Nella Roma dei Cesari

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Gilles Chaillet Prefazione

di

Bertrand Lanรงon

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PREFAZIONE Gilles Chaillet è appassionato di Roma. Come ben sanno i suoi amici, quando parla della Città Eterna lo sguardo gli si illumina e la voce gli vibra d’emozione. Il libro che qui ci propone è un’ode all’antica Roma, nonché il lavoro di una vita. Vi si può trovare l’acceso lirismo di chi potrebbe parlare all’infinito dell’oggetto del proprio amore, con tutto il diritto di farlo: alla base di questa ode ci sono ben quaranta anni di ricerche, appunti, archivi. Da autodidatta, Chaillet ha accumulato una documentazione degna del miglior ricercatore universitario. Disegnatore dotato del talento che tutti gli conosciamo, ha sempre dimostrato la delicatezza del famulus verso il dominus Jacques Martin (creatore di Alix e pietra miliare del fumetto storico francese), restando per anni al servizio della sua opera senza mai aver dato l’impressione di volersi imporre. Oggi il suo amore può alfine esplodere in due opere lungamente preparate. Una dedicata alla Roma disegnata, e l’altra a quella raccontata, esplorando la città sia con gli occhi del disegnatore che con quelli dello studioso. Con questo generoso volume, Chaillet ci offre ciò che i Romani definivano un curiosum, vale a dire una guida alle curiosità della città. Per fare questo, ci propone di seguire i passi di un narratore chiamato Flavio, appartenente alla famiglia dei Nicomachi: una grande famiglia senatoria romana, apparentata ai Simmachi. I Flaviani appartenenti a tale famiglia a noi più noti sono vissuti sul finire del IV secolo, e possiamo vedere nella figura inventata da Chaillet qualcuno che potrebbe essere un loro nonno o bisnonno. Un uomo giovane, che non ha abbracciato il cristianesimo, e che si reca a Roma nell’anno 315 d.C., mentre Costantino festeggia i suoi Decennali, per ricevere una missione da compiere. Questo scenario gli consente di svolgere una visita dettagliata della città. Chaillet la descrive, quartiere dopo quartiere, con un chiaro intento: infondere vita alle strade, agli edifici, ai luoghi. Graficamente la presenza umana è discreta, minima. Nel testo, però, Chaillet sa restituirle importanza, inserendola nel cuore della vita urbana. La Roma che ci fa attraversare pulsa di vita e di umanità, emana mille profumi e mille olezzi, risuona di mille rumori. Essendo Chaillet un buongustaio (ah, le albicocche candite al miele…!), il suo testo è impregnato di sapori, di carnalità. Questo viaggio attraverso la città – quasi felliniano – è accompagnato da una moltitudine di aneddoti presi dalla storia romana e dalla poesia latina. Un’autentica manna per gli appassionati di anekdota. Chi giungeva a Roma, come Flaviano, prima di accedere alla città dei vivi doveva attraversare la città dei morti. Questo passaggio obbligato tra i cimiteri evocava la mortalità della nostra condizione. Come, del resto, suggerivano le iscrizioni funerarie. Per i vivi, essi rappresentavano la sede e il peso del passato. Il passaggio obbligato vi faceva fluire la vita, integrandolo al presente. È così che, giustamente, inizia il libro: dimostrando come vita e morte siano intrecciate. E poi c’è un’esplosione, un lungo giubileo descrittivo. Credo però di avervi ravvisato due veli di tristezza. Il primo, più evidente, nasce dalla consapevolezza che per Roma il tempo stava volgendo al termine. Un sentimento che non condivido. L’altro, meno manifesto, deriva da come la cultura classica di un babyboomer sia diventata, nella Francia del XXI secolo, una piccola isola. E questa è un’idea condivisibile. Ma la tristezza non frena la passione, che viene condivisa e trasmessa ai lettori. Roma aveva un nome ieratico: Flora. E, in questo libro, Roma è degna anche del suo anagramma: amor. Un fiorente oggetto d’amore. È così che Chaillet descrive Roma, di cui si fa, sfidando il tempo, l’ultimo panegirista. Bertrand Lançon Docente di Storia Romana presso l’Università della Bretagna Occidentale, Brest* *autore di Rome dans l’antiquité tardive, Parigi 1995 Colorazione: Chantal Defachelle, Isabelle Brune Foto: Gilles Chaillet Bozzetti: 4 Lunes, CI. Geminiani A cura di: Sylvain David Traduzione: Marco Cedric Farinelli Impaginazione: Alessio D’Uva

Supervisione: Marco Cei, Elia Munaò, Marco Rastrelli, Filippo Rossi © Copyright 2004, Éditions Glénat Tous droits réservés pour tous pays © Copyright 2018 per l’edizione italiana Kleiner Flug Finito di stampare nell’aprile 2018


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NELLA ROMA DEI CESARI

ROMA NEL IV SECOLO

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na vasta distesa triste e uniforme, colline coronate da pini marittimi, un fiume dalle correnti capricciose e giallastre che depositano argilla su incolte rive, un’isola. Una via che, dal mare, trasporta preziosissimo sale verso l’interno dell’Italia. È il Latium, circondato da una fascia di montagne selvagge e bagnato da un mare ostile. Presto, una manciata di villaggi, ferocemente abbarbicati sui colli bagnati dall’Albula, il fiume che verrà presto ribattezzato Tevere, sovrastano la citata isola. Chi controllerà questo snodo controllerà l’Italia. Per gli Etruschi è Rumon, la città del fiume. Ma si avvicina il tempo in cui la penisola e il mondo la conosceranno col nome di Roma!

1: L’arco di Settimio Severo 2: Il Colosseo

Undici secoli più tardi, nel 314 d.C, la Città Eterna si estende per quasi 2000 ettari con una popolazione di circa un milione di abitanti, per lo più ammassata in edifici bersagliati tanto dalle calamità naturali quanto dagli speculatori. Il più grande agglomerato dell’universo, come non mancheranno di riconoscere i poeti! Ma altresì la più grande concentrazione di monumenti, la cui ricchezza contrasta crudele con la povertà di gran parte degli abitanti! Roma può vantare undici fori, 967 bagni pubblici, undici grandi terme, 1352 fontane che alimentano diciannove acquedotti, trentasette porte, nove ponti, dodici basiliche, quarantatré archi di trionfo marmorei, 1

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Giardini dei Servilii

42 Porta Sanqualis 43 porta Carmentalis 44 porta Trigemina 45 porta raudusculana 46 Piramide di Caio Cestio 47 Ponte Fabricio 48 Ponte Cestio 49 Ponte Emilio 50 Ponte Sublicio 51 tempio del Fauno 52 tempio della Buona Dea

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28 Tempio di Serapide 29 Terme di Costantino 30 Tempio di Quirino 31 Tempio di Cerere 32 Tempio della Luna 33 Tempio di Giunone Regina 34 Tempio di Diana Aventina 35 Tempio di Minerva 36 Casa e Terme di Licinio Sura 37 Terme di Decio 38 Tempio della Buona Dea 39 Tempio di Giunone Lucina 40 Arco di Gallieno 41 Porta Salutaris

Ardeatina

Tr. di Settimio Severo

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14 Portico di Filippo 15 Portico d’Ottavia 16 Templi di Apollo e di Bellona 17 Teatro di Marcello 18 Circo di Flaminio 19 Tempio di Esculapio 20 Tempio di Giunone Moneta 21 Tempio di Giove Capitolino 22 Tempio di Cibele 23 Tempio di Apollo 24 Palazzo di Tiberio 25 Tempio di Venere 26 Tempio di Eliogabalo 27 Arco di Costantino

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1 Mausoleo di Augusto 2 Ara Pacis 3 Colonna Antonina 4 Colonna di Marco Aurelio 5 Terme di Nerone 6 Tempio di Adriano 7 Pantheon 8 Terme di Agrippa 9 Teatro di Pompeo 10 Portico e Curia di Pompeo 11 Area Sacra dei 4 Templi 12 Portico di Minucia e Tempio delle Ninfe 13 Teatro di Balbo

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ROMa nel IV secolo

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all’epoca di Costantino

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Sessorio

ventotto biblioteche pubbliche, due anfiteatri, cinque circhi, due naumachie per la rappresentazione di scontri navali, tre teatri, un odeon e uno stadio. Circa 200 templi ospitano le divinità dell’Impero tutto. Ai patri eroi sono state elevate undici colonne commemorative, due statue colossali, ventidue monumenti equestri e oltre 3000 pedestri. Senza contare le innumerevoli sculture che adornano i quartieri cittadini, le 80 statue che illuminano d’aurei bagliori l’Urbe, i sei alti obelischi volti a ricordare come l’Egitto sia una provincia romana, i ventisei portici che sono stati edificati per passeggiare nel cuore di immensi parchi ove prosperano candelabri, vasche, statue e fontane. Dietro questa sfarzosa parure di monumenti scopriamo la Roma che vive e lavora. Le ventidue caserme, i 355 depositi, i 204 forni statali, i 2300 oleifici, le 144 latrine pubbliche dalle discutibili decorazioni, i 322 quartieri dagli altrettanti chioschi proteggenti i Lares pubblici. La popolazione si distribuisce tra 1790 proprietà private particolarmente ricche (le domus), le 46.602 insulae dei locatari meno indigenti e i 46 lupanari ufficiali dove operano le numerose prostitute, e questo senza contare gli edifici pubblici ospitanti il loro personale. Questa è la Roma dell’anno 314! Il prefetto cittadino l’amministra con l’ausilio del prefetto annonario, incaricato dei rifornimenti, del prefetto dei vigili, responsabile di sicurezza e manutenzione di acquedotti e argini del Tevere. La gestione della capitale occupa migliaia di funzionari, liberti per la maggior parte, e di schiavi assegnati ai lavori sulle strade pubbliche. Roma è divisa in quattordici distretti di ineguale misura. Questi sono a loro volta suddivisi in quartieri, ciascuno attraversato da una strada principale, il vicus, e amministrato da un collegio di magistrati annualmente rinnovato: il collegio dei vicomagistri, il cui principale compito consiste nel garantire il culto di Roma e di Augusto a ogni incrocio. Nel 314, su Roma e sull’Impero regna la pace. Grazie alle draconiane misure adottate da Diocleziano prima e da Costantino poi, i barbari non premono più sulle frontiere, la stabilità monetaria ha fatto il suo ritorno, l’economia nel suo complesso sembra essere in ripresa. Roma appare

La maquette di Italo Gismondi esposta al museo della Civiltà romana.


© Michelin

ancora eterna, e su di essa vegliano migliaia di dèi. Tra i quali forse uno di troppo. Quello dei cristiani. Sebbene non raccolga la maggioranza dei devoti, l’Imperatore Costantino apprezza l’organizzazione solida e strutturata del suo culto, e lo incoraggia. L’anno venturo verrà inaugurato il primo grande cantiere in onore del dio morto crocifisso; il Principe e il Vescovo di Roma poseranno la prima pietra della basilica di San Giovanni in Laterano. Altre seguiranno… San Pietro, Santa Agnese. E tutte supereranno in gloria e dimensioni gli antichi santuari pagani! L’anno 314… l’anno dell’elevazione dell’ultimo monumento antico, il crepuscolare arco di trionfo di Costantino, i cui fianchi ospiteranno un panegirico di ben tre secoli di scultura! Dopo, Roma volterà pagina. Il governo si trasferirà sulle rive del Bosforo, dove Costantino fonderà Costantinopoli, consegnando l’antica capitale a colui che verrà presto denominato Papa. Mentre l’Antichità si trascinerà per ancora due secoli, Roma entrerà risolutamente nel Medio Evo.


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PROLOGo

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i chiamo Flavio e, ospite di un lurido albergo di Aricia, non riesco a prendere sonno. Il timore che un ladro mi derubi dei preziosi documenti che nascondo sotto la mia penula certo non mi predispone ai richiami di Morfeo, ma soprattutto, giacché a te lettore delle mie peregrinazioni sono debitore della verità, è un pensiero ad agitarmi il cuore e la mente: ancora poche ore e farò ingresso nella Roma eterna, la “Dea dei continenti che niente avvicina e nulla eguaglia”, come scrisse il poeta Marziale! E di questa Dea mille volte sognata, alfine scoprirò gli incanti! Da parte paterna la mia famiglia si fa vanto delle sue origini greche. Presso i Nicomachi ci si dedica alla cultura e ci si appassiona allo studio delle religioni antiche. Gli antenati di mia madre, invece, erano di discendenza italica; essi si stabilirono a Eraclea, sulle sponde europee del Bosforo, quando questa divenne colonia durante il principato di Claudio. L’allevamento di quegli stessi cavalli per cui la regione è rinomata recò una prosperità che permise loro di assurgere all’invidiato rango di “perfectissimi”. Ho vissuto in questa piccola quanto tranquilla città, sognando spesso della lontana capitale che mai avevo visto. Partecipo all’amministrazione della diocesi dei Traci presso il suo governatore, il vicario. Un lavoro che richiede rigore e onestà e nel cui esercizio, per Ercole, ritengo di avere alquanta competenza. Nel giorno di questo mio racconto, due sono i prìncipi che si contendono l’imperio del mondo. Laddove Costantino presiede ai destini dell’Occidente, a questi facendo dono della sua infinita clemenza, Licinio regna sull’Oriente con la forza del terrore. Ahimé, la mia provincia ricade sotto la sua opprimente giurisdizione. Non vi è giorno in cui l’ufficio del vicario non risuoni delle doglianze del popolo. Una notte di maggio, in grandissimo segreto, un uomo fu introdotto a palazzo: era foriero di terribili notizie che era opportuno trasmettere con massima celerità all’Imperatore Costantino. Una situazione che esigeva un messo di altissima fiducia! Fu così che in questo mese di giugno dell’anno 1067 ab urbe condita (il 314 della nostra era) mi ritrovai a sbarcare, dieci giorni fa, nel porto di Brundisium, laddove ha termine la famosa Via Appia.


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LA VIA APPIA

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1: Crepuscolo sulla via Appia. 2: L’agro romano.

Brundisium, grazie alle lettere credenziali del mio vicario, posso beneficiare dell’ospitalità di un cittadino del luogo. Così viaggiano i patrizi attraverso l’Impero: la loro rete di conoscenze e relazioni consente loro di risparmiarsi le scomodità delle stamberghe sorte lungo le strade. Soltanto i meno fortunati si vedono costretti a condividere tristi dormitori con eserciti di voraci insetti, all’interno di pestilenziali alberghi spesso gestiti da soggetti assai poco raccomandabili, usi a vendere l’acqua allo stesso prezzo del vino! Dopo un breve soggiorno a 2 Brundisium, durante il quale il mio anfitrione mi omaggia di una cena ai frutti di mare e di una squisita conversazione, ho fatto acquisto di uno stradario contenente tutte le indicazioni utili al mio itinerario, una mappa indicante ogni città, ogni borgo e ogni albergamento, nonché le singole distanze intercorrenti. La mia qualità di funzionario mi autorizza comunque a disporre sistematicamente delle stazioni postali dell’Impero. Erette ogni venti miglia (ovvero ogni trenta chilometri circa), sebbene offrano un conforto alquanto spartano, vi si può dormire senza timore di venirvi svaligiati. Il cuoco vi


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serve un pasto robusto ed è possibile scambiarvi la propria cavalcatura con una più fresca, e questo fino alla prossima sosta. Un veterinario provvede alla cura degli animali. Certo non vi si trova il benessere della mia prima tappa a Brundisium, ma ciascuna mattina riparto fresco quanto il mio solido 1 corsiero. Lungo il cammino allaccio delle conoscenze. Di ciò sono grato agli dèi, giacché la sicurezza impone di viaggiare in gruppo, ciascuno armato di solidi bastoni onde premunirsi contro eventuali brutti incontri. I più sfortunati devono fare conto sulle loro gambe, altri ancora viaggiano a dorso di mulo, i più pregiati e resistenti dei quali risultano essere quelli gallici. I contadini si spostano su robusti carri, lenti e pesanti, che obbligano il convoglio a soste frequenti. I ceti più agiati viaggiano invece a bordo di sontuose carrozze tirate da possenti buoi. Trattasi spesso di carrucae dormitoriae, dove un’intera famiglia può desinare e dormire, languidamente distesa su morbidi cuscini, separata da teli dall’altrui indiscrezione. Un commerciante di Capua, un arricchito chiamato Biberio Mero che annoia tutti citando Lucano a ogni occasione, vi ha addirittura disposto un congegno misurante sia l’ora che la distanza percorsa! L’Imperatore Commodo possedeva invece nella sua carrozza dei seggi girevoli, e ciò al fine di meglio apprezzare il paesaggio, mentre Claudio vi aveva fatto invece installare dei tavoli da gioco! Procediamo lentamente, tormentati, nonostante i nostri ampi copricapi di paglia, dagli impietosi raggi dell’astro di Apollo. Uno schiavo di Biberio Mero allontana le api, creando l’illusione di un refolo di vento, mentre un altro cerca di rinfrescare la pesante atmosfera spargendo essenze intorno al suo padrone. Nessuno proferisce verbo, tanto meno il nostro sonnecchiante mercante. Mentre attraversiamo i polverosi paesaggi di un’Apulia disseccata dallo Scirocco, il suo mezzo si rovescia. Un asse del carro, pezzo alquanto fragile, ha ceduto. Confrontato all’ilarità dei suoi compagni, abbandonato da Mercurio, l’accaldato commerciante adotta un basso profilo, senza che alcun verso di Lucano possa posarsi sulle sue spesse labbra.

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1: Campagna in prossimità di Roma. 2: Due sarcofagi raffiguranti diversi modelli di carro.

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La via Appia in prossimità di Roma.

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Un viaggiatore percorre ordinariamente non più di otto miglia al giorno (12 chilometri), ma io devo procedere con maggiore velocità e raggiungere la stazione successiva entro la notte. Il mio cavallo me lo permette. Dopo aver attraversato il tenebroso Sannio, la strada regina sovrasta le sinistre paludi pontine grazie a una lunga diga costruita su una foresta di pilastri alta circa quindici piedi (cinque metri). Un’opera che Plinio qualificò come miracolosa, “come se un novello Ercole avesse sollevato la massicciata elevando un tumulo in grado di sostenere il peso delle enormi pietre vulcaniche della Via Appia.” Gli storici asseriscono che questa via è stata la prima e ancora oggi si venera il celebre censore Appio Claudio, iniziatore del progetto. Posata su solide fondamenta, lievemente bombata per facilitare lo scolo delle acque, essa partecipa alle 60.000 miglia di strade sorvegliate da 4000 stazioni che abbiamo edificato attraverso l’Impero. La sua massicciata straordinariamente liscia non richiede che un rifacimento al secolo! Sono stati invero i Romani a inventare le strade! I Greci non avevano che sentieri da percorrere a piedi, sprovvisti sia di riparo che di punti d’acqua; “piste senza alberghi che non valevano meglio di una vita senza riposo”, pronunciava Aristofane in una delle sue commedie!


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la via appia

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Ogni mille passi (1472 metri), una pietra miliare mi avverte del mio avvicinarmi a Roma. Tremante oltre un velo di nebbia compare ben presto Aricia, mia ultima tappa prima della Città Eterna. Un vespertino raggio di sole indora le mattonelle dell’antico Tempio di Diana. L’assenza di stazione rende inevitabile il mio ripiegare su un infimo lupanare. Certo, vi si serve un eccellente vino bianco locale, ma a quale prezzo! Giunta la mattina, alla prima ora, abbandono alfine questo ammasso di ubriachi e tagliagole, fin troppo felice di non avervi lasciato la vita! Il traffico è già intenso. Un grosso proprietario terriero della regione mi propone di fare strada con lui fino a Roma, dovendovi trattare qualche affare. Il volto squadrato, i capelli bianchi e la sua corporatura evocano in me i nobili Romani immortalati nel marmo dagli scultori. Si chiama Silvio, possiede una superba villa in cima a una collina e un buon saltus (200 ettari) di terreno coltivabile. La ricchezza dei finimenti della sua cavalcatura testimonia che le sue non sono certo vanterie. Lungo entrambi i lati della Via Appia sfila un paesaggio rude e al contempo delicato, un’ampia pianura costellata di neri cipressi, talvolta protetta da una macchia di pini marittimi. Gli alberi sono rari, l’erba è già ingiallita dal sole. Si intravedono, ai piedi delle prime colline, dei filari di secolari oliveti. Un gregge di pecore infierisce sul rado pascolo. All’orizzonte, emergente dalla bruma del mattino, ecco disegnarsi la massa azzurrina dei colli Albani. Inizia a fare caldo.

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1: Scena pastorale sulla via Appia. Da 2 a 4: Tombe lungo la via Appia.


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1: Rovine sulla via Appia. 2 e 3: Questo columbarium di Ostia è un tipico esempio di tomba collettiva appartenente a una corporazione.

Gli uomini hanno lavorato ben duramente per rendere fertile questa terra ingrata, spiega Silvio. Già all’alba dei tempi avevano scavato una fitta rete di canalizzazioni sotterranee al fine d’irrigarla. Più tardi fu la volta degli interminabili acquedotti che tagliano la campagna romana, e l’abbondanza d’acqua indusse gli agricoltori più indolenti a non intrattenere più gli antichi canali. Da quando l’Italia subisce la concorrenza delle province, gli agricoltori del Lazio hanno rinunciato alla produzione di olio e cereali, privilegiando l’artificiosa crescita di pascoli ricchi di trifoglio ed erba medica. Nell’avvicinarci a Roma diviene sempre più evidente come la prossimità di quel fantastico mercato cittadino abbia trasformato la campagna in un immenso giardino articolato in piccoli appezzamenti di un centinaio di arpenti ciascuno, ove vengono caparbiamente coltivati frutta e verdura.

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1 Sul finire della Repubblica, Lucullo importò il ciliegio dall’Asia Minore. La scienza dell’innesto era già praticata. Plinio avrebbe addirittura visto, stando al mio compagno di viaggio, un albero con un frutto diverso per ciascun ramo! Del resto, molte furono le cose viste da Plinio lungo il corso della sua esistenza… Talvolta, tra le fronde di un boschetto, l’ocra di un tetto aggiunge una pennellata più calda a questo quadro così caro alle Georgiche di Virgilio. Laggiù, un contadino carica il suo somaro con due ceste di ortaggi prima di recarsi in città. Domani riporterà ai suoi vicini le ultime notizie della capitale, e tutti rideranno delle acconciature esibite dalle matrone durante i giochi circensi. Fa sempre più caldo. Solo nel 2 suo orto, un uomo sbatte due piatti onde attirare le api verso un’arnia di corteccia, rivestita di gesso al fine di trattenerne il miele. Delle grida mi risvegliano dal mio torpore. Una giovane donna, in piedi sul suo carro, un modello espressamente concepito per il gentil sesso, ci sorpassa esplodendo in una risata. Non è conveniente che una donna conduca, commenta gravemente Silvio. Quattro secoli dopo che il poeta Properzio ci ha introdotti alla sua Cinzia, la società è ancora restia ad arrendersi all’audacia di questi atti che sfidano gli usi e i costumi più tradizionali.

1 e 2: Il ninfeo della villa dei Quintili, nella ricostruzione di una stampa antica e nel suo stato presente.


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I sarcofagi deposti nelle tombe erano spesso ornati di bassorilievi elegantemente scolpiti.

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la via appia

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Attraversato il borgo di Bovillae, culla degli avi di Giulio Cesare, una pietra miliare ci informa che Roma si trova a undici miglia (sedici chilometri). Una doppia fila di tombe, dapprima rada quindi sempre più serrata, ci affianca lungo entrambi i lati della Via Appia. La religione, per motivi igienici, vieta di seppellire i defunti all’interno delle città, così i cimiteri si sviluppano lungo le strade periferiche, regno di prostitute e senzatetto. La strada regina attraversa così la più grande Necropoli del mondo. Decine di migliaia di sculture vi montano secolare guardia: è la storia stessa di Roma a scorrere davanti agli occhi dello sbalordito viaggiante. La vista è impressionante, degna delle dimensioni dell’Impero: una profusione di mausolei di marmo o di mattoni, sovraccarichi di decorazioni, di iscrizioni funerarie, di templi, di statue e di colonne. Protetta dalla vigile copertura dei cipressi, è questa una sinfonia di verde e travertino, favolosa immagine di un mondo non del tutto morto! Gli artigiani, e addirittura gli schiavi, si organizzano in collegi al fine di assicurarsi una vita dopo la morte acquistando dei columbarium le cui centinaia di nicchie contengono altrettante urne funerarie. 3 Tombe modeste e colossali mausolei, queste sepolture possiedono le fogge più strane. Le più antiche sono cilindriche e ornate di cipressi, a immagine dei tumuli etruschi. Al quinto miglio, le tombe degli Orazi e dei Curiazi, erette – leggenda vuole – ove essi caddero, appartengono a questa categoria. Altre hanno struttura piramidale, manifesta testimonianza della moda egizia d’inizio Impero! Molte assomigliano a piccoli mausolei, alcune a torri, altre ancora richiamano dei templi a uno o due piani. Tutte presentano, sulla facciata principale, i ritratti scolpiti delle famiglie sepolte.

1 e 2: Tombe sulla via Appia. 3: Particolare della tomba di Ilario Prisco.


1 Una volta superato il Mausoleo di Gallieno, di fronte alla tomba di Verano, un delizioso santuario dedicato a Silvano ci offre un po’ d’ombra. Intravedo sulla destra le arcate di un acquedotto: trasporta l’acqua dell’Aniene alla gigantesca villa dei Quintili. Questo palazzo che costeggia la Via Appia, dotato di circo e ninfei, apparteneva a due fratelli che andarono incontro a un tragico destino. L’Imperatore Commodo, concupendo la loro proprietà, li accusò di tradimento, condannandoli a morte e confiscando i loro beni. Dietro il filare di tombe, altre ville si perdono in questo trionfo di vegetazione. 1: Filare di tombe sull’Appia, dominato dal mausoleo di Cecilia Metella. 2: Mausoleo di Cecilia Metella.

Sale quindi alle nostre orecchie un salmodiare: proveniente da Roma, un corteo funebre accompagna un notabile alla sua ultima dimora. I funerali sono stati organizzati dai dipendenti delle pompe funebri, un’industria lucrativa e mai debitamente apprezzata! Alla testa del corteo alcuni rumorosi suonatori di flauto e di tibia, un lunga tromba. Delle comparse, il volto coperto da una maschera di cera, simboleggiano la partecipazione degli avi del defunto, un onore riservato alle sole famiglie patrizie; sfilano distese su di un’alta portantina, e ciò affinché la folla dei 2 passanti le possa vedere. Dietro, le prefiche lanciano grida che lacerano i cuori, tanto più convincenti quanto più sono state pagate! Seguono quindi decine di carri sui quali vengono rappresentati i momenti più edificanti della vita del defunto. Preceduti da littori in abiti neri recanti dei fasci, dei turiferari circondano il carro funebre, perpetuando il ricordo dei tempi in cui i morti venivano sepolti di notte. Soltanto i pagani continuano a interrare i bambini di giovanissima età nelle tenebre, considerando il loro decesso una punizione decretata dagli dèi a cui poco converrebbero dei funerali onorifici. Il cadavere, a volto scoperto, riposa su un letto di fiori. I familiari procedono al suo seguito, vestiti di una lunga tunica dai vivi colori gli uomini, con semplici vesti e con i capelli sciolti le donne. “Impossibile immaginare spettacolo più elevato per un giovane apprezzante gloria e virtù”, dichiarò un giorno lo storico Polibio nell’assistere a dei funerali!


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la via appia

Musica e pianti cessano repentinamente. Un poeta intona delle nenie, l’agghiacciante canto dei morti, quando ecco spuntare un corpo di ballerini e di mimi le cui facezie sul defunto fanno contorcere dalle risate i presenti. Persino in queste occasioni i Romani non frenano il loro caustico umorismo, tale è la tradizione. Mentre la bara di Vespasiano viene trasportata verso la sua ultima dimora, un attore indossante una maschera con i tratti del Principe imita il suo deambulare facendosi beffe della sua proverbiale avarizia! Buon per il defunto Imperatore che le sue orecchie non siano più in grado di udire… Pervenuto il corteo alla tomba di famiglia, un parente del defunto gli aprirà e quindi richiuderà gli occhi in segno di addio. Un pasto funebre all’interno del mausoleo precederà l’ultimo arrivederci di poco precedente l’inumazione del corpo in un grande sarcofago di marmo: l’uso della cremazione è quasi scomparso, certo sotto l’influenza dei cristiani. Degli schiavi coltiveranno quindi il terreno immediatamente circostante. Ogni anno, la famiglia celebrerà l’anniversario del decesso, riunita sotto il pergolato. La trama urbana s’infittisce. Taverne, fattorie e botteghe di vasai costeggiano la strada dietro l’ininterrotta fila di tombe. Dopo l’alto mausoleo della consorte del triumviro Crasso, Cecilia Metella, la Via Appia sfiora una depressione che viene chiamata “ad catacumbas”. Da circa tre secoli vi sono stati scavati i più grandi cimiteri sotterranei di Roma, interminabili gallerie ove coabitano sepolture pagane e cristiane. Papa Callisto, che possedeva una proprietà nei pressi, ne fece scavare di nuove per inumarvi i suoi fedeli. È però il grandioso spettacolo dei monumenti che sorgono dall’altro lato della strada a togliermi il fiato. Un immenso circo contenente diecimila posti, sovrastato da un maestoso palazzo, sorge all’interno

Rievocazione della via Appia in prossimità della tomba di Cecilia Metella, realizzata dall’autore.


nella roma dei cesari

1 e 2: Circo di Massenzio.

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di un lussureggiante parco. Affacciato sulla Via Appia, un portico circondato da tre lati da un mausoleo circolare. L’insieme è poco curato, pista e gradoni sono macchiati da erbacce. Silvio mi spiega che questo circo non è mai stato impiegato. Era stato voluto dall’Imperatore Massenzio, lo sfortunato rivale di Costantino. Quando quest’ultimo l’ebbe sconfitto, nella battaglia del Ponte Milvio, dispose che queste costruzioni elevate alla 1 gloria del suo nemico fossero abbandonate a se stesse. Questa magnifica proprietà era stata acquistata da un contemporaneo di Adriano ben due secoli prima. Costui si chiamava Erode Attico ed era originario di Atene. Suo padre aveva rinvenuto un tesoro sotto la propria dimora, cosa che lo rese favolosamente ricco. Dopo aver gratificato la sua patria di sontuosi monumenti, s’installò a Roma ove divenne, nonostante una mentalità un po’ dubbia, precettore del giovane Marco Aurelio. Sposò una nobile dama che gli recò in dote la proprietà. Sotto la facciata del greco colto, però, Erode celava una personalità brutale. Allorché sua moglie era incinta per la quinta volta, la uccise con un calcio. Ne derivò un processo vinto grazie al proprio denaro. Alfine di distogliere da sé i sospetti ancora sussistenti, adottò un lutto ostentato consacrando la sua proprietà agli dèi degli inferi e al culto funerario della consorte. Su di un portico fece incidere: “Queste colonne sono un dono a Demetra e agli dèi degli inferi, sciagura a chi mai le sposterà.” Poco oltre, in una cappella funeraria, un’altra iscrizione recitava: “Questo è un ricordo di Erode, della sua sciagura e della virtù di sua moglie, luce di questa 2 casa. Non vi troverete tomba: il suo corpo, in effetti, riposa in Grecia, al fianco di quello del marito.” Sul limitare del parco sorge il tempio dedicato al dio Rediculo, fatto elevare dai nostri avi per segnare il luogo cui il terribile Annibale, il peggior nemico di Roma, ebbe l’audacia di avvicinarsi. A soli mille passi dalle mura cittadine, aveva qui installato una postazione prima di tornare alle delizie che tutti sappiamo. Grande fu la successiva punizione degli dèi!


1 1 Porta Appia.

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2 Area Carruces. 3 Tempio di Marte. 4 Arco di Lucio Varo. 5 Villa di Furio Crassipa. 6 Tomba detta di Geta. 7 Tomba di Priscilla. 8 Chiesa del “Domine Quo Vadis?” 9 Fiume Almo. 10 Villa del poeta Terenzio?

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LE rive DElL’ALMO


nella roma dei cesari

1, 2 e 3: Simbologia cristiana rinvenuta nelle catacombe.

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Passiamo adesso davanti alla piccola chiesa del “Domine quo vadis?”. Il mio compagno diviene taciturno. Nonostante lo spirito di tolleranza suggerito da Costantino, la setta cristiana non sembra stargli a cuore. Apprenderò più tardi che è in questo luogo che Gesù apparve a Pietro, mentre costui fuggiva dalle persecuzioni di Nerone. “Dove stai andan- 1 do, Signore?” chiese il primo vescovo di Roma. “A farmi crocifiggere in tua vece”, rispose l’altro… Pietro ritornò allora sui suoi passi. Morì nel circo di Caligola, crocifisso a testa in giù, giacché non si considerava degno di perire come Gesù. Mai comprenderò questa adorazione per un dio morto. La Via Appia passa quindi al di sopra di un 2 piccolo rivo, confluente poche miglia dopo nel Tevere, l’Almo. Questo modesto fiumiciattolo funge da confine amministrativo della città di Roma. Ogni anno, nelle sue acque, le sacerdotesse di Cibele provvedono a lavare la statua della dea, solitamente troneggiante in un tempio sul Palatino. Il luogo è incantevole. Sulle sponde, degli orticelli sovrastati da tettoie. Li protegge una palizzata di giunchi intrecciati. Alcuni hanno un aspetto festoso, con rose che si arrampicano lungo le recinzioni. La sera, quando rinfresca, il popolino vi affluisce per fuggire l’aria irrespirabile del centro. Grandi parchi approfittano di questo rustico quadro per celare nel suo scrigno preziose ville. Cicerone stesso ne acquistò una per conto del genero Furio Crassipa. Un arco di trionfo dedicato al fratello di Marco Aurelio, Lucio Varo, marca l’affacciarsi di Roma sulla Via Appia. Sulla sinistra si evidenzia il Vicus Pulverarius, contenente antiche cave di pozzolana. Una scoria vulcanica che serve, mescolata con della calce, a produrre determinati cementi. Il quartiere, polveroso e malsano, ospita una sinagoga. La strada sale quindi fino a uno spiazzo su cui sorge il grande Tempio di Marte. Tutto intorno alla piazza ingombra di carrozze e lettighe, locatori di carri attendono sonnecchiando i loro clienti. Alcuni giocano a dadi. I viaggiatori in partenza per la provincia possono contare sui loro servizi, mentre chi giunge in città deve qui lasciare il proprio veicolo fino al calar della notte: fin dai tempi di Giulio Cesare la loro circolazione all’interno di Roma è preclusa durante la giornata, eccezion fatta

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la via appia

per le carrozze della famiglia imperiale e delle vestali, nonché per i carri appartenenti alle imprese edili. Lettighe e portantine possono altresì circolare liberamente, ma io devo lasciare il mio cavallo in una stalla adiacente. Cinquanta passi più avanti, il passo è sbarrato da una grossa fortificazione, la Porta Appia. Uno dei diciotto varchi delle Mura Aureliane. Oltre detta fortificazione… Roma.

La porta Appia, attuale porta di San Sebastiano. In principio aveva due ingressi.


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