introduzione di Matthew S. Witkovsky Edizione italiana a cura di Antonello Frongia Traduzione di Emilia Sala



Sommario

Introduzione – 12 settembre 2011 di Matthew S. Witkovsky 1. Note sulle recenti aree industriali nel Sud della California

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2. Problemi di paesaggio

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3. Il più americano dei fotografi

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4. The New West

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5. Note su Park City

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6. Too Old to Rock, Too Young to Die. La fotografia americana

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degli anni settanta 7. Note su Waffenruhe

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8. The Deaths in Newport

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9. Limiti della città (ma è già stata usata questa definizione?)

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10. Imparare dal Lussemburgo

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11. Un futuro migliore

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12. Il pittore della vita moderna

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13. Pesci e sottomarini

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14. Senza titolo: Félix González-Torres

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15. Auf diese Dinge gibt es keine Antwort

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16. What Does Possession Mean to You?

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17. Un film su Kim Novak

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18. Michelina

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19. Tosca

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20. Note su Thomas Ruff

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21. Velocity Piece #2 (Impact Run), Barry Le Va

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22. Migropolis

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23. Incontri con uomini straordinari: John McLaughlin

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24. Note su Alessandro Laita

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25. Guerra, pace ecc.

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26. La città e il suo doppio

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27. Osceno

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28. L’inferno in terra: rappresentazioni distopiche all’epoca

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del nulla di speciale 29. Il sacco di Venezia

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Fonti e note a cura di Chris Balaschak

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Postfazione – Il visibile e l’altrove: le parole di Lewis Baltz

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di Antonello Frongia

Indice dei nomi

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Introduzione 12 settembre 2011

Lewis Baltz appartiene per formazione a una generazione di artisti-critici. I radicali cambiamenti dell’arte americana intorno al 1960 si manifestarono tanto sul piano teorico quanto su quello visivo. Dopo due decenni in cui gli artisti avevano cercato strenuamente di negare qualsiasi riferimento ai contemporanei, quelli che aderirono al Minimalismo e al Postminimalismo cominciarono a confrontarsi in maniera più ampia con il lavoro di altri artisti sia in termini critici sia visivi. Non è possibile capire i blocchi di cedro di Carl Andre senza conoscere il suo interesse per Constantin Brancusi e le conversazioni con il regista Hollis Frampton, a sua volta autore di importanti riflessioni su cinema e fotografia.1 I saggi critici e le recensioni di Allan Kaprow, Donald Judd e, successivamente, di Robert Morris e Mel Bochner ebbero un ruolo altrettanto fondamentale nello sviluppo del loro lavoro; ne nacquero dibattiti critici che coinvolsero un certo filone dell’arte concettuale angloamericana facendone nascere un interesse concreto per il testo. Animati dalla volontà di ravvivare le potenzialità della fotografia, alcuni artisti come Martha Rosler, Allan Sekula e Victor Burgin permisero che la cultura revisionista diventasse parte integrante della loro carriera creativa. «Teorici che svolgono anche una pratica artistica» come scrisse Baltz in un testo su Sekula del 1995 presente in questa antologia. Sarebbe lecito aspettarsi un approccio simile negli scritti raccolti in questa sede, specialmente se si considera che Rosler e Sekula e altri rigorosi artisti che lavoravano con la fotografia come Fred Lonidier vivevano e operavano nel Sud della California agli inizi degli anni settanta. Eppure, nonostante il suo spirito corrosivo, Baltz non è un moralista. Nel testo su Sekula, quando racconta della lotta che si era scatenata fra l’artista-critico e l’establishment di curatori in voga a quell’epoca, Baltz definisce gli avversari di Sekula (il moma, la George Eastman House) «all’epoca estremamente influenti»,

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Carl Andre, Hollis Frampton, 12 Dialogues, 1962-1963, Nova Scotia Press, Halifax 1980.

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ma aggiunge che sono talmente decaduti che molti testi di Sekula sembrano «dispacci da una guerra vittoriosa ma distante e quasi dimenticata». Diversamente dagli ex colleghi californiani, Baltz stava riportando un fatto già accaduto e cominciò a svolgere una regolare attività di critico solo dopo molti anni di distacco dal contesto artistico e intellettuale d’origine: tutti i saggi contenuti in questo libro tranne sei sono stati scritti per un pubblico europeo. È impossibile scindere la concisione con cui Baltz formula i propri pensieri dalla sua posizione privilegiata di artista maturo e di emigrato (Baltz si trasferì definitivamente all’estero nel 1985). A rendere affascinante la lettura di questi scritti, e a garantirne l’interesse negli anni a venire è proprio questo distacco. Pur non essendo un autore “in trincea”, Baltz è attentissimo ai dibattiti e agli artisti importanti anche quando non toccano direttamente il suo lavoro. I suoi interessi di ampio respiro, dal cinema all’opera, dall’urbanistica ai diritti degli immigrati, hanno un che di rigenerante, come anche la sua volontà di non confondere l’attività critica con una tentazione di autolegittimazione artistica. Il lettore americano troverà i temi e i toni di questi pezzi – per lo più brevi ­– talora familiari talora sorprendenti, e questo è il risultato delle radici ibride di Baltz su entrambi i versanti dell’oceano Atlantico. A nessuno scrittore di lingua inglese e tantomeno a un artista associato in modo così assoluto al deser10

tico paesaggio prefabbricato del Sud della California del dopoguerra, verrebbe in mente di iniziare un saggio con questa frase: «A Zurigo c’è una leggenda che stenta a morire…»; ma il titolo del testo, “Imparare dal Lussemburgo”, conferisce all’ibridismo intellettuale di Baltz un tono così consapevole che diventa quasi naturale accettarlo. I distillati caustici di cui sono disseminati questi saggi rimandano a una generazione passata di autori del valore di H.L. Mencken e Karl Kraus: saggisti che dalle pagine dei giornali si battevano contro l’ottusa prosa giornalistica. Una lotta che può sfociare in un sentimento di cinismo e disillusione. Fortunatamente, qui non v’è traccia di questo: al contrario, si ha una chiara immagine di Baltz nel ruolo di educatore che desidera mettere le proprie opinioni al servizio di un ampio pubblico di lettori. Eccolo nel 1988, in una riflessione profetica sul destino della più importante città europea contemporanea: Londra, Parigi, Roma hanno una storia, ma Berlino ha un passato. È la Sodoma del nostro secolo, distrutta per i suoi peccati e poi abbandonata come un cupo sacrario. Sin dagli anni venti, la città di Berlino ci è stata raccontata per immagini: Döblin, Pabst, Isherwood; il perverso altare del nazismo; l’anno zero; il ponte aereo, John Kennedy e le spie che venivano dal freddo; la generazione del Sessantotto, la disperazione manierata della cultura punk e underground e gli angeli che si possono toccare, ecco alcune delle immagini che hanno creato il mito. L’uomo crea i miti per attribuire agli eventi una dimensione umana, ma non solo: un’al-


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tra loro funzione consiste nella mistificazione della realtà. Le immagini mitiche sono forse quelle nei confronti delle quali è bene nutrire maggior sospetto. Siccome però lo spirito contemporaneo trova seducente l’idea di una città post-apocalittica, questo tipo di immagini continua a spuntare come funghi. In un futuro molto prossimo Berlino ne sarà invasa come New York e Parigi e le immagini della città avranno perso ogni forza se non quella di riflettere e rimandare ad altre immagini.

Il primo aspetto che ne emerge è il coraggio di Baltz, autore americano estraneo ai circoli specialistici di storici e letterati, di confrontarsi con un’ampia sintesi del significato storico di Berlino; vi si apprezza poi l’ambizione di utilizzare quella sintesi per coinvolgere un pubblico non specialistico in una trattazione ben più specifica sul fotografo Michael Schmidt e sui recenti sviluppi dell’arte. Baltz si muove dal generale al particolare e specialistico, sottraendo però il lavoro di Schmidt dall’ambito settoriale (dell’arte, della fotografia) per inserirlo in un contesto più ampio. Nei suoi scritti mantiene quello slancio utopistico caratteristico delle migliori avanguardie che consiste nell’“usare” l’arte (falla, mostrala, analizzala) come strumento per comprendere i cambiamenti epocali, e lo fa con semplicità e arguzia. Uno dei migliori saggi di questo volume è tuttavia, certamente, un testo sulla fotografia americana, il vero e proprio campo di Baltz. Nonostante il titolo forse un po’ troppo accattivante (“Too Old to Rock, Too Young to Die”), rappresenta la prima rassegna (1985) e, per molti aspetti, ancora oggi la più incisiva, che sia mai stata scritta sulla fotografia americana degli anni sessanta e settanta, il periodo di formazione dell’autore. Anche in questo caso Baltz inizia delineando una storia per immagini, affermando argutamente che il decennio degli anni settanta appare meno terribile se osservato seguendo la linea che porta da Diane Arbus a Cindy Sherman rispetto a quella che va dalla sparatoria alla Kent State University all’elezione di Ronald Reagan. Il boom della fotografia degli anni settanta si ebbe per ragioni che Baltz trova da un lato interessanti, dall’altro estremamente superficiali. Può darsi che si sia trattato soltanto di una di quelle mode che ricorrono ciclicamente, secondo quanto avrebbe affermato Marvin Heiferman, direttore della galleria Castelli Graphics; o forse fu semplicemente un’opportunità nata dall’esaurimento di altri settori più consolidati delle arti visive. In sostanza, secondo la caustica analisi di Baltz, il trionfo della fotografia è da ricondursi al forte desiderio del pubblico dell’arte americano di immagini riconoscibili, aneddotiche, immagini che narrano una storia: «La fotografia» conclude «ereditò quindi una porzione di pubblico americano intellettualmente troppo pigro per comprendere e tanto meno per provare interesse per il genere di questioni sollevate dalla migliore arte degli anni sessanta».

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È un commento straordinario, che non esprime disprezzo bensì delusione; la capacità di Baltz di vedere questo limite e di individuare una serie di artisti che hanno saputo superarlo (Anthony Hernandez ma anche Bruce Nauman, William Eggleston ma anche Louise Lawler) lo colloca in una categoria a sé. Di sicuro ha compreso l’importanza di buona parte della migliore arte in generale, come dimostra nei suoi scritti e nel suo lavoro. Per questo dedichiamo a Lewis Baltz, che in questa data potrebbe essere o non essere «troppo vecchio per il rock», la frase di chiusura di un suo testo che fra poco compirà trent’anni: «Può darsi che fra trent’anni sboccerà un nuovo amore. La fotografia verrà tolta dai cassetti e ancora una volta se ne farà un gran parlare. E chi di noi vivrà abbastanza a lungo potrà riavere gli anni settanta». Buon compleanno Lewis. Matthew S. Witkovsky Direttore del Dipartimento di Fotografia The Art Institute of Chicago

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Questo libro è per Elliot Ruchowitz-Roberts



1 Note sulle recenti aree industriali nel Sud della California

Tipica ubicazione: terreno non precedentemente edificato. La vicinanza ad autostrade e aeroporti è di primaria importanza. Secondo fattore preso in considerazione è l’accesso a infrastrutture ferroviarie e marittime. Tipiche considerazioni nella scelta del sito: terreno pianeggiante che richiede interventi minimi di livellamento e non pone particolari problemi di suolo e costruzione delle fondazioni. Una scelta tipica sono i fondivalle o le golene dei fiumi. Poiché questo tipo di terreni di solito è destinato all’agricoltura, lo sviluppo di una o più ampie aree industriali può generare significativi cambiamenti nell’economia locale, come è avvenuto in alcune parti delle contee di Orange e Santa Clara in cui l’agricoltura è stata completamente soppiantata dallo sviluppo dell’industria. Tipica pianificazione urbanistica del sito: un unico operatore progetta l’intera area industriale, di solito in conformità con il piano regolatore della contea o regionale. Il sito viene suddiviso in un semplice reticolo di strade e lotti. L’impianto reticolare è interrotto esclusivamente lungo il perimetro dell’area da una strada di servizio che lo circoscrive e che ha la funzione di convogliare il traffico verso l’autostrada o verso la viabilità esistente. Il progetto prevede la creazione di ampie strade interne per agevolare il frequente passaggio di veicoli pesanti. Dimensioni del lotto, requisiti di arretramento degli edifici e altre indicazioni di azzonamento sono inseriti nel piano e rispettati in modo conforme in tutta l’area. Tipiche tecniche costruttive: per la pavimentazione vengono utilizzate gettate di calcestruzzo dello spessore di 15 cm circa. I tamponamenti delle pareti in cemento sono realizzati gettando il calcestruzzo in casseforme modulari a pavimento. Il modulo standard utilizzato per gli edifici destinati all’industria leggera è di 5,50 m × 5,50 m × 15 cm circa di spessore. Una gru li solleva e li colloca in posizione verticale lungo il perimetro del pavimento, lasciando fra i moduli uno spazio di 45 cm circa. Quindi vengono realizzati i pilastri di cemento che con-

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giungono i moduli della parete. Spesso questi pilastri sporgono dalla superficie esterna del muro e vengono considerati un elemento decorativo e dipinti in un colore diverso da quello dei moduli. Di solito la struttura del tetto viene costruita con travi in legno lamellare. Nei casi in cui la superficie da coprire è particolarmente estesa e il destinatario dell’edificio richieda che lo spazio interno sia privo di pilastri portanti, per il tetto vengono utilizzate travature prefabbricate. Finestre e porte sono disponibili in diverse dimensioni standard. Un edificio di questo genere, adatto per lo stoccaggio e per l’industria leggera, può costare fra gli undici e i cinquanta dollari al piede quadrato, a seconda della distribuzione degli spazi interni e della qualità delle finiture richieste. Funzioni tipiche: normalmente queste aree ospitano settori produttivi che hanno acquisito una notevole importanza a partire dalla guerra di Corea quali l’industria aerospaziale, le società di elaborazione e raccolta dati e attività legate all’industria del tempo libero come per esempio la fabbricazione di veicoli e attrezzature per lo sport e il turismo. Spesso queste aree industriali ospitano centri di stoccaggio e distribuzione di aziende la cui produzione ha luogo in altre zone del Paese o all’estero.

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Nomi tipici: spesso le società tendono a scegliere nomi che oscurano la natura delle loro attività e l’identità dei proprietari. Sono nomi tratti in genere dalla terminologia delle spedizioni nello spazio, della cibernetica, dei materiali plastici, dell’elettronica e di nuove tecnologie affini. Tipiche questioni ambientali: il più delle volte le industrie che si insediano nelle nuove aree industriali sono richieste dalle comunità locali per le quali l’industria leggera rappresenta una risorsa economica. Caratteristiche tipiche dell’industria pesante ed estrattiva quali l’inquinamento acustico, atmosferico e idrico, la presenza di edifici esteticamente poco gradevoli e la necessità di un ampio bacino di manodopera non specializzata sono del tutto assenti nei nuovi impianti. Essi, infatti, tendono, al contrario, ad avere livelli di inquinamento notevolmente più bassi. Gli edifici che le ospitano sono strutture inoffensive, anonime, spesso circondate da ampi spazi all’aperto molto curati; infine danno lavoro a un numero ristretto di dipendenti specializzati, retribuiti con stipendi di livello medio e medio-alto. Tipiche considerazioni economiche: producendo beni e servizi altamente specializzati rispetto alla vecchia industria pesante, queste attività sono più soggette alle fluttuazioni economiche. Inoltre, essendo spesso legate almeno in parte alle commesse pubbliche, anche in periodi di generale stabilità economica sono esposte ai mutevoli orientamenti della spesa statale.


2 Problemi di paesaggio

I libri sulla vita e l’opera di Edward Weston rappresentano oggi un settore specifico dell’industria editoriale della fotografia. Ogni stagione propone nuovi volumi su uno o l’altro aspetto della lunga e straordinaria carriera di Weston; è probabile che questa tendenza registri una accelerazione perlomeno fino al centenario della nascita, nel 1986. Nonostante l’innegabile importanza storica, Weston è rimasto curiosamente una figura fuori moda fra i fotografi affermatisi negli ultimi vent’anni. Alcune ragioni di ciò sono evidenti: Weston è stato un fiero assertore del modernismo in fotografia, una posizione poco apprezzata in un’epoca in cui le migliori energie sono rivolte alla decostruzione del modernismo. Peggio ancora, per chi di noi si è formato nel dopoguerra, il suo approccio romantico e bohémien risulta fin troppo studiato; si ha l’impressione che Weston abbia vissuto (e accuratamente documentato la propria vita nei Daybooks) in previsione di un biografo adeguato. Oggi che la battaglia è stata vinta, la sua insistenza talvolta eccessiva sul fatto che la fotografia, o un certo tipo di fotografia, sia da considerare a pieno titolo arte modernista risulta ridondante: la passione e l’individualismo che lo contraddistinguono appaiono in conflitto con una visione più distaccata e meno solipsistica del ruolo dell’artista nella società. Nonostante tali considerazioni, che nel suo caso sono ampiamente fondate, è tuttavia impossibile negare la portata e la complessità dei risultati di Weston come fotografo e la sua posizione nell’arte americana della prima metà del xx secolo. Inoltre, se è il lato romantico e formalista della vita e dell’opera in questione ad avere catturato l’ammirazione di una fetta di pubblico dotata di minor senso critico, le opere dell’ultimo periodo sono la dimostrazione concreta che Weston era molto più di questo. Le fotografie realizzate intorno al 1935 rivelano che era giunto al rifiuto di un approccio puramente formalista al paesaggio. Nelle opere della maturità, e in particolare in quelle realizzate all’epoca della borsa di studio della Guggenheim e in quelle pubblicate in Foglie d’erba,1 Weston dimostrò di avere fatto propri tanti insegnamenti dei fotografi americani che avevano preso parte alle prime spedizioni geografiche, di confrontarsi con alcune opere di Atget e Walker Evans e di anticipare diversi temi che avrebbero

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dominato la fotografia topografica di paesaggio degli anni settanta. John Szarkowski ha sottolineato lo sviluppo di Weston come fotografo di paesaggio in un confronto con Paul Strand: Ma prima della fine di quel decennio [gli anni venti], Weston in California e Paul Strand dall’altro capo del continente ripresero ad analizzare il problema del paesaggio prima fotografandone dettagli (la radice di un cipresso, un fungo nascosto nel sottobosco), quindi, una volta acquisita una maggiore sapienza visiva e descrittiva nei confronti di livelli sempre più complessi dell’ordine compositivo, muovendosi con cautela verso un paesaggio sempre più ampio e caotico. Dei due, Weston approfondì maggiormente la questione facendo via via arretrare l’apparecchio fotografico in modo da avere un campo visivo sempre più ampio e complesso. Fino alla metà degli anni trenta tese a evitare l’orizzonte o a utilizzarlo come una bella linea, un grafico “obbligato” nella parte alta dell’immagine, contentandosi di un ordine compositivo organizzato in uno spazio essenziale e poco profondo, quasi bidimensionale. Alla fine degli anni trenta, all’apice della potenza creativa, Weston non ebbe timore di confrontarsi con spazi sempre più ampi e profondi e realizzò immagini di un universo vasto e complesso che risultano altrettanto chiare e limpide, maestosamente

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sicure di sé, di quei primi frammenti di paesaggio […], fotografando anche scorci attraversati da grandi strade moderne.2

Nel suo ultimo libro Jonathan Green è ancora più esplicito nel definire le opere di Weston […] asciutte, limpide, chiare e letterali… È difficile trovare un altro fotografo della prima metà di questo secolo che abbia come lui eliminato completamente gli orpelli mistici, simbolici e metaforici. L’unico che gli si avvicina è Walker Evans. […] È opinione comune della critica più recente che Evans sia stato la principale fonte di ispirazione della nuova ricerca sul colore e dei fotografi della New Topographics. Se in termini iconografici ciò può essere vero, l’influenza primaria in termini descrittivi va attribuita a Weston. Infatti, ciò che alla fine percepiamo in quelle sue fotografie tattili, volumetriche e assolutamente accurate è un senso di bellezza del dato reale e una rinnovata consapevolezza del vigore e delle possibilità del sogno americano.3


3 Il più americano dei fotografi

Quando Walker Evans morì nel 1975, il suo necrologio apparve sulla prima pagina del New York Times.1 Si trattava di un privilegio raramente concesso a un artista visivo e, ancor meno, a un fotografo. Se negli Stati Uniti un fotografo acquisiva notorietà, era sempre perché qualche aspetto del suo lavoro coincideva con gli interessi del grande pubblico: Edward Steichen con The Family of Man; Ansel Adams con il movimento ambientalista; Richard Avedon con l’illusione di seduzione e ricchezza; Robert Mapplethorpe con il movimento di liberazione omosessuale e l’aids negli anni ottanta. A differenza di questi, Walker Evans era semplicemente un fotografo. Tuttavia, parafrasando un commento di Duchamp su Monet, si potrebbe aggiungere: «Ma che fotografo». Per un breve periodo a metà degli anni settanta il mercato dell’arte e, in generale, il pubblico americano decisero di prendere sul serio la fotografia, e non c’era fotografo americano più serio di Walker Evans. La sua opera e carriera erano paradigmatiche. Dagli anni venti in poi Evans si dedicò a un progetto che avrebbe portato avanti per tutta la vita: creare una mappatura dei diversi volti dell’America; le sue immagini di città e metropoli, edifici, cartelli e insegne luminose, automobili, volti e modi di essere si avvicinavano, per le loro qualità di universalità e completezza, alla classificazione tipologica. Le opere più note di Evans furono realizzate negli anni trenta per la Farm Security Administration e pubblicate nel 1938 con il titolo di American Photographs, accompagnate da un testo di Lincoln Kirstein. Negli anni successivi Evans lavorò come editor per la rivista Fortune, spesso assegnandosi i progetti più interessanti, e terminò la sua carriera come professore alla Yale University. Evans era il fotografo per antonomasia. Il suo lavoro ispirò aggettivi tutt’altro che inappropriati quali distaccato, ironico, glaciale, rigoroso. Molto prima di diventare noto al grande pubblico la sua opera esercitò, sia pur in modo sottile e spesso celato, una straordinaria influenza su altri fotografi americani, cosa che, considerata la personalità, corrispondeva probabilmente ai suoi desideri. Evans non godette sempre di una posizione così solida e prestigiosa. Dopo la prima edizione del 1938 il volume American Photographs rimase più o meno sempre

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disponibile, ma fino al 1970 l’idea prevalente dei pochi critici che si occupavano di fotografia era che Evans, seppur dotato di un notevole talento, fosse il prototipo dell’artista appartenente alla corrente dell’American Scene che si era sviluppata all’epoca della Depressione e che, ancor peggio, da allora il suo genio fosse entrato in una fase di declino. La riabilitazione della figura di Evans negli ultimi vent’anni è stata opera soprattutto di John Szarkowski, il quale nel 1971 curò un libro e una mostra di Evans al moma che ne sancì il passaggio da una posizione periferica al centro della storia della fotografia. Diversamente dalle raccolte curate da Evans stesso, il volume di Szarkowski ha rappresentato, fino in tempi recenti, la pubblicazione più autorevole sulla sua opera. Sebbene nel libro fossero riprodotte solo un centinaio di immagini della sua œuvre enciclopedica, la scelta e la sequenza delle opere fotografiche non solo si ispirava, ma corrispondeva quasi del tutto – e voleva essere un omaggio – a una sequenza giustamente apprezzata delle American Photographs operata dallo stesso Evans. L’appoggio risoluto di Szarkowski ebbe un duplice ruolo fondamentale: portò il lavoro di Evans in primo piano nel dibattito fotografico e, aspetto ancor più importante, definì i termini del dibattito stesso intorno alla sua opera e alla produzione fotografica in generale. Può essere interessante analizzare come e perché ciò sia avvenuto. 20

Quando John Szarkowski assunse la direzione del Dipartimento di fotografia del Museum of Modern Art, che in quegli anni rivestiva una posizione egemonica nel panorama americano, apparve chiaro che si era prefissato due obiettivi ambiziosi: il primo era contraddistinguere la propria gestione da quella del suo illustre predecessore, Edward Steichen, preservando però la fedeltà dei suoi sostenitori; il secondo era reinventare la storia della fotografia del xx secolo. La riabilitazione della figura di Evans rappresentò una componente fondamentale di questo piano. Szarkowski, come Evans, era originario del Midwest e uno strenuo assertore della cultura americana; la sua concezione estetica si ispirava alla celebrazione dello stile vernacolare di John Kouwenhoven,2 una visione del mondo che contrapponeva positivamente il ponte di Brooklyn alle cattedrali europee e metteva sullo stesso piano l’arte popolare americana e i manoscritti miniati. Nella sua attività da fotografo, il lavoro più noto di Szarkowski era stato uno studio sulle banche delle cittadine di provincia del Midwest progettate da Louis Sullivan, che dal punto di vista stilistico si presentava come un omaggio a Evans. Per Szarkowski Evans era il fotografo americano per antonomasia, oltre che la figura più importante nella sua campagna per emancipare la storia della fotografia statunitense dai predecessori europei e per ricollocarla nell’alveo di un genius loci americano. Già dopo qualche anno di operato dal rinomato pulpito del moma si poteva affermare che questo obiettivo fosse stato raggiunto. A metà degli anni settanta il prestigio di Evans era così assoluto da far pensare che in America non


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fosse possibile intraprendere alcuna ambiziosa attività fotografica senza invocarne il nome. La maggior parte dei fotografi che esponevano al moma, che ricevevano un assegno di ricerca della Guggenheim o pubblicavano su riviste serie era accomunata dal fatto che il loro lavoro riconosceva l’influenza di Evans e ne promuoveva il pensiero. Questo tipo di fotografia, che spesso ricordava le istantanee per l’apparente immediatezza dell’inquadratura e l’accettazione dei “difetti tecnici” (con zone sovraesposte dell’immagine, elementi sfocati, soggetti al centro dell’immagine, l’inclusione dell’ombra o del riflesso del fotografo, l’orizzonte storto ecc.) fu abbracciata da tre generazioni di fotografi; Robert Frank, Garry Winogrand, Lee Friedlander, Tod Papageorge, Henry Wessel e William Eggleston, solo per fare qualche esempio, hanno tutti beneficiato dell’eredità di Evans. Altri fotografi trassero ispirazione da lui in modo diverso: le perfette immagini a colori di paesaggi di Stephen Shore, dove la figura umana è assente pur essendo palese il suo intervento; l’interesse di John Gossage per il metodo narrativo di Evans; e ancora William Christenberry e il suo laborioso viaggio nel Sud sulle orme di Evans. “New Topographics” fu in parte influenzata da Evans così come lo fu, volendo concordare con Jean-François Chevrier, l’artista concettuale Dan Graham. L’influenza di Evans giunse nel Regno Unito attraverso l’opera di William Eggleston ed è percepibile in tutta l’attività della corrente del New British Color e, in particolare, nel lavoro del suo più consapevole rappresentante, Paul Graham, le cui opere estremamente sofisticate evocano l’attenzione meticolosa di Evans per il dettaglio denso di significato. Altre tracce di Evans si ritrovano in Bonnie e Clyde di Arthur Penn e sono quasi soverchianti in Daunbailò di Jim Jarmusch. Si potrebbe affermare che il cerchio si sia chiuso con la scelta di Sherrie Levine (l’ennesima artista che operò mediante un processo di appropriazione di elementi e opere altrui) di inserire alcune immagini classiche di Evans nella sua serie di lavori concettuali intitolata After Walker Evans. Levine ci dà la misura della grandezza di Evans: in fondo avrebbe potuto scegliere chiunque altro. Quelle immagini, invece, valgono ormai come icone: il grande fotografo che ha documentato il passato è diventato egli stesso un monumento del passato. L’unica questione ancora aperta è se nell’opera fotografica ormai ampiamente studiata dell’artista sia ancora presente qualche aspetto rilevante per la situazione attuale e, eventualmente, quale. Il 1994 non è un anno granché propizio per una valutazione della fama di Evans. L’attuale clima politico, per lo meno negli Stati Uniti, non è favorevole alla valorizzazione di un artista bianco, maschio e progressista. Aspetto ancor meno positivo, il mancato allargamento della tribù di Evans: dal 1977 a oggi non si è aggiunto alcun nuovo nome all’elenco dei suoi valorosi seguaci. Fatto ancor più negativo, la fotografia in generale così come la concepirono e la praticarono

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Evans e i fotografi che ne seguirono le orme versa oggi in condizioni di malattia terminale. Negli ultimi anni non è comparso nulla di nuovo a reintegrare la tradizione del maestro, né si ha l’impressione che qualcosa possa accadere in futuro in questa direzione. La scena si è spostata altrove. Uno dei principali altrove è la teoria critica, che possiamo considerare l’arte del nostro tempo. Per il momento Evans sembra condannato al destino di molti poveri disgraziati che come lui hanno avuto la suprema sfortuna di essere vissuti e avere operato prima che la teoria post-strutturalista offrisse gli strumenti necessari per un’indagine critica rigorosa. La teoria critica non fa ostaggi: Evans è già diventato una figura di scarso interesse accademico. Eppure, alcuni aspetti della sua pratica artistica e diverse sue considerazioni sulla fotografia fanno pensare che fosse estremamente consapevole e tutt’altro che noncurante del giudizio dei posteri. Abile dissimulatore, Evans perseguì i propri scopi: a libro paga per la Farm Security Administration (imbrogliando un po’ strada facendo) tenne sempre ben distinti i propri obiettivi da quelli dei propri committenti. Il progetto ufficiale della fsa aveva finalità propagandistiche: rendere di dominio pubblico la piaga della povertà rurale per mobilitare l’opinione pubblica a favore dei programmi di risanamento e ripresa del New Deal. Evans non aveva particolari motivi di divergenza rispetto a questo piano, e tuttavia si pre22

figgeva un obiettivo diverso. Voleva lasciare un’eredità artistica più importante e duratura rispetto alle moderate politiche riformiste dell’amministrazione Roosevelt. I mentori di Evans non erano Marx, Jane Hull e Lewis Hine ma, più probabilmente, Balzac e Stendhal. La fotografia per Evans non era né documento né arte, bensì una pratica più vicina al romanzo: uno strumento per creare una letteratura di immagini usando fatti reali per costruire realtà artificiali che fossero rivelatrici di verità. Si trattava di un’ambizione enorme; il suo utilizzo della fotografia, o delle immagini fotografiche, era paragonabile all’uso delle immagini da parte del cinema. Evans non nascose mai un certo disprezzo per la cosiddetta “fotografia d’arte”. Pur non arrivando a sostenere, come ha fatto Joseph Kosuth, che il risultato finale dell’opera d’arte non ha alcuna importanza, il disprezzo di Evans per le convenzioni della “bella fotografia” era in radicale contrasto con i colleghi a lui contemporanei che nutrivano ambizioni “artistiche”. Al centro dell’ideologia di Evans c’era la fede in una nobiltà naturale, l’ideale jeffersoniano del nuovo uomo democratico animato da ideali di libertà, all’altezza delle grandi imprese della sua epoca. Era una visione che nella storia americana aveva avuto fortune alterne e che dopo la Grande Depressione riacquistò rinnovata importanza. Secondo questa prospettiva, la democrazia offriva le condizioni necessarie affinché la gente comune potesse sconfiggere le ingiustizie e salvare un mondo devastato dal crollo economico. Diversa-


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mente dal marxismo, questa ideologia non valorizzava una specifica classe sociale, pur avendo maggiori simpatie per i ceti meno abbienti. Paragonata al “socialismo scientifico”, questa concezione ci appare da un lato poco chiara e, dall’altro, analogamente a quella forma di socialismo, irrimediabilmente utopistica. A Evans non era dato sapere che le cose sarebbero andate in maniera diversa. La critica ha assegnato a Evans il ruolo del Grande Documentarista, mentre Szarkowski riformulò la definizione in termini modernisti. In realtà, entrambe le definizioni si basano su dati altrettanto discutibili dei termini stessi che le designano. Se Evans fu un documentarista, lo fu esclusivamente nella misura in cui ogni rappresentazione è, in un certo senso, un documento che riflette il mondo da cui ha origine. Affermare che le ambigue fantasie di Robert Mapplethorpe, il cinéma-vérité di Garry Winogrand e l’immagine-testo di Martha Rosler abbiano egual diritto di essere classificate come documento significa, di fatto, svuotare questo termine di ogni significato. Inoltre, se Evans fu un modernista, certamente non fu un modernista volgare (cioè con un’attenzione commerciale per l’oggetto trascendente definito in termini puramente stilistici). Piuttosto, il suo lavoro può essere considerato modernista perché è, per sua stessa natura, una riflessione sulle condizioni che ne determinano l’esistenza e sulla relatività di quelle stesse condizioni, sebbene al giorno d’oggi questa posizione sia considerata postmodernista. Evans dà una chiara definizione del suo approccio al documento affermando di avere scelto di «lavorare in uno “stile documentario”» e rivelando una consapevolezza della relatività dello stile. “Documentario” non era altro che una delle tante possibilità di un lungo elenco di costrutti della rappresentazione altrettanto praticabili, ma era quella più adatta al suo progetto. In seguito, alcuni fotografi ansiosi di dare un fondamento di autenticità al proprio lavoro avanzarono le più stravaganti teorie sull’essenza del documento invocando Evans a sostegno della loro tesi; ma si tratta di un consapevole travisamento delle sue intenzioni dichiarate. Il problema principale con cui i critici e i fruitori dell’opera di Evans si devono confrontare è di natura morale, piuttosto che estetica, e riguarda Evans e il suo rapporto con l’“altro”. Freddo e distaccato, il fotografo imponeva ai suoi soggetti la propria personalità e visione, s’impossessava della loro immagine per finalità a essi sconosciute e li faceva parlare con la propria voce, un tipo di comportamento che oggi ci apparirebbe di sicuro politicamente scorretto. Gli anni trenta avevano un’idea diversa ma altrettanto rigorosa del politicamente corretto, che aveva come presupposto l’immaturità politica delle masse e l’obbligo delle élite intellettuali di guidarle nella lotta per l’emancipazione. Il fatto che in questo processo per il raggiungimento di una più ampia visione sociale l’immagine di alcune persone venisse strumentalizzata era tanto de-

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plorevole quanto inevitabile. Un principio, questo, che accomunò il fascismo, l’Internazionale comunista e il New Deal e che oggi è inconfessatamente ancora in auge. Dall’epoca di Evans la fotografia documentaria di matrice progressista ha subito una radicale trasformazione. La percezione e la rappresentazione del mondo sono del tutto cambiate dopo Walter Benjamin: oggi l’attenzione non è più rivolta soltanto al soggetto ma anche, e forse ancor più, ai codici di rappresentazione. Se Evans fu profondamente consapevole, come credo, della relatività e della mancanza di trasparenza del suo mezzo espressivo, non fu questo comunque il suo principale campo di indagine. L’opera di Evans è racconto e testimonianza di un’altra epoca ma anche, secondo molti critici che apprezzano il suo lavoro, di un altro luogo. Analogamente a Melville, Whitman, Emerson e Hopper, Evans ritrasse un mondo tipicamente americano con un linguaggio spiccatamente americano, descrivendo una realtà che gli europei non potevano che condividere in modo indiretto. In Europa l’interesse per l’opera di Evans arrivò tardi, così tardi da coincidere in maniera ironica con un generale calo di attenzione da parte degli Stati Uniti. (Solo due delle ventisei monografie a cura di Evans o sulla sua opera pubblicate fra il 1930 e il 1989 sono state realizzate in Europa. Degli undici testi usciti a 24

partire dal 1989, sei sono europei, uno americano ma di autore europeo, quattro americani.) Due pubblicazioni, entrambe curate da autori francesi, che affrontano differenti aspetti dell’opera di Evans, riflettono il risveglio dell’interesse del Vecchio Continente per l’artista. La prima, Walker Evans and Dan Graham, è il catalogo di una mostra itinerante dall’omonimo titolo inaugurata nel 1992 al Witte de With Museum di Rotterdam e poi riproposta in una serie di altre istituzioni fra cui il Whitney Museum di New York.3 Obiettivo dell’esposizione e del volume è dimostrare l’esistenza di insospettate analogie fra l’opera dei due artisti, un’impresa piuttosto ardua dal momento che si ha la sensazione che nemmeno loro fossero consapevoli di questo rapporto. È probabile che Evans conoscesse il lavoro di Graham e viceversa, ma è ancor più probabile che il grande fotografo classico e il noto artista concettuale non nutrissero un particolare interesse reciproco. A parte un saggio eccellente di Allan Sekula dal titolo “Walker Evans and the Police”, il volume è fortemente orientato alla trattazione delle opere fotografiche per lo più inedite realizzate da Graham negli anni sessanta e settanta. Mentre il saggio di Benjamin H.D. Buchloh sull’evoluzione dell’opera di Graham è apprezzabile, il testo introduttivo di Jean-François Chevrier, volendo usare un’espressione generalmente impiegata per le commedie musicali hollywoodiane, strappa una risata. Un progetto più recente e ambizioso è lo studio integrale dell’opera di Evans a cura di Gilles Mora, intitolato, a mio avviso in maniera poco felice, Walker Evans: The Hungry Eye.4 Corredato di oltre trecentocinquanta immagini, il volume non


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è tuttavia l’antologia più esaustiva dell’opera di Evans (prerogativa di due precedenti pubblicazioni americane). Pur mancando delle pretenziose acrobazie accademiche di Chevrier e dell’eccezionale sintonia di Szarkowski per l’opera di Evans, quello di Mora è comunque qualcosa di più di un libro ben fatto: la passione dell’autore per il fotografo, pur restando sempre controllata, si rivela nella trattazione dettagliata, tema dopo tema, periodo dopo periodo, dei quasi cinquant’anni della sua vita professionale. Mora non è un revisionista; accoglie e sviluppa ulteriormente interpretazioni già invalse su Evans e rivolge l’attenzione alle singole sfumature dell’opera, a supporto dell’inconfessata ambizione del libro di essere uno strumento indispensabile per gli studiosi del fotografo. Forse un po’ limitato sul piano teorico, il volume si dilunga invece nella descrizione dei fatti: si ha l’impressione che a Mora non sfugga nulla. The Hungry Eye non nasce da un celato intento programmatico: è puro Evans, e risulta più o meno interessante a seconda dell’interesse che si nutre per la sua opera. Mora voleva probabilmente realizzare il libro conclusivo su Evans; per ora si può dire che sia riuscito nell’intento. Passeranno probabilmente molti anni prima che si senta la necessità di un altro libro agiografico sul fotografo. In Europa e in America gli studi critici su Evans, ammesso che ve ne siano, andranno tutti nella direzione del libro di Chevrier (con la speranza che riescano a essere più convincenti), nel senso di una rivalutazione dell’opera volta a scoprire o a inventare la genealogia di un artista o di una corrente artistica contemporanea. Potrebbe essere interessante e persino sorprendente capire se in futuro Evans continuerà a essere riciclabile all’infinito come lo è stato in passato e, se così fosse, a quali scopi sarà impiegato il suo lavoro.

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