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Stay still

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Mare fuori

Mare fuori

tin di sentire la sua mancanza; mentre sono a pranzo per ricordare il loro amico, i tre osservano i diplomati festeggiare al molo con dell’alcol e si uniscono ai festeggiamenti, bevendo e ballando.

UUn dolore lancinante, profondo, esistenziale accompagna l’intera vicenda del nuovo film di Thomas Vinterberg, premiato agli Oscar come miglior film internazionale e dedicato alla figlia prematuramente scomparsa. Nonostante queste strazianti ferite dell’anima che dilaniano il personaggio di Martin, la grandezza tanto della narrazione quanto dell’apparato formale sta nel non trasformarle mai in mera retorica del pianto o della sofferenza, dipanandole attraverso la ragguardevole interpretazione dell’attore protagonista. In uno dei suoi ruoli migliori, Mads Mikkelsen affronta la vasta gamma di emozioni del suo personaggio senza ricadere in un furbo pietismo melò tipico di narrazioni di questo tipo, da cui il suo stile recitativo rifugge nella riscoperta del particolare fisionomico, dell’emozione soffocata ma devastante, di un sentimento di sconfitta che ricerca una propria redenzione sebbene rimanga vittima dell’ansia, del fallimento esistenziale, di un taedium vitae soffocante, il tutto espresso dai suoi sguardi di sottile ma intenso malessere: si pensi al bellissimo passaggio dall’apatica rassegnazione al vuoto fino al tentativo di soffocare le lacrime silenziose delle proprie umiliazioni e sconfitte, professionali e matrimoniali, con cui Mikkelsen regge dignitosamente l’intera sequenza della cena iniziale con gli amici.

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Devastati dall’ordinarietà della vita e dallo scorrere inesorabile del tempo, l’oscillazione dei personaggi tra il loro desiderio di tornare a esistere e le conseguenze devastanti del loro agire è restituito da uno scenario esistenziale che guarda esplicitamente all’ansia di Kierkegaard, identificante quella difficoltà del soggetto di stare nelle possibilità della propria condizione umana, in cui è chiamato a scegliere tra più alternative, accogliendone una per negarne l’altra, accettando le conseguenze degli esiti di questa semplice ma esorbitante chiamata all’azione, confrontandosi con una fallibilità tesa alla disperazione, a una mancata accettazione di un Io nei confronti dei propri limiti e che trova nel dolore apparentemente apatico di Mikkelsen l’espressione più notevole.

Un film sull’incapacità di stare nell’esistente non può che terminare in una fusione estatica con il Tutto garantita dal bellissimo finale sul molo, accentuato dai dinamici movimenti di macchina a mano, tipici dell’autore a partire dalla sua iniziale adesione al Dogma 95, conclusione perfetta che naviga nelle medesime ambiguità dell’intera narrazione: inno alla vita e a un nuovo inizio o prologo alla deflagrazione definitiva? Ripartenza o catastrofe? Stare realmente nella vita o necessità di un rapporto distorto con le sue strutture? Ambiguo nella sua malinconica gioiosità, il finale oscilla tra la dynamis e il suo definitivo annullamento nel fermo immagine finale, un ricorso alla natura statica, immobile e mortifera dell’immagine filmica, rottura brusca e sottilmente profetica verso il destino di Martin, bloccato nel suo tuffo in mare, istante pregnante che restituisce la sua condizione esistenziale, tra il volo, la redenzione, la nuova ripartenza e il crollo, la caduta e l’avvento di una nuova catastrofe.

leonarDo MaGnante

di Elisa Mishto

JJulie è una venticinquenne poco equilibrata che, alla morte di entrambi i genitori, ha deciso di vivere la propria vita all’insegna della nullafacenza, forte anche di un’eredità corposa. La sua è una protesta contro la società, paragonata a un formicaio, in cui ogni membro è caratterizzato da operosità per sentirsi gratificati.

In un supermercato, in cui si è recata per fare scorta di guanti in gomma (perennemente indossati per sembrare pazza e non essere disturbata), incontra un ragazzo con il quale fa sesso e che liquida dando fuoco alla sua auto. Compiuto il gesto, avverte il dottor Herrmann che sta per tornare nella sua clinica psichiatrica (ormai diventata una sorta di routine della sua vita).

Origine: Germania, Italia, 2020 Produzione: Andrea Srtucovitz Regia: Elisa Mishto Soggetto e Sceneggiatura: Elisa Mishto Interpreti: Katharina Schüttler (Katrin), Luisa-Celine Gaffron (Agnes), Martin Wuttke (Dr. Hermann), Jürgen Vogel (Her Vogel), Giuseppe Battiston (Rainer), Natalia Belitski (Julie) Durata: 90’ Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà Uscita: 9 luglio 2020

Alla clinica viene presa quasi a modello dagli altri malati, soprattutto da Rainer, un grande uomo che non parla, che decide di seguirla e imitarla.

Qui Julie viene sottoposta alla supervisione di Agnes, un’infermiera poco socievole, insoddisfatta della propria vita e incapace di comportarsi da madre con la propria figlia di tre anni che non le parla e che si comporta male alla scuola materna. Già dai primi incontri si nota come Julie tenti di influenzarla e come Agnes, fragile, sia effettivamente attratta dalla sua paziente.

Durante una seduta di ginnastica nel bosco, Julie si allontana dal gruppo. Agnes è costretta a rincorrerla e, non riuscendo a fermarla, la seguirà nelle sue azioni per tenere sempre gli occhi su di lei. Rubata un’auto, le due si recano nell’enorme casa della madre di Julie che dev’essere venduta a causa dei debiti contratti.

Julie convince Agnes a passare la notte lì tra alcol e racconti di vita passata in cui scopriamo che la madre di Julie si è suicidata. In una piscina vuota, riempita dalle loro aspirazioni, le due consumano una notte d’amore. Al mattino Julie da fuoco alla casa all’insaputa di Agnes che chiama la polizia.

Rientrate in clinica, Agnes viene sospesa dalla supervisione di Julie, che nel frattempo viene sedata per la troppa eccitazione. Ma Agnes ormai è distratta, Julie le ha aperto gli occhi al punto da dimenticarsi la propria figlia alla scuola materna e subire un rimprovero dal marito.

In clinica la situazione è tesa. Un nuovo disordine viene generato da un’altra paziente, Katrin, che, dopo la visita della madre con la quale non ha un rapporto positivo, vive uno stato di sovreccitazione che culmina nell’esasperata voglia di tagliarsi i capelli. Agnes, che si occupa di queste evenienze, la rimprovera, così Katrin inizia a girare la clinica in cerca di approvazione e, dopo aver parlato con Julie, vive una sorta di crisi isterica nel salone in cerca di forbici. L’altra infermiera, la severa Caroline, cerca di calmarla e nel frattempo chiama Agnes, invano perché quest’ultima è trattenuta da Julie all’interno della dispensa. Non vedendo arrivare Agnes, Katrin compie il gesto estremo di darsi fuoco ai capelli.

A questo punto al dottor Hermann non resta che licenziare Agnes e cercare di aiutare Julie chiedendo il suo trasferimento in una clinica specializzata, all’interno della quale dovrà rimanere qualche anno senza possibilità di uscire.

Alla notizia Julie decide di togliersi la vita nel bagno. Mentre sta per soffocare ci ripensa e viene salvata da Rainer che, nel seguirla, ha assistito a tutta la scena. Agnes scopre l’accaduto e inizia un litigio tra le due che viene interrotto da Rainer che per la prima volta parla e sussurra all’orecchio di Julie.

I tre si spostano in cucina per mangiare qualcosa e vengono raggiunti da Caroline che si unisce a loro e manda Julie a preparare le proprie cose perché sta per essere trasferita. Rimaste sole Caroline e Agnes, la prima inizia a parlare dei problemi di Julie ma viene mandata a quel paese dalla seconda che raggiunge Julie e Rainer e li aiuta a fuggire dandogli le chiavi della propria auto.

Prima di partire Agnes chiede a Julie di fare qualcosa. Richiesta che sembra essere accolta nel momento in cui, alla guida, Julie si toglie per la prima volta i guanti. O Opera prima di fiction della già documentarista Elisa Mishto, Stay still è un film che medita sulla società in cui viviamo attraverso il disagio mentale. O meglio, attraverso ciò che socialmente è ritenuto disagio mentale. D’altronde questa tematica risulta estremamente cara alla regista che già nel 2007 l’aveva trattata nel documentario States of Mind.

Il film si inserisce nella tradizione di pellicole, ambientate in cliniche psichiatriche, che trattano e indagano la sottile linea che separa la normalità dalla pazzia. Su tutte, Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman (1975) è quella che, evidentemente, ha influenzato di più la regista. Di questo film ritroviamo Julie che è quasi un calco al femminile del ruolo interpretato da Jack Nicholson e l’ambiguo Rainer (interpretato da Giuseppe Battiston, perfettamente in parte) che invece segue la figura di Bromden, che dal mutismo iniziale ritrova la parola grazie all’influenza della protagonista.

L’opera riflette attraverso Julie, magistralmente interpretata da Natalia Belitski, sui ruoli sociali, sulle aspettative che si trasformano in gratificazioni da parte degli altri o in delusioni che spingono a sentirsi inadeguati. Ma adeguato non è altro che sinonimo di conforme. In una società-formicaio in cui le persone-formiche svolgono un preciso ruolo e in cui ognuno si adegua alle convenzioni, ecco che essere non conforme diventa sinonimo di pazzia. Questa condizione va a genio a Julie che da reietta ostenta questa sua apparente (o quasi) malattia per essere lasciata in pace e continuare a vivere secondo i propri istinti, con brevi parentesi passate in clinica.

Mentre diversa è la situazione della seconda protagonista femminile, Agnes (Luisa-Céline Gaffron), che per certi versi è l’esatto alter ego di Julie, che ha sempre

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