Karpòs n. 3 - 2016

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KARPÒS ALIMENTAZIONE E STILI DI VITA

Anno V - Karpo`s - N° 3 - 2016

W W W. K A R P O S M A G A Z I N E . N E T

IL FUTURO DEL VINO ITALIANO SARDEGNA NORD-OCCIDENTALE ALLA SCOPERTA DI BERENICE PANCRISIA PANE NOSTRO QUOTIDIANO LA VITA NEI VILLAGGI RURALI DEL RAJASTHAN SALVIAMO L’AGRICOLTURA


STUDIOFABBRO.COM 10-2015

Dal 1930 in continua crescita

Vivai Cooperativi Rauscedo il numero 1 al mondo del vivaismo viticolo 66 milioni di barbatelle vendute

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UN NUOVO RECORD DI VENDITE NELLA CAMPAGNA VIVAISTICA 2014/15:

ITALIA 37,6 MILIONI, ESTERO 28,4 MILIONI PER UN TOTALE DI 66 MILIONI DI BARBATELLE Significa che con le barbatelle VCR sono stati realizzati quasi 20.000 ettari di vigneto di cui oltre 11.000 in Italia e 8.100 all’estero. Tutto ciò rappresenta un traguardo che non ha eguali al mondo e che potrà essere ancora migliorato sotto la spinta propulsiva dell’innovazione VCR! Via Udine, 39 33095 Rauscedo (PN) Italia Tel. +39.0427.948811 Fax +39.0427.94345 www.vivairauscedo.com vcr@vivairauscedo.com



SALVIAMO L’AGRICOLTURA

Renzo Angelini Direttore editoriale

Carissimi lettori, il mondo della natura fatta dall’uomo per l’uomo è per noi sinonimo di bellezza. Pertanto è uno straordinario mezzo di comunicazione per la promozione dell’Italia, dei suoi territori, nonché delle imprese che ne hanno cura. La “cultura dell’agricoltura” è in grado di offrire un nuovo punto di osservazione del Bel Paese, evidenziando i valori, le caratteristiche e le eccellenze della produzione agroalimentare, della sua storia tra tradizione e innovazione, del suo impiego dal settore gastronomico a quello medico-sanitario. Il custode di tutto questo è l’agricoltore. Da “cultore della natura”, per esempio, sa che i parassiti sono sempre esistiti e fanno parte del ciclo di vita del sistema. Infatti, quando attaccano le piante

cerca di eliminarli per non dissipare i frutti della terra con i quali sfamiamo l’umanità. Di solito l’agricoltore applica la regola della dose minima di “chimica indispensabile”. Un po’ perché è sensibile, come tutti noi del resto, ai problemi dei residui chimici che potrebbero finire nel piatto che mangiamo; un po’ perchè a nessuno piace l’inquinamento della “bellezza”. Ma soprattutto, cerca di applicare la dose minima semplicemente perché la “chimica” è carissima e non coperta dalla mutua. Molti agricoltori, con il sudore della fronte di intere generazioni, sono riusciti a comprare il terreno che i loro avi custodivano, preservando il territorio dall’incuria e dando vita a una delle

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EDITORIALE

L’evento che abbiamo organizzato a Castelnuovo Berardenga è stato il “kick off ” del nostro programma di ristrutturazione dell’agricoltura. Ne seguiranno tanti altri ma sempre dando la priorità a quei mercati dove si sospetta l’abuso di pesticidi e di energie. Mi aiuto ancora una volta, con un esempio. In Italia la chimica dei fitofarmaci fattura circa novecento milioni di euro all’anno, con incrementi spesso a due cifre. Si possono ridurre i costi in tanti modi: a. semplicemente passando dalle “firme” ai “generici”, spesso prodotti nella stessa fabbrica; b. si può tornare a impiegare più prodotti tradizionali; c. si può ponderare con più attenzione i consigli che arrivano da chi ci guadagna sulla vendita; d. di deve imparare a usare prodotti chimici solo quando è indispensabile... Tutte queste strategie e istruzioni per l’uso saranno oggetto di approfondimenti durante i nostri eventi che abbiamo immaginato di riservare solo a chi condivide la nostra visione (eventi solo su prenotazione). I dati sensibili verranno inseriti nella banca dati o per meglio dire, nel caveau di Karpòs dove un algoritmo metterà istantaneamente a disposizione di chi si è iscritto, le preziose informazioni tattiche e strategiche utili per l’aumento della competitività dei prodotti o dei servizi. Stiamo costruendo il “Thesaurus dell’agricoltore”, custodito e protetto nel caveau di Karpòs, accessibile pertanto all’agricoltore al quale chiederemo un contributo di 1 euro per ettaro di terreno. Tutti gli altri soggetti interessati potranno partecipare con soli 10 euro. Queste risorse ci permetteranno di sviluppare la falange che si è già messa in movimento. Vi chiederete perché un editore si sia assunto costi e rischi che vanno ben al di la dei normali programmi editoriali. Karpòs non ha solo un corpo ma possiede un’anima motivata da una missione: vogliamo continuare a far vivere l’agricoltura italiana, vogliamo contribuire al saper vivere bene e in salute del nostro pubblico, crediamo nel valore dell’incremento della conoscenza condivisa.

forme dell’agricoltura più qualitative del mondo. Tuttavia, oggi tantissimi custodi della terra sono consapevoli che non potranno lasciarla ai loro figli. Perché? Pensate, producono pesche rosse e profumate che noi acquistiamo a 2€ e le vendono a 25 centesimi. Ebbene, per produrle ne spendono 45! Non possiamo definirli imprenditori ma appassionati difensori dei nostri beni primari. Io, che pur vengo dalla terra e che da essa ho tratto le più importanti lezioni di vita, non posso dire di condividere tutto quello che fanno o pensano, ma li capisco: si ispirano al proverbio cinese “Scegli il lavoro che ti piace e non lavorerai un giorno”. Non capisco e non condivido invece, la filosofia a lungo termine della grande filiera di mega aziende che dovrebbe sostenerli dal momento che hanno i mezzi d’intervento e conoscenze di parassitismo immensamente superiori. Ci sono parassiti in natura che arrivano a svuotare la preda fino al 50% del proprio peso ma nessuno pensa di superare questa soglia perché insieme all’ospite morirebbe anche il parassita. Per contro, a volte penso che noi uomini siamo veramente speciali anche nelle azioni che alla fine danneggiano noi stessi. Insomma, per farla breve, l’agricoltore non va lasciato solo. Le aziende della filiera che lucrano a partire dal suo lavoro dovrebbero essere delle alleate intelligenti e non cinici operatori di mondi finanziari sempre più lontani dalla realtà materiale. Mi sono posto la questione di cosa debba fare Karpòs su questo epocale problema. Sono arrivato alla conclusione che solo una nuova alleanza tra i personaggi della grande narrazione dell’agricoltura può porsi obiettivi di reale cambiamento. Dunque, insieme con le centinaia di protagonisti che in questi cinque anni abbiamo aggregato, abbiamo deciso di far squadra imparando a muoverci come una falange macedone attraverso una road map che ha l’obiettivo di ridurre, almeno del 10%, il costo delle produzioni agricole.

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KARPÒS MAGAZINE N. 3 - 2016

Direttore editoriale Renzo Angelini

4 SALVIAMO L’AGRICOLTURA Renzo Angelini

Direttore responsabile Lamberto Cantoni

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Iscr. trib. di Forlì n° 3/12 del 4/5/2012 Proprietario ed editore della testata Karpòs S.r.l. Via Zara 53 - 47042 Cesenatico (FC) P.I./C.F. 04008690408 REA 325872

IL FUTURO DEL VINO ITALIANO Renzo Angelini

Hanno collaborato a questo numero Antonella Bilotta antonella.bilotta@karposconsulting.net Laura Fafone laura.fafone@karposconsulting.net Amministrazione Milena Nanni milena.nanni@karposconsulting.net Raccolta pubblicitaria pubblicita@karposmagazine.net Tel. +39 335.6355354

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Per le fotografie: Da pag. 58 a pag. 82 © Maurizio Levi

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Tutte le altre fotografie © Renzo Angelini

ALLA SCOPERTA DI BERENICE PANCRISIA Maurizio Levi

L’editore ha cercato di reperire tutte le fonti, ma alcune restano sconosciute. L’editore porrà rimedio, in caso di segnalazione, alle involontarie omissioni o errori nei riferimenti.

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PANE NOSTRO QUOTIDIANO Giovanni Ballarini https://www.facebook.com/karposmagazine1

120 LA VITA NEI VILLAGGI RURALI DEL RAJASTHAN Renzo Angelini

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DORIA SAN BENEDETTO ALOE

Non si restituiscono testi, immagini, supporti elettronici e materiali non espressamente richiesti. La riproduzione anche parziale di articoli e illustrazioni è vietata senza espressa autorizzazione dell’editore in mancanza della quale si procederà a termini di legge per la quantificazione dei danni subiti. L’editing dei testi, anche se curato con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità per eventuali errori o inesattezze, limitandosi l’editore a scusarsene anticipatamente con gli autori e i lettori. Ogni articolo firmato esprime esclusivamente il pensiero di chi lo ha scritto e pertanto ne impegna la personale responsabilità. Le opinioni e, più in generale, quanto espresso dai singoli autori non comportano alcuna responsabilità da parte dell’editore anche nel caso di eventuali plagi di brani da fonti a stampa e da internet. Karpòs rimane a disposizione di altri eventuali aventi diritto che non è stato possibile identificare e contattare.


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IL FUTURO AGRA: IL TAJ DEL MAHAL VINOED ITALIANO IL MERCATO RENZO ANGELINI


Renzo Angelini IL FUTURO AGRA: IL TAJ DEL MAHAL VINOED ITALIANO IL MERCATO RENZO ANGELINI

IL FUTURO DEL VINO ITALIANO 9


Abbiamo dunque dedicato il primo evento organizzato da Karpòs a fare il punto della situazione, interrogandoci sulle inedite opportunità che potrebbero avere i nostri viticultori se cominciassero a utilizzare la più che probabile turbolenza climatica che ci attende, come una leva per rinnovare pratiche e tecniche agricole, con l’obiettivo di migliorare la qualità dei nostri vini. Può sembrare un paradosso ma le più recenti ricerche scientifiche stanno dimostrando che, grazie a una agricoltura aggiornata con le tecnologie informatiche capaci di orchestrare informazioni eterogenee sui fattori portanti della viticoltura e sulla vinificazione, le emergenze possono essere trasformate in un vantaggio competitivo per aumentare il valore delle

Il vino italiano ha recentemente ottenuto un risultato impensabile fino a qualche decennio fa. I nostri produttori sono diventati i primi al mondo per quantità di vino esportato. Tuttavia questo primato nasconde delle insidie. Il valore che genera sinora, è relativamente modesto rispetto le potenzialità dei nostri vigneti, unici al mondo per varietà e ricchezza geologica. In seconda battuta stanno emergendo dei problemi storici che costringeranno i viticultori e i tecnici a una grande trasformazione culturale e operativa. Primo fra tutti la inquietante accelerazione dei cambiamenti climatici che da tempi ancestrali decretano l’ampiezza della fascia geografica dove risulta possibile una agricoltura di qualità.

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tito da una burocrazia lenta e costosa. Solo muovendoci all’unisono avremo la possibilità di far crescere il valore necessario per trasformare tutta la nostra viticoltura in un modello produttivo esemplare per competitività, sostenibilità e qualità delle produzioni.

nostre produzioni. Detta in termini sintetici, con i nostri eventi intendiamo contribuire alla diffusione della cosiddetta Agricoltura di precisione. Oltre al tema centrale rappresentato dal cambiamento climatico, gli eventi Karpòs sono stati pensati per dare compattezza a tutti i protagonisti del vino italiano: dai produttori ai fornitori di prodotti e servizi; dai ricercatori agli agronomi delle aziende; dagli enologi ai comunicatori. Il progetto dell’aumento del valore del vino italiano oggi non può più essere demandato alle eroiche avanguardie imprenditoriali che nel recente passato hanno dato un contributo fondamentale nel rivestire con un abito festoso un “corpo” complessivo compromesso da troppi ritardi e appesan-

Permettetemi di aggiungere ancora qualche pensiero sul tema della condivisione strategica e della compattezza tra tutti gli attori protagonisti della nostra agricoltura. Sino a ora il vino italiano di qualità si è evoluto grazie all’azione di grandi eroi culturali e imprenditoriali che singolarmente, superando ostacoli di natura eterogenea, sono meritatamente riusciti a raggiungere posizioni di privilegio.

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di Alessandro Magno, una piccola regione a nord della Grecia dominata da Atene e Sparta, è stata capace di disintegrare immensi eserciti e imperi. La sua forza era la falange cioè un esercito di uomini che in battaglia si muovevano all’unisono, agivano come un unico organismo. Io credo che, se sapremo alternare le nostre diversità con i momenti in cui dobbiamo agire come una falange, otterremo la crescita di valore che tutti auspichiamo.

Grazie agli stimoli di questi eroi della viticoltura tutto il settore è stato attraversato da una energia che ha portato il nostro Paese a essere il primo produttore al mondo per quantità di prodotto. Ora siamo di fronte al passo più difficile, ovvero stiamo per incamminarci lungo stretta via che introduce al passaggio dalla quantità delle produzioni all’aumento progressivo del valore aggiunto. Per far ciò, io credo che, gli ammirevoli eroi non siano più sufficienti. Il vino italiano per conquistare valore in un mercato grande come il pianeta, deve saper far squadra. In altre parole, dobbiamo imparare nelle circostanze giuste a muoverci come una falange macedone. Pensate, tanti secoli fa, ai tempi di Filippo II e

Nel frattempo, posso dire che, in questo momento, insieme con i nostri partner stiamo contribuendo alla costruzione della falange del vino italiano. A mia memoria, sono stati ben pochi gli eventi creati per la crescita nella

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far capire a chi ama la cultura del vino la nostra specificità. Per questo motivo non dobbiamo avere paura di superare modi di dire che non riflettono la nostra complessità. Per esempio, io al concetto di Terroir preferisco quello di Genius Loci. Nell’accezione classica il genio (cioè il saggio) del “luogo” è una entità metafisica che lo presidia, nel senso che lo protegge e lo com-prende essendo parte delle forze generatrici che lo ha materializzato. In quanto tale, era oggetto di culto per gli antichi romani. Oggi, il Genius Loci potrebbe essere inteso come il gioco di sostanze espressive che orientano le forze del “luogo” a prendere la forma di significazioni che identificano un vino conferendo a esso la sua specificità. Il Genius Loci racconta delle storie e

condivisione degli obiettivi. Nell’incontro organizzato a San Felice un ragguardevole esercito di protagonisti ha dato prova di credere nella fecondità della crescita della conoscenza comune e nella libera e franca discussione sui passi da intraprendere ora, senza rimettere i problemi a un futuro indeterminato. Cercate di capirmi bene: sono cosciente che non abbiamo ancora conquistato nulla, ma può dire che tutti insieme abbiamo lavorato per trasformare un problema, il cambiamento climatico, in una occasione di crescita del settore. Il vino italiano viene da una grande tradizione e da un contesto geologico e territoriale senza paragoni. A mio avviso dobbiamo trovare il modo di

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storia dell’avventura umana connessa alla vite, dai greci agli etruschi, dai romani ai Borboni. Pur privilegiando il percorso scientifico mi pare giusto non dimenticare che la grande ricchezza della diversità del vino italiano dipende anche dalla nostra capacità di preservare le differenze che la nostra storia millenaria ci ha consegnato. Una falange di “differenze” che agiscono insieme non può che vincere.

avvicina all’uomo le forze generatrici della natura. Io credo che questo concetto sia importante perché ci permette di aggiungere a “Terroir” (imposto dal dominio francese sulla viticoltura) un supplemento di senso che, aldilà dei microclimi e alle diverse tecniche di viticoltura, mette in gioco “differenze” inscritte nel territorio dall’evoluzione di specifiche e coerenti forme di vita. Con i nostri prossimi eventi andremo alla scoperta dei Genius Loci che presidiano le molteplici viticultore dei nostri territori. Siamo partiti dal centro per muoverci a nord e poi nel sud del nostro invidiabile Paese. Le diversità geologiche italiane (vini dei territori vulcanici, alluvionali, dei termini sedimentari...) si riflettono nella

Renzo Angelini Direttore Editoriale

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IL FUTURO DEL VINO ITALIANO Specificità dei territori vinicoli italiani, eccezionale presenza di varietà autoctone e culture storiche

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AGRA: IL TAJ MAHAL ED IL MERCATO RENZO ANGELINI

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Nuraghe Appiu

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DA ALGHERO ALLA SCOPERTA DELLA CIVILTÀ NURAGICA, ATTRAVERSO UN PAESAGGIO AGROPASTORALE DI RARA BELLEZZA, DI MACCHIA MEDITERRANEA E COSTE DI SPIAGGE BIANCHE E ACQUE TURCHESI

Renzo Angelini

AGRA: IL TAJ MAHAL ED IL MERCATO RENZO ANGELINI

SARDEGNA NORD-OCCIDENTALE

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Nuraghe Santa Barbara a Macomer

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Il nostro percorso inizia dalla Nurra, il cui nome potrebbe derivare dalla omonima parola del dialetto sardo, che significa “mucchio” o “cavità”; analogamente si interpreterebbe la parola nuraghe. Questa area presenta infatti una delle più alte concentrazioni di tutta l’isola di queste monumentali costruzioni di forma troncoconica, costituite da pietre rettangolari sovrapposte a secco. L’uomo è qui presente dal Paleolitico, richiamato probabilmente dalla presenza di giacimenti di ossidiana, una roccia vulcanica adatta a costruire armi ed altri manufatti. I primi insediamenti sfruttarono le grotte naturali come abitazione, sepoltura e luoghi di culto. Successivamente fecero la loro comparsa delle forme architettoniche a torre che presentavano all’interno una camera e le mura esterne terminavano a terrazzo. Partendo da questa forma primitiva, a forma semplice, i nuraghi si fecero sempre più complessi, costituiti da più torri unite da robusti muri e circondati da un muro di cinta (nuraghe plurimo o trilobato). Posizionati sulle alture raggiungevano anche i 10 o 20 metri di altezza, e fungevano da altari di culto, da tombe e da strutture di difesa militare. I nuraghi a torre singola erano le abitazioni dei pastori e dei contadini e servivano anche per il ricovero di animali e per la conservazione dei prodotti della terra. La scala interna girava ad elica intorno alla torre, collegando il pavimento fino al terrazzo, mentre l’entrata era spesso sopraelevata a cui si accedeva con scale retrattili di legno o di corda. La società nuragica patriarcale era costituita da un popolo di pastori che allevava le greggi di animali, guidata da un re circondato da una corte di nobili, militari e servi, a costituire una tribù insediata su un territorio detto “cantone”.

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Nuraghe di Palmavera Unico esempio di nuraghe nel territorio algherese, sulla strada che costeggia la baia di Porto Conte, è il risultato di una serie di rifacimenti dall’XI all’VIII secolo a.C. Presenta una torre centrale più antica, in calcare, ed un corpo aggiunto, in arenaria, ed un cortile centrale. È circondato da un muro munito di torri e racchiude un cortile diviso in settori, per garantire una migliore difesa. A fianco del nuraghe si trova la grande Capanna delle Riunioni con un sedile che corre lungo la circonferenza ed al centro una struttura circolare sostiene un modellino di torre nuragica. Intorno si sviluppa un villaggio con capanne circolari e quadrangolari.

La torre centrale è stata restaurata mediante la costruzione di una torre secondaria e di un bastione

Capanna delle riunioni a Palmavera

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Nuraghe di Palmavera

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Necropoli di Anghelu Ruju È uno dei siti archeologici più importanti della Sardegna poiché possiede uno dei più vasti e antichi complessi di grotte artificiali, utilizzate da diverse culture dal 3300 a.C. al 1800 a.C. circa. Situata lungo la strada per l’aeroporto di Alghero-Fertilia, in prossimità del torrente Rio Filibertu, comprende 38 camere dette “domus de janas”; il nome è frutto di credenze popolari, per cui si riteneva non si trattasse di tombe ma case per le streghe. La roccia arenaria calcarea facilitò l’escavazione di tombe, con picconi litici rudimentali, ma ne limitò lo sviluppo in altezza. Le tombe sono “a pozzetto”, le più antiche e

con planimetria irregolare, o “a corridoio” disposte a T o a raggiera. L’architettura della tomba è ispirata alla casa dei vivi e arricchita di gradini, pilastri, false finestre e corna taurine. Le tombe, sigillate all’esterno con chiusini litici, hanno rivelato sepolture collettive di individui disposti in posizione supina, corredati di oggetti utili per la vita quotidiana (vasi, ornamenti in pietra, armi litiche o in bronzo, idoli femminili). A poca distanza, sempre sulla “strada dei due mari” si trovano i vigneti di Sella&Mosca dove dal 1902 si producono eccellenti vini bianchi, rossi e rosati conosciuti a livello mondiale.

Tomba a pozzetto ad Anghelu Ruju

Necropoli di Anghelu Ruju

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Tomba a corridoio nella Necropoli di Anghelu Ruju

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Vigneti Sella&Mosca

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Complesso archeologico-artistico di Santa Sabina Sulla statale da Macomer per Nuoro, vicino al paese di Silanus, il complesso si compone dell’omonima chiesa dedicata alla santa martire, di un nuraghe, di una tomba dei giganti e di un pozzo a tholos. La chiesa di Santa Sabina è un edificio romanico costruito tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo, in epoca bizantina. È particolarissima nella sua forma: vano centrale circolare con abside sormontata da cupola di profilo ovoidale, su cui si innestano ai lati due vani a pianta rettangolare. L’utilizzo di trachite nera nella parte inferiore e di cal-

care bianco in quella superiore crea una bicromia originale. Si entra attraverso un portico, con arco a tutto sesto e un portale con architrave monolitico in basalto, rialzato di tre gradini. L’ambiente sinistro ha un accesso indipendente formato da due monoliti in trachite scura, su cui poggia l’arco a tutto sesto in calcare bianco. L’abside centrale risulta più ampia delle laterali; ma tutte sono munite di una finestra. Durante i lavori di rifacimento e di consolidamento della chiesa, alla fine degli anni ’80, in seguito all’asporto del pavimento (formato da blocchi di basal-

Complesso archeologico-artistico di Santa Sabina a Silanus

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to appartenenti al vicino nuraghe) sono stati portati alla luce resti di antiche capanne nuragiche con sovrapposizioni in età romana. Massima testimonianza di preesistenti insediamenti è il Nuraghe: monotorre con blocchi basaltici ben squadrati. Partendo

dall’accesso principale, a destra si apre una piccola cella e a sinistra l’accesso alla scala che conduce alla sommità: la stanza centrale è alta 8,40 metri, circolare e munita di tre cellette di forma allungata e coperta da una volta a tholos ancora intatta.

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Chiesa di Santa Sabina

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Interno della Chiesa di Santa Sabina

Nuraghe di Santa Sabina

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Alghero di notte si ammanta della luce calda e rosata dei lampioni

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Alghero Con la conquista catalano-aragonese del 1353 Alghero, sede di una piccola fortezza fondata dai Doria, viene scelta dagli invasori catalani come punto di approdo nel nordovest dell’isola. Cacciati gli abitanti locali viene ripopolata di gente proveniente dai domini iberici e vengono potenziate le mura della città, intervallate da grandi torri di guardia; si trasforma così in città-fortezza come possiamo ammirare visitando il centro storico ben conservato, dove si parla ancora la lingua catalana. Dal ’500 vennero aperte le porte ai locali ed ai forestieri ma la scoperta dell’America e la peste offuscarono la sua centralità; nel 1720 passa sotto ai Savoia e nel maggio ’43 viene bombardata dagli alleati. Considerata la capitale del turismo sardo è anche il centro di riferimento per la pesca del corallo come testimoniano le splendide vetrine del centro.

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Le mura della Vecchia Alghero, una parte di Catalogna ben integrata in Sardegna

La marina di Alghero

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Bosa Nella vallata del fiume Temo, in una conca alla destra del fiume, sorge Bosa, circondata da una campagna rigogliosa di oliveti e di vigneti e dominata da un colle occupato dal castello dei Malaspina. Fondata dai Cartaginesi, passò sotto ai Romani; nel 1112 i Malaspina costruirono il castello sulle pendici del colle di Serravalle, per difendere la popolazione locale dalle incursioni dal mare, e questo garantì la ripresa delle attività commerciali e marittime. Invasa dagli Aragonesi nel 1323 mantenne una condizione di città libera anche se sotto il controllo del feudatario del castello. Nel 1528, per ostacolare lo sbarco dei fran-

cesi, venne ostruita la foce del Temo creando le condizioni ottimali per lo sviluppo della malaria. Solo con lo sviluppo della pesca del corallo, favorita dai Savoia, la città riprese lo sviluppo e ad estendersi verso il mare. Il monumento più importante è la Cattedrale dell’Immacolata, in stile tardo-barocco; particolarmente interessante è il rione Sa Costa, costruito nel tardo Medioevo, dove le povere abitazioni si sviluppano lungo le strade lastricate, che seguono le curve di livello, addossate alle pareti del colle. Lungo il fiume, sulla riva destra, troviamo le antiche concerie ormai abbandonate.

Veduta di Bosa, in provincia di Oristano, dal fiume Temo. È dominata dal Castello di Serravalle eretto dai Malaspina nel 1112

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Vista sulla costa lungo la quale si sviluppa la strada panoramica che collega Alghero a Bosa

Il paesaggio rurale intorno intorno a Bosa è rigolioso di oliveti e sparuti vigneti di ottima malvasia

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Il fiume Temo, l’unico navigabile dell’isola, intorno al quale si è sviluppata la storia di Bosa

Vista di Bosa dall’alto

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Vista su Torre di Tramaglio, Capo Caccia e Isola Foradada, a destra

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Porto Conte e Capo Caccia Usciti da Alghero si prosegue lungo una zona con oliveti e vigneti che ci porta sul bellissimo arco costiero di Porto Conte, dove si trovano specie rare di arbusti e la vegetazione tipica della macchia mediterranea. Costeggiando le pendici del monte Timido-

ne, la strada si conclude sul promontorio di Capo Caccia (il Caput Hermeum di Tolomeo) sopra il quale si apre un ampio belvedere che permette di ammirare gli strapiombi rocciosi sul mare, il faro e il panorama su Porto Conte.

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Monte Timidone, a sinistra, e Monte Doglia, a destra, visti da Capo Caccia

L’imponente falesia calcarea di Capo Caccia

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Capo Caccia e Isola Foradada, a destra

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Stintino Percorrendo il lungo arco costiero del Golfo dell’Asinara si raggiunge Stintino, un borgo di pescatori oggi rinomata località balneare. Fondato nel 1896 per ospitare i pastori e i pescatori che popolavano l’isola dell’Asinara,

destinata a colonia penale dallo Stato, offre spiagge di rara bellezza: quella delle Saline e quella della Pelosa, entrambe dominate dai resti di due torri spagnole e lambite da acque trasparenti di tonalità turchese o smeraldo.

Spiaggia della Pelosa a Stintino

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Spiaggia delle Saline

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Il paesaggio rurale La caratteristica più evidente sono le grandi distese di superfici incolte: macchia mediterranea che si alterna ai pascoli naturali permanenti, delimitati dai caratteristici muretti di pietra a secco per delimitare i confini o cingere le terre da pascolare. È la terra dell’arbusto e del cespuglio pronti ad occupare i terreni, appena si attenua la presenza delle pecore o delle vacche allo stato brado. I veri boschi compaiono in alta collina o in montagna dove la quercia da sughero è molto presente nella Sardegna settentrionale.

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Argentiera, importante centro minerario fin dal tempo dei romani, oggi è cessata l’attività estrattiva

dalla bellezza dell’ambiente naturale. In questo paesaggio pastorale le colture arboree hanno sempre avuto un ruolo di secondo piano e solo olivo e vite coprono ancora superfici interessanti.

Le sugherete si notano per le piante bellissime il cui tronco, dopo che è stato scortecciato, è di colore rosso mattone. Il sughero è prodotto dalla corteccia di una quercia (Quercus suber) che, prima di staccarlo, viene invecchiato almeno 10 anni ed è indispensabile per conservare inalterate le caratteristiche dei vini di alta qualità. L’agricoltura si basa principalmente sulla monocoltura cerealicola e sull’allevamento brado della pecora da latte di razza sarda; questo ha impoverito e uniformato il paesaggio agrario, relegato in secondo piano

Renzo Angelini Direttore Editoriale

52 SARDEGNA NORD-OCCIDENTALE RENZO ANGELINI



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Formazioni di granito nel deserto nubiano

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ALLA SCOPERTA DI BERENICE PANCRISIA

LA MITICA CITTÀ DELL’ORO PERSA NEL DESERTO NUBIANO DEL SUDAN Maurizio Levi

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Così narra un testo egizio di circa 3000 anni fa: “ma dov’è questo favoloso paese dell’oro dei Megiay?” Per trovarlo bisogna risalire il Nilo dal Mediterraneo, superare Aswan, Abu Simbel, le terre conosciute e i deserti pieni di incognite, le cateratte e il calore più cocente del globo. Solo alla fine ci ritroveremo

nel leggendario paese dell’oro degli egizi, la Nubia, l’ultima frontiera del Sahara. Lasciando Khartoum e dirigendosi a Nord lungo il corso del Nilo, si raggiunge la necropoli reale di Meroe. Oltre 40 piramidi, molte delle quali in buono stato di conservazione, svettano da una collina dove

Lungo Wadi Dib tra le montagne del mar Rosso

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si accavallano dune di sabbia dorata che si appoggiano ai fianchi delle stesse, quasi volessero ricoprirle. Un luogo magico dove è raro incontrare altri turisti e dove si può gustare un’atmosfera irreale di pace e di grandiosità difficile ormai da provare in altri siti archeologici.

Proseguendo verso nord, uno spettacolo fiabesco si offre agli occhi di chi, dopo aver attraversato il deserto del Bayuda, racchiuso nella grande ansa del Nilo, arriva fino a Napata, l’antica capitale del regno di Kush. Dalla piatta distesa ciottolosa del deserto si innalza la Montagna Sacra di Amon, il Jebel

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Jebel Magardi, la montagna “sacra” dei nomadi

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Barkal. Ai suoi piedi i templi dell’antica capitale sono numerosi ma la maggior parte ancora sepolti sotto le sabbie. Il più imponente è senza dubbio il tempio di Amon, con i suoi arieti mutilati e l’altare di granito grigio ancora al suo posto al di là dei monconi di tozze colonne. Poco lontano una selva di piramidi, aguzze come lo sono solo le piramidi kuscite, e perfettamente conservate, svettano dalla cima di una collina di sabbia gialla. E

sotto ad alcune di queste, le tombe dei “Faraoni Neri”, come furono chiamati i Re nubiani della XXVª dinastia, ci offrono le immagini policrome della loro vita e della loro morte. Ma è dalla cima piatta di questa montagna che possiamo abbracciare appieno lo spettacolo circostante. Davanti a noi verso Sud ciò che gli antichi egizi e i nubiani videro per millenni: il grande fiume Nilo, il dono degli dei, capace ancor oggi di scorrere placido

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con il suo corso sinuoso riflettente la luce accecante del sole come il dorso di un serpente, perdersi nell’orizzonte. Osservando invece verso Nord, lo sguardo si perde nel nulla e si prova un senso di smarrimento: lo sterminato deserto Nubiano, disabitato e sconosciuto che si estende fino al confine con l’Egitto. È proprio in quest’immensità che dopo due

giorni avrei tentato di raggiungere la sconosciuta Berenice Pancrisia, la città dell’oro, nascosta tra le aspre e selvagge montagne del Sahara orientale dove vivono gli ultimi nomadi Beja. Già noti ai faraoni egizi che li chiamavano Megiay, e successivamente ai Tolomei con il nome di Cadoi aphiphagi, cioè “mangiatori di serpenti”, erano chiama-

Campo nel deserto

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ti invece Blemmi dai Romani. Per gli anglosassoni del XIX secolo divennero i temibili Fuzzy-Wuzzy (a causa dei loro capelli crespi) mahdisti, tanto ardimentosi da sfondare il quadrato inglese a Khartoum e di conquistare la città difesa da Gordon Pascià. Per oltre 4000 anni i Beja hanno percorso il torrido deserto e le colline desolate del Mar

Rosso alla ricerca di pascoli per i loro cammelli, pecore e capre. A mezzogiorno in aprile, nel deserto nubiano la temperatura supera spesso i 40° C. Con i miei compagni di viaggio ci stavamo dirigendo verso Nord attraverso una pianura piatta e giallastra estesa fino all’orizzonte. Dapprima ondulazioni basse e colline, poi

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Berenice Pancrisia e le macine a rotazione utilizzate per sbriciolare il quarzo in cui è contenuto l’oro

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vere e proprie montagne rocciose scure con picchi e pareti sgretolate dai fortissimi sbalzi di temperatura. È la catena di montagne che corre parallela alla costa del Mar Rosso e blocca tutte le perturbazioni rendendo così questa parte di deserto aridissima. Ci inoltrammo nella stretta valle di wadi Khomareb cercando il pozzo segnato sulle vecchie carte topografiche inglesi degli anni ’40. Nonostante disponessimo di un GPS, non

riuscivamo a trovarlo; evidentemente la precisione della vecchia carta geografica lasciava un po’ a desiderare. Improvvisamente da dietro un gruppo di acacie vedemmo fuggire una capra: se c’è una capra, c’è il pastore e se c’è il pastore sicuramente sa dove si trova il pozzo. Infatti dopo poco ecco apparire da lontano la sagoma di un essere umano. Chiesi ad Amir, il nostro autista sudanese, di domandare in arabo dove si trovasse il

Lo pseudocratere di Wadi Hofra, un bacino di sabbia bianca circondato da montagne nere

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pozzo, ma la risposta fu: ma che lingua parlano questi. Non capisco nulla! In effetti gli Hadendowa, una delle sottotribù dei Beja, parla un antico dialetto che ha solo qualche parola di arabo. Abdallah, così si chiamava il giovane nomade, ci indicò un punto più avanti e in effetti poco dopo vedemmo un insieme di alcune povere capanne di rami e stuoie. Con il grande senso di ospitalità nei confronti dei viandanti che contraddistin-

gue tutti i nomadi sahariani, ci portarono una stuoia e ci invitarono a sederci, pronti ad offrici lo chai (il tè). Le donne hadendowa indossano delle tuniche coloratissime, hanno il volto scoperto, civettuole treccine che incorniciano il viso e il naso ornato con lamine d’oro. Gli anziani parlavano l’arabo più correttamente e quindi tramite Amir riuscimmo ad avere un minimo di conversazione. Ci raccontarono che in quella valle

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Incontri nel deserto nubiano con nomadi Hadendowa e Bisharin

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a loro memoria non erano mai passati dei kawajia (stranieri bianchi). I bambini, che vedemmo intimoriti, non avevano mai visto un uomo bianco e, esattamente come da noi, ci spiegarono che quando i bambini facevano i capricci li minacciavano di farli portare via dal cattivo uomo bianco… Non si può dire che abbiamo una buona reputazione… Fu un pomeriggio straordinario e incredibile: stavamo parlando con uomini che vivevano come millenni fa. Eravamo in una situazione analoga a quella degli antichi prospettori egizi che esploravano il deserto alla ricerca dell’oro e nelle loro peregrinazioni incontravano i Magiay.

Ci accompagnarono al pozzo e ci rifornimmo d’acqua utilizzando le loro attrezzature: una sacca di pelle di capra e una corda di strisce di pelle che dovevano essere calate nel buco nero fondo una decina di metri. Ci chiesero di rimanere per la notte facendoci capire che avrebbero potuto uccidere una capra per la cena. Rifiutammo gentilmente adducendo la necessità di dover partire per raggiungere in tempo la nostra meta. Mi sovvenne allora la risposta di un nomade Tuareg incontrato anni prima in Algeria il quale alla mia spiegazione che per raggiungere con l’automezzo l’oasi di Ain Salah distante oltre 400 chilometri sarebbero bastati

Il cimitero dei nomadi Handowa alla base della montagna sacra

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Capanna di rami di acacia e l’insediamento di Bir Nurayet

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un paio di giorni (contro gli oltre 15 necessari a cammello), mi disse: e che cosa fai negli altri 13? Non a caso un proverbio tuareg dice “Chi corre sempre, saprà sempre meno cose di colui che resta calmo e riflette”. L’ospitalità dei nomadi del deserto, costituisce veramente un mito. Un sorso d’acqua o una tazza di tè deve essere offerta anche al più acerrimo nemico. Particolare è la preparazione del tè, una vera e propria cerimonia.

Una lunga sequenza di gesti millenari con continui travasi dalla teiera ai bicchieri e poi nuovamente alla teiera, facendo cadere il sottile getto dall’alto per ossigenare la bevanda e renderla più gradita, dicono. E poi, tre i bicchieri che si devono bere: il primo amaro come la vita, il secondo dolce come l’amore, il terzo soave come la morte. Le montagne che separano il deserto nubiano dal Mar Rosso si sviluppano in una

Paesaggio del deserto nubiano

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catena lunga oltre 500 chilometri che corre parallela alla costa dall’Egitto fino al confine con l’Eritrea e alcune cime superano i 2000 m di altezza. Nella parte nord del Sudan queste montagne sono caratterizzate da picchi di granito scuro che svettano verso il cielo. Proprio tra queste sconosciute montagne circa cinque anni fa una missione archeologica polacca ha scoperto una grande quantità di incisioni rupestri e siti neoliti-

ci che dimostrano una presenza umana di decine di migliaia di anni, probabilmente lungo una via carovaniera che dal Mar Rosso portava sul Nilo. La zona è caratterizzata da una montagna isolata a forma fallica che evidentemente era adorata sin dall’antichità. Infatti oltre alle incisioni rupestre, si trovano numerose tombe preislamiche e “torta” così chiamate per la loro forma e il cimitero attuale.

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Le incisioni rupestri preistoriche alla base del Jebel Magardi

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I Castelli di Berenice, probabili strutture utilizzate dai soldati per controllare il commercio dell’oro nel Wadi Allaqi

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Viaggiando nel deserto sabbioso…

Ci addentrammo sempre di più tra le selvagge montagne, percorrendo aspre vallate che a volte si rivelavano chiuse e ci costringevano spesso a ritornare sui nostri passi. Dopo vari tentativi raggiungemmo finalmente la valle del wadi Allaqi e all’improvviso ci apparsero davanti due imponenti costruzioni in pietra, dei castelli diroccati, circondati dai resti di decine di antiche abitazioni.

Una leggenda? Sicuramente si, ma come tutte le leggende forse con un fondo di verità. Probabilmente i forti riflessi degli implacabili raggi del sole prodotti sui cristalli di quarzo di cui sono ricche queste montagne, riusciva ad abbagliare chi vi fosse mai arrivato, impedendone la vista. Questo viaggio è proposto dall’operatore: I Viaggi di Maurizio Levi www.viaggilevi.com

Eravamo a Berenice, la città citata da Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia al libro sesto, vanamente agognata dai cercatori di tesori. Di Berenice Pancrisia, la città delle miniere d’oro dei Tolomei, si favoleggiò per secoli, fino a farla entrare nella leggenda ed a dubitare realmente della sua esistenza, anche perché si diceva che gli spiriti, suoi gelosi custodi, l’avrebbero fatta sparire dagli occhi di quanti fossero mai riusciti a trovarla.

Maurizio Levi

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l’Essenza del Viaggiare Nell’epoca dei viaggi organizzati, dove conoscenza e fantasia rischiano di scomparire, vorremmo poterci sentire ancora piÚ viaggiatori che turisti. E andare a caccia di testimonianze, punti di vista, eventi per moltiplicare gli strumenti di interpretazione e contribuire a creare nuovi sguardi sul mondo.

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Pane cibo mediterraneo

Nella Fertile Mezzaluna, agli inizi della scrittura, circa nel tremila prima dell’era corrente, abbiamo la prima menzione del pane, quando nei poemetti sumerici che costituiscono l’epopea di Gilgamesh, Shamkat, la prostituta, introduce Enkidu nella conoscenza dell’amore e del pane, dando inizio a un cammino culturale che porta Omero a

All’alba della civiltà umana, ottomila anni fa in Anatolia, l’uomo inizia ad arare per coltivare i cereali e gli archeologi hanno ritrovato chicchi di cereali variamente utilizzati, frantumati fra due pietre e mescolati con acqua per preparare una bevanda fermentata, una pappa cruda e anche cotta.

Distesa di grano duro in Puglia, da sempre considerata il granaio d’Italia

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definire uomini i mangiatori di pane e che da qui in avanti mai finisce.

lenni, a tutto il mondo, in un processo che arriva fin ai nostri giorni. Il capostipite all’origine di questo lungo e complesso processo, iniziato circa 12.000 anni fa, è il monococco selvatico, dal quale si è originato il monococco coltivato, il primo frumento coltivato (almeno 10.000 anni fa), noto anche come farro.

Cereali della Fertile Mezzaluna

Se i cereali coltivati e il pane nascono in Asia, è nell’Africa mediterranea, in Egitto, che questo cibo si sviluppa, e si diffonde a tutto il Mediterraneo e da qui poi, dopo mil-

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Farro è il cereale da cui deriva la parola farina

Orzo

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Miglio perlato

Grano tenero

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La coltivazione del monococco si riduce drasticamente circa 4.000-5.000 anni fa, durante l’Età del Bronzo, quando l’agricoltore comincia a selezionare i frumenti tetraploidi (tra i quali il dicocco e il frumento duro). L’origine dei frumenti esaploidi (fra i quali lo spelta e il frumento tenero) è stata più recente, circa 8.000 anni fa. Da forme selvatiche, attraverso processi selettivi o incroci interspecifici o intergenerici naturali, sono derivate altre forme selvatiche e le diverse specie coltivate e, dalla forma selvatica (Triticum dicoccoides) con spiga fragile e cariosside vestita, si passa al dicocco coltivato (T. dicoccum) che presenta cariosside vestita, ma la spiga è resistente e non si disarticola a maturazione, fino alla specie più evoluta e più recente, il frumento duro (T. durum), che presenta spiga resistente e cariosside nuda.

nella valle del Nilo, e secondo varie supposizioni la nascita del pane troverebbe collocazione in Egitto o in Asia, da secoli patria della nutrizione basata sul riso, intorno al 7000 prima dell’era corrente. Nelle più ricche famiglie egiziane, le serve nel mortaio frantumano i chicchi e con il setaccio separano la parte nutritiva del chicco dall’involucro che lo racchiude, lo macinano tra due pietre ottenendo la farina che è mescolata con l’acqua, impastata a lungo e cotta su una pietra infuocata. La cottura migliora quando la pietra rovente è posta entro un vaso e soprattutto quando, in seguito, il pane, è cotto in una buca scavata nel terreno, rivestita di pietra e nella quale si accende un fuoco. Dopo aver scoperto la lievitazione, gli egizi inventano un nuovo forno, internamente diviso in due parti: nella parte inferiore arde il fuoco e in quella superiore cuociono il pane. Il pane lievitato è più soffice e digeribile e si ritiene che la birra abbia preceduto la preparazione del pane, in quanto di più facile produzione e soprattutto senza bisogno di cottura con un fuoco prezioso in un paese scarso di alberi. Pane e birra sono il salario del contadino egiziano e nelle tombe dei faraoni, insieme con oggetti preziosi, troviamo il pane perché il defunto non soffrisse la fame.

Antico Egitto

Il pezzo di pane più antico, conservato al Museo Egizio di Torino, proviene dalla camera funeraria della piramide di Dushur, Pane azzimo, il migliore è quello fatto con farina d'orzo

Ebrei

Gli Ebrei, che vivono in uno stretto corridoio tra la Mesopotamia e l’Egitto, apprendono i segreti della panificazione soprattutto dagli Egiziani, ma preparano il pane in un’unica forma: piccola, rotonda e spessa circa tre centimetri. Presso di loro il fornaio ha un alto prestigio, ogni città ha un forno pubblico. Si conoscono pani lievitati e pani azzimi, soprattutto per i pastori, e nel tempio il pane, il migliore, è di farina d’orzo.

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Lavorazione dei cereali nell'Antico Egitto

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Il grano nell'Antico Egitto

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La Bibbia cita il pane quattrocento volte “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Gen. 3,19) “Un tozzo di pane secco con tranquillità è meglio di una casa piena di banchetti festosi e di disordine” (Pr. 17,1) “Indispensabile alla vita sono l’acqua, il pane, il vestito e una casa che serva da riparo” (Sir. 29,28) “Da’ il tuo pane a chi ha fame” (Tb. 4,6) Il pane è considerato simbolo di ogni altro alimento culturale e spirituale. “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt. 4,4) Pane e vino personificano la Sapienza “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato” (Pr. 9,5)

Antica Grecia

no con erbe, impastano con il vino e il miele. Tra le varietà di pani greci vi sono le seguenti. Aghelaios il pane comune che era consumato di più dal popolo greco, Olyra preparato con farina di segale, Condrìte fatto con farina di spelta, Syncomitòs con farina di farina di frumento, Semìdalis pane nobile, di lusso privo di lievito e dal colore bianco candido.

Per gli antichi Greci il pane è molto importante, ma per il clima e il tipo di terreno la coltivazione dei cereali non è molto favorevole e per questo li importano dall’Egitto, dalla Sicilia e dalle terre del Mar Nero. I greci raggiungono una grande abilità nella preparazione di pane e focacce, che condiscono con olio, ammorbidiscono con latte, aromatizza-

Simbologia del pane nella religione cattolica

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Roma antica

Pani dell’Antica Roma

È nel millennio di dominio romano del mediterraneo che il pane assurge al massimo del suo potere e di splendore di forme e usi. Gli antichi popoli Italici vivono in un territorio fertile e coltivano diversi cereali, tra i quali il farro, da cui deriva la parola farina. I Romani utilizzano il farro in diversi modi: nelle pultes assieme alle leguminose, formando focacce e, dopo essere venuti a contatto con la coltura greca, preparando il pane lievitato ottenuto da farina di cereali. In breve compaiono e si diffondono i forni pubblici, dove lavorano fornai greci portati a Roma come schiavi, e i fornai romani divengono ricchi, come dimostra il sepolcro di Eurisace, o panarium, monumentale tomba di un fornaio romano del I secolo prima dell’era corrente e nel quale il sarcofago della moglie ha la forma di una madia per preparare il pane. A Roma s’utilizzano due tipi di lievito, uno ottenuto dal miglio mescolato al vino dolce e lasciato fermentare per un anno, l’altro dalla crusca di frumento macerata per tre giorni nel vino dolce e poi essiccata al sole. Molti erano i tipi di pane, ognuno con il suo nome, unendo alla pasta vari ingredienti.

CIBARIUSPANE Scuro poco costoso SECONDARIUS Pane di farina integrale AUTOPYRUS Pane nero di farina non setacciata SILIGENEUS Pane bianco di grano tenero PARTHICUS Pane spugnoso FURFUREUS Pane fatto con la crusca PANE D’ALESSANDRIA Cotto con gli spiedi PANE PICENO Cotto in pentola di coccio rotto di fronte ai commensali ADIPATUS Pane condito con il lardo BUCELLATUS Pane biscottato OSTEARUS Fatto per accompagnare le ostriche

Pane carburante dell’esercito romano

Ai romani il pane piace molto, il mattino lo inzuppano nel vino, a pranzo lo mangiano con verdure e olive, a cena anche con le mele, ma sono i legionari che diffondono il pane in tutto il vasto impero e ne fanno, assieme al vino, la base alimentare di tutti i paesi mediterranei e di parte dell’Europa. Nel vitto del legionario il pane è largamente presente e si stima che una legione alto-imperiale di 5.500 uomini richiedesse un minimo di 12,5 tonnellate di cereali il giorno, circa due chilogrammi pro capite.

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Forno pubblico e macina da grano a Pompei

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Cottura del pane in Georgia

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Medioevo europeo

Nei secoli nove e dieci dell’era presente, con le invasioni barbariche, l’abbandono dei campi, i raccolti soprattutto di cereali insufficienti, il pane diviene raro e le popolazioni affamate invocano A peste fame et bello, libera non Domine. I contadini lavorano nelle terre dei feudi che si diffondono in Europa seminando campi con miscele di “grani grossi” e “grani minuti”, in modo di ottenere sempre e in qualsiasi condizione climatica un discreto raccolto. Con i grani grossi (farro, frumento, orzo, segale e altri) si preparano pani di mistura e solo per occasioni speciali o i feudatari pane monocultura, soprattutto d’orzo. La lievitazione del pane si basa sull’uso del lievito madre come al tempo dei romani. Nel Medioevo si diffonde il sistema inventato, ma non usato dai romani, di macinare il grano in mulini ad acqua che sono protetti da leggi severe perché molto costosi da costruire e chi li utilizza paga una tassa. Accanto al mugnaio, nel medioevo persiste il fornaio con un’attività artigianale di rilievo e un mestiere che si esercita dopo un tirocinio come garzone e un giuramento davanti alle autorità di cuocere pane a sufficienza e di non barare sulla qualità e quantità del pane. Dal 1200 in molti paesi europei i mestieri sono regolati da leggi i mugnai e i fornai appartengono alle rispettive corporazioni.

I Greci furono i primi a preparare pane e focacce conditi con olio e aromatizzati con erbe

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PANE CULTURA MODERNA Se l’Era Moderna è fatta iniziare con il 1492, inizialmente ben poco cambia nell’agricoltura e per il pane. Con la Rivoluzione Industriale e in seguito vi sono progressivi e sempre più drastici cambiamenti che direttamente e indirettamente coinvolgono il pane, soprattutto su due linee diverse, ma correlate. La prima linea è la diffusione mondiale della cultura occidentale e dell’agricoltura cerealicola, quindi anche del pane, soprattutto nelle Americhe. La seconda linea riguarda i progressi della cerealicoltura in tutti i suoi aspetti. Justus von Liebig (1803-1873) scopre i principi della concimazione artificiale, l’americano Cyrus McCornick costruisce la prima macchina mietitrice (1836), aprendo la strada all’agricoltura estensiva.

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Trebbiatura nell'aia

Mietilegatrice

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L’associazione di una locomotiva a vapore a un aratro fornisce il prototipo di aratura meccanizzata da cui, dopo il 1880, derivano le prime trattrici con motore a scoppio. Gli studi di genetica di J.G. Mendel (18221884) consentono di ottenere con selezioni e incroci un notevolissimo miglioramento delle varietà di grano esistenti, in un lavoro nel quale spicca il nome di Nazareno Strampelli, uno dei più importanti esperti italiani di genetica dei cereali della prima metà del millenovecento, con la realizzazione di decine di varietà differenti di frumento denominate “Sementi Elette” alcune delle quali ancora coltivate fino agli anni Ottanta del XX secolo e perfino nel XXI secolo, che consentono – in Italia e nei paesi che le impiegano – consistenti benefici sulla disponibilità alimentare delle popolazioni e di qualità delle farine. Iniziano anche le ricerche scientifiche sui lieviti che avranno un grande sviluppo nei due secoli successivi e che ci portano all’oggi, quando con i

fertilizzanti chimici l’agricoltura comincia a produrre una quantità maggiore di frumento e cereali, e si sviluppa una scienza della panificazione.

TRE “EFFE”: FARINA, FERMENTO, FORNO Tre elementi qualificano il pane e lo rendono diverso, nella sua molteplicità, da ogni altro alimento: le farine, i lieviti e almeno in parte dal forno. Farine Il pane, secondo una concezione generale accettata anche dalla moderna legislazione, è il prodotto della cottura di una pasta convenientemente lievitata, preparata con sfarinati di grano, acqua e lievito, con o senza aggiunta di sale comune (cloruro di sodio). Il tipo di farina determina le caratteristiche e la qualità del pane.

Impasto

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Pane lievitato pronto per essere messo nel forno

Fermenti o lieviti I più antichi residui di pane lo rivelano quasi sempre azzimo, solo qualche volta lievitato. Molto probabilmente, la fermentazione panaria ha avuto diverse origini e si è differenziata in modo tale che – almeno un tempo – ogni regione, ogni territorio, ogni paese e ogni famiglia aveva il “suo” pane, le cui caratteristiche derivavano da una serie di condizioni, non ultima il tipo di lievito usato. Un lievito che poteva avere le tre origini (birra, vino, spontanea o madre), per le quali non è facile, forse è impossibile, stabilire una cronologia. Lievito di birra – Il lievito di birra è costituito prevalentemente (oggi esclusivamente) da lieviti (saccaromiceti) che si sviluppano rapidamente, producendo soprattutto gas, ma anche una serie di composti (tra questi an-

che alcoli), che permettono di produrre un pane ricco di cavità gassose e quindi leggero. Lievito di vino – Il buon pane tradizionale era, e ancor oggi può essere prodotto, con una lunga fermentazione che utilizza il lievito cosiddetto naturale o lievito acido, ottenuto dalla fermentazione dell’uva e costituto da un’associazione di lieviti (Saccharomyces) con batteri lattici (Lattobacilli) e acetici. Quest’associazione, inserita nella pasta ottenuta con la farina e l’acqua, la lievitano, attribuendole le caratteristiche di pane acido o tradizionale. Le associazioni fermentative tra i lieviti e i batteri lattici ed acetici (ognuno dei quali si presenta in una quasi infinita varietà) soprattutto nel passato erano diverse da luogo a luogo ed anche da casa e casa. Per questo, ogni territorio ed anche ogni casa aveva il “suo” pane.

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Lievito madre tradizionale Vincenzo Tanara, nel suo libro L’Economia del Cittadino in Villa (Venezia 1658) indica l’origine del lievito del pane tradizionale dall’uva o, meglio, dalla sua fermentazione. “La schiuma del vino quando bolle - riferisce quest’Autore - misticata con farina di miglio, da poi fattene pagnotte asciutte al sole si conservano in luogo fresco tutto l’anno, per servirsene da lievito”. Sempre Tanara precisa che “ritrovandosi, come può avvenire, senza lievito si pigli il succo di quelle grane d’uva, che poste a molle il giorno avante sovranuotano, questo misticato con la farina, cagiona, che il pane si levi e lo rende gustoso”. Ancora Tanara indica come la pasta lievitante può essere ottenuta chiudendo con pasta azima il buco del cocchiume e delle botte dell’aceto.

Lievito madre che si ottiene dalla pasta

Lievito spontaneo o “madre” – Il lievito madre che si ottiene dalla pasta era noto anche nell’antichità. Anche in un vicino passato, ogni volta che si preparava il pane, dopo la fermentazione e prima della sua cottura, una piccola quantità di pasta lievitata era prelevata e opportunamente mantenuta, generalmente in una tazza coperta da un piatto. Dopo alcuni giorni la pasta diventa acida ed emana un sottile odore che ricorda quello dell’aceto. Il giorno prima della prepa-razione del pane, la pasta, che era stata conservata, è sciolta in acqua tiepida, impastata con un poco di farina e lasciata tutta notte in un luogo non freddo. Mescolata all’impasto, questo lievito fermenta e fa gonfiare tutta la pasta della nuova panificazione. Così operando il lievito passa da una panificazione all’altra.

Il pane ottenuto con questo particolare sistema di lievitazione acida ha particolari caratteristiche organolettiche d’aroma e sapore, è leggermente acidulo e con una mollica che, presa e lavorata tra le dita, non s’impasta, ma al più, tende a sbriciolarsi, indurisce con molta lentezza, si mantiene a lungo ed anche per una ed anche due settimane, resiste abbastanza bene all’ammuffimento ed è particolarmente buono, anche quando raffermo. Forno Importante per il pane è il modo di cottura in forno e in assenza della brace (a differenza delle pizze). Dopo la cottura della pasta su pietre roventi, le prime forme antiche di forno risalgono ai tempi de-gli Egizi, con strutture a forma conica costruite in matto-

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Il forno viene scaldato prima della cottura del pane

Nella fase di riscaldamento del forno si mettono a cuocere le focacce

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ni di argilla dove, nella parte superiore dove si metteva il cibo e era separata da quella inferiore dove si accendeva il fuoco da una lastra di pietra, la quale assorbiva il calore del fuoco e lo trasmetteva alla parte superiore. I greci perfezionano il forno sviluppando la volta a cupola che evolvendo diviene a camera unica, e i romani che sanno usare molto bene l’arco costruiscono forni a legna costituiti da un interno ad arco circondato

da un’intercapedine vuota che svolge la funzione di isolante termico. Dall’epoca dei romani fino ai giorni nostri non ci sono state grandi variazioni nell’arte di costruire i forni. Nei primi anni del 1900 sono introdotti sul mercato forni prefabbricati in laterizi che hanno il vantaggio di velocizzare la posa in opera, poiché era sempre più difficoltoso trovare artigiani in grado di realizzare il forno in maniera tradizionale.

Scaldate le pareti del forno e ripulito dalla brace si mette a cuocere il pane

Il pane è cotto

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IL PANE OGGI Consumi di pane in continua diminuzione Pane e acqua per il carcerato, pane e vino per il popolo e pane, vino e salame o formaggio per gli abbienti. Questa era l’alimentazione italiana del passato, a con la distinzione dei pane nero per il popolo e pane bianco per i borghesi e i ricchi. Una distinzione tanto radicata che quando

si diceva che un povero era nutrito con pane bianco significava che era tanto ammalato da far presagire una fine imminente. Oggi non sono piĂš i poveri a morire, ma sembra sia il pane, perchĂŠ, per la prima volta della loro storia gli italiani hanno quasi eliminato quello che era uno degli alimenti primari della loro dieta quotidiana. Un record causato dalla crisi, ma anche dal cambiamento degli stili alimentari.

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Se un secolo e più anni fa il consumo medio giornaliero di pane nei contadini e nei lavoratori raggiungeva e superava il chilogrammo, dall’inizio del 2013 l’italiano medio ne mangia un decimo, meno di cento grammi. Il pane era il maggiore fornitore di energia alimentare e gli altri alimenti, come i salumi e i formaggi, erano detti companatico perché accompagnavano il pane. Il presente calo dei consumi di pane parte da lontano e senza andare al chilogrammo del milleottocento e a quello di mezzo chilogrammo della prima metà del secolo scorso durante il primo anno dell’ultima guerra mondiale il pane è “tesserato”, cioè distribuito consegnando al negoziante un talloncino di una tessera assegnata ad ogni famiglia

dagli uffici annonari dei comuni. La razione giornaliera di pane per persona a cui la tessera dà diritto è stata definita nel settembre del 1941 in 200 grammi e nel marzo del 1942 in 150 grammi. Nell’immediato dopoguerra il consumo di pane ricresce, poi inizia a diminuire e nel 1980 si aggira intorno agli 230 grammi a testa il giorno, nel 1990 si scende a 197 grammi, nel 2000 si arriva a 180 grammi, nel 2010 si attesta a 120 grammi, nel 2012 crolla a 106 grammi, nel 2013 a 98 grammi giorno (una fettina di pane pesa in media 50 grammi come una rosetta piccola) e nel 2014 il calo ha raggiunto i circa 90 grammi il giorno per persona. Al presente la spesa familiare per pane, grissini e cracker in Italia ammonta a

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quasi 8 miliardi all’anno. Le famiglie italiane spendono in media 30,15 euro il mese, cioè appena il 6,4 per cento della spesa alimentare familiare risultata di circa 468 euro al mese, mentre nel 2007 si spendevano 31,72 euro al mese. La diminuzione del consumo di pane è anche in relazione alla presente crisi economica, che colpisce soprattutto le classi meno abbienti, ed è anche in rapporto all’alto costo di questo alimento. Un’inchiesta del 2012 indica un prezzo medio del pane di Euro 2,69 il chilogrammo, con diversità che vanno da 3,94 (Milano) a 1,70 (Napoli) e con differenze medie che vanno da 2,95 (panetterie) a 1,96 (supermercati). Il prezzo del pane, paradossalmente anche se è calato il costo del grano

in questi ultimi anni, ha continuato ad aumentare il 6 per cento in più dal 2007 a oggi. Oggi un chilo di grano tenero è venduto a circa 21 centesimi, mentre un chilo di pane è acquistato dai cittadini a valori variabili attorno ai 2,75 euro al chilo, con un rincaro di tredici volte, tenuto conto che per fare un chilo di pane occorre circa un chilo di grano, dal quale si ottengono 800 grammi di farina da impastare con l’ acqua per ottenere un chilo di prodotto finito. E c’è poi tanto scarto tra i prezzi del pane nelle varie regioni. Non bisogna poi dimenticare che a parità di potere nutritivo, considerando anche la diversa quantità di acqua presente nell’alimento, la pasta secca è molto meno costosa del pane.

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Ritorno al futuro Anche per il pane gli italiani stanno riscoprendo il passato in un interessante “ritorno al futuro”. Non solo gli italiani mangiano meno pane, ma lo risparmiano e soprattutto riducono lo spreco, come le loro nonne. Non è un mistero che nel periodo del boom economico circa un terzo del pane non era mangiato e andava in discarica. Secondo una recente indagine della Coldiretti, oggi e il 42% degli italiani ha ridotto le quantità e il 36% acquista pane meno costoso e pregiato. Sempre dalla stessa indagine risulta che più di quattro italiani su dieci (42 per cento) mangiano il pane avanzato dal giorno prima, con una crescente, positiva tendenza a contenere gli sprechi favorita anche dalla crisi. In Italia vi sono almeno trecento varietà di pani tipici locali, in buona parte con IG

contenuto o basso. Dalla Ciopa del Veneto al Pane Cafone della Campania, dal Perruozzo del Molise al Pan Rustegh della Lombardia, dalla Micooula della Val D’Aosta alla Coppia Ferrarese dell’Emilia Romagna fino alla Lingua di Suocera piemontese. Sei sono i pani riconosciuti dall’Unione Europea: Coppia ferrarese (IGP), Pagnotta del Dittaino (DOP), Pane casareccio di Genzano (IGP), Pane di Altamura (DOP), Pane Toscano (DOP) e il Pane di Matera (IGP).

Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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LA VITAILNEI AGRA: TAJVILLAGGI MAHAL ED RURALI IL MERCATO DEL RAJASTHAN RENZO ANGELINI

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LA VITA NEI VILLAGGI RURALI DEL RAJASTHAN UN VIAGGIO NEL TESSUTO AGRICOLO DOVE LA PIÙ IMPORTANTE ECONOMIA INDIANA SI SVILUPPA NELLA MIRIADE DI VILLAGGI SPARSI NELLA VASTITÀ DELLA REGIONE DEL RAJASTHAN. SONO ANCORA OGGI REGOLATI DAL SISTEMA DELLE CASTE CHE DIFENDE LA FAMIGLIA PATRIARCALE, IL MATRIMONIO COMBINATO E LA DOTE, IN PARTICOLARE A CARICO DELLA FAMIGLIA DELLA SPOSA

Renzo Angelini


La storia dell’India si identifica nella condizione di paese rurale essendo ancora oggi una economia profondamente agricola e la realtà del villaggio è rimasta quasi intatta, nonostante lo sviluppo della meccanizzazione, della genetica e delle numerose riforme agrarie che avrebbero dovuto determinare la “rivoluzione verde”.

Il villaggio è ancora oggi l’espressione delle caste e le distinzioni sono sociali, economiche e religiose; esse formano un sistema che condiziona la vita rurale. Nella composizione sociale i villaggi possono essere multicastali oppure composti da una sola casta o addirittura composti da un’unica famiglia. La stessa religione può avere una caratteriz-

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zazione sociale e conseguentemente i villaggi possono essere di soli indù o soli musulmani o perfettamente integrati tra le varie religioni. La scarsità di terra disponibile ed il rapporto terra-proprietà è ancora oggi un problema irrisolto; nonostante il tentativo del governo di ridurre il latifondismo e ridistribuire le

grandi proprietà, le terre sono tornate nelle mani delle grandi famiglie e la causa va ricercata principalmente nel sistema castale. Conseguentemente i piccoli agricoltori hanno difficoltà di accesso alle tecnologie, al credito e al mercato, come tristemente testimoniato dall’alto numero di suicidi di agricoltori negli ultimi anni.

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Per ripararsi dalle tempeste di sabbia, la legna viene accatastata per creare barriere frangivento

Lontane dai centri urbani le abitazioni rurali, in mattoni o in pietra o semplici capanne, testimoniano la conoscenza dei materiali da parte delle popolazioni locali, perfettamente adattate al clima

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Il tetto di una abitazione nel deserto è sostenuto da un palo centrale che fissa la struttura

Il villaggio tipico dell’India è basato sul sistema castale dove le caste agricole sono la maggioranza; sono proprietari terrieri da generazioni. Le famiglie coltivano la terra in modo autonomo e solo una minoranza ha proprietà che necessitano di braccianti che vengono pagati soprattutto con i prodotti della terra. La casta degli artigiani, che svolgono le varie attività complementari all’agricoltura, dipendono interamente dai contadini per la sopravvivenza ed il loro compenso viene pagato in granaglie o contanti. Ci sono poi le caste di servizio addette ai lavori più umili che in genere si occupano di pulizie, dallo spazzino, al barbiere, al lavandaio. Tecniche di coltivazione e rapporto con la terra non cambiano profondamente tra le varie regioni del continente; la linea di demarcazione è data dalla presenza dell’acqua e dalla possibilità di irrigare. Nel-

le regioni occidentali si trovano soprattutto le colture kharif (monsoniche) mentre in quelle orientali, con maggiori disponibilità d’acqua, prevalgono quelle rabi. Dove il beneficio delle piogge monsoniche è scarso il paesaggio si presenta brullo e desolato e la sabbia “soffoca” ogni forma vegetale. Gli alberi si fanno sempre più rari e vengono presi d’assalto quando scarseggia lo sterco di vacca seccato al sole, il combustibile più diffuso e usato anche per le opere in muratura. Le torride temperature del Rajasthan impongono regole rigide nella costruzione e nella disposizione dei vani; essi tengono conto della frequenza e della direzione dei venti e conseguentemente viene definito il posizionamento di porte e finestre, al fine di garantire caldo in inverno e fresco in estate. Lo stile della casa rurale, sempre influenzato dalle condizioni climatiche e dalla scarsità

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L’omogeneità dei materiali di costruzione è interrotta da motivi decorativi che ornano le pareti delle case conferendone personalità

La casa rurale del Rajasthan è organizzata attorno a un cortile interno. Le tempeste del deserto fanno accumulare sabbia contro le pareti esterne, fino al tetto

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Il forno per la cottura dei cibi

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di materiali per la costruzione, si inserisce armonicamente nel paesaggio diventandone la componente distintiva. La prima finalità è quella difendere gli abitanti e gli animali dai pericoli esterni; il villaggio è circondato da una barriera in muratura oppure da lastre di pietra infisse nella sabbia e unite con filo spinato o più frequentemente da cordoni di rami di acacia spinosa, impossibili da superare. All’interno le abitazioni possono essere semplici capanne oppure vere e proprie case con unico vano o suddivise in stanze tutte aperte verso l’interno, su un cortile interno. Il tetto spiovente è principalmente costruito con paglia, canne o sterpaglie ed è so-

stenuto da travi di legno. Le pareti esterne sono quasi sempre dipinte con calce bianca o di tonalità ocra; la semplicità dei materiali viene arricchita con decorazioni e da fasce di colore che incorniciano porte e finestre. La stanza più importante è la cucina, dove le donne preparano il cibo utilizzando strumenti di pietra per la macinazione delle granaglie e cuocendo direttamente su legna da ardere oppure utilizzando lo sterco essiccato o raramente, nelle caste più ricche, è possibile vedere qualche fornello a gas. Gli animali vivono spesso insieme alle persone o sono da loro divise da un muro o da una recinzione; nei villaggi più ricchi si vedono

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Porte e finestre sono profilate da fasce di colori e motivi floreali

le stalle per bovini e greggi oppure i recinti per i bufali che sono, insieme al dromedario, la forza motrice più diffusa. Sotto i graticci e nel cortile interno, sempre tenuto in ordine dalle donne e dove si accede scalzi, non mancano mai i letti dove gli uomini passano le ore più calde del giorno. La corte interna, spesso contornata di verande, è il punto nel quale si svolge la vita famigliare e dove si dorme all’aperto, ad esclusione del periodo delle piogge. La famiglia tipica è patriarcale, guidata dall’uomo più anziano che amministra i beni e gli interessi comuni, ed è costituita da diverse decine di componenti, generalmente i fratelli maschi con le rispettive famiglie. Spetta al capofamiglia combinare il matrimonio, che costituisce sempre una alleanza tra famiglie per rafforzare i legami nella casta e garantire le condizioni economiche della futura famiglia. Oltre al contratto il matrimonio è gravato, nelle famiglie contadine in particolare, dalla “dote”

in prevalenza a carico della famiglia della sposa; per garantire un buon partito alla figlia ci sono famiglie disposte a indebitarsi a vita. La cerimonia può durare diversi giorni ed è la donna ad entrare nella famiglia dello sposo, diventando sua proprietà. Spetta alla donna gestire la casa, dalla preparazione del cibo alla cura dei figli; dopo la nascita del primo maschio la donna acquisisce potere, non solo per il coinvolgimento economico che ne consegue ma anche per il valore religioso in quanto la nascita del maschio assolve l’obbligo morale verso gli avi. I punti di aggregazione del villaggio sono dati dai pozzi collettivi dove le donne convergono per riempire gli otri d’acqua da bere o per gli animali; è spettacolare l’eleganza con la quale li trasportano in equilibrio sul capo, avvolte nei coloratissimi sari. I contadini vivono ancora nella condizione di umiltà garantita dai frutti della terra, sempre esposti al pericolo di carestie e siccità che flagellano

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Al centro del cortile il letto dove gli uomini passano le ore pi첫 calde della giornata

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La cucina indiana nel deserto è un semplice focolare con mattoni e fango ed il cibo è cotto su fuoco a legna in contenitori di argilla, ottone o rame

La farina viene ottenuta macinando cereali e legumi con una rudimentale macina di pietra

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La bajra o miglio perlato è il cereale consumato sopratutto dai nomadi, il Rajasthan è il maggiore produttore

L’aratro è composto da una stanga di legno collegata ad un albero verticale e da un asse per il traino, fissato ad un giogo

Il movimento dell’asse di trasmissione mette in movimento la ruota di sollevamento alla quale sono fissati i secchi che entrano nel pozzo riempiendosi

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La noria è un sistema di irrigazione utilizzata dove l’acqua freatica è facilmente accessibile

L’acqua dei secchi viene convogliata in una canaletta dalla quale scorre nei campi

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I buoi aggiogati al braccio di trasmissione della noria fanno girare la ruota principale

con regolarità queste regioni. La precarietà della vita nelle campagne è legata alla irregolarità dei monsoni le cui piogge, ritenute un dono divino, possono essere di imprevedibile intensità o completamente assenti. Tutto ciò viene vissuto con ignoranza, che rimanda ogni accadimento alla volontà del destino a cui ognuno è chiamato a rispondere (è scritto nel karma, termine filosofico indiano che sintetizza la somma delle azioni individuali di una vita anteriore che determina la condizione dell’esistenza attuale), e fatalismo per cui nessuno si ribella perché tutto viene rimandato al concetto di appartenenza e da essa scaturisce. Relativamente alle coltivazioni, come testimoniano i reperti archeologici, i cereali come miglio, riso, orzo e sorgo erano già conosciuti nel 2.000 a.C., così come ceci, arachide e mais in particolare presso le tribù dei monti Aravalli. L’acqua, indispensabile per coltivare in queste regioni, veniva rac-

colta dai pozzi con semplici secchi di pelle legato ad un bue con una lunga corda che scorreva in una puleggia. Successivamente il sistema di irrigazione più diffuso divenne la noria, ingegnoso strumento dove i buoi, aggiogati al braccio di trasmissione, azionano la ruota di trasmissione principale a sua volta collegata ad una ruota di sollevamento alla quale sono fissati dei secchi che si riempiono immergendosi nel pozzo e si svuotano dopo la risalita, mandando l’acqua nei canali di irrigazione. Nei pressi di Ranakpur, nella stagione secca, tra ottobre e aprile, si possono ancora vedere in azione i pozzi a catena che portano l’acqua in superficie.

Renzo Angelini Direttore Editoriale

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