Un ritratto mondano. Fotografie di Ghitta Carell

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La vicenda umana e artistica di Ghitta Carell (1899-1972) si pone in maniera del tutto trasversale rispetto alle canoniche narrazioni della modernità. Il suo lavoro attende il risarcimento critico che l’alto livello della sua arte merita.

Roberto Dulio

Un ritratto mondano Fotografie di Ghitta Carell

Roberto Dulio  Un ritratto mondano

Roberto Dulio (1971) insegna Storia dell’architettura al Politecnico di Milano, si occupa della cultura architettonica moderna e contemporanea e dei suoi rapporti con l’arte e la fotografia. Tra i suoi libri: Giovanni Michelucci 1891-1990 (2006) e Introduzione a Bruno Zevi (2008).

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isbn 978-88-6010-086-3

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Nella stessa collana 1. Marco Belpoliti Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio 2. Clément Chéroux L’immagine come punto interrogativo o il valore estatico del documento surrealista 3. Luca Scarlini Andy Warhol superstar. Schermi e specchi di un artista-opera 4. Marco Meneguzzo Arte Programmata cinquant’anni dopo 5. Federico Ferrari L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine

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6 ISBN 978-88-6010-086-3



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©2013 Johan & Levi Editore Progetto grafico
 Paola Lenarduzzi Impaginazione
 Cinzia Morisco Fotolito e stampa Arti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano (mi) Finito di stampare nel mese di maggio 2013 isbn 978-88-6010-086-3 Johan & Levi Editore www.johanandlevi.com Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

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Roberto Dulio

Un ritratto mondano Fotografie di Ghitta Carell



Sommario

Dall’Ungheria all’Italia — 7 «Leonardo da Vinci, i Medici, il Botticelli» — 8 Come si diventa una fotografa famosa — 17 «Prima che arrivi la Barrett» — 20 Roma — 24 Dux i — 28 Corrado Vigni — 33 Architetti — 35 Tra professione e notorietà — 37 Diritti (e compensi) d’autore — 38 Da Marinetti a Disney — 45 Principesse e contesse — 46 Dux ii — 53 Ambizioni — 57 «Anche Loro sanno chi io sia» — 61 «Ungherese ed ebrea» — 61 L’anonimato — 64


Il dopoguerra — 66 Il soglio di Pietro — 68 «La nota fotografa»— 72 «Non ho che passato»— 73 L’equivoco critico — 76 L’immagine latente — 77 Il soggetto rivelato — 79 Un ritratto mondano — 81 Note — 83 Bibliografia essenziale — 95 Abbreviazioni — 103 Ringraziamenti — 105


Dall’Ungheria all’Italia

Ghitta Carell è certamente tra i fotografi ritrattisti più celebri dell’Italia tra le due guerre. Maria José e Umberto di Savoia, le famiglie Mondadori e Pirelli, Benito Mussolini, Neville Chamberlain, Margherita Sarfatti, Marcello Piacentini, Walt Disney, e nel dopoguerra Pio xii e Giovanni xxiii: le maggiori personalità del mondo aristocratico, borghese, politico, artistico, intellettuale, e ben due pontefici, hanno posato davanti al suo obiettivo. Eppure l’interpretazione della sua opera è solitamente deformata da filtri ideologici o appiattita da giudizi encomiastici quanto superficiali,1 mentre la sua biografia appare sfocata dall’aneddotica. Le informazioni frammentarie e fornite esclusivamente dalla stessa Carell, riversate passivamente in gran parte della letteratura che la riguarda, si riassumono rapidamente in uno schema convenzionale. La fotografa nasce il 20 settembre 1899 nella contea ungherese di Szatmár, dove trascorre gli anni della formazione, di cui si conosce pochissimo.2 All’estrazione familiare agiata, agli studi storico-artistici e al corso di fotografia “per signorine”, segue la frequentazione degli ambienti intellettuali di

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Budapest e dello studio del noto fotografo Székely Aladár (1870-1940). Un prestigioso apprendistato a Vienna e Lipsia – tuttavia non documentato – si conclude con il trasferimento in Italia nel 1924. Alla convenzione mitobiografica dell’artista il cui talento è soccorso da un fato benevolo si ascrive anche l’episodio che avrebbe segnato la sua imprevedibile e improvvisa notorietà. La Carell scatta “per caso” la fotografia di un giovane balilla: l’efficacia iconica dell’immagine è tale da essere utilizzata per un manifesto di propaganda, affisso poi «sui muri di mezza Italia».3 La celebre fotografia non è mai stata ritrovata, né il manifesto è stato identificato. La retorica che sintetizza la genesi della sua carriera trova ulteriore riscontro in un commento al celebre ritratto della figlia del Duce, Edda Ciano Mussolini, con i figli, pubblicato nel 1968 su un noto settimanale popolare: «Ghitta Carell nacque a Budapest da un’agiata famiglia di industriali e venne in Italia nel 1924 come turista. Aveva studiato lettere e filosofia e considerava la fotografia un semplice “hobby”. Ma un giorno, a Firenze, una fotografia eseguita da Ghitta ed esposta nella vetrina di un negozio attirò l’attenzione di alcuni artisti e letterati, tra i quali Ugo Ojetti e Giovanni Papini, che l’elogiarono moltissimo e in seguito posarono per lei».4

«Leonardo da Vinci, i Medici, il Botticelli» Da una nota del ministero dell’Interno del 15 marzo 1942, quando sarà sorvegliata dall’apparato di controllo fascista, Ghitta Klein – che solo in seguito assumerà il nome d’arte di Ghitta Carell – risulta figlia di Ignazio (probabilmente

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1. Ghitta Carell, autoritratto, 1928 ca. (ac3m).

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l’italianizzazione di Ignác), ebreo, e di Lotti (Lotty) Sonnenberg, cattolica.5 Una precedente nota informativa, di carattere confidenziale e spiccatamente tendenzioso, dichiara invece che la Carell, «figlia di un calzolaio di Budapest», si chiama in realtà Sara Klein.6 Alla controversa anagrafe si associa l’incertezza dei percorsi di formazione artistica e professionale di Ghitta Klein: è probabile, come ha sottolineato Norbert Orosz, che già in Ungheria abbia praticato, forse saltuariamente, lo studio del fotografo József Pécsi (1889-1956),7 che nei suoi ritratti conciliava la tradizione pittorica con l’interesse per l’avanguardia, configurando nuove coloriture espressive capaci di assecondare la contaminazione tra generi. Una scelta di metodo e di stile che si rivelerà vincente anche per la Carell. Seppure non risulti tra i suoi allievi ufficiali, può essere un convincente indizio il fatto che la giovane Klein/Carell, appena giunta in Italia, sia ospitata a Fiesole da Márk Vedres (1871-1961) e della moglie Matild Pollacsek, i quali conoscevano sicuramente Pécsi, dal momento che ancora oggi la famiglia conserva dei ritratti di Márk eseguiti dal fotografo ungherese, insieme ad alcuni dei primi ritratti realizzati dalla Carell.8 L’indagine ravvicinata sull’opera della fotografa svela inequivocabilmente come la determinazione ad affermarsi professionalmente si manifesti fin dall’inizio del suo soggiorno in Italia, se non già durante gli anni ungheresi. Da Pécsi, autore nel 1916 del manuale L’arte della fotocamera,9 la Carell può aver appreso, oltre alle nozioni tecniche iniziali, le coordinate di un linguaggio elaborato dai protagonisti della fotografia ungherese di quegli anni – oltre a Pécsi, il già citato Aladár e altre figure, come quella di Nickolas

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Muray, o delle ritrattiste Ilka Révai, Erzsi (Ergy) Landau, Olga Máté10 – che lei stessa avrebbe dispiegato su un orizzonte espressivo assai più ampio e originale. Quando nel dopoguerra, ricordando gli esordi fiorentini, la fotografa affermerà: «camminavo con Leonardo da Vinci, i Medici, il Botticelli», non affabula solo la propria biografia ma svela la reale fascinazione esercitata sulla giovane migrante da un’epoca e da una cultura che sembravano ancora alitare nella Firenze degli anni venti. Tale radice creativa è autorevolmente riecheggiata dalla celebre giornalista Camilla Cederna, che in un benevolo articolo sulla Carell – a cui la legava una lunga consuetudine – rammenta intenzionalmente il ritratto fotografico «della contessa Bombicci con il suo bambino in braccio, somigliante come taglio e disposizione a una Madonna del ’300».11 In assenza di questa fotografia, di cui si sono perse le tracce, ci si può riferire al ritratto della contessa Marilù Pavoncelli di Viggiano con il figlio (fig. 2), che la Carell inserì nel portfolio da mostrare ai clienti.12 La postura di madre e figlio, gli sguardi e i gesti, la lucentezza dell’abito che sublima quella del manto, l’alone luminoso intorno alle due figure, sono direttamente desunti dall’iconografia sacra tardomedievale della Vergine con Bambino. La tradizione storica del ritratto (dal xiv al xvii secolo) agisce nell’immaginario della Carell e si coniuga, paradossalmente, con il linguaggio fotografico in una fase in cui esso non solo si è del tutto affrancato da quello pittorico, ma è stato conquistato da quello delle avanguardie artistiche tese a esplorare una ricerca espressiva autonoma e intrinseca alla nuova tecnica. Per la Carell invece la tecnica fotografica non è un fine, né l’elemento con cui caratterizzare maggiormente il

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2. Maril첫 Pavoncelli di Viggiano con il figlio, 1928 ca. (cmm).

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proprio linguaggio, ma un mezzo. Per questo motivo si serve di un’attrezzatura tradizionale, per non dire vetusta: pochi obiettivi e un apparecchio a lastre di grande formato – una camera su cavalletto della ditta Luigi Piseroni di Milano – eventualmente sostituibile con più agili macchine portatili.13 Qualche lampada e la sapiente calibratura di tempi di posa e apertura del diaframma esauriscono la strumentazione che impone l’indubbio talento della Carell nel mondo della fotografia. Anzi: più precisamente nel mondo sofisticato del ritratto fotografico d’autore, nel quale la Carell sintetizza la sua passione per le immagini, pittoriche e fotografiche. Nella sua biblioteca si accumulano infatti, oltre a testi sulla tecnica fotografica, anche volumi illustrati di storia dell’arte, con i quali alimenta, consapevolmente, la sua ispirazione. Lei stessa dichiara questa sua attitudine in un autoritratto a mezzo busto, della metà degli anni venti, nel quale posa seduta, con una mano al mento e l’altra su un volume aperto, con l’indice che segnala la parola “cultura”, l’unica leggibile sulla pagina a stampa (fig. 1).14 La postura della mano appare straordinariamente simile a quella del ritratto di Laura Battiferri (1555-60) dipinto da Agnolo Bronzino – i riferimenti iconografici al quale ricorreranno spesso nell’opera della fotografa – che la stessa Carell avrebbe potuto osservare quando il quadro era ancora custodito nella collezione di Charles Alexander Loeser a villa Torri Gattaia, nei pressi di San Miniato al Monte. Ghitta Carell usava lastre fotografiche di formato 18 x 24, con emulsione ortocromatica su un lato, sensibile a tutti i colori tranne che al rosso e quindi in grado di attenuare le macchie rosacee dell’epidermide del viso. Sul

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verso opposto una sorta di smeriglio diffusore ammorbidiva ulteriormente l’immagine, ma questo poteva essere asportato con una punta metallica o un raschietto in alcune parti, così da rendere carichi e intensi certi particolari (i neri profondi e i bianchi candidi).15 Anche il lato con l’emulsione, sul quale era fissata l’immagine negativa, poteva essere manipolato. Norbert Orosz ha sottolineato l’importanza che rivestono in proposito le accuratissime indicazioni del libro Il ritocco dei negativi, pubblicato da Rodolfo Namias nel 1921, che si rispecchiano puntualmente in alcuni procedimenti della Carell.16 In primo luogo Namias consiglia l’impiego di un apposito leggio da ritocco per facilitare gli interventi sulla lastra, esattamente identico a quello di cui si serve la Carell durante un’intervista televisiva presumibilmente degli anni sessanta.17 Il principale strumento d’azione era una matita, che non avrebbe lasciato alcuna traccia se passata direttamente sullo strato sensibile. Per renderla efficace era necessario ricoprire tutto il negativo con un’apposita vernice (resina, trementina e benzina di catrame o benzolo), sulla quale il tratto della matita potesse aderire. In alternativa – e probabilmente è questo il procedimento seguito dalla Carell – si poteva utilizzare la mattoleina (colofonia, trementina), così detta per il suo colore rossastro, che si stendeva solo su alcuni punti dell’emulsione. Poi s’interveniva su di essi con matite di durezze variabili, sempre lavorando “al negativo” rispetto al risultato finale. Con questo procedimento, attuato con abilità, si potevano compiere interventi anche assai corposi: «in camera oscura le fa smagrire di dieci chili», osserverà ironicamente la sua giovane assistente Isabella Canino.18

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Con il raschietto invece si poteva asportare direttamente – e in maniera irreversibile – lo strato sensibile, accentuando così le linee di demarcazione, o rendendo vividi alcuni minutissimi particolari. Per schiarire uniformemente alcune zone, soprattutto sullo sfondo, si poteva invece impiegare una sorta di amalgama composto da smeriglio finissimo e trementina, che sfregata sulla lastra riduceva l’opacità e quindi sul positivo aumentava i toni chiari. Infine certi effetti luminosi che talvolta aureolano i ritratti potevano essere ottenuti con mattoleina o inchiostro rosso spruzzato con l’aerografo. Durante la stampa a contatto, su carta fotografica ai sali d’argento, le due superfici della lastra in vetro si fondevano, sovrapponendo gli interventi sul vetro smerigliato a quelli sull’emulsione. Anche in quest’ultima fase, la Carell era molto attenta a dissimulare i segni del ritocco. Le pochissime lastre sopravvissute19 mostrano proprio questo procedimento, i cui esiti sono esemplarmente leggibili in una serie di ritratti di Palma Bucarelli del 1938: la levigatezza dell’epidermide, l’accentuazione delle pupille e delle ciglia, la correzione del profilo nasale, l’assottigliamento delle braccia e della vita, fino all’abbigliamento, costituito da una sorta di peplo più prossimo a un costume di scena che a un abito.20 Lo studio della fotografa, immortalato nella citata intervista televisiva,21 è gremito di una serie di strumenti – flaconi, matite, pennelli, raschietti – tale da assimilarlo a un atelier di un pittore. In tale accezione metodologica la si potrebbe definire “pittorialista”, certo non per il corrente significato assegnato al termine dalla critica fotografica. Occorre infatti spazzare ogni equivoco: anche se non dissimulano il loro debito alla tradizione pittorica del

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ritratto e se le tecniche di ritocco della lastra sono confrontabili con alcune procedure della pittura, i ritratti di Ghitta Carell non hanno nulla a che spartire con la fotografia che ricalca passivamente l’iconologia pittorica, specie quella romantica. Ghitta Carell leviga una sintesi espressiva che salda, in seduzione dialettica, accordi, tensioni e contrasti tra avanguardia e tradizione, in piena sintonia con il più elevato dibattito artistico dell’epoca fascista. Nella caleidoscopica miscela figurativa della fotografa lievitano suggestioni desunte da contesti remoti, a volte antitetici, come la ritrattistica rinascimentale e barocca e il gusto glamour delle fotografie che consacrano il divismo degli attori d’oltreoceano. I suoi soggetti, di cui studia con minuzia abbigliamento e posizione – «Niente è lasciato alla loro scelta, né la scollatura né i ricci, né la posa»,22 come del resto auspicava Pécsi nel suo manuale – appaiono in bilico tra un formalismo solenne e un immaginario hollywoodiano. Può essere un paragone apparentemente spiazzante, ma si tratta dello stesso ambiguo equilibrio della Madonna del velo: una tavola in quegli anni al centro dell’interesse di collezionisti e studiosi internazionali, attribuita con certezza a Sandro Botticelli, acquistata nel 1930 da Lord Arthur Lee of Fareham, ora conservata al Courtald Institute di Londra, che si è poi rivelata frutto dell’opera del geniale falsario Umberto Giunti. Nel dipinto erano riuniti i canoni della rappresentazione botticelliana alle sembianze di una diva del cinema americano (probabilmente Lillian Gish), diluite sui lineamenti di un volto di bambina, desunto da un ritratto fotografico dell’epoca, sorprendentemente simile a quelli eseguiti dalla Carell.23 Certo il lavoro della fotografa

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ungherese è ben diverso, ma il carattere seducente dei suoi ritratti si basa spesso sull’analoga fusione degli stessi caratteri eterogenei: memoria del passato ed eloquenza espressiva del presente.

Come si diventa una fotografa famosa Una volta messo a punto il linguaggio, restava da perseguire il ruolo. E la giovane ungherese lo farà con una determinazione davvero straordinaria. La solita letteratura encomiastica ne colloca i natali artistici nell’ambito fiorentino, ascrivendone la “scoperta” a Ugo Ojetti e Giovanni Papini, a volte viene persino fatto il nome di Bernard Berenson – al centro di tutte le vicende del collezionismo della pittura italiana del Rinascimento – che dimorava nella vicina Settignano. Ma nessuna testimonianza documentaria prova tale effettivo svolgersi dei fatti. La Carell fotografa Ojetti e Papini (e non Berenson), ma i ritratti risalgono al decennio successivo, e comunque questi e altri protagonisti della cultura fiorentina sono dei numi putativi più che reali. È invece certo che le prime fotografie note della Carell inizino a circolare alla fine degli anni venti – quando apre il suo primo studio a Firenze, in viale Milton 13 – forse precedute dai già citati ritratti per la famiglia Vedres. Tra il 1927 e il 1928 vengono pubblicati i primi – finora ritrovati – ritratti di Ghitta Carell: si tratta della contessa Anna Boutourline su La Donna, di Teresa Martini Marescotti e altre giovani aristocratiche su Le Carnet Mondain, tutti nel 1927, e della baronessa Bonacorsa Alliotti nell’annuario

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fotografico Luci ed Ombre del 1928; quest’ultimo viene definito «finissima posa di schietto gusto inglese, studio egregio di toni con tanto di mistero lombardesco intorno al volto enigmatico, interessante, di un’espressione intenta e malinconica».24 Si tratta di contesti significativi: una rivista di moda, un periodico d’informazione sulla vita mondana della capitale e l’annuario della rivista Il Corriere fotografico. Il primo conferma l’affinità all’ambito del life style femminile, il secondo l’inserimento in un milieu aristocratico, elegante e salottiero, il terzo attesta il riconoscimento di un ruolo artistico e professionale in quello che all’epoca è il più importante repertorio della fotografia nazionale. In tutti e tre, oltre a quelli di Ghitta Carell, compaiono chiaramente numerosi altri ritratti fotografici. Ricorrono i nomi di Gustavo Bonaventura (1882-1966) – l’unico per cui la Carell dichiarerà ufficialmente una certa ammirazione25 e di cui è probabilmente debitrice di un’iconografia più libera e meno convenzionale – ma anche di Giulio Parisio, dello Studio Petri e soprattutto della fotografa inglese Eva Barrett (1879-1949), ritrattista dalla grande notorietà nella Roma tra gli anni dieci e trenta, la cui attività rimane ancora oggi in larga misura inesplorata.26 La Barrett realizza infatti immagini stampate su carta ruvida, poco contrastate, morbide, spesso in grandissimo formato, con pose enfatiche e romantiche, con interventi a matita per completare particolari o addirittura a tratto incrociato per saturare lo sfondo, come se si trattasse veramente di un disegno. Anche quando la fotografa inglese muterà il suo linguaggio in favore di alcune scelte più audaci, la Carell sarà pronta a doppiarla sull’orizzonte espressivo, oltre che a insidiare il suo ruolo esclusivo di fotografa dell’élite aristocra-

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tica e borghese. Osservando soggetti e generi fotografati dalla Barrett, si ha la netta sensazione che la ferma volontà di Ghitta Carell sia stata non solo quella di emularla, ma letteralmente di surclassarla, fino a sottrarle a poco a poco le personalità ritratte. Certo con qualche sovrapposizione e confusione allo sguardo degli spettatori – da cui forse l’accenno allo “schietto gusto inglese” del commentatore di Luci ed Ombre27 – ma sicuramente con un linguaggio più aggiornato rispetto a quello della Barrett, davvero ancora e canonicamente pittorialista. Sullo stesso annuario Luci ed Ombre del 1928 in cui viene pubblicata la fotografia della Carell è presente anche il ritratto della Barrett del conte Giuseppe Volpi di Misurata;28 l’anno successivo è la Carell a pubblicare sulle pagine del Corriere fotografico e poi su Luci ed Ombre il ritratto della figlia: Marina Ruspoli Volpi di Misurata, anch’essa già fotografata dall’inglese.29 Al ritratto di Sofia di Grecia realizzato dalla Barrett nel 1930-31 risponde immediatamente Ghitta Carell, con lo stesso soggetto pubblicato su L’Illustrazione Italiana nel 1932.30 E proprio sul ritratto di Sophie Dorothea Ulrike Alice di Prussia (questo il nome esatto della regina greca esiliata in Italia), la fotografa ungherese costruisce un altro aneddoto della propria biografia. È ancora Camilla Cederna a ricordare che «La signora che, per il troppo lavoro, Ghitta Carell fa attendere in anticamera, è Sofia, regina madre di Grecia, che verrà fotografata con un velo nero tutt’intorno al viso e una lunga giacca d’ermellino. È questa austera signora dagli occhi grigi che incoraggia Ghitta ad andare a Roma. Quando la giovane donna ambiziosa dirà che a Roma ci andrà soltanto se è sicura di cominciare a fare fotografie a casa reale, la sorella del Kaiser la rassicurerà.

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“A Roma ho un nipote che ha sposato la figlia del re”, e allude a Filippo d’Assia, marito di Mafalda di Savoia. Mafalda, con il primogenito Maurizio, di sei mesi, in braccio, sarà la sua prima cliente di Roma».31 In realtà Ghitta Carell aveva aperto uno studio anche a Roma già dal novembre del 1927, in via Barnaba Oriani 22,32 ed è inutile aggiungere che l’episodio di Sofia di Grecia che attende in anticamera appare davvero poco credibile. Un altro elemento evidente è la facilità con cui la Carell ascrive alla propria idealizzata storia una serie di fatti ispirati, oltre che dalle analoghe e fantasiose dichiarazioni della concorrente inglese, anche dalla biografia di alcune fotografe ungheresi – le già citate Révai, Landau e Máté – forse conosciute in patria.

«Prima che arrivi la Barrett» È certo però che la personalità di casa Savoia ritratta per prima dalla Carell è proprio Mafalda, verosimilmente grazie alle strategie della fotografa e non per “spontaneo desiderio” della principessa. L’immagine è pubblicata su Le Carnet Mondain nel marzo 1929,33 ma un suo ritratto circolava già dal 1928, come risulta da una lettera inviata da Maria Cantono di Ceva – dama di corte a Roma – alla sorella Polyxene (detta Lyx) a Torino. La missiva è peraltro illuminante sia della plateale concorrenza con la Barrett, sia delle modalità attuate dalla Carell per conquistare la complicità delle “dame” aristocratiche e dell’alta borghesia. Scrive Maria Cantono di Ceva: «Cara Lyx, sono stata stamani a farmi prendere delle foto da questa Sig. Ghitta

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Carell un’ungherese molto simpatica, poiché dovrò distribuirne a C. Reale prima di partire. Questa Sig.na desidera far concorrenza o meglio già la fa (senza avere ancora molta pubblicità) alla Barrett. Qui a Roma la Barrett passa ormai in 2a linea e la gente più “high life” va da questa Carell che secondo me è straordinaria. La foto che vidi sua della P.sa Mafalda fu fatta da lei così pure tutte quelle così belle di Marina Volpi, M.L. Canevaro, Sandra Gherardesca, […] la Martini Marescotti ecc. Ora è protetta dalla C.ssa Colli che a Torino le farà credo réclame. A buoni conti essa parte stasera per Torino dove ha vivo desiderio farsi nome nel nostro ambiente e vorrebbe fotografare l.l. a.r. i Pistoia dai quali credo sia già stata raccomandata, ma avrebbe ancora bisogno di appoggio. […] In più, rendendole questo piccolo servizio, se domani dovrfesti avere delle foto fatte da lei, ti farebbe come a me un prezzo di favore. Visto e considerato tutto questo passo per via indiretta da te, pregandoti vivamente d’interessare subito (prima che arrivi la Barrett) Paola affinché ne parli alla d’Aremberg che sono certa sarà lieta di farsi riprendere da una simile artista. Del resto ormai lei già ha riprodotto un membro di Casa Savoia ed ora se le mie riusciranno, sarà altra buona réclame a C. Savoia. […] E ti prego farle réclame con gente tipo Virg. Agnelli (peccato io le vidi ieri… Se no gliene avrei parlato), Clarita, Anna Spinola ecc.».34 Si tratta di uno dei tanti piani della Carell, questa volta per fotografare Lydia d’Aremberg, che il 30 aprile 1928 sposa a Torino Filiberto Lodovico di Savoia duca di Pistoia: loro sono “l.l. a.r. i Pistoia” più volte citati nella lettera. La fotografa spera di ritrarli con la complicità, oltre che delle

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sorelle Cantono di Ceva, della contessa Paola Ricardi di Netro, dama di palazzo della d’Aremberg. Quasi una missione diplomatica che la Carell nel corso degli anni metterà in atto più volte, sia nell’ambito dell’aristocrazia, che della borghesia, della politica e della cultura, spesso con esiti brillanti, tanto che di lì a poco la Barrett sarà davvero relegata a un ruolo di secondo piano. È stato ipotizzato che il nome d’arte “Carell” sia stato scelto da Ghitta in relazione al luogo di nascita, la contea ungherese di Szatmár, un’area nord-occidentale del paese che già nel 1920, in seguito al trattato del Trianon, rientrerà in gran parte nel territorio della Romania, entro il quale si trova anche l’antico capoluogo Nagykároly, poi noto con il nome romeno di Carei.35 La scelta di un cognome-toponimo avrebbe lasciato intendere una possibile ascendenza aristocratica, funzionale al disegno dell’ambiziosa fotografa. Ma “Ghitta Carell” pare proprio forgiato, per fonetica, su quello della rivale “Eva Barrett”. Breve, evocativo e secco il nome Eva, a cui corrisponde un incisivo Ghitta. È il cognome però ad apparire maggiormente conformato su quello dell’inglese – Barrett/Carell – e forse proprio per questa forte assonanza il nome dell’ungherese è spesso erroneamente scritto con l’ortografia “Carrell”. Il processo di affiancamento – su Le Carnet Mondain del luglio 1931 sono accostati nelle stesse pagine alcuni ritratti realizzati dalle due fotografe36 – emulazione e superamento nei confronti della Barett si compirà, come vedremo, grazie a due protagonisti di celeberrimi ritratti della Carell: Maria José di Savoia e Benito Mussolini,37 i quali non casualmente erano stati negli anni precedenti i soggetti di alcuni noti scatti della fotografa inglese. Nel 1937 – lo stesso anno in

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cui la Carell realizzerà la seconda serie di ritratti del Duce – la Barrett si ritirerà ufficialmente dall’attività, annunciandolo proprio sulle pagine di Le Carnet Mondain, la rivista dove si era svolta in gran parte la contesa tra lei e la Carell per il ruolo di fotografa mondana più ambita dall’aristocrazia romana.38

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Roma

Al 1930 risalgono invece i primi ritratti – ne seguiranno numerosi – di altre due figure chiave nelle successive vicende della Carell: Margherita Sarfatti e Marcello Piacentini.39 La prima è giornalista, critica d’arte, figura chiave nella costruzione dell’identità politica di Mussolini, oltre che principale ideatrice della scelte artistiche del regime. Il secondo è architetto, mediatore tra le istanze avanguardiste e conservatrici, vero e proprio deus ex machina della politica architettonica del Duce e dispensatore dei suoi incarichi. Parallelamente al contesto mondano e aristocratico, Ghitta Carell si muove quindi sul fronte culturale, individuando i due principali artefici della politica culturale fascista. Non è chiaro come la fotografa sia entrata in contatto con la Sarfatti e Piacentini. Probabilmente le tangenze aristocratiche della prima – e forse la complicità tra donne volitive, dalle aspirazioni all’epoca considerate poco convenzionali per il ruolo femminile e temprate da una determinazione ferrea nel perseguire un obiettivo – deve aver favorito la condizione di reciproca empatia. O più semplicemente Margherita Sarfatti deve aver apprezzato il lavoro di fotografa della Carell, proprio per quell’equilibrio

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3. Margherita Sarfatti, 1933 (rdm).

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fra tradizione e modernità che lei stessa postulava per gli artisti di Novecento. Gli stessi motivi possono aver giocato un ruolo determinante anche su Piacentini, pure impegnato, nel campo architettonico, in sforzi per molti versi paragonabili a quelli della Sarfatti. I ritratti si estendono poi anche ad altri membri di famiglia, collocandosi lungo un esteso arco temporale. Così alle prime fotografie di Margherita Sarfatti, del 1930, realizzate probabilmente in studio, se ne sommano molte altre oltre a quelle della figlia Fiammetta,40 spesso ritratta insieme alla madre a partire dal 1931. Una nutrita serie di scatti dello stesso anno non sono ambientati in studio ma, eccezionalmente, nella casa romana della Sarfatti (in via dei Villini 18, alle spalle di villa Torlonia, residenza di Mussolini) e sono raccolte in un apposito album dalla stessa Carell, che ne realizzerà anche un secondo in occasione delle nozze di Fiammetta con Livio Gaetani nel 1933,41 per poi fotografare Roberto, il primogenito della coppia, nel 1935. Alcune stampe d’epoca appaiono particolarmente curate e testimoniano l’attento lavoro di ritocco delle lastre, soprattutto il primo piano di Margherita Sarfatti con un mazzo di violette (fig. 3).42 Anche nel caso di Marcello Piacentini i ritratti, sempre raccolti in un album approntato dalla fotografa, riguardano, oltre l’architetto, la figlia Sofia e la moglie Matilde Festa: datano tra il 1930 (anno del celebre ritratto in divisa da accademico d’Italia, fig. 4) e il 1934, oltre ad alcuni scatti più tardi di Sofia. L’avvicinamento alla Sarfatti e a Piacentini rappresenta però solo il primo tassello dell’ambizioso progetto “romano” di Ghitta Carell. La fotografa si muove sempre più negli ambienti dell’aristocrazia, dell’alta borghesia e soprattutto

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4. Marcello Piacentini, 1930 ca. (rfp).

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della diplomazia internazionale: nell’agosto del 1930 si trova a Capri, dove fotografa Alice Warder Garrett, moglie di John Work Garrett, ambasciatore degli Stati Uniti a Roma dal 1929 al 1933, appassionata d’arte e collezionista dai vari interessi e dalle molteplici entrature.43 Ghitta Carell a questo punto stabilisce definitivamente la sua attività principale nella capitale (anche se continua a mantenere uno studio a Firenze) e nel 1932 si trasferisce trionfalmente dalle quiete strade del quartiere Parioli a piazza del Popolo 3, a sancire, o forse ad auspicare, in maniera inequivocabile il ruolo e la notorietà conquistata o assai prossima da raggiungere. Il 21 giugno 1932 nel nuovo studio è inaugurata una mostra per la quale viene spedito un invito a Mussolini, a cui del resto, già nel giugno 1928, era stata annunciata l’apertura del precedente studio romano.44 La corrispondenza inoltrata al Duce, filtrata poi dai suoi segretari, doveva essere ingente, densa dei più disparati inviti, e probabilmente non arrivarono sulla sua scrivania neppure quelli della Carell. Questo non scoraggia la fotografa, consapevole che l’imprimatur di Mussolini avrebbe garantito l’approvazione del regime e l’ufficialità di una posizione raggiunta, oltre che gli incarichi di lavoro direttamente o indirettamente connessi.

Dux i Il 27 giugno 1933 un appunto della segreteria particolare del Duce informa che «il Capo del Governo si è compiaciuto di accordare una udienza alla signora Ghitta Carell, proprietaria del noto studio fotografico in piazza del Popolo. Poiché

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la udienza è stata richiesta al fine di eseguire una fotografia del Duce, la signora gradirebbe – per disporre delle migliori condizioni di luce – essere ricevuta possibilmente di mattina o nelle prime ore del pomeriggio».45 Le fotografie sono scattate il 1° luglio successivo a palazzo Venezia e nei giorni seguenti la Carell consegna alla segreteria un album con le stampe di alcuni scatti, al fine di richiedere allo stesso Mussolini una sua preferenza. Si tratta di fotografie che la Carell ha in animo di commercializzare, sia come stampe autonome – molte saranno comprate dalla stessa segreteria e utilizzate dal Duce come omaggio per ospiti di particolare riguardo – sia concedendone la riproduzione a riviste e periodici. Insieme al primo album la fotografa ne consegna un secondo di soggetti infantili (non casualmente un altro genere praticato dalla Barrett), chiedendo che questo fosse recapitato a Edda Ciano Mussolini con il desiderio di fotografare Fabrizio, figlio della stessa Edda e Galeazzo Ciano.46 Questo particolare testimonia come l’incontro con Mussolini non avvenne, come spesso è stato ipotizzato, grazie a Edda, ma che accadde piuttosto il contrario, ossia che grazie al ritratto del padre la Carell fotograferà e spesso frequenterà la figlia, a partire dal 1936. Ma come riesce la fotografa ungherese a compiere quel progetto che appena due anni prima pareva ben arduo da realizzare? Sicuramente non è del tutto estraneo il ruolo della Sarfatti, che ritornerà più volte in alcune vicende della Carell, ma in realtà l’artefice del piano diplomatico – aggettivo per nulla casuale – per arrivare a Mussolini è il conte Luigi Vidau, capo del dipartimento per gli Affari riservati presso il ministero degli Affari esteri, espressamente citato «a seguito degli accordi» relativi ai ritratti del Duce.47

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Probabilmente fotografato e blandito dalla Carell, Vidau si presta a comunicare la proposta del ritratto ad Alessandro Chiavolini, segretario particolare di Mussolini, il quale fa da tramite. Intanto la segreteria riconsegna gli album alla Carell, specificando, su quello che raccoglie le stampe del ritratto a Mussolini, che «le foto contrassegnate no non debbono essere messe in commercio perché non piacciono. Sarebbe preferibile che i rispettivi negativi venissero distrutti. Le altre posso essere editate».48 In una comunicazione seguente Vidau sottolinea che «la Carell sarà lieta di cedere al Ministero le foto di s.e. al medesimo prezzo praticato da chi la ha preceduta nello stesso lavoro».49 È semplice intuire che il riferimento è a Eva Barrett, autrice di precedenti ritratti (l’ultimo probabilmente nel 1927) che saranno del tutto obliterati da quelli realizzati dalla Carell, la quale si affretta a depositare «quattro fotografie del Duce in posizioni diverse» nel registro del diritto d’autore al ministero delle Corporazioni.50 A fronte delle quattro depositate, la prima serie di fotografie circola in almeno sei differenti pose di Mussolini: due primi piani con la mano inanellata a sfiorare il viso, un terzo primo piano di tre quarti, due mezzi busti, uno con mani in tasca e uno a braccia conserte, mentre un’ultima posa, pochissimo diffusa, lo mostra seduto su una poltrona Savonarola. I ritratti sono sorprendenti perché sono ben diversi dalle consuete fotografie di Mussolini. Non si vede il “Duce”, è assente tutta la retorica di solito veicolata dalle sue immagini, del resto in parte già erosa dalla Barrett. Nessuna posa marziale o profilo volitivo incombente, ma un dandy borghese, dall’aria suadente e rassicurante, in doppiopetto bianco, quasi ammiccante in alcuni scatti, più severo in altri (fig. 5). L’unico

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5. Benito Mussolini, 1937 [1933] (rdm).

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elemento di connotazione politica è il piccolo distintivo del Partito nazionale fascista (pnf) all’occhiello della giacca, quasi impercettibile. Nelle fotografie della Carell ritorna nuovamente una sorprendente sintesi tra l’immaginario hollywoodiano e la memoria del ritratto pittorico, che qui però tocca differenti ascendenti. La postura di Mussolini in alcuni scatti appare in bilico tra l’immagine del pensatore e il gesto di un raffinato esteta, non a caso Alessandra Antola ha ricondotto tale atteggiamento a un simile ritratto fotografico di Gabriele d’Annunzio, realizzato da Mario de Maria alla fine dell’Ottocento.51 La Carell forse invita il suo inconsueto modello ad assumere determinate posizioni, è attenta a non riprenderlo mai a figura intera e ovviamente ne corregge i difetti e ammorbidisce l’immagine con i consueti interventi sulle lastre. «Mussolini era vanitoso come una donna, l’ho conosciuto bene e l’ho osservato per giorni interi dietro la scrivania della sala del Mappamondo. Vanitoso come una donna, ripeto, e potevo fargli fare per ore quello che volevo»52 ricorderà la Carell – ma solo nel dopoguerra – esagerando certo sia i termini della sua conoscenza diretta, sia la disposizione del Duce ad assecondare le sue richieste. Anche se, come testimoniano i ritratti, una certa accondiscendenza ci dev’essere stata, probabilmente mossa dal desiderio dello stesso dittatore di un ritratto anticonvenzionale, sorprendente e comunque benevolo, che poteva veicolare un’immagine rassicurante nei giorni della dichiarazione del Patto a quattro con Francia, Inghilterra e Germania, siglato il 7 giugno precedente (esattamente venti giorni prima dei ritratti scattati dalla Carell). Forse spinto anche da Vidau, il Duce aveva acconsentito a presentarsi in questa insolita veste, che decreterà la preferenza accordata

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negli anni seguenti a queste fotografie dallo stesso Mussolini, anche dopo il fallimento del Patto, tanto da utilizzarle assiduamente nelle sue relazioni diplomatiche, cosicché oggi si ritrovano spesso assai oltre i confini nazionali. Lungi dal considerarlo “vanitoso come una donna”, circa un mese dopo l’esecuzione del ritratto Carell scrive un’accorata lettera al Duce, chiedendogli una dedica su uno dei ritratti da lei stessa eseguiti, dimostrando, come ha giustamente osservato Eva Nodin,53 più che un’adesione ideologica al fascismo, l’ammirazione per il suo capo – in quel momento assai diffusa – certo suggerita da questioni di convenienza ma anche di sincera lealtà.

Corrado Vigni All’inizio del 1934 Ghitta Carell si rivolge ancora all’ex segretario Alessandro Chiavolini: gli fa avere in regalo una delle ormai note fotografie di Mussolini e chiede di poterlo ritrarre. Nei giorni successivi la fotografa cerca di parlargli al telefono, ma senza successo: l’avviso recapitato al nuovo segretario particolare del Duce Osvaldo Sebastiani riporta la nota «Vuol parlare con il comm. Gr. Uff. Chiavolini, il quale invece non ha alcuna intenzione di vederla. Appoggiata agli Esteri».54 L’atteggiamento diffidente di Chiavolini, nonostante le pressioni di Vidau – a lui fa riferimento il sostegno “agli Esteri” – si spiega in una serie di successive lettere e comunicazioni, dalle quali emerge come, da questo momento in poi, la fotografa tenterà ripetutamente di perorare la causa dello scultore fiorentino Corrado Vigni (1888-1956)55 – a cui è evidentemente legata da uno stretto

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rapporto, nato durante la permanenza a Firenze – cercando in tutti i modi di fargli ottenere qualche commessa dal regime. Il progetto s’infrangerà inizialmente sulla resistenza di Chiavolini, impermeabile alle lusinghe della Carell e all’idea di essere immortalato dalla stessa fotografa del Duce, ma avrà maggior successo con Osvaldo Sebastiani, che vedremo ritratto insieme a tutta la famiglia.56 Pur riuscendo a trovare una più duttile accoglienza ai suoi propositi – i quali non porteranno, almeno su questo fronte, a grandi incarichi per lo scultore – l’impegno profuso alla promozione di Vigni diventa una vera e propria ossessione che la fotografa attuerà su più fronti, con una caparbietà tale da precipitarla spesso in una condizione critica, mitigata da una sempre più ridotta tolleranza. Anche la conoscenza di Margherita Sarfatti e Marcello Piacentini, oltre a garantire un rapporto più stretto con la politica culturale del regime e i suoi protagonisti, diventa un ulteriore strumento di promozione di Corrado Vigni. La Sarfatti non si mostra molto sensibile alla causa, forse per il talento non sempre eccelso dello scultore, e quindi è soprattutto con Piacentini che la fotografa dà corpo ai suoi propositi, ricompensati forse dalla moltitudine di ritratti dedicati all’architetto e alla sua famiglia. Vigni è così raccomandato soprattutto per incarichi artistici negli edifici pubblici (per i quali la consuetudine di destinare una percentuale dell’importo dei lavori a opere d’arte approderà alla cosiddetta legge del 2% del 1942). Proprio Piacentini gli affiderà alcune sculture per la chiesa romana del Cristo Re (1931-34) e per il rettorato della Città Universitaria di Roma (1932-35). Ancora nell’ambito dei lavori della Città Universitaria, sotto la regia di Piacentini, si colloca il

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coinvolgimento di Vigni nell’Istituto di Fisica di Giuseppe Pagano e in una serie di crocifissi in bronzo per le aule principali dei singoli istituti. Contestualmente nelle stesse aule dovevano venire affissi i ritratti fotografici del re e del Duce eseguiti dalla Carell.57

Architetti Sembra plausibile che proprio in questa circostanza la fotografa abbia scattato i ritratti di numerosi progettisti coinvolti nell’impresa. Tra cui Pagano e Giovanni Michelucci, entrambi fotografati nel 1933,58 oltre a Gaetano Rapisardi, Gaetano Minnucci ed Eugenio Montuori.59 Andrea Busiri Vici, sempre ritratto nel 1933, fa parte del mondo aristocratico, intrinseco alla fotografa.60 Altri scatti sono invece da ricondurre a un rapporto di consuetudine, come quello all’ingegnere architetto del ministero delle Poste e Telecomunicazioni Angiolo Mazzoni, ritratto nel 1934, il quale stringe con la Carell rapporti d’amicizia che comprendono anche il giovane figlio Marcello.61 Tra i sodali sembrano annoverarsi Ernesto Bruno Lapadula ed Eugenio Giacomo Faludi, entrambi fotografati nel 1936:62 il primo ha uno studio nello stesso edificio dove vive e lavora Ghitta Carell, in piazza del Popolo 3, e per la fotografa elabora anche due progetti di sistemazione e arredo di un più piccolo studio romano e di uno milanese, oltre a un villino per Vigni a Firenze;63 il secondo condivide con la Carell l’origine ungherese e la frequentazione dell’Accademia d’Ungheria a Roma, con la quale entrambi negli anni trenta hanno assidui scambi e collaborazioni.

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Adalberto Libera e Mario Ridolfi saranno fotografati nel 1938 64 e a tale data sono da ricondurre anche i ritratti di Giuseppe Vaccaro e Gino Franzi (spesso collaboratori), oltre che di Armando Brasini,65 certamente realizzati in occasione delle vicende legate all’Esposizione Universale di Roma del 1942 (e42), svoltesi sotto la regia di Piacentini, il quale si conferma l’elemento chiave di relazione degli architetti con la Carell, anche nel caso di Piero Portaluppi e Luigi Piccinato,66 seppure quest’ultimo sia tra i pochi ritratti di architetti realizzati nel dopoguerra. Proprio nel contesto di una rivista d’architettura dalla spiccata militanza modernista come Quadrante, diretta da Massimo Bontempelli e Pietro Maria Bardi, viene pubblicato a tutta pagina, nell’agosto 1933, uno dei ritratti di Mussolini (il primo piano di tre quarti, senza la mano inanellata: il più rigoroso della serie) a corredo di un articolo di Bernardo Giovanale sulle corporazioni.67 La stessa fotografia sarà pubblicata l’anno seguente su L’Italia Letteraria, ancora in compagnia di architetti – spiccano i ritratti di Giuseppe Vaccaro e Marcello Piacentini – oltre a quelli dello stesso Bontempelli e di Roberto Longhi.68 Oltre a Bontempelli, venne ritratto anche l’altro codirettore di Quadrante, tanto che lo stesso Bardi lo userà spesso come fotografia ufficiale anche dopo il trasferimento in Sudamerica.69 Longhi, che garantiva un legame con il ricco mondo dei mercanti e del collezionismo (Alessandro e Vittoria Contini Bonacossi), dovette intrattenere con la Carell perlomeno un rapporto di occasionale affinità, dal momento che nel 1934 dedicò una copia del suo ritratto, eseguito nel 1931, alla stessa fotografa: «A Ghitta Carell che rammenta/all’obbiettivo d’esser critico e al/critico d’essere obbiettivo».70

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