Siegmund Ginzberg
Siegmund Ginzberg è nato a Istanbul nel 1948
Questo volume raccoglie una selezione di scritti nati quasi per gioco e moltiplicatisi sul
«Il concetto di classico è migrato altrove, fra i
da madre ebrea sefardita e padre ashkenazita,
Foglio nel corso degli ultimi anni, in genere di sabato, quando si presume che i lettori dei
immigrati a Milano negli anni cinquanta. I
quotidiani abbiano più tempo per “sfogliare”, se non per leggere. In essi l’autore si con-
nonni erano sudditi dell’impero turco otto-
fronta con alcuni dei titoli più noti della letteratura, ricavandone fertili spunti di rifles-
mano. Dopo gli studi di filosofia, Ginzberg
sione e proponendo nuove e inattese letture nel presente, in particolare degli eventi fra
ha intrapreso l’attività di giornalista che lo
il 2001 e il 2005. L’idea di fondo di queste “sfogliature” nasce dalla convinzione che sono
ha portato, come inviato e corrispondente, in
classici, secondo la definizione che ne dà Italo Calvino, quei libri che non smettono mai
Iran, Cina, India, Giappone, Corea del Nord e
di dire quello che hanno da dire, che svelano qualcosa di nuovo a ciascun lettore in ogni
del Sud, in quasi tutti gli altri paesi asiatici, a
diversa epoca, così da offrire a ogni nuova lettura analogie e parallelismi inediti con i fatti
è un’epoca poco certa dove il conforto dei classi-
New York, Washington e Parigi. Nei suoi tras-
del momento.
ci torna utile. È questo il percorso che Ginzberg
libri, dove sopravvive, a dire il vero, egregiamente e dove prospera secondo gli umori delle diverse epoche. Quando si è molto romantici torna forse meno utile, poiché gran parte delle energie letterarie, esistenziali e politiche sono rivolte all’azione. Quando si è più inclini alle incertezze prende vigore maggiore. E la nostra
offre di sabato sulle pagine frugali del Foglio a
portandosi dietro una biblioteca più adatta a
chi ha voglia di riflettere. Parte egli da un det-
una vita stanziale, con solide radici. Dopo una lunga carriera errante ha ritrovato il piacere della lettura. Attualmente vive a Roma – per lui un’altra capitale estera – dove collabora con
Sfogliature
ferimenti ha fatto varie volte il giro del mondo,
Siegmund Ginzberg
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l’Unità e Il Foglio.
Scoop nascosti nei classici
taglio della cronaca recente e tenta con abilità da retore dell’epoca imperiale di trovare non la citazione (lo fanno in molti con un buon dizionario) ma il modello classico che su quel dato contingente getta la luce del pensiero di sempre, o meglio d’una certezza che la sanzione della storia ha dato all’opera di riferimento. E a un tratto la nostra quotidianità, che spesso reputiamo in modo non del tutto illegittimo essere fra le più sciocche della storia dell’umanità, ebbene questa quotidianità replicata ossessivamente dalla carta e dall’etere entra in un epos carico di echi. Prende dignità di storia per il fatto solo di poter essere paragonata a ciò che storia è diventato, e quindi classico.» (Dalla prefazione di Philippe Daverio)
Font: Futura Heavy Colori: Pantone
JOHAN & LEVI
JOHAN & L E V I e d i t o r e
Siegmund Ginzberg
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Scoop nascosti nei classici
L’altro Osama Il Kitab al-I’itibar, l’autobiografia “per esempi” di Usāmah Ibn-Munqidh
Ha superato i novantadue anni il vecchio Osama, e si sente stanco. È diventato pessimista. Con la mano «che era un tempo tanto forte da spezzare una lancia nel cuore di un leone, e ora non riesce a tenere ferma nemmeno la penna» (Ibn-Munqidh, p. 14), verga i versi conclusivi del libro a cui ha lavorato per tutta la vita: «L’ingiustizia è caratteristica di tutte le anime. Se trovate qualcuno che non pratichi ingiustizia, deve averci un suo particolare tornaconto» (ivi, p. 254). Riflette sul fatto che «la senilità è universale» e «infetta tutti coloro che la morte ha dimenticato» (ivi, p. 191). Lamenta che la longevità mi ha privato delle energie con cui affrontare le vicissitudini del tempo, quando questo mi è ostile […] Quando mi alzo è come se avessi sulle spalle il peso di una montagna; quando cammino è come se fossi legato con le catene; le notti le passo in un morbido letto, sveglio come se giacessi sulla dura roccia; nel momento in cui l’uomo raggiunge perfezione e completezza è come se ritornasse bambino. (Ibidem)
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Rumina il passato. E anche questo lo infastidisce. «Sprecare il proprio tempo a raccontare favole è una delle peggiori calamità che possano capitare a una persona» (ibid.), sbotta. Quest’altro Osama, Usāmah Ibn-Munqidh, aristocratico, guerriero, cacciatore, gentleman, poeta e squisito uomo di lettere siriano del XII secolo, è quello che ha lasciato all’umanità uno dei più suggestivi testi della letteratura araba, il Kitab al-I‘itibar, la sua autobiografia “per esempi”, ossia per aneddoti. Densa di episodi di guerra, sangue e massacri (tra cristiani e musulmani – sono i tempi delle crociate – e forse soprattutto, già allora, tra musulmani e altri musulmani). Ma anche di tolleranza e umanità. La sua filosofia è l’antitesi del “senso unico”. Tutto il libro è un concatenarsi di episodi per associazione di idee, che mostrano come dalle stesse cause si possano avere effetti diametralmente opposti. Ne ha viste tante e quel che più lo colpisce 22
è l’immensa casualità della vita, in cui si verifica tutto e l’esatto contrario di tutto. Non avesse a portata di mano la spiegazione fondata sulla imperscrutabile volontà di Allah, il senso orientale della fatalità predeterminata e indipendente dalla volontà degli uomini, si direbbe quasi un realista cinico. Questo Osama è un credente, ma non un fanatico. Ha un senso innato, quasi moderno dell’humour. Racconta favole con una loro morale, ma la morale principale è che non si è mai sicuri di come andrà a finire. Sta da una parte: quella della sua gente e della sua famiglia, su cui implora la benedizione di Allah, anche quando hanno torto o lo diseredano. Ce l’ha con gli invasori franchi (che Dio li maledica) anche quando sono suoi amici. È un uomo d’arme, un cavaliere galante, gli hanno insegnato a far la guerra fin da quando era bambino, ha ucciso per la prima volta un uomo quando aveva dieci anni. Come il motto del paladino Orlando nella Chanson de Roland era pain unt tort e crestiens unt dreit, i pagani hanno torto e i cristiani hanno ragione, il suo è che gli infedeli hanno torto e i fedeli hanno ragione. Ma non
· L’altro Osama ·
per questo li odia. È curioso, prima che giudice. Li trova strani, e per questo cerca di capirli. Sa distinguere. Osserva per esempio che «gli arrivati di recente dalle terre dei franchi [l’Occidente, nda] sono molto più rozzi di quelli che si sono acclimatati [in Oriente, nda] e hanno avuto a lungo rapporti con i musulmani» (ivi, p. 169). A volte gli sembrano un po’ stupidi «come animali che possiedono solo la virtù del coraggio e del combattere, ma nessun’altra» (ivi, p. 161). Spietati, come il pirata che vende i prigionieri o il re di Accra che non onora i propri salvacondotti (anche se gli lascia il beneficio di una scusante: «erano in lingua franca, chissà cosa dicevano», ibidem). O semplicemente buffi, come il mercante che, tornato a casa e trovato un altro uomo a letto con la moglie, non batte ciglio quando si sente rispondere da questi che era stanco e voleva farsi un pisolino. «Ma come, nello stesso letto in cui dorme mia moglie?» si limita a chiedergli. «E cosa dovevo fare? Mica potevo cacciarla. Sarebbe stato scortese, in fin dei conti il letto è suo» (ivi, p. 165). Questo Osama fa amicizia con i Templari, custodi del sacro sepolcro a Gerusalemme. Diventa intimo di un prete («che stava sempre in mia compagnia e mi chiamava fratello», ivi, p. 161), al punto che questi gli chiede di affidargli il figlio quattordicenne per portarlo con sé in Europa e istruirlo nelle virtù e nella saggezza della cavalleria occidentale «di modo che ritorni sapiente». Lui è convinto che quello sia semplicemente matto. Pensa: «Nessun uomo sano di mente mi avrebbe fatto una proposta del genere: non immaginerei, nel caso mio figlio fosse stato fatto prigioniero, che gli possa capitare disgrazia peggiore che essere portato nelle terre dei franchi» (ibidem). Ma non vuole offendere l’amico, e gli risponde: «Ci avevo pensato anch’io. Ma l’unica cosa che mi trattiene è che la nonna, mia madre, ci tiene tanto a questo ragazzo che mi ha fatto giurare che non l’avrei staccato da lei». Al che il prete gli risponde: «Se è così, non disobbedirle» (ibid.).
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Suo padre, copista di Corani, e suo zio, il signore della rocca di Shayzar, lo avevano iniziato alle arti marziali e all’amore per le lettere. Ma era stata sua nonna, racconta, a insegnargli a vivere. Era più che centenaria quando, dopo una partita di caccia in cui si era distinto in prodezze, lo aveva chiamato per rimproverarlo: “Chi te lo fa fare di rischiare la vita per esibirti?”. “Per rendermi caro al cuore di mio zio”. “Cretino. Non ti rendi conto che così facendo ti attiri solo gelosie e antipatie?”. Mi resi conto che la nonna aveva ragione e diceva il vero. Queste sì che sono le madri degli uomini! (Ivi, pp. 154-55)
Questo Osama morì, coperto di cicatrici riportate in battaglia, all’età 24
di novantatré anni, nel suo letto. Anche di Osama bin Laden si dice che, oltre a essere di buona famiglia, sia colto e intelligente. I suoi proclami sono molto poetici. Ma la domanda che ci si impone è: parlava con sua nonna?
Il Foglio, 22 ottobre 2001.
“Il Kitab al-I‘itibar, l’autobiografia per esempi di Usāmah Ibn-Munqidh.”
Guerre preventive di Assurbanipal Iscrizioni reali assire di cinque millenni fa
La superpotenza militare, al momento senza rivali sul piano planetario, si guarda bene dal glorificare le guerre che si appresta a fare. Il suo leader non nasconde la superiorità schiacciante delle proprie forze armate, da ogni punto di vista: strategico, tecnologico, organizzativo. Lo fa, dicono gli esperti, non solo per intimidire l’avversario, ma anche nell’estremo tentativo di evitare la guerra con la sola minaccia di guerra, la dimostrazione di forza. Insiste che darà l’ordine di attacco non perché gli piaccia la guerra, che anzi aborre, ma per il bene del mondo. Non fa guerre ingiuste, o per il gusto di farle, ma solo guerre sacrosante, inevitabili. Le fa non per il proprio tornaconto ma soprattutto per garantire la pace in futuro, liberare popoli oppressi da tiranni sanguinari, neutralizzare aggressori folli e assicurare pace, libertà, ordine, giustizia, benessere, prosperità, progresso e crescita economica a tutti. Le fa contro pazzi e criminali che si sono già rivelati capaci di ogni nefandezza; contro chi l’ha provocato e aggredito, ma anche per prevenire minacce che incombono. Dichiara che la vittoria consentirà di cambiare in meglio il mondo,
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di dare nuova vita a un ordine mondiale meno minaccioso e incerto per tutti. Dice che se le guerre sono un male talvolta sono necessarie per evitare un male peggiore: il caos che mette a rischio la pacifica convivenza internazionale. Nega di avere obiettivi egemonici e promette una politica costruttiva di pacificazione. Afferma che si tratta di una battaglia tra il Bene e il Male; che sente il peso di una responsabilità che ricade interamente sul suo paese, perché nessun altro è in condizione di assumersela. Spiega agli alleati che non si può stare in mezzo, pretendere neutralità: si è o con lui o con i nemici. Non lancia guerre di religione ma non ha dubbi che Dio stia dalla parte giusta. Prega e invita tutti a pregare perché finisca bene. George W. Bush? No. Sono le Iscrizioni reali degli antichi sovrani assiri, risalenti al terzo e secondo millennio avanti Cristo, tradotte, commentate e presentate (insieme ai testi originali, non in cuneifor26
mi ma in traslitterazione) in un imponente lavoro di Bustenay Oded, una delle massime autorità mondiali in questo campo di studi. War, Peace and Empire: Justifications for War in Assyrian Royal Inscriptions, si intitola il volume, pubblicato nel 1992. Duecento pagine fitte di risposte lapidarie e stilizzate alla domanda che, all’indomani della Grande guerra, l’economista Joseph A. Schumpeter immaginava si potesse porre a un antico re assiro: «Perché non cessi di conquistare? Perché distruggi un popolo dietro l’altro, città dopo città? Perché cavi gli occhi al vinto e ne incendi la capanna?» (Schumpeter, p. 35). Non si limitano affatto a rispondere: “Perché mi va così, sono il più forte e me lo posso permettere”. Offrono invece argomentazioni solide e articolate sulla giustezza e la legittimità delle loro guerre. C’è chi ha osservato che questi documenti di propaganda differiscono per molti aspetti dalle giustificazioni delle guerre moderne. Si tratta di spiegazioni fornite in genere dopo il conflitto, e quasi sempre dopo la vittoria assira. Di norma, le sconfitte non venivano registrate negli annali, e la propaganda degli scribi di palazzo dell’Assiria non sentiva il bisogno
· Guerre preventive di Assurbanipal ·
di fornire analisi di guerre perse. Inoltre, si tratta di testi scritti per le audience del futuro, più che per i contemporanei. Lo scopo «non era tanto quello di fornire un resoconto dei fatti reali, quanto di riflettere i princìpi guida dell’ideologia politica assira». C’era l’elemento dell’«incutere calcolatamente timore» ai potenziali nemici; quello di consolidare un consenso interno, ma soprattutto il bisogno di dare giustificazioni comprensibili e accettabili. Se ne ricava una casistica straordinaria di pretesti per la guerra, non necessariamente una spiegazione delle cause, evidentemente assai più complesse. Ci sarebbero voluti ancora un paio di millenni prima che Tucidide ci spiegasse che le guerre si fanno non per beneficenza ma per onore, paura, interesse. Negli antichi commentari dei re assiri la guerra non viene concepita come l’antinomia della pace ma come un pre-requisito della pace, per creare una più solida e duratura stabilità. La pace non si concluderà senza combattere... le buone relazioni non si produrranno senza battaglia, si legge nell’Epica di Tukulti-Ninurta I. Sargon I proclama che ha fatto le guerre per portare stabilità in Sumeria e Accadia. Lugalzagesi dichiara di aver portato pace e tranquillità al mondo abitato. Assurbanipal si proclama pastore, protettore del mondo intero, spiega le sue campagne contro l’Egitto come dedicate a ristabilire l’ordine in quelle terre e restaurare i legittimi principi egiziani. Promette pace, benessere, abbondanza e affari per tutti, una ritrovata armonia cosmica come risultato della lotta contro le forze del caos e dell’anarchia. L’abbondanza viene spesso qualificata come garanzia di bassi prezzi. Sargon I fece una campagna in Anatolia solo «per portare aiuto a una colonia commerciale contro un oppressore straniero». Aver schiacciato la potenza aggressiva dei nemici ha avuto per Assurbanipal il risultato che il mondo intero è diventato gradevole e liscio come l’olio: «Il regno del re è buono: anni di giustizia, piogge abbondanti e un tasso di scambio favorevole» commentano gli scribi.
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La giustificazione più comune per la guerra è quella di porre freno a un’aggressione, di punire il nemico che ha osato dissacrare il sacro suolo e i templi degli dèi assiri, ma non necessariamente respingere un’invasione militare che abbia violato i loro confini. Tra le cose da “punire” ci sono anche solo le intenzioni aggressive, le cospirazioni vere o presunte, l’aver fomentato rivolte, la corruzione di funzionari assiri, il tradimento, l’abbandono di trattati e alleanze precedentemente stipulate, il venir meno a un giuramento o a un tributo dovuto, la minaccia rivolta all’alleato, il mancato soccorso di questi, gesti ostili che oggi verrebbero qualificati come “terrorismo”, perfino la sola manifestazione di arroganza. Il nemico è sempre cattivissimo: assassini, criminali, malfattori, bugiardi, disonesti, perfidi, maledetti, inaffidabili, codardi, peccatori, fuorilegge, ribelli che non sanno quel che conviene loro, gente che pensa solo al tradimento, ingrati, 28
stupidi, pazzi, gente che ha perso il lume della ragione, che «non possiede né senso della realtà né intelligenza». In almeno un caso, l’accusa è di aver osato attentare alla vita del padre del sovrano in carica, inviando assassini. L’argomento più ricorrente è che la guerra non è una scelta degli assiri ma un atto di autodifesa. Il ricorso alla forza è sempre l’ultima risorsa, ma non si limitano a rivendicare il diritto di rappresaglia. Gli antichi re assiri sono anche i primi ad aver esplicitamente teorizzato, con cinquemila anni di anticipo, il concetto di “guerra preventiva”. Furono tra i più spietati conquistatori di tutti i tempi, nondimeno, lo stesso Oded, che pure non ha particolare simpatia nei confronti del suo oggetto di studio, riconosce che il loro imperialismo difensivo dà l’idea che l’impero assiro non fosse conseguenza diretta di un piano e di un disegno precostituito per dominare gli altri popoli, ma il risultato di un lungo processo storico motivato inizialmente da ragioni chiaramente difensive: prevenire che forze ostili attaccassero l’Assiria e sedare i disordini perpetrati dai nemici.
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Gli assiri perseguirono una politica di espansionismo militare, ma si ritiene che «nella prima fase fosse più per difendere che per estendere l’impero». Quando sostengono di non avere ambizioni territoriali, ma di perseguire il bene comune, non è detto che mentano. Un altro eminente assirologo, Mario Liverani, che insegna Storia del Vicino Oriente all’Università La Sapienza, ha osservato che quel che a loro importava difendere non era tanto una distesa di territorio, ma una rete di comunicazioni attraverso cui poter trasportare i beni materiali. Il passaggio da network empires a “imperi territoriali” sarebbe occorso solo molto più tardi. Che ci sia anche in questo una sorta di ritorno alle origini? Gli assiri avevano più volte assediato e raso al suolo Babilonia, fatto strage dei suoi abitanti; Sennacherib la fece inondare. Il giogo assiro ci ha lasciato alcune delle pagine più toccanti della Bibbia ebraica (libro di Isaia) ma, ci dicono i commentari, gli assiri attuarono queste stragi per liberare la popolazione dai tiranni. Un accento particolare viene messo sugli sforzi di pacificazione e ricostruzione dopo la guerra: tra gli obblighi del re c’è quello di portar pace a coloro che sono in difficoltà e riparare le rovine. «Ho riportato indietro quelli che erano stati ingiustamente perseguitati, banditi e tratti in schiavitù [...] ho ripopolato le città abbandonate e fatto sì che gli abitanti vi vivessero in pace» proclama Salmanazar III. «Ho liberato dai loro ceppi gli abitanti di Sippar, Nippur, Babilonia e Borsippa, che vi erano imprigionati, li ho resi liberi e gli ho dato la luce» dice Sargon. «Portano oscurità, non luce, morte, non vita» gli rispondeva il profeta Isaia. Ma non era puro arbritrio, seguivano regole. «Ho deportato i nemici, così ho portato sicurezza e prosperità» scrive Hammurabi in conclusione delle sue leggi, il primo testo giuridico di tutti i tempi. Gli assiri non ignoravano la necessità di convincere in qualche modo gli alleati e i non allineati della bontà delle loro guerre “asimmetriche”, anche se spesso ciò avveniva a fatti compiuti. Sarebbe la ragione
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principale dell’intero monumentale corpus dei commentari reali assiri. I sovrani assiri si proclamano “re dei quattro angoli del mondo”; sono severissimi nei confronti degli alleati che tentennano o li abbandonano; non lasciano loro la scelta di restare neutrali, chi non è con loro viene considerato contro di loro. Il rapporto tra centro e periferia però non viene dato mai semplicisticamente per scontato. Fanno estrema attenzione a collegare la rivendicazione di supremazia e la richiesta di obbedienza all’illustrazione dei vantaggi reciproci fondati su comuni interessi. «Tutte le terre cercano pace assieme a me nelle loro preghiere e suppliche» dice Assurbanipal. O almeno ci provano, anche se non sempre ce la fanno. Non riescono a evitare che gli alleati troppo zelanti si trovino talvolta anche loro in difficoltà. «Il re sa bene che tutte le contrade ci odiano, rimproverandoci la nostra fedeltà all’Assiria. Non siamo sicuri da nessuna parte; dovunque andiamo 30
rischiamo di farci ammazzare» scrivono da Nippur a Ninive. «L’atmosfera qui è costantemente ostile, ma io non sono negligente nella mia guardia» riferisce un ufficiale assiro di guarnigione in Siria.
Il Foglio, sabato 15 marzo 2003.
“First strike e guerra giusta Bush ha copiato dai re assiri.”
Sancio che non è fanatico Miguel de Cervantes Saavedra, Don Chisciotte
Da Atocha ad Atocha, da Sancio a Zapatero Sono passati quasi quattrocento anni da quando, agli inizi di gennaio del 1605, uscì la Prima parte di El ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha. Le prime copie erano state stampate da Pedro de Madrigal, in una delle quattro tipografie della Madrid di allora, in calle de Atocha. Lo stesso nome della stazione in cui è avvenuta la strage dell’11 marzo. Di José Luis Rodríguez Zapatero si dice che sia un cultore appassionato di Cervantes, ma non sempre ha avuto fortuna con il Don Chisciotte. Qualche anno fa, quando disse in Parlamento che la Spagna avrebbe dovuto presentarlo al mondo come i Globetrotters, qualcuno se la prese a male. Di recente gli hanno dato del “Sancio Panza di Chirac”. Era inteso come derisione. De zapateadores no digo nada. Mi propongo di convincere il lettore che si tratta invece di un gran complimento. Lo scudiero Sancio non è solo la spalla del “cavaliere dalla Triste Figura”. Non è una mera macchietta, un citrullo rozzo, ignorante e credulone, panciuto e stupido messo accanto al suo padrone svampito
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per far meglio ridere. È un coprotagonista che con il procedere del romanzo assume una complessità e una corposità che molti commentatori contemporanei ritengono anche superiori a quelle dello stesso don Chisciotte. Sancio è tonto discreto, sciocco, grullo intelligente e astuto, quanto don Chisciotte è loco cuerdo, pazzo, demente saggio. L’uno è analfabeta, non ha mai letto nulla, è a malapena in grado di scrivere il proprio nome, sa di non sapere, ma dall’inizio alla fine del romanzo, grazie alla sua prodigiosa memoria, attinge alla saggezza dei proverbi e delle canzoni popolari. L’altro è uscito di senno, gli si è prosciugato il cervello per aver letto troppi libri di avventure cavalleresche («per effetto del dormir poco e leggere molto gli si inaridì il cervello al punto che perse il senno», ivi, p. 18). È divenuto excentrico, descaminado, extravagante, desviado, desquiciado, descarriado, aberrante, despistado e desorientado per troppe telenovele, realtà virtuale, troppi ideali 32
astratti che non hanno corrispondenza con il mondo reale. Vorrebbe raddirizzare i torti fatti all’umanità, ma finisce solo per aggravarli. Dei due, Sancio è l’unico che fa un’esperienza di governo, sia pure per burla, nell’isola di Barataria, e se la cava niente male. Dei due è quello che meno si fa ingannare da preti e notabili, è il meno rivoluzionario, il meno impegnato, il meno fanatico, sia pure per la causa del Bene. Codino, conservatore, ligio all’autorità e allo status quo sociale, perfino un tantino xenofobo e razzista: è quello che più ottusamente e ripetutamente si dichiara «cristiano antico» (ivi, p. 157), seguace della «Santa Chiesa Cattolica Romana», sprezzante dei mori che seguono la legge del falso profeta Maometto, antisemita, nemico, anzi «nemico mortale [...] degli ebrei» (ivi, p. 508). Ma poi è lui che, come Giorgio Perlasca, salva dalle grinfie dell’Inquisizione il suo vicino musulmano, il morisco Ricote. Inutile disquisire se i due siano di destra o di sinistra: don Chisciotte è abbacinato dalla nobiltà, potrebbe votare per Bush o per Bertinotti; Sancio è un povero contadino, potrebbe votare a sinistra, ma
· Sancio che non è fanatico ·
anche per Le Pen. Don Chisciotte è “figlio di qualcuno” (hidalgo, dall’etimologia hjio de algo) e ci tiene, Sancio è figlio di nessuno. Per chi vota non lo direbbe ai sondaggi, ma sa essere fedele sino alla fine a chi vuole lui (il suo cavaliere) anche se non sa spiegarsi il perché. Fa comunque e sempre ostinatamente di testa sua. È stato un cattolico, Miguel de Unamuno, che pure nella sua Vita di don Chisciotte e Sancio Panza dà un’interpretazione mistico-religiosa del “cavaliere dalla Triste Figura”, a cogliere questa fondamentale differenza tra padrone e scudiero, che va decisamente a vantaggio del secondo: «che quello si lasciava guidare dal proprio cavallo, mentre lo scudiero guidava il suo somaro. E così avviene che nel viaggio attraverso questo basso mondo il Chisciotte si lascia guidare dal proprio animale, mentre il Sancio lo guida lui» (Unamuno, p. 269). 33
Elogi forse (non troppo) esagerati di Sancio Don Chisciotte rientra nel ristrettissimo novero dei capolavori universali dell’umanità proprio perché ciascuno può leggerlo e rileggerlo come crede, trovarvi tutto e il contrario di tutto, e ogni volta qualcosa di nuovo, come in Shakespeare (che morì lo stesso anno e lo stesso mese di Cervantes, il 23 aprile 1616). C’è stato perfino chi vi ha visto un’anticipazione delle teorie matematiche del caos. Anche la figura di Sancio si presta a molteplici letture. Per molto tempo si è teso a considerarlo come un buffone, un ingordo ubriacone, un povero mentecatto, sia pure a volte malizioso e dal cervello fino come sanno esserlo Bertoldo, Simplicissimus, Till Eulenspiegel. Al massimo gli si attribuiva “buon cuore”, come al lattaio Tevye di Sholem Aleichem (ora riportato in scena da Moni Ovadia). Poi, mano a mano, l’accento dei critici si è spostato sulla complessità del personaggio, sulla sua evoluzione nel corso del romanzo. Da bobo crédulo, povero stupido, ri-
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dicolo benché “buono”, con poco sale in zucca – così lo presenta inizialmente lo stesso Cervantes: «uomo dabbene (se si può dare questo titolo a chi è povero) ma con pochissimo sale in zucca» (Cervantes, p. 52) – a finto tonto che riesce a tener ben testa al suo sapiente, generoso ma mentecato padrone. Più di recente c’è la tendenza a non limitarsi a vedere i due aspetti in evoluzione del tonto discreto, ma considerarlo come l’unico che ragiona davvero. Robert M. Flores, che nel suo Sancho Panza Through Three Hundred Seventy-five Years of Continuations, Imitations, and Criticism passa in rassegna pressoché tutto quello che ne è stato detto, arriva addirittura alla conclusione che Sancio non sbaglia quasi mai. Non cita i proverbi a sproposito. Non è un ghiottone né un ubriacone, non è un codardo. Se storpia le parole e a volte sembra capire “roma” per “toma”, lo fa a proposito, per meglio dissimulare, per dire senza troppo compromet34
tersi (e soprattutto senza troppo compromettere il suo autore, con Inquisizione e Santa fratellanza poliziesca in agguato) cose che chi vuol intendere può intendere. “Oh! allora, se non mi si capisce” rispose Sancio “non è da meravigliarsi che le mie sentenze siano stimate per spropositi. Ma non importa, mi capisco io e so di non aver detto molte sciocchezze in quel che ho detto”. (Ivi, p. 581)
C’è anche chi arriva a dargli del filosofo, addirittura del più cartesiano di Cartesio, chi ne elogia il senso comune che, a differenza del cavaliere che si erge a giudice morale del Bene e del Male, gli fa intuire que todo el mundo es uno, il mondo è tutto uguale nelle sue grandezze e miserie. E ne esalta la aguda razón politica che lo porta a diffidare dei moralisti esaltati, dei medici e dei ciarlatani, dei predicatori troppo sicuri di sé e dei giudici che si sciacquano la bocca con il boato delle sentenze degli antichi filosofi.
· Sancio che non è fanatico ·
Della follia quasi erasmiana del nostro Non c’è verso di sapere se don Chisciotte avesse nella sua biblioteca una traduzione in castigliano dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. Comunque non sarebbe sfuggita al rogo che il barbiere e il curato fecero dei libri perniciosi, perché era stata messa all’indice dall’Inquisitore Valdés nel 1559. Non c’è verso di sapere se Miguel de Cervantes Saavedra ne abbia fatto lettura diretta, ma molti studiosi hanno notato che i suoi personaggi spesso parlano e pensano come Erasmo, e come Erasmo, nella conclusione del suo Elogio della follia, possono dire «ho scherzato», e richiamare il detto greco «Spesso anche un folle parla a proposito» (Erasmo, p. 259). Si cita spesso, a riprova che i contemporanei ne erano ben consci, la testimonianza lasciataci da un umanista spagnolo del Seicento che, ritrovatosi nella sua biblioteca un esemplare della Cosmografia di Münster (Basilea, 1550), sulla pagina in cui il ritratto di Erasmo era stato grottescamente censurato dall’Inquisizione, impiastricciandolo con tratti mostruosi, annotò a fianco, da un lato: «y su amigo don Quijote»; dall’altro: «Sancho Panza». Essere “amici” di Erasmo nella Spagna della Controriforma e dell’Inquisizione è di per sé cosa da pazzi. E Cervantes, che pazzo non è, è maestro di dissimulazione e di doppi sensi, che non sono solo un espediente per evitare l’autodafé ma anche un modo per tirare in ballo tutte le sfaccettature del mondo. Il gioco delle parti tra don Chisciotte e il suo scudiero consente di ridurre i rischi facendo dire al pazzo le cose da sapiente e al cretino ignorante la verità. Ma tra i due, quello che incarna più dappresso l’ambigua figura dello stolto erasmiano è certamente Sancio. La differenza è che don Chisciotte è un pazzo fanatico, dalla fede incrollabile, che vuole raddrizzare i torti del mondo e più ci prova, più guai combina. Sancio è uno sempliciotto che “tiene famiglia” e sembra curarsi solo del proprio “particula-
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re”: «perché ho moglie e figli da mantenere e allevare» (ivi, p. 101), credulone e forse talvolta anche un po’ fifone, «uomo pacifico, mite e calmo» (ibidem), un codardo discreto insomma, che però al prossimo giova di più e fa meno danni del fanatico.
Del perché Sancio non avrebbe mai gridato ¡viva la muerte! È stato sempre Unamuno a osservare che la prima uscita di don Chisciotte fa pensare «all’uscita di quell’altro cavaliere, della Milizia di Cristo, Ignazio di Loyola», anche lui «“curiosissimo e amante di legger libri profani di cavalleria”», finché «lesse la vita di Cristo e quelle dei Santi» e «incominciò a “mutarglisi il cuore e a voler imitare e mettere in pratica quel che leggeva”» (Unamuno, pp. 31-32), come viene 36
raccontato nella Vita del beato padre Ignazio di Loyola, di padre Pedro de Rivadeneyra, che anch’esso avrebbe potuto figurare nella biblioteca di don Chisciotte/Cervantes perché uscì nel 1583. Anche il fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio, si lasciava guidare dal suo cavallo e dalla volontà divina, perinde ac cadaver, e quel cavallo lo portò, senza che mai venissero meno le certezze, dritto alle camere di tortura e ai roghi. A differenza di Ignazio, don Chisciotte però non parte solo: «conduce seco l’Umanità», impersonata da Sancio, sostiene Unamuno. Sancio e il Cavaliere «una notte se ne uscirono dal paese senza essere visti da nessuno». Partono come cospiratori per una missione segreta. E partirono parlando affabilmente; e Panza rammentava al suo padrone la faccenda dell’isola. Nella qual cosa i maligni vogliono vedere una volta di più la sua cupidigia e ne deducono che solo grazie a essa serviva il suo padrone, senza rendersi conto che è maggior prova di chisciottismo il fatto che un savio vada dietro a un pazzo, che non quella che un pazzo corra dietro alle proprie follie. La fede è contagiosa, e quella
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di don Chisciotte è talmente robusta e ardente, che sommerge coloro che gli voglion bene […]. (Ivi, p. 57)
Così si lascia trascinare il vecchio don Miguel de Unamuno, sublime cavaliere, interprete e mistico della hispanidad (non gli passa per la mente che lo stesso si potrebbe forse dire di Osama), salvo rinsavire, alla maniera di Sancio più che di don Chisciotte, quando nell’ottobre 1936, ormai padre della cultura spagnola e rettore dell’Università di Salamanca, reagirà con dignità all’aggressione dei miliziani del generale Millán Astray – un altro cavaliere dalla fede ardente, nonché braccio destro di quella ribellione franchista che pure il grande intellettuale aveva inizialmente appoggiato – che gli gridano ¡Qué viva la Muerte!, morte all’intelligenza. E se invece a questa lettura possibile della vita del fondatore della Compagnia di Gesù, cui si affida l’interpretazione di Unamuno, Cervantes avesse sovrapposto quella, altrettanto possibile, di Erasmo, il quale scrive che non si vedono matti più dissennati di coloro che furono ghermiti una bella volta e per intero da un’ardente devozione cristiana. Essi prodigano i loro averi, trascurano le offese, si lasciano raggirare, non distinguono fra amici e nemici, rifuggono dal piacere, si nutrono di fame, veglie, lacrime, stenti e ingiurie, hanno in uggia la vita, desiderano solo la morte […]. (Erasmo, p. 249)?
In cui si parla di islamici e terroristi in Spagna Con la trovata di attribuire l’intera storia di don Chisciotte al manoscritto ritrovato di uno «scrittore arabo della Mancha» (Cervantes, p. 158), un «filosofo maomettano», l’improbabile Cide Hamete Benen-
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geli, di cui si presenta semplice interprete, traduttore e commentatore, Cervantes prende tre piccioni con una fava. Indica all’attenzione del lettore lo sfondo, lontano ma onnipresente, il fondale di quinta su cui scorrono scene e personaggi: l’ineludibile rapporto tra nascita della Spagna moderna e il ceppo islamico in cui si innesta, e che al tempo stesso viene violentemente sradicato. Richiama il contesto storico dello “scontro di civiltà” di allora nel Mediterraneo: turchi da una parte e cristiani dall’altra, pirati da una parte e dall’altra, coalizioni che vanno e vengono, nazioni cristiane concorrenti, come l’Inghilterra, che parteggia per turchi e corsari, piuttosto che darla vinta alla Spagna. Mette prudentemente le mani avanti nel caso qualcuno avesse da ridire in casa su quel che scrive, rimandando in caso di errori «al suo autore», il fantomatico Benengeli, da prendere con le pinze, essendo arabi e musulmani notoriamente bugiardi: «perché è 38
proprio della gente di quella nazione d’essere bugiarda» (ivi, p. 64). Su queste premesse, è lui che può dirla e rivoltarla in mille modi. La sua parte Sancio la fa nell’incontro con il suo ex vicino di casa Ricote, rientrato clandestinamente in Spagna dopo esserne stato espulso come morisco infido, musulmano convertito, in verità «più cristiano che moro» (“occidentalizzato” diremmo oggi) ma comunque sospetto. Ne parlano, nel capitolo LIV della Seconda parte, a tavola, tra un boccale di vino e l’altro e una delizia e l’altra, compreso un «cibo nero», «costituito da uova di pesce, che desta una gran sete di vino» e che si chiama «caviale» (ivi, p. 806). Il buon Ricote gli racconta di come, saputo che si preparava il decreto di espulsione, resosi conto che «quei bandi non erano solo minacce, come alcuni dicevano, ma vere leggi che dovevano mettersi in esecuzione al tempo stabilito» (ivi, p. 805), decide di andarsene da solo, senza portare con sé la famiglia. Non recrimina, ma anzi giustifica perfino, «il così energico provvedimento» (ibidem) di Sua Maestà cattolica che mette al bando i mori sospetti di falsa conversione, «non perché tutti fossimo colpe-
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voli, essendocene alcuni fedelmente e sinceramente cristiani; tanto pochi, però, che non potevano contrapporsi a quelli che non lo erano, e non era bene scaldarsi le serpi in seno, tenendo i nemici dentro casa». Sua figlia è «cattolica cristiana», ma rischia di essere impiccata come capitana travestita di un vascello corsaro, insomma come “terrorista” di quei tempi. Ricote non sa dove andare, «in nessun luogo troviamo l’accoglienza che la nostra disgrazia richiede» (ibid.), men che meno tra i fratelli islamici della Berberia, della sponda araba del Mediterraneo, dove «speravamo di essere ricevuti, accolti, trattati bene», ma dove invece «più ci offendono e maltrattano». Finisce col tentare la sua fortuna in quella che per gli spagnoli del Seicento era probabilmente il sogno Europa, e per molti europei dell’Ottocento e del Novecento fu il sogno America: se ne va nella Germania protestante, dove «ognuno vive come vuole, in quanto nella maggior parte di essa si vive con libertà di coscienza» (ivi, pp. 805-06), e dove «Espagnoli e tudesqui, tuto uno: bon compagno» (ivi, p. 804). Così, in un italianesco che evoca tutti i futuri yiddish e vu’ cumprareschi, parla il morisco all’hermano, fratello Sancio. È musulmano, ma potrebbe essere benissimo ebreo (gli ebrei e i marrani erano stati espulsi un secolo prima, nel 1492; ma era l’epoca in cui ebrei e islamici erano alleati, fraternizzavano nelle persecuzioni subìte) o palestinese. La sua è la storia di tutti gli esodi, gli sradicamenti forzati, le fughe per evitare i pogrom e le Auschwitz. Fu la prima grande pulizia etnica della storia moderna. In decine di migliaia morirono cercando di resistere all’espulsione, ancor di più perirono massacrati o furono ridotti in schiavitù dai loro correligionari dopo essere sbarcati sulle coste africane. Per quattro secoli la Spagna pagò il prezzo di questa espulsione; fu giustificata da alcuni col pericolo di tenersi in casa dei “terroristi” che avrebbero attentato al potere del sovrano cattolico; da altri con argomenti demografici: Juan de Ribera, già nel 1602, aveva avvertito Filippo III che se non prendeva
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provvedimenti drastici i cristiani in Spagna sarebbero presto divenuti minoranza rispetto ai musulmani. “[…] vorrei che la signoria vostra mi dicesse qual è la ragione per cui gli spagnoli, quando vogliono attaccare qualche battaglia, invocando quel Santiago ammazzamori, dicono: “Santiago e serra Spagna!” Che forse la Spagna è aperta, e in modo da doverla serrare?” (Ivi, p. 826)
A questa domanda del finto tonto e storpiatore della lingua, Sancio, nemmeno don Chisciotte sa che cosa rispondere.
Dove si continua a parlare di musulmani, guerre, ostaggi e galeotti e si affronta la questione del che cosa c’entra Cervantes e 40
si fue morisco o marrano Tutt’attorno c’erano guerre, conflitti tra grandi potenze e catture di ostaggi. Si ritrovano nelle storie, talvolta lunghe diversi capitoli, che si intrecciano a quella principale dei viaggi e delle peripezie di Sancio e del suo Cavaliere. Dall’episodio in cui don Chisciotte libera i galeotti dagli sbirri solo per finire con l’essere preso a sassate da loro anziché ringraziato, al lungo racconto del capitano preso prigioniero a Lepanto dai pirati al servizio dei turchi, lui solo sfortunato a cadere in mano ai nemici mentre questi venivano vinti, nel giorno in cui «ben quindicimila cristiani, che erano tutti al remo nella flotta turca, conseguirono […] la libertà», «il solo triste fra tanta gente esultante», «il solo schiavo fra tanta gente libera» (ivi, p. 339). Sono storie autobiografiche: Cervantes, che aveva combattuto e aveva perso un braccio a Lepanto, fu catturato da pirati barbareschi sulla via del ritorno e trascorse cinque anni prigioniero nei bagnios ad Algeri. Cercò di scappare quattro volte, fu liberato al pagamento di un riscatto,
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dopo estenuanti trattative. La storiografia è ormai pressoché concorde nel ritenere che quella che era stata presentata come una vittoria decisiva nel grande “scontro di civiltà” nel Mediterraneo fu in realtà una sconfitta, l’inizio del declino della potenza militare spagnola. Il sultano di Costantinopoli si riprese presto quasi tutto quello che aveva perso a Lepanto e le attività dei pirati barbareschi che infestavano il Mediterraneo si intensificarono anziché recedere, anche perché l’Inghilterra li appoggiava. Lo Stato spagnolo, indebitato fino al collo per le spese di guerra, finì col dichiarare bancarotta. Cose ormai risapute, ma che Cervantes aveva vissuto sulle propria pelle e che continuò a rivivere in patria, tanto che il Don Chisciotte iniziò a scriverlo mentre era in prigione a Siviglia, per debiti. Inutilmente aveva chiesto di poter emigrare nel Nuovo mondo, in America. Le sue domande di incarichi nelle Indie occidentali, ripetutamente presentate negli anni tra il 1582 e il 1590, furono tutte respinte, con la motivazione che non era in grado di dimostrare la sua limpieza de sangre, cioè di essere spagnolo puro, cattolico di origine, e non un converso, un convertito. Gli Statuti sancivano esplicitamente che dagli incarichi di governo venivano esclusi ebrei, mori e discendenti di poveracci, contadini. Tabù per secoli, l’argomento della non sufficiente “ispanicità” del più grande degli ingegni della Spagna è tornato di grande attualità. Tra gli studiosi c’è chi argomenta, documenti alla mano, che quasi certamente era un ebreo o un islamico convertito (come del resto lo furono Santa Teresa di Gesù, l’anonimo autore del primo romanzo picaresco, Lazarillo de Tormes, l’autore del Guzmán de Alfarache, Mateo Alemán, il frate Luis de León e l’autore del Diavolo Zoppo, Luis Vélez de Guevara, probabilmente anche Cristoforo Colombo e perfino il primo grande Inquisitore, Torquemada, nonché forse lo stesso re Ferdinando il Cattolico). Col complesso del converso avrebbe a che fare l’insistenza di don Chisciotte a vantare ascendenti di nobiltà che non è in grado di provare e quella di Sancio a procla-
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marsi ripetutamente cristiano viejo, vecchio cristiano e spagnolo doc, rispetto al suo padrone e creatore che sanno troppo di cristiano nuevo. ¿Qué tienen que ver los Panzas con los Quijotes?, cosa c’entrano i Panza con i Chisciotte?, arriva a chiedere lo scudiero che pur tanto ama il suo cavaliere. E infatti Sancio al governo ci arriva, don Chisciotte no.
Di come ha governato Sancio L’isola di Barataria è il villaggio che i nobili, per burlarsi di Sancio, fingono di dargli da governare. Già il nome evoca imbroglio, barato, la mancia che i giocatori danno ai servitori che li assistono nel gioco o a barare, uno scambio, un baratto, le baratterie di una mini Tangentopoli, oppure qualcosa che vale poco, costa poco. Il tema del signor 42
Nessuno che diventa e si improvvisa re ha avuto una fortuna eccezionale, dalle antiche favole alla cuoca di Lenin. Cervantes ne fa una parodia che si estende dai capitoli XLII al LII della Seconda parte, in cui sono intercalate alcune avventure amorose di don Chisciotte. Ma, come tutto il resto, è una parodia a più tagli, in cui il burlato Sancio riesce a confondere i suoi burlatori, mostrando che anche un tonto può governare meglio di loro e andarsene con grazia: «nudo come sono venuto, nudo sono nato e nudo mi ritrovo» (ivi, p. 800). Nei buoni consigli che gli dà prima che assuma l’incarico, il suo padrone don Chisciotte, novello Machiavelli, «rivela in alto grado la sua saggezza e la sua follia» (ivi, p. 727). Sancio, che diffida delle grandi idee, non si illude di poter cambiare il mondo, si ispira al poco che ha capito dei grandi consigli, ma governa da minimalista, specie sul piano della politica economica. Fra le altre cose ordinò che nello stato non vi fossero rivenditori di viveri e che si potesse importare vino da qualunque sito si volesse, con l’aggiunta che
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se ne dichiarasse il luogo di provenienza […] e chi l’annacquasse o gli cambiasse il nome l’avrebbe pagata con la vita […] moderò il prezzo di ogni genere di calzature, soprattutto delle scarpe […] mise un freno ai salari della servitù […] stabilì pene gravissime per coloro che cantassero canzoni lascive e sconvenienti […] ordinò che nessun cieco cantasse storie di miracoli in versi. (Ivi, p. 790)
Il meglio lo diede comunque in fatto di giustizia, dirimendo salomonicamente torti e ragioni, senza farsi troppo trascinare né da regali né da pregiudizi ideologici. Riuscì perfino a risolvere il difficile paradosso dell’uomo che dice il vero giurando il falso. Ma cade sulla politica estera e la difesa: quando gli annunciano un finto attacco nemico, lui si dimette, riconoscendo di non essere nato «per essere governatore né per difendere isole o città dai nemici che vogliono attaccarle» (ivi, p. 890). Buona parte della saggezza di Sancio è affidata ai proverbi che sforna in continuazione. «Signore […] ritirarsi non è fuggire» (ivi, p. 169), non c’è saggezza nello stare ad attendere che il pericolo prenda la meglio sulla speranza, e si confà ai saggi conservarsi oggi per il domani e non rischiare il tutto in un giorno solo, dice a calmare gli ardori del Cavaliere. Paciencia y barajar, «Pazienza e rimescoliamo le carte» dice quando le cose si mettono male (ivi, p. 614). «Essendo in vita, molte cose si rimediano», finché c’è vita c’è speranza (ivi, p. 707). «Se la brocca dà nel sasso, o il sasso nella brocca, male per la brocca» (ivi, p. 731). Molte delle sue arguzie hanno a che fare con il cibo e la cucina (del Don Chisciotte si potrebbe fare un’intera rilettura in chiave gastronomica). Dice che «la bocca porta le gambe e non le gambe la bocca» (ivi, p. 755). Sarà anche un cristiano viejo, ma la raccolta dei suoi refranes, i proverbi, richiama immediatamente il ricchissimo Refranero sefardí, degli ebrei cacciati dalla Spagna. La sua lingua e quella di Cervan-
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tes sono quella che ero abituato a parlare da bambino, tale e quale il castellano viejo (con la j dolce, non aspirata) di cinque secoli fa, portata dai miei antenati di parte sefardita nella loro America di allora, la Turchia tollerante del sultano. Forse meno fortuna hanno avuto i mori come Ricote. Mi sarebbe piaciuto ritrovarvi anche un modo di dire, molto sanciopanzesco, che avrei preso come motto da incidere nel blasone di famiglia: Muere pato, muere harto, muori oca, almeno muori sazio. Non c’è. Ma c’è qualcosa di simile: Todos los duelos con pan son buenos, o son menos, perché col pane tutti i mali son minori (ivi, p. 536), o almeno meno cattivi.
Il Foglio, martedì 4 maggio 2004.
“Non date del Sancio Panza a cuor leggero.
Perché il finto tonto scudiero di don Chisciotte può 44
insegnare buon governo ai politici di oggi.”