AL KHALISA
Nuovo museo di arte islamica a Palermo
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Vincenzo Fazio
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Al Khalisa
Nuovo museo di arte islamica a Palermo
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Relatore Prof. Fabrizio F. V. Arrigoni Correlatore Prof. ing. Giovanni Cardinale Università degli Studi di Firenze DIDA | Scuola di Architettura Laurea Magistrale a ciclo unico in Architettura anno accademico 2020-2021 4
Indice Abstract
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Un’idea di città
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La Siclia islamica La conquista dell’isola Balarm: dal kastron alla madina Siqilliyya Al-Khalisa: la cittadella del potere Il viaggio di Ibn Hawqal
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Una storia dimenticata L’eredità dei musulmani Il contributo di Amari e Salinas La collezione
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La Kalsa Il sito
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Il progetto Il museo di arte islamica Il centro documentale La costruzione
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Modelli
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Bibliografia
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Ringraziamenti
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Abstract
Nell’831 d.C., assediata ormai da lungo tempo, la città di Palermo si arrendeva ai conquistatori musulmani. Era trascorso un secolo da quando i Franchi avevano fermato l’avanzata degli arabi a Poitiers e solo trent’anni prima Carlo Magno veniva incoronato imperatore a Roma, delineando per la prima volta quell’idea di Europa che a lungo avrebbe caratterizzato l’identità dell’Occidente. In Sicilia la storia sembrava avanzare in direzione opposta. Gli Aghlabiti d’Africa, a capo di un emirato di fatto indipendente dal resto del mondo islamico, avevano maturato da tempo il disegno di un’occupazione e ne ebbero l’occasione nell’827, quando un ambizioso ufficiale della flotta bizantina, Eufemio, si rivolse loro sollecitandoli a invadere l’isola e offrendosi di governarla in qualità di loro tributario. La Sicilia fu l’ultima delle conquiste europee dell’Islam arabo, cui occorsero quasi cento anni per assoggetarla completamente. Furono poi i principi normanni Roberto e Ruggero d’Altavilla, a partire dal XI secolo, a sottrarla gradualmente ma definitivamente al controllo del mondo musulmano. Degli oltre due secoli di dominazione islamica quasi nulla ha attraversato la storia, i pochi resti e le deboli tracce visibili ancora oggi si trovano concentrati a Palermo, la città che dopo la sua capitolazione fu eletta dai nuovi governanti come sede del loro potere. Centinaia di anni dopo, sul finire dell’Ottocento, una stanza al primo piano del Regio Museo di Palermo esponeva una inusuale raccolta di manufatti risalenti all’epoca dell’egemonia musulmana sull’isola: era la sala araba, dove il nuovo direttore, Antonino Salinas, aveva riunito gli oggetti provenienti dalle collezioni cittadine nella sezione di arte islamica. 6
Il sodalizio con lo storico Michele Amari, il principale arabista nel panorama italiano dell’epoca, aveva alimentato nel tempo l’interesse di Salinas per quel frammento della storia di Sicilia, concepito da entrambi come un tratto peculiare e distintivo dell’identità isolana, in contrapposizione a quella del resto d’Italia. Diversamente dalle sezioni etnologiche che in quegli anni venivano abbozzate nei principali musei europei, l’allestimento palermitano non era identificabile con la wunderkammer in cui ammirare i reperti esotici di una civiltà estranea e lontana: la provenienza locale dei manufatti attestava che il proposito fosse quello di far luce su una fase sconosciuta della storia medievale siciliana. Dopo che Salinas lasciò l’incarico, l’interesse della direzione tornò a rivolgersi perlopiù alle antichità greco-romane e la sala venne progressivamente smantellata. Durante la seconda guerra mondiale l’intero patrimonio del museo venne trasferito fuori dalla città per essere protetto dai bombardamenti e alla fine del conflitto il processo di riconfigurazione delle raccolte museali cittadine si occcupò solo parzialmente della collezione islamica. Ad oggi essa risulta dispersa in numerosi istituti culturali, in parte esibita ed in parte relegata nei magazzini. Al Khalisa è il nome della cittadella fortificata eretta dagli arabi a seguito della conquista di Palermo. È il tentativo di raccontare un episodio della storia della Sicilia, seguendo le orme di chi l’ha svelato per la prima volta. È il proposito di restituire alla città, attraverso un’architettura, un luogo dove contemplare e indagare il proprio passato.
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Un’idea di città
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Tempio di Horus a Edfu, Egitto, 237-53 a.C.
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Con il processo di civilizzazione la città emerge quale simbolo della società: essa appare come il prodotto più sofisticato di una collettività, un organismo capace di incarnare e dare forma alle dinamiche sociali, economiche e culturali che percorrono e agitano la moltitudine di individui che la popola. Aggiungendo la variabile del tempo, essa diviene dunque un testimone che racconta tramite i volumi e le forme delle architetture i mutamenti e le trasformazioni che interessano il vivere associato. I grandiosi complessi monumentali rivolti alle divinità che sorgevano nei primi centri urbani, agli albori della storia umana, erano la condensazione in infiniti corsi di blocchi di pietra di quella narrazione che teneva in piedi la società: un ordine cosmico solido e immutabile che si proiettava sulla terra per dare forma al vivere comune degli uomini1. Più tardi, al variare delle forme del potere cambiava anche la morfologia dei manufatti urbani: in età classica erano la piazza e il teatro i protagonisti della città; luoghi in cui le diverse anime della πόλις si scontravano; ora nella forma esplicita degli accesi dibattiti pubblici, ora in quella allegorica delle vicende umane trasposte nel dramma. Ancora quando in Europa il potere dello stato venne meno e la società si trovò frammentata e parcellizzata, la città fu abbandonata, lasciata in balia della natura che gradualmente se ne riappropriava. Essa non era più in grado di rappresentare né un ordine sociale, né un potere universale riconoscibile e riconosciuto: le nuove forme di aggregazione si sviluppavano intorno a episodiche manifestazioni dell’autorità militare e religiosa, il castello e il monastero. 1 Yuval Noah Harari, Homo Deus: breve storia del futuro, Milano, Bompiani, 2018 11
La successiva espansione dell’economia medievale coincise con la riaffermazione dello spazio urbano: attorno al mercato cittadino nascevano nuovi mestieri e si concentravano nuove ricchezze; l’aristocrazia rurale e l’emergente borghesia si contendevano le magistrature all’interno di un nuovo oggetto architettonico, il palazzo pubblico comunale. In tempi più recenti, il progresso tecnologico del diciannovesimo secolo produsse una trasformazione così profonda dei meccanismi dell’economia che la città non potè che prenderne atto: l’esigenza di accogliere le masse che abbandonavano le campagne per raggiungere i nuovi luoghi del lavoro produsse una crescita improvvisa della superficie urbana. Le nuove distese sconfinate di residenze, frutto anch’esse dell’idea della produzione seriale, produssero quella soluzione di continuità tra centro e periferia che ancora oggi costituisce un tratto evidente della quasi totalità degli ambienti urbani. La città storica è dunque il risultato di un processo di sedimentazione, nel corso del tempo, delle convinzioni, delle istanze e dell’estetica delle genti che le hanno abitate, rappresentate nelle sembianze del singolo manufatto architettonico o nell’articolazione del tessuto urbano nel suo complesso: si tratta dell’elemento primario e dell’area residenza, i fondamenti su cui Aldo Rossi basava l’analisi dei fatti urbani 2 . Percorrere dunque la città, osservarne l’effigie e scrutarne i dettagli vuol dire decifrare di continuo la molteplicità di significati di cui essa si è fatta carico nel corso della storia. Nel caso di Palermo, questo fenomeno di accumulo si è avviato a partire dal VII secolo a.C., con la fondazione della città ad opera dei fenici, ed è proseguito nei secoli fino ai giorni nostri. 2 Aldo Rossi, L’architettura della città, Padova, Marsilio, 1966 12
Quartiere operaio nel centro di Londra, Gustave Dorè, 1872
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Intervenire nel centro storico del capoluogo isolano costitutisce uno dei gesti più insidiosi a cui può essere chiamata la pratica dell’architettura. Inserire un oggetto nuovo in un contesto già definito, già fissato in una forma e in un’immagine precise comporta inevitabilmente l’alterazione di un equilibrio, tramite l’imposizione di significati, priorità ed esigenze nuove, che dipendono in parte dalla sensibilità contemporanea e in parte dalle istanze dei soggetti che guidano il processo progettuale. Nel caso particolare è possibile rintracciare quelle tematiche che rimandano al generale, ovvero ogniqualvolta la progettazione si rivolge allo spazio urbano. Orientando lo sguardo al contesto nazionale, che ci risulta più accessibile e pertanto più facilmente indagabile, sembrano due le principali dicotomie di valori all’interno delle quali il progettista è chiamato ad operare una scelta. La prima dualità è la contrapposizione tra presente e passato: l’attribuzione di valore alle testimonianze, che dai tempi antichi sono sopravvissute sino alla contemporaneità, sembra suggerire che l’intelligenza collettiva debba sforzarsi quasi esclusivamente nel perseguire la conservazione dell’immagine della città. Ogni manufatto presente nel tessuto urbano sembra essere stato sottoposto ad un processo di storicizzazione che impedisce la formulazione di un giudizio di valore: ciò che proviene dal passato merita automaticamente di essere preservato, tutelato e conservato. Diventa dunque difficilmente percorribile la strada della sostituzione di un edificio, per mezzo della sua demolizione e ricostruzione; altrettanto problematico diventa scegliere quali tra le istanze della contemporaneità meritino di essere tradotte in fabbrica e di inserirsi così nel palinsesto dei simboli cittadini. 14
Le funzioni che non trovano ospitalità nelle vetuste forme della città storica escono dunque dal centro urbano per trovare ospitalità in architetture realizzate ai margini dello spazio costruito, estranee all’organismo insediativo, che si sottraggono al dialogo con lo spazio pubblico e dunque al confronto diretto con la comunità. Il secondo conflitto che sembra non trovare più risoluzione nella compagine urbana è quello che vede contrapposto il singolo alla collettività. Nel corso del secondo dopoguerra lo sviluppo economico ha garantito ai singoli il raggiungimento di un livello di benessere e confortevolezza di gran lunga superiore a quello che era a disposizione delle precedenti generazioni. Questo nuovo standard sembra strettamente correlato alla quantità di superficie di cui una persona può disporre: maggiore è dunque lo spazio privato pro capite, maggiori saranno le comodità di cui l’individuo potrà godere. Va da sé che la città contraddice essenzialmente questa relazione: l’equilibrio tra spazio pubblico e spazio privato negli insediamenti urbani è di gran lunga a vantaggio del primo, in quanto il ritmo serrato del tessuto cittadino comporta la minimizzazione dello spazio privato. Tale perdita non riesce ad essere compensata dai vantaggi che derivano dalla possibilità di fruire dello spazio pubblico, che in quanto spazio appartenente ad una collettività può esistere soltanto all’interno della città. La residenza rinuncia dunque a prendere posto nelle maglie della trama cittadina e si colloca anch’essa alle propaggini del sistema urbano, in una condizione ambigua in cui da un lato sbiadiscono i vantaggi degli spazi di prossimità e dall’altro non si realizzano i benefici propri di un contesto rurale. La città riflette ancora una volta i fenomeni che si verificano all’interno della società: l’incapacità di identificarsi in una 15
La vita all’interno di un goshiwon, Sim Kyu-Dong, Seoul, 2018
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narrazione e dunque in una iconografia universalmente riconosciuta e la difficoltà di trovare un equilibrio tra le esigenze individuali e quelle della collettività provoca nei singoli una sensazione di estraneità allo spazio urbano. La città è sempre meno il luogo in cui la maggioranza di chi la vive svolge la gran parte delle proprie attività, bensì si configura come una scenografia abitata da minoranze ben definite e adibita a funzioni specifiche e circoscritte. Esercitare una influenza sui processi in atto all’interno della società significa dapprima identificare le istanze che li determinano, operare poi una scelta delle esigenze che si intendono soddisfare e in ultimo mettere a punto una strategia al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati. Tale attività pertiene più alla tecnica politica che alla pratica progettuale: il gesto architettonico ci appare come il prodotto finale, il risultato a valle di una serie di dinamiche sociali, economiche e culturali che in precedenza si sono verificate all’interno di una comunità. Pur negando all’architettura il ruolo di forza motrice del cambiamento, ci interessa nondimeno chiarire quali sono le coordinate in cui la nostra proposta si colloca nello spazio cartesiano delineato dall’opposizione dei dualismi sin qui presentati: presente-passato e pubblico-privato. Le condizioni del sito e gli strumenti urbanistici messi a punto dall’amministrazione comunale di Palermo definiscono il raggio d’azione dell’intervento: risulta quindi abbastanza agevole individuare le aree in cui inserire i nuovi oggetti, dopo averle liberate dai fabbricati, più o meno danneggiati, che le occupano. Occore poi connotare l’operazione tramite l’attribuzione di una forma agli elementi da inserire e al contempo attraverso la deter17
minazione delle relazioni di questi con quel brano di città a cui si rivolgono. Il museo consiste in un volume compatto, che evoca la tipologia del palazzo nobiliare per come si è sviluppata dall’età normanna sino all’epoca moderna, mentre il corpo longilineo del centro documentale si rifà alla distribuzione in serie tipica dell’edilizia residenziale minore. Poste a sistema con il contesto, le due fabbriche vanno a determinare tre spazi urbani ben precisi: la strada, la piazza e la corte. La definizine di un’immagine è tuttavia soltano il mezzo attraverso il quale si esplicita la scelta fondamentale alla base della nostra proposta: precisare un tratto dell’identità cittadina, procurando alla comunità un luogo dove è possibile indagare e osservare un episodio del proprio passato. La scelta delle funzioni che trovano ospitalità all’interno del complesso e la tipologia di spazi urbani che vengono aggiunti al programma cittadino chiariscono l’intenzione di dare centralità alle esigenze e alle necessità della vita pubblica. La caratteristica che accomuna spazio espositivo, biblioteca, sala conferenze, caffetteria e giardino è che si tratta di luoghi che, pur rivolgendosi a categorie diverse di fruitori, sono destinati ad una pluralità di soggetti. Tali attività, messe a sistema in virtù della reciproca vicinanza e inserite a diretto contatto con gli altri luoghi di aggregazione del quartiere, contribuiscono a creare quella complessità di relazioni che è alla base di uno spazio pubblico urbano.
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La processione di Santa Rosalia, anonimo siciliano, 1706-1707
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La Sicilia islamica
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Nelle pagine precenti: copia della mappa della Sicilia contenuta in “The book of curiosities”, autore ignoto, XIII sec.
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“Avendoli Iddio liberati così dai nemici, marciaron i Musulmani sopra la città di Palermo; l’assediarono e la strinsero sì fattamente, che il principe di essa mandò a chiedere la sicurtà per sé, per la sua famiglia e pel suo avere: ed ottenutela, se ne andò per mare ne’ paesi de’ Rûm. I Musulmani entrati in Palermo nel mese di raģab dell’anno dugento sedici, non trovarono altro che [un pugno d’] uomini, che non arrivava ai tremila, de’ settanta che racchiudeane la città al principio dell’assedio. Gli altri eran tutti morti.” Ibn al-Athìr, La storia perfetta, versione di Michele Amari
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Riproduzione della Tabula Rogeriana di al-Idrisi, Ali ibn Hasan al-Hufi alQasimi, 1456
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La presa della Sicilia ad opera dei musulmani fu l’ultima delle conquiste europee dell’Islam. L’occupazione, che si sarebbe conclusa dopo circa settant’anni, ebbe inizio con una spedizione militare alla fine degli anni venti del nono secolo. A quell’epoca il mondo musulmano era così strutturato: da una parte il califfato arabo, ovvero il principale stato islamico, che la dinastia abbaside governava da Baghdad, si estendeva dall’odierna Algeria fino al Pakistan e all’Afghanistan e dalla Turchia sino all’estremo meridione della penisola arabica; dall’altra, negli attuali Spagna e Marocco, gli Omayyadi avevano istituito a Cordova un califfato indipendente dagli abbasidi. Il nord Africa, in particolare quella regione che comprendeva l’attuale Tunisia e le porzioni settentrionali di Algeria e Libia, costituiva l’emirato di Ifriqiya (corrispondente ai territori della provincia d’Africa dell’Impero romano), retto dalla dinastia degli Aghlabiti. Furono questi ultimi gli artefici della spedizione militare che diede avvio all’assoggettamento del territorio siciliano, che al tempo costituiva il thema di Sikelia dell’Impero bizantino.
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La conquista dell’isola La presenza islamica in Sicilia risale al settimo secolo, da cui ci giungono testimonianze di scorrerie e incursioni ad opera dei musulmani. Il disegno di una vera e propria invasione militare maturò all’inizio del nono secolo nell’Ifriqiya aghlabite ed ebbe l’occasione di realizzarsi in seguito alla defezione di un ufficiale della flotta bizantina, Eufemio da Messina1. Questi, che aveva preso il potere sull’isola con l’aiuto della nobiltà locale, si recò nell’827 d.C. a Qayrawan dall’emiro Ziyadat Allah I proponendogli di aiutarlo a cacciare i bizantini dall’isola per consolidare il proprio potere; in cambio sarebbe divenuto tributario degli Aghlabiti. A capo dell’operazione militare fu posto il giurista Asad ibn al-Furat, che salpò da Susa, accompagnato da Eufemio nel giugno di quello stesso anno. Sbarcarono a Mazara del Vallo e presto si scontrarono con l’esercito bizantino guidato da Palata, che fu sconfitto e ritirò in Calabria. Asad si diresse dunque verso Siracusa, capitale della provincia bizantina, sede dello stratego di Sicilia e base dellla flotta. La città fu posta sotto assedio per lungo tempo e resse fino a che i musulmani non desistettero e rivolsero altrove il proprio sforzo bellico, assoggettando i centri di Agrigento e Mineo. In seguito alla morte di Asad e al fallimentare tentativo di aiuto da parte degli islamici di al-Andalus in Spagna, la campagna riacquistò vigore nel 830, quando i veterani di Asad, supportati 1 Francesco Gabrieli, Umberto Scerrato, Gli arabi in Italia: cultura, contatti e tradizioni, “Antica madre”, Milano, Credito Italiano-Scheiwiller, 1979, p. 45 28
Foto storica, vista aerea della moschea maggiore di alQayrawan, Tunisia
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dalle nuove truppe inviate dall’odierna Tunisia, mossero contro Palermo. Un resoconto di quell’assedio è giunto fino alla contemporaneità grazie all’opera di Ibn al-Athìr, uno storico arabo che visse in Mesopotamia e Siria tra il XII e XIII secolo. Nella sua opera principale, “La storia perfetta”, che tratta delle vicende della comunità islamica nel suo complesso, una sezione si occupa della cronaca degli eventi dell’Africa settentrionale e della Spagna e dunque della Sicilia, che era una dipendenza territoriale dell’emirato maghrebino. I suoi scritti, disponibili grazie alla versione di Michele Amari, lo storico palermitano considerato il fondatore dell’arabistica moderna in Italia, contengono anche preziose informazioni su tutto il X secolo, ossia il periodo del governo islamico dell’isola. Egli racconta che, dopo che i musulmani accerchiarono la città, e l’ebbero assediata per circa un anno, il “principe di essa mandò a chiedere la sicurtà per sé, per la sua famigli e pel suo avere”2 e che fuggì poi per mare alla volta dell’Italia merdionale, controllata dai bizantini. Gli arabi entrarono dunque a Palermo tra l’agosto e il settembre dell’831, e si trovarono di fronte ad una città stremata: le cifre che vengono fornite sull’ammontare della popolazione, che secondo lo storico passò dalle settantamila alle tremila unità a causa dell’assedio, sono considerate dalla storiografia contemporanea poco realistiche, poichè appaiono motivate dalla volontà di celebrare la forza militare dell’esercito islamico. Da Palermo, che divenne subito la residenza del governo militare e civile arabo, presediuto dai governatori nominati da Qayrawan, ripartì la penetrazioene musulmana nell’isola. Le operazioni militari ripresero sotto la guida del principe aghlabita Abu l-Aghlab Ibrahim, che nei due decenni successivi arrivò 2 Francesco Gabrieli, Umberto Scerrato, 1979, p. 698 30
Riproduzione della Tabula Rogeriana di al-Idrisi, autore ignoto, XIII o XIV secolo
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Presa la città di Siracusa, il vescovo Sofronio, il monaco Teodosio ed alcuni diaconi cinti di catene sono condotti alla presenza dell’emiro Busa, incisione di Tommaso De Vivo, 1835
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a conquistare il Val di Mazara, Messina, Modica e Ragusa. Negli anni seguenti il suo successore riuscì ad espugnare Castrogiovanni, l’odierna Enna, che era divenuta nel tempo uno dei baluardi della resistenza terrestre bizantina. Ciò indusse Bisanzio a reagire per arginare la progressiva perdita dell’isola, inviando una nuova flotta e incoraggiando la defezione delle città già conquistate dai musulmani. Nonostante questo, gli arabi continuarono ad erodere i territori sotto il controllo dei bizantini, finchè nel 877, al comando del nuovo governatore Gia’far ibn Muhammad, cinsero d’assedio l’antica capitale Siracusa. Dopo nove mesi, durante i quali mancarono i soccorsi da Costantinopoli, la città capitolò e venne saccheggiata e distrutta dai vincitori, che ormai avevano preso possesso dei tre quarti dell’isola. Servirono altri venticinque anni per completare la conquista: nel 902 cadde per ultima la città di Taormina, ponendo fine alla strenua resistenza che la regione nord orientale della Sicilia aveva mostrato nei confronti dell’invasore. Per un secolo e mezzo, fino al 1060, i musulmani avrebbero dunque avuto il controllo politico e militare dell’intera isola, governata dunque da una popolazione egemone di arabi e berberi, stimabile intorno al mezzo milione, contrapposta ad uno o due milioni di tributari cristiani. “Al contrario della stanca società bizantina che sgombrava di Sicilia, la musulmana che le sottentrò, portava in seno elementi di attività, progresso e discordia”3, così Amari iniziava il secondo volume della “Storia dei musulmani di Sicilia”, apprestandosi a descrivere le caratteristiche del governo islamico dell’isola. Dal 909 in Maghreb si era affermata la dinastia fatimide, i cui 3 Michele Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, 3 voll., Firenze, Le Monnier, 1854-1872, p.21 33
membri affermavano di essere i discendenti di Fatima, figlia del profeta, e moglie del quarto califfo Ali. Sciiti e dunque eterodossi rispetto alla maggioranza sunnita dei musulmani, essi si imposero sin dal principio come rivali degli Abbasidi di Baghdad e iniziarono a rivendicare il titolo e la dignità califfale. Il primo esponente della stirpe, il califfo al-Mahdi, si pose l’obiettivo di contendere agli Omayyadi di al-Andalus la supremazia sul Mediterraneo occidentale. Quanto alla Sicilia, essa venne affidata dai nuovi governanti africani ad una casata araba a loro fedele, i Banu Kalb: l’emirato kalbita di Sicilia, pur formalmente dipendente dai Fatimidi, assunse dunque per la prima volta le caratteritiche di un potere ereditario. Fu nel corso dei novant’anni della dinastia kalbita che la Sicilia islamica visse la fase più florida della propria storia: la continuità politica garantita dai nuovi governanti, fedeli alla dinastia che li aveva invesititi del potere, consentì un periodo di stabilità che rese la corte palermitanta protagonista di una fioritura delle arti e della letteratura che l’avrebbero connotata a lungo nei secoli a venire.
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Legno intagliato, dettaglio di un minbar (pulpito) di età fatimide, il Cairo, 1160
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Veduta del golfo di Palermo, Francesco Lojacono, 1787
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Balarm; dal kastron alla madina Siqqilliyya Nell’831 d.C., per la città di Palermo, appena caduta per mano degli invasori arabi, si prospettava un futuro di sviluppo inedito e straordinario, paragonabile a quello che altre città spagnole o mediorientali avevano vissuto in seguito alla conquista da parte dei musulmani4. La Panormos bizantina, racchiusa entro le mura del Cassaro, l’antico nucleo della città, era un insediamento di dimensioni medie o medio-piccole e tuttavia fu il primo centro urbano di una certa importanza che i musulmani occuparono. Dopo aver soggiornato a Mazara nel periodo immediatamente successivo allo sbarco in Sicilia, essi preferirono stabilirsi a Palermo, poichè, secondo le parole di Amari, si trattava di una “vasta e forte città”, circondata da un territorio fertile, con una popolazione abbastanza numerosa da “fornire uomini e materiale alla guerra”, “con un porto comodo e difendevole, ove le arti di costruzione navale non mancavano, o si poteano agevolmente ristorare”5. Lo storico siciliano Ferdinando Maurici, in “Palermo araba”, integra l’analisi di Amari constatando l’abbondanza di acque, sia sorgive che correnti, che caratterizzava la città dell’epoca, in cui il nucleo antico era fiancheggiato da due fiumi oggi scomparsi, il Kemonia e il Papireto: Palermo aveva dunque tutte le qualità per diventare la città principale dei musulmani in Sicilia, per trasformarsi cioè in madina. In termini generali, questo appellativo designava la capitale di un’organizzazione statale; vi risiedeva, solitamente in uno spazio fortificato, un rappresentante del potere politico, ospitava una 4 Ferdinando Maurici, Palermo araba: una sintesi dell’evoluzione urbanistica (831-1072), Palermo, Kalòs, 2015, p. 41 5 Ibidem, p. 42 37
moschea congregazionale, vi erano un giudice, un capo militare, truppe e funzionari dei vari uffici legati all’amministrazione della città. Per quanto riguarda la sua struttura formale, secondo Maurici la madina presenta quattro componenti essenziali. In primo luogo la presenza di un centro funzionale dotato di una moschea principale, di un palazzo e dei mercati, ovvero le sedi del potere religioso, politico e commerciale; vi è poi un gruppo di aree prevalentemente residenziali, suddiviso in quartieri; il terzo componente è il sistema di difesa, costituito da una cinta muraria e in aggiunta da altre fortificazioni; l’ultimo elemento è l’insieme di spazi ausiliari dedicati a funzioni ben precise: luoghi deputati alle attività altamente inquinanti, come le concerie o i macelli, le aree di preghiera all’aperto e i cimiteri. Pur affermando con una certa sicurezza che la Palermo islamica tra X e XI secolo rispettasse appieno questo modello di città appena descritto, la storiografia contemporanea ignora le modalità con cui la nuova popolazione egemone si insediò nella città e ne avviò la trasformazione nella capitale del nuovo dominio. Il primo atto di questo mutamento fu però senza dubbio la realizzazione della moschea maggiore, ovvero l’edificio più importante di ogni città islamica, normalmente ubicata nel centro della madina, verso cui sono orientate le vie principali che si sviluppano a partire dalle porte della città e posta nei pressi del palazzo del potere amministrativo6. La moschea maggiore, detta anche moschea del venerdì in ragione della cerimonia pubblica che si svolge proprio in quel giorno della settimana, non è destinata solamente alle funzioni liturgiche: si tratta frequentemente di un centro di insegnamento, di un luogo di assemblee pubbliche e in ultimo può essere altresì sede notarile. 6 Maurici, p. 44 38
Ricostruzione topograficourbanistica di Palermo, 1686
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Un indizio sulla localizzazione di questa moschea ci è fornito da una delle principali fonti di informazioni sulla Sicilia araba: si tratta di Ibn Hawqal, lo storico e viaggiatore iracheno, che nel trattato geografico “La configurazione della terra” documentò il suo viaggio trentennale nelle regioni dell’Islam, durante il quale visitò anche l’isola nel 973. La sua tesi, condivisa dalla storiografia, afferma che la moschea gami corrispondesse all’antica chiesa episcopale bizantina, convertita in moschea sin dall’età aghlabita. La tradizione storica racconta che la stessa moschea, sarebbe poi stata trasformata di nuovo in chiesa dai normanni e infine demolita nel XII secolo per far posto all’attuale cattedrale. Il recente ritrovamento, nei pressi della stessa, di tracce di piastrelle in ceramica fanno supporre la presenza di un grande spazio esterno pavimentato, presumibilmente il cortile della moschea grande. Tra gli interventi che gli occupanti eseguirono all’indomani della conquista figurano anche il consolidamento della struttura difensiva, la riattivazione del porto e l’individuazione del centro del potere politico. È possibile ipotizzare una costruzione ex novo oppure l’allestimento, tramite la trasformazione di edifici già esistenti, di un dar al-imara, ovvero il palazzo del governo. Sono esigue le informazioni circa l’esistenza di questo complesso (o dei complessi, in quanto non è certo che la sede istituzionale del potere abbia coinciso con la residenza privata del governatore), risulta dunque impossibile definirne le caratteristiche o indicarne la localizzazione all’interno della città. Si può ipotizzare che in seguito alla conquista sia stato occupato uno dei palazzi dell’élite bizantina7. 7 Maurici, 2015, p. 47 40
La cattedrale di Palermo nella veduta di Franz Hegui, 1822-1826 ca
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Pur senza prove archeologiche certe, la storiografia ha avanzato l’ipotesi che il palazzo dei normanni sia stato edificato su una struttura realizzata dai musulmani, che a loro volta sarebbero intervenuti su di una costruzione preesistente. Un’indizio ci è fornito dalla toponomastica: il termine Cassaro, che attualmente si riferisce a corso Vittorio Emanuele II, l’antica strada che attraversa il centro della città dalla Porta Nuova alla Porta Felice, deriva, attraverso la mediazione del latino cassarum, dalla parola araba qasr, che indicava originariamente una grande dimora fortificata, oppure una parte di essa. Questo attributo, che nel X secolo identificava la porzione di città entro le mura, poteva riferirsi in origine solamente al palazzo emirale ed essere diventato, per metonimia, l’appellativo dell’intero nucleo antico. Si può altresì supporre che il termine qasr, che deriva dal latino castrum e dal greco kastron (κάστρον), si riferisse all’intera città, e che i musulmani avessero conservato l’uso bizantino della parola, che aveva assunto nel tempo il significato di città, soppiantando il termine polis. Strettamente correlata alla localizzazione del palazzo del dar al-imara è la questione che riguarda la “via coperta”, un percorso viario monumentale munito di una copertura per tutta la sua estensione. Le testimonianze, tutte risalenti a partire dall’età normanna, specificano che il tracciato di questa strada porticata si sviluppava tra il palazzo reale e la cattedrale, ma non forniscono altre indicazioni sul suo percorso preciso. Secondo una prima ipotesi la via coperta seguiva l’andamento delle mura occidentali e settentrionali, successive ricostruzioni suggeriscono invece un tragitto più interno alla città, in parte parallelo all’attuale corso Vittorio Emanuele II. 42
Il Cassaro in una cartolina storica, 1907-1914 ca
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Non si riesce inoltre a stabilire una datazione certa per questo manufatto: potrebbe trattarsi di un criptoportico risalente all’età romana, oppure di un monumento realizzato durante l’epoca islamica, come sosteneva Amari, a causa dell’analogia della struttura con i collegamenti esistenti tra la moschea e il palazzo del potere nelle città di Cordova, Algeri e Qayrawan. Ipotizzarne la realizzazione in età aghlabita significa presupporre un vasto intervento di sistemazione di tutta la porzione più elevata del nucleo antico, quello che sarà in seguito la cittadella dei Normanni. L’esistenza di una cittadella fortificata in età islamica, precedente a quella che i Fatimiti avrebbero edificato successivamente al di fuori della città antica, è stata riconosciuta dalla storiografia, in quanto è ritenuta una presenza costante nella città islamica medievale in Ifriqiya e nell’Andalus. Solitamente la qasaba, termine arabo per cittadella, era dotata di una cinta muraria autonoma rispetto a quella urbana e di una via di fuga diretta verso l’esterno: ciò consentiva di difenderla anche dopo l’ingresso degli invasori in città e permetteva ai governanti una ritirata protetta sia in caso di attacchi esterni che di rivolte popolari. Pur soddisfacendo le caratteristiche appena descritte, l’estremità occidentale dell’antico nucleo cittadino non può essere considerata con certezza il luogo in cui sorgeva questo complesso fortificato: mancano le testimonianze, contemporanee o successive al IX secolo, che ne attestino la presenza in età islamica e non vi è mai stata una conferma archeologica. Volgendo lo sguardo oltre le mura della città, appare probabile che sin dall’età aghlabita avesse avuto inizio il popolamento delle aree esterne al centro urbano, dapprima in modo sporadico e disordinato, in seguito con la creazione di veri e propri sobborghi, 44
che secondo Amari sarebbero sorti tra la fine del IX e l’inizio del X secolo8. Anche in questo caso l’archeologia non permette la verifica di ciò che viene suggerito dalle fonti documentali. Agli inizi del X secolo l’isola fu interessata da quella serie di eventi che compromisero il centralismo califfale e portarono alla frammentazione del mondo islamico. L’Ifriqiya passò dal controllo degli Aghlabiti a quello dei Famitidi e con essa la Sicilia, che nel 910 vide l’arrivo del nuovo gorvernatore inviato dal mahdi di Qayrawan. Il suo arrivo generò una serie di proteste, capeggiate dai notabili della città che avevo giurato fedeltà al califfo di Baghdad, che sfociarono in rivolte vere e proprie, in particolare a Palermo. I Fatimiti, supportati da un esercito di Berberi, loro storici alleati, assediarono la città ribelle e la ridussero all’obbedienza, dopodichè la punirono ordinando la distruzione delle sue porte, allo scopo di annullare la funzione difensiva delle mura. Ciononostante, nel giro di vent’anni Palermo insorse di nuovo e allo stesso modo i rivoltosi si barricarono nella città murata. Una volta ripreso il controllo della città nel 937, il nuovo governatore Khalil Ibn Ishaq per prima cosa ripetè l’operazione di indebolimento della mura del nucleo storico e in secondo luogo maturò una decisione che avrebbe cambiato il volto della città: la costruzione di una cittadella fortificata nei pressi del porto.
8 Amari 1933-1939, II, p.88 45
Al-Mahdiyya, Tunisia, 912-913 d.C.
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Al-Khalisa, la cittadella del potere A causa del costante pericolo rappresentato dal vivere all’interno della città antica, che si era dimostrata difficile da controllare, nacque l’esigenza di trasferire gli edifici e le funzioni governative al di fuori del nucleo storico, in una posizione strategica che consentisse un accesso diretto al mare e dunque un collegamento agevole con la “madrepatria” africana9. Venne dunque eretta una cittadella fortificata, autonoma rispetto alla città, nei pressi della foce del Kemonia e del Papireto e in prossimità del porto. Le fu attribuito il nome di al-Khalisa, che può essere tradotto con “la Pura”, “l’Eletta”, “la Riservata al potere”. Secondo Amari essa “dovea rinserrare il fior dei leali: l’emiro, i suoi mercenari da spada e da penna; palagio, arsenale, oficii pubblici, tutta la macchina governativa”10; uno spazio aulico e sciita, in contrapposizione alla vecchia roccaforte e alla precedente classe dirigente. La sua fondazione è coerente con l’atteggiamento dei Fatimiti, che operarono interventi simili in altre città di cui presero il controllo: è il caso di al-Mahdiyya, costruita in opposizione a Qayrawan, l’antica capitale del Maghreb islamico, in cui la popolazione sunnita si era rivelata ostile alla nuova dinastia “eretica”, o ancora di al-Mansuriyya, realizzata anch’essa nei pressi dell’ex capitale e infine del Cairo, che fu fondata quando la dinastia trasferì il centro del proprio potere in Egitto. Si tratta ciononostante di un caso unico nella storia della Sicilia islamica, che non vide la fondazione di nuove importanti città, 9 Maurici, 2015, p. 64 10 Amari, 1933-1939, II, p. 223 47
come accadde invece nell’Andalus e in Ifriqiya: per quanto l’isola attraversasse una fase di decadenza al momento della conquista ad opera dei muslmani, appariva comunque come uno dei territori più intensamente urbanizzati del Mediterraneo occidentale, dotato di un sistema di centri urbani di varie dimensioni. L’islamizzazione consistette, invece che nella fondazione di nuove città, nel ripopolamento degli insediamenti preesistenti che, come nel caso di Palermo, furono elevati dagli invasori al rango di città. Come accadde al resto della Balarm islamica, anche al-Khalisa non ha lasciato resti archeologici evidenti, che siano in grado di confermare le affermazioni delle fonti o le ipotesi degli storici. La cittadella ci appare oggi come un elemento sconosciuto, di cui possediamo solo qualche traccia, lasciata dagli intellettuali arabi durante i loro soggiorni nell’isola: oltre al già citato Ibn Hawqal, che si trovava a Palermo nel 973, compare al-Muqaddasi, un geografo iraniano che visitò la città circa nello stesso periodo. Il ritratto che fecero di al-Khalisa, riportato nelle parole di Maurici, descrive un complesso edilizio “prottetto da un muro, non paragonabile però a quello di Balarm e cioè della città vecchia. Vi erano una «piccola moschea» gami, due bagni, una guarnigione, gli uffici amministrativi; non esistevano mercati né fondaci. Aveva quattro porte a nord, a sud e a ovest, «ma ad est c’è il mare e un muro senza porte». Al-Muqaddasi aggiunge i nomi delle quattro porte: Bab Kutama, dalla tribù berbera alleata e braccio armato dei fatimiti; Bab al-futuh («Porta delle Vittorie»); Bab al-bunud («Porta degli stendardi» o «delle bandiere»); Bab al-Sina’a («Porta dell’arsenale»). Ricorda nuovamente la moschea gami e menziona anche dei mercati, esplicitamente esclusi invece da Ibn Hawqal”11. Le testimonianze islamiche e quelle posteriori di età normanna 11 Maurici, 2015, p. 66 48
non aggiungono altro alla descrizione del complesso: non ci sono dunque informazioni sulle dimensioni e le caratteristiche architettoniche della cittadella, né sulla sua precisa ubicazione o sul tracciato delle sue mura. Si può sin da ora escludere la supposizione che i confini di al-Khalisa corrispondessero a quelli dell’attuale quartiere della Kalsa: l’unico argomento a sostegno di questa tesi risiede nella continuità toponomastica, che tuttavia appare insufficiente alla storiografia contemporanea. Furono tre le ipotesi più accreditate circa l’antica configurazione spaziale della cittadella. La prima ipotesi ricostruttiva, formulata nel XIX secolo dallo storico tedesco Schubring e sostenuta dallo stesso Amari, pur con qualche modifica, è detta della “piccola” Khalisa. Si trattava di un’area rettangolare, stretta e allungata, delimitata a nord dalla chiesa di Santa Maria della Catena, a sud dalla chiesa della Vittoria e infine a est dalla linea di costa, che all’epoca era molto più arretrata rispetto a oggi. Questa congettura si opponeva a quella dello storico palermitano Di Giovanni, che nel Cinquecento aveva proposto l’ipotesi della “grande” Khalisa, che occupava all’incirca la metà dell’attuale quartiere Kalsa. Il suo perimetro corrispondeva a sud-est al tracciato delle mura medievali, proseguiva verso nord lungo via Butera fino alla Cala e continuava verso sud-ovest lungo il Corso, fino al complesso di San Francescco d’Assisi. Una più ragionevole congettura venne invece avanzata negli anni trenta del Novecento dallo storico siracusano Columba, quella della “media” Khalisa. Partendo da una considerazione circa l’impossibilità di definire con precisione la localizzazione della cittadella, questi definì un’area trapezoidale: la base maggiore si estendeva dall’attuale piazza Magione fino al complesso di San Francesco d’Assisi, quella 49
Le tre ipotesi principali sulla localizzazione della cittadella: la “piccola” Khalisa (Schubring, Amari), la “grande” Khalisa (Di Giovanni) e la “media” Khalisa (Columba)
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minore era pressocchè parallela al mare e si estendeva a partire dall’oratorio dei Bianchi, lungo la piazza omonima. Le ricerche archeologiche svolte negli ultimi trent’anni in diverse aree della città hanno permesso di aggiungere elementi, di carattere generale, all’immagine di Palermo islamica, cionondimeno la localizzazione di al-Khalisa rimane una questione aperta. La scoperta nella zona sud orientale della Kalsa di una grande maqbara, ovvero un’area cimiteriale, suggerisce che le mura della cittadella si trovassero sul perimetro di questa, che risulterebbe dunque esclusa dal complesso architettonico. Vi sono tuttavia esempi, specificatamente nell’Andalus, di palazzi e fortificazioni che possedevano dei cimiteri intramuranei: non è dunque possibile, anche in questo caso, elaborare ipotesi univoche a partire dalle evidenze archeologiche. Attualmente la tendenza è quella di delinare una “media” Khalisa nelle vicinanze di Piazza Marina, tra via Alloro e la chiesa della Catena, in linea con le teorie di Schubring e Amari12 .
12 cfr. Maurici, 2015, pp. 17-72 51
Dettaglio di una copia della Tabula Rogeriana di alIdrisi, Konrad Miller, 1929
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Il viaggio di Ibn Hawqal La sempre maggiore rilevanza che la città andava guadagnando, sia all’interno della Sicilia, sia nel contesto più ampio del Mediterraneo occidentale islamico è testimoniata dagli interventi che i suoi governanti misero in campo per modificarne l’assetto. L’apice di questa trasformazione fu nella seconda metà del X secolo, quando i Fatimiti affidarono l’isola alla stirpe dei Kalbiti, che l’avrebbero poi governata per un secolo come un emirato ereditario. Fu durante questo governo che la Palermo islamica visse il suo periodo più florido, la città crebbe per dimensioni e popolazione, migliorarono le condizioni di vita dei suoi abitanti e fiorirono nella sua corte l’arte e la letteratura. Possediamo una “fotografia” della città che risale a questo momento, quella scattata da Ibn Hawqal nel corso del suo viaggio in Sicilia. Il ritratto comincia con lo sguardo rivolto alle mura, che il geografo definisce “un immenso muro di pietra, alto ed enorme”13. Il sistema difensivo di Balarm antica infatti, dopo gli interventi di indebolimento eseguiti dai governanti a seguito dei tentativi di insurrezione della città, era stato messo nuovamente in funzione e rafforzato, all’interno di un più vasta operazione di fortificazione del territorio siciliano nel suo complesso. L’attenzione del visitatore si sposta dunque sulla struttura della città: essa appare divisa in cinque diverse zone: il nucleo antico fortificato, cui competeva propriamente il nome di Balarm, la seconda città murata, al-Khalisa e tre harat, ovvero quartieri, non ancora circondati da mura. Parlando del qasr, il nucleo fortificato, il viaggiatore iracheno 13 Maurici, 2015, p. 78 53
si sofferma sulle porte urbiche, il cui numero appariva come un indicatore dell’importanza della città: escludendo quelle della cittadella, Palermo ne contava dieci, consentendoci di associarla, per rango, alle contemporanee Cordova e Toledo in al-Andalus. All’interno della città murata il manufatto più importante era senza dubbio la moschea gami, che Ibn Hawqal definisce “molto grande, antica chiesa cristiana fino alla conquista” e che valuta potesse contenere fino a settemila persone durante la preghiera. Egli afferma inoltre che al suo interno ci fosse una bara di legno, “sospesa nel santuario”: si tratta di quella che era ritenuta la tomba di Aristotele, una “reliquia” verso cui i palermitani erano particolarmente devoti e che i nuovi fruitori del sacrario avevano conservato in un’ala del complesso, per consentirne ai cristiani la venerazione14. La descrizione si sofferma poi sul simat al balat, letteralmente “la grande via lastricata in pietra”, che attraversava Palermo per circa un chilometro, dalla Bab al-Bahr, la porta sul mare, fino al vertice opposto, dove si suppone ci fosse un altro accesso alla città, nei pressi dell’attuale Porta Nuova: si tratta dell’attuale corso Vittorio Emanuele II, erede dell’antico decumano di età romana, il cui tracciato ha caratterizzato da sempre il centro cittadino, pur avendo assunto nei secoli configurazioni anche molto differenti da quella attuale: al tempo dell’emirato islamico aveva l’aspetto, secondo Maurici, “di una via assai più stretta, meno rettilinea, fiancheggiata da edifici più alti della sua modesta larghezza ma molto verosimilmente più bassi di quelli attuali, poco luminosa”, che Ibn Hawqal descrive “occupata in tutta la sua lunghezza da numerosi edifici per il commercio”15: 14 Maurici, 2015, p. 85 15 Ibn Hawqal, Descrizione di Palermo, in Adalgisa De Simone, “Palermo nei geografi e viaggiatori arabi del medioevo”, Studi Magrebini, II, 1968, p. 139 54
Vista area di Palermo, si distingue facilemente il corso Vittorio Emanuele II, che attraversa la città fino al mare
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le mercanzie più prestigiose si trovavano nei pressi della moschea, mentre quelle attività meno illustri, che potevano causare odori sgradevoli o rumori, erano relegate nel tratto inferiore del tracciato, in prossimità del mare. Ci occuperemo infine del resoconto sui tre quartieri esterni della città, tralasciando la descrizione di al-Khalisa ad opera di Ibn Hawqal, già riporata in precedenza. L’harat al-Saqaliba, o “quartiere degli schiavoni”, si sviluppava a nord est della Balarm storica, oltre il fiume Papireto. Col termine saqaliba erano indicati sia gli schiavi che gli europei in generale, i quali componevano i contingenti militari di cui i fatimiti si servirono per combattere i bizantini: si pensa che questi fossero stati in un primo momento così numerosi da aver dato il proprio nome al quartiere, che col tempo sarebbe diventato il più esteso e densamente popolato della città. Il secondo quartiere è quello “della moschea di Ibn Saqlab”, posto in una zona a est e sud-est del Cassaro: meno popolato del primo, il mercante viaggiatore iracheno ne traccia, poco verosimilmente, il confine merdionale sul fiume Oreto e lo localizza in continuità con terzo agglomerato urbano, l’harat al-gidida, il “quartiere nuovo”, nei pressi dell’attuale piazza della Magione. In questi sobborghi extramuranei si trovava la maggior parte dei mercati, detti suq, che prendevano il nome dalla merce o dall’attività manifatturiera che ospitavano ed erano concentrati in aree omogenee. Vi erano anche moschee “di zona”, che servivano per le liturgie quotidiane: soltanto la preghiera del venerdì si svolgeva nella moschea principale, nel Cassaro. Ibn Hawqal parla addirittura di trecento moschee, comprese tra i due centri fortificati e la città fuori le mura, tuttavia questo dato dovrebbe essere trattato con estrema cautela. 56
La localizzazione degli harat in una carta storica della città, Columba
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Si potrebbe infatti pensare che l’autore voglia tessere le lodi dei palermitani per la loro religiosità, si tratta piuttosto del contrario: il viaggiatore, che in numerose occasioni assume un atteggiamento esplicitamente critico verso i costumi dei musulmani di Palermo, ritiene infatti che un numero così cospicuo di luoghi di culto dipenda dalla superbia e dalla vanità dei cittadini di Balarm, ciascuno dei quali “desiderava possedere una propria moschea riservata alla quale nessuno avrebbe avuto accesso tranne la sua famiglia e la sua clientela”16. Secondo Maurici il ritratto di Ibn Hawqal inserisce Palermo, pur con le sue specificità e peculiarità, nel quadro della “città medievale arabo-islamica multiforme, differenziata e gerarchizzata”. Le fonti successive, come “Il libro delle curiosità e delle meraviglie per gli occhi”, un anonimo trattato cosmologico redatto agli inizi del XI secolo, testimoniano un’ulteriore espansione della città fuori le mura e la realizzazione di una nuova cinta a difesa dei sobborghi esterni al nucleo antico. Emerge inoltre l’immagine di una città meno influente, slegata da un territorio che col tempo si era disgregato e frammentato in potentati locali: la Palermo islamica tuttavia, con una popolazione compresa tra i cinquantamila e i centomila abitanti, restava una metropoli del dar al-islam, ovvero quella parte di mondo controllata e governata dai musulmani. Di lì a poco, con l’entrata in scena degli Altavilla, la parentesi islamica della città si sarebbe conclusa e sarebbe iniziata un’altra epoca di fasti e magnificenze: l’identità della Palermo araba, in parte integrata a quella dei nuovi governanti normanni, in parte lentamente affievolita con il progressivo esilio dalla città dei “saraceni”, sarebbe stata infine completamente dimenticata.
16 cfr. Maurici, 2015, p. 92 58
Ruggero I di Sicilia alla battaglia di Cerami, Prosper Lafaye, 1860 ca
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Una storia dimenticata
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Riproduzione di un’iscrizione araba rinvenuta su una colonna della cattedrale di Palermo, pagina tratta dal “Rerum arabicarum quae ad historiam siculam spectant”, Rosario Gregorio, 1790
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L’eredità dei musulmani La storia islamica della Sicilia trovò la sua conclusione in un episodio analogo a quello che ne permise l’avvio. Nel 1053 si era interrotta la dinastia kalbita, che per quasi un secolo aveva governato l’emirato siciliano: il territorio era frazionato in minuscoli principati indipendenti, che per circa un ventennio si contesero il potere sull’isola. Lo scontro decisivo avvenne tra il governatore di Catania Ibn ath Thumna e il signore di Castrogiovanni e Girgenti, Ibn alHawwas: il primo, dopo aver assediato senza successo l’odierna Enna, abbandonato dai suoi, decise di rivolgersi ai Normanni, invitando Ruggero d’Altavilla a invadere e conquistare l’isola per suo conto1. Questi nel 1061, insieme al fratello Roberto il Guiscardo, sbarcò a sud di Messina e, dopo averla presa, si diresse verso Castrogiovanni; la città resistette, ma i territori circostanti furono occupati dai fratelli normanni, che li resero all’alleato musulmano, con l’eccezione di Messina, che tennero come base sull’isola. Proprio da questa città, dopo un anno, Ruggero riprese la campagna militare: assoggettò Troina e Petralia, uccise a tradimento Ibn ath Thumna e dunque proseguì con la conquista dell’isola. Gli aiuti che dalla madrepatria in Ifriqiya vennero inviati in Sicilia non riuscirono ad alterare gli equilibri delle forze in campo; a far precipitare la situazione si aggiunsero le lotte fratricide tra i musulmani siciliani: gli africani intervenuti a supporto dei loro alleati si scontrarono in battaglia con Ibn al-Hawwas, che trovò la morte proprio in quell’occasione. Roberto e Ruggero dunque, dopo la vittoria a Cerami nel 1063, che aveva assicurato loro il controllo della parte nord orientale dell’isola, si diressero verso Palermo. 1 Francesco Gabrieli, Umberto Scerrato, 1979, p. 87 63
Pur avendo resistito ad un lungo assedio, la città si arrese nel gennaio del 1072: dopo duecentoquaranta anni Balarm cessava di essere una città islamica. I normanni controllavano a questo punto la porzione settentrionale della Sicilia, ovvero gran parte del Val di Mazara e del Val Demone: l’attenzione di Ruggero, che intanto era stato nominato dal fratello Conte di Sicilia, si rivolse dunque al Val di Noto. Qui emerse l’ultimo campione dell’islam siciliano, il leggendario condottiero Benavert, signore di Siracusa, che si oppose per due decenni alla penetrazione normanna dell’isola. Cionostante nel 1086 la flotta di Ruggero ebbe la meglio su Benavert nel porto della città, l’anno dopo caddero Girgenti e Castrogiovanni e infine nel 1091, con la resa di Noto e di Butera, si era conclusa la conquista degli Altavilla. Il dominio normanno non significò una rapida disarabizzazione e disislamizzazione della Sicilia e l’influsso della cultura musulmana durò fino ai primi decenni del XIII secolo. Mentre in Spagna, in quegli stessi anni, le forze indigene muovevano i primi passi verso la reconquista, sull’isola fu una forza esterna a porre fine alla supremazia islamica. I Normanni, che furono una minoranza direttiva e organizzativa, trattarono dunque gli Arabi come uno dei tanti elementi etnici con cui si trovavano a interagire all’interno della composita popolazione siciliana; il loro atteggiamento fu privo di rancori razziali o di pregiudizi basati sull’orgoglio nazionale. La restaurazione che essi misero in atto riguardò solamente la religione: sul piano culturale, politico ed economico essi si sentirono liberi di scegliere qualsiasi elemento preesistente in base all’opportunità, senza rifiutare nulla a priori 2 . 2 cfr. Francesco Gabrieli, Umberto Scerrato, 1979, pp. 94-96 64
Dettaglio, Ruggero I di Sicilia riceve le chiavi della città, Giuseppe Patania, 1830
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Riproduzione di iscrizioni lapidee conservate al Regio Museo dell’Accademia, Rosario Gregorio, 1790
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Su queste premesse sono basati il sincretismo e la tolleranza dei Normanni, fenomeni che avrebbero suscitato la meraviglia e talvolta l’ammirazione sia dei contemporanei che delle società delle epoche successive. L’eredità islamica accolta dagli Altavilla riguardò da una parte le forme e la gestione del potere e dall’altra si tradusse nell’influenza che la cultura e le arti islamiche ebbero all’interno della società normanna. Secondo Gabrieli l’influsso arabo più importante fu “nella organizzazione della corte regia, nei suoi titoli uffici e costumi, nelle manifestazioni del cerimoniale, della cancelleria, della moneta”3. I tre maggiori sovrani ebbero un titolo arabo al pari dei califfi; arabo era anche il motto, detto alama, con cui autenticavano i documenti; è attestata infine la conoscenza personale della lingua e delle lettere arabe da parte dei re e dei loro alti funzionari di corte. Al di fuori della corte, le tracce di questa cultura dell’Islam di Sicilia, sono accomunate da un filo conduttore, ovvero “l’epiteto di siciliano (siqilli) che le fonti biografiche e bibliografiche arabe ci tramandano su singoli autori, anche se vissuti e operanti fuori dell’isola, e per i più in età posteriore al diretto dominio arabo colà”4. È destinato tuttavia all’insuccesso il tentativo di cogliere, all’interno della produzione di questi autori “siciliani”, tratti e caratteristiche peculiari, che li distinguano dalle tendenze generali della cultura musulmana dell’epoca. L’ecumene islamica era infatti caratterizzata da una unitarietà e una omogeneità culturale alla quale venivano spesso sacrificate le specificità e le particolarità locali. 3 Francesco Gabrieli, Umberto Scerrato, 1979, p. 102 4 Ibidem, p. 167 67
La Sicilia araba non fece dunque eccezione alla dimensione internazionalistica del dar al-islam. Come nel resto dell’ecumene islamica dunque, un ruolo di rilievo spettava alle scienze religiose, ovvero l’esegesi del Corano, il diritto e la mistica, seguite da filologia e grammatica e infine da storiografia, letteratura e poesia5. Le scienze profane invece, quelle degli “antichi”, comprendevano filosofia, matematica, medicina e astronomia. Questo carattere di universalità investì anche il campo delle arti figurative e delle arti applicate, che costituiscono la parte più concreta e tangibile della pur esigua eredità trasmessa ai giorni nostri dalla cultura arabo-sicula. L’Islam in quanto religione legalitaria, che tende cioè a regolare ogni momento della vita quotidiana, ha finito per condizionare anche tutte le manifestazioni espressive e dunque artistiche dell’individuo. Come afferma Scerrato, “la sostanziale unità estetica della civiltà artistica islamica è da ricercare quindi [...] nella unitarietà della cultura religiosa islamica, la quale ha come principio basilare che Dio soltanto è immutabile ed eterno”6. Il tempo viene dunque concepito come un susseguirsi sconnesso di istanti, le forme sono figure accidentali in continua mutazione, che non possono esistere di per sé, cioè al di fuori dell’atto creativo di Dio, dotato di incorporeità e ubiquità e dunque impossibile da raffigurare. In contrapposizione all’ideale classico, l’uomo viene meno quale soggetto che percepisce e valuta il mondo e la natura non è più la fonte d’ispirazione dell’arte. 5 Francesco Gabrieli, Umberto Scerrato, 1979, p. 168 6 Ibidem, p. 276 68
I motivi ornamentali geometrici e vegetali nelle decorazioni della moschea di Isfahan, Iran, 1453
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Dettaglio dell’apparato decorativo del complesso di Qutb, Nuova Dehli, 1206
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Il rifiuto della rappresentazione figurativa determina l’assenza, quantomeno nella decorazione di luoghi pubblici e edifici religiosi, della figura umana: vengono dunque meno i sacramenti, le cerimonie si riducono e sono assenti i simboli. L’ornato, liberato dal simbolismo e dall’esigenza di assumere un significato oggettivo e universalmente riconoscibile, si indirizza quindi verso forme stilizzate e astratte. Da ciò conseguono la predilezione per una decorazione bidimensionale e la tendenza a disgregare la struttura delle cose: la superficie di un oggetto, o di un edificio, viene ricoperta da un pattern di motivi astratti, che nega ogni relazione di analogia o identità con la struttura sottostante. Si può dunque constatare come l’apparato decorativo islamico, per soddisfare le proprie esigenze, si sia avvalso di tre principiali tematiche ornamentali: quella vegetale, quella geometrica e quella calligrafica7. Nel primo caso il punto di partenza fu il tralcio di foglie ellenistico che, liberato da ogni connotazione accidentale o temporale, in accordo con la concezione antinaturalistica, assunse una configurazione canonica in cui risulta impossibile riconoscere la tipologia di pianta rappresentata. Le parti in cui si articola l’oggetto vegetale sono smontate e riassemblate per assecondare un ritmo geometrico potenzialmente infinito: la composizione può essere interrotta in qualsiasi momento senza che la sua leggibilità venga compromessa. Il secondo tema è quello geometrico: la cultura islamica ebbe accesso alle nozioni geometrico-matematiche dei greci e ne sviluppò la ricerche nell’ambito della modularità e della proporzione, ottenendo una complesso sistema decorativo basato sui poligoni generatori stellari. 7 Francesco Gabrieli, Umberto Scerrato, 1979, p. 277 71
In ultimo la calligrafia, che si può ritenere l’arte islamica per eccellenza. Scerrato scrive che “per il musulmano il Corano è la parola immediata di Dio rivelata a Muhammad, [...] per cui non solo il significato della pagine del Corano è ispirato ma è divina ogni parola e ogni lettera”8. La scrittura, investita dunque di un potente significato sacrale e caratterizzata per definizione da astrazione e artificiosità, fu uno strumento ideale al servizio dell’estetica antinaturalista islamica, specialmente in campo religioso. A causa di alcune caratteristiche della lingua araba e delle configurazioni elaborate che i caratteri assumono quando vengono usati a fini decorativi, la leggibilità delle iscrizioni non è sempre immediata: tuttavia questa esigenza non è particolarmente rilevante, assume maggior valore la suggestione simbolica dei grafi, che diventano evocativi per i musulmani quanto le iconografie cristiane per gli occidentali. Volgendo infine lo sguardo all’architettura, “i volumi sono definiti e netti, ma su di essi agirà come elemento «disgregatore» l’epidermide decorativa. Le masse murarie vengono intaccate da nicchie e specchiature in negativo più che da elementi in positivo. Le cornici e le lesene hanno aggetti modesti e non sono proiezioni strutturali, ma elementi di definizione della superficie decorativa, creando un rapporto di ambiguità tra le strutture e l’involucro”9.
8 Francesco Gabrieli, Umberto Scerrato, 1979, p. 278 9 Ibidem, p. 280 72
Dettaglio delle arcatelle cieche, Palazzo della Cuba, Palermo, 1180
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Una lettera di Salinas indirizzata ad Amari, 1884
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Il contributo di Amari e Salinas Una volta che l’elemento islamico venne meno, in parte assorbito ed in parte espulso dalla società isolana, anche la vicenda della dominazione musulmana fu poco a poco dimenticata dalla storiografia. I primi studi si avviarono nel XVIII secolo sulla spinta del governo borbonico, che ispirandosi a una indefinita e oscura tradizione amministrativa araba, tentava di combattere il sistema del latifondo, basandosi sull’autorevolezza di alcuni documenti “saraceni”, che si sarebbero poi rivelati contraffatti, e sulle competenze di pseudoaccademci che improvvisavano la conoscenza della lingua araba10. Nonostante queste premesse, si sviluppò un notevole interesse per l’arabistica: i pionieri di questi studi, seppur privi di qualsiasi valore scientifico, contribuirono alla diffusione di questa disciplina, tanto che nel 1785 venne istituita presso l’Università di Palermo una cattedra di lingua araba. Fu solo Michele Amari, nel secolo successivo, a imprimere una svolta agli studi orientali in Italia, portando alla luce, con rigore accademico, una storia siciliana fino a quel momento sconosciuta. Nato a Palermo nel 1806, si avvicinò progressivamente allo studio della lingua araba e della civiltà islamica finchè non si trasferì a Parigi, verso la fine della prima metà del secolo, per approfondire la conoscenza della lingua in modo da poter accedere direttamente alle fonti islamiche del medioevo siciliano. Grazie allo studio meticoloso e accurato di decine di manoscritti conservati alla Biblioteca Imperiale di Parigi, egli pubblicò a 10 Ali Kalati, “Storia dell’insegnamento dell’arabo in Italia (II parte: Palermo e Venezia)”, in Giuseppe Contu (a cura di), Annali della Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Sassari, Sassari, Università degli studi di Sassari, p. 281 75
partire dal 1854 la “Storia dei Musulmani di Sicilia”, che rimane tuttora l’opera principale prodotta dalla storiografia sulla vicenda islamica in Sicilia. Negli anni successivi, tornato in Italia, avrebbe dapprima occupato a Pisa la cattedra di lignua araba nel 1859 e infine avrebbe inaugurato a Firenze tra gli anni sessanta e settanta, presso l’Istituto di Studi Superiori, una ricca stagione dell’arabistica italiana. Qualche tempo prima, verso la fine degli anni cinquanta dell’Ottocento, Amari, già storico affermato, aveva incontrato per la prima volta il giovane archeologo Antonino Salinas, secondo protagonista di questa vicenda11. Questi, che si avvicinava in quegli anni allo studio della cultura islamica, dapprima trovò in Amari un mentore capace di indirizzarlo nel percorso accademico e in seguito stabilì con il noto arabista un sodalizio intellettuale che li avrebbe legati per più di trent’anni, testimoniato da un ricco e continuo scambio epistolare. All’interno di questa collaborazione va collocata la nomina di Salinas nel 1873 a direttore del Regio Museo Nazionale di Palermo, certamente non estranea all’influenza politica di Amari, che nel frattempo aveva ricoperto incarichi prestigiosi nelle istituzioni del neonato Regno d’Italia12 . “L’antica predilezione pei così detti monumenti classici è stata grave cagione di danno alla Sicilia e al Museo Palermitano, sicchè io stimo necessario il dichiarare più di proposito quali siano le mie idee in ordine alle opere delle arti del Medio-Evo. L’avere stabilito che il Museo di Palermo debba accogliere, intera, la storia delle 11 Maria Amalia De Luca, “Il contributo di Bartolomeo Lagumina alla formazione e allo studio delle collezioni islamiche del R. Museo nazionale di Palermo”, Notiziario Archeologico della Soprintendenza di Palermo, 11, 2016, p. 3 11 Ibidem, p. 4 76
La sala araba al Museo Nazionale, 1905-1915 ca
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La sala araba al Museo Nazionale, 1905-1915 ca
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arti siciliane, mostra che io non intenda farmi seguace di quella scuola che ancor oggi guarda con disprezzo tutto quanto non sia greco o romano... Io non comprendo come, a considerare le opere dell’arte medievale e moderna in Sicilia, non si provi diletto vedendo quanto parecchie altre civiltà operarono nelle nostre fabbriche normanne, nella Cappella Palatina, nella Martorana, nel nostro Duomo...” Così Salinas si rivolgeva agli studenti di Palermo all’inaugurazione dell’anno accademico del 187313. Appare chiaro, nella sua concezione museografica, il principio secondo il quale l’istituto museale dovesse illustrare nel modo più esaustivo possibile lo sviluppo delle arti siciliane nel suo complesso, senza tralasciare nessun periodo e alcuna matrice culturale. Alla luce di questo programma e dell’interesse di Salinas negli studi orientali diventa facile capire come sia sorta l’idea di dare ampio spazio e visibilità all’arte islamica siciliana, che costitutiva inoltre un tratto peculiare e originale dell’identità isolana, in contrapposizione al resto del territorio italiano, che non poteva annoverare quella tradizione culturale tra le altre che ne avevano definito l’identità. Dapprima gli “oggetti arabi” costituirono una sezione all’interno della Galleria del Medioevo del museo regio; poco a poco, grazie alle nuove acquisizioni e alle copie dei più importanti manufatti palermitani che Salinas fece realizzare nel corso del tempo, prese corpo la “sala araba”, nella configurazione che vediamo ritratta nelle fotografie risalenti ai primi anni del XX secolo. Dopo la morte di Salinas nel 1914 e con l’instaurazione del regime fascista nel decennio successivo, l’interesse della direzione si concentrò di nuovo in prevalenza sulle antichità greco-romane. 13 De Luca, 2016, p. 3 79
La sala araba al Museo Nazionale, 1920 ca
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I musei cittadini furono poi svuotati durante la seconda guerra mondiale, per sottrarre le opere al rischio dei bombardamenti. Maria Amalia de Luca, docente di lingua araba presso l’Università degli Studi di Palermo, sostiene che fu quello il momento in cui ebbe luogo la disgregazione della collezione islamica: dopo la guerra infatti, il processo di riconfigurazione degli allestimenti delle istituzioni museali cittadine si occupò solo in parte di quella raccolta14. Alcuni pezzi furono inclusi nell’esposizione di palazzo Abatellis, curata da Carlo Scarpa negli anni cinquanta; più recentemente parte dei manufatti sono stati inseriti nel palazzo normanno della Zisa, in seguito al restauro avvenuto negli anni novanta. La maggior parte della collezione tuttavia si trova confinata nei magazzini di diversi musei palermitani oppure, come nel caso delle epigrafi, denunciato da De Luca, esse furono esposte provvisoriamente nella loggetta di Palazzo Abatellis e “giacciono ancora là, annerite dalle intemperie e confusamente ammassate sul pavimento senza ordine né adeguate didascalie, malgrado il loro valore storico-artistico e in spregio all’impegno e all’abnegazione con cui l’Amari ed il Salinas le collezionarono e le studiarono affinché raccontassero ai posteri il passato islamico della Sicilia”15.
14 De Luca, 2016, p. 15 15 Ibidem 81
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La collezione L’allestimento della sala araba ad opera di Salinas ha consentito che la sezione di arte islamica ricevesse per la prima volta una reale dignità museografica, ottenendo notevole visibilità e una possibilità di fruizione senza precenti. Il processo di formazione della collezione, tuttavia, era inziato molto tempo prima: il Regio Museo infatti, isituito nel 1866 dopo l’unificazione nazionale ed erede del museo universitario, nel corso del tempo avrebbe acquisito le collezioni di numerosi istituti museali cittadini. Il Museo della Regia Università, fondato all’inizio del XIX secolo, aveva già acquisito, verso la metà del secolo, le testimonianze di arte islamica che si trovavano al Museo della Bibblioteca comunale di Palermo. Confluirono poi al Museo Nazionale le collezioni del più antico museo cittadino, il Salnitriano, fondato dai gesuiti nel 1730. Sin dagli inizi del diciannovesimo secolo è attestata la presenza nella collezione del museo di oggetti di arte islamica, tra cui figuravano, secondo De Luca “monete, ceramiche, iscrizioni e metalli, sia di produzione siciliana che d’importazione”16. Nel 1860 la Sicilia era entrata a far parte del Regno d’Italia e dunque si applicava anche sul suo territorio la legge che prevedeva la soppressione dell’ordine dei gesuiti: nella difficile fase di transizione amministrativa che ne seguì il museo rimase incustodito e il suo patrimonio fu oggetto di numerosi furti, prima che l’amministrazione pubblica si adoperrasse per metterlo in sicurezza. Nel corso degli anni sessanta altri due provvedimenti contribuirono ad arricchire la collezione del Regio Museo: dal 1863 una disposizone prevedeva l’obbligo di depositare presso l’istituto tutti 16 De Luca, 2016, p. 5 83
gli oggetti che sarebbero stato rinvenuti nelle campagne archeologiche nelle province di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta e nel 1866 fu imposta la confisca dei beni ecclesiastici. Una più cospicua raccolta di antichità arabo-siciliane si aggiunse alla collezione del museo nel 1869, con l’acquisizione delle spoglie del museo Martiniano, fondato dai benedettini nel 1744. In questo caso lo stesso Salinas compilò il catalogo del patrimonio museale, nel quale i pezzi islamici consistevano in dischi e vasi di ottone riccamente decorati, “esemplari de’ vasi rossi e bianchi”, “grandi piatti di maiolica”, “gli oggetti d’osso e d’avorio”, steli e colonne di marmo e infine monete d’oro, d’argento e di paste vitree17. Il processo di acquisizione delle collezioni dei musei cittadini fu gestito in modo improrio dal direttore del Museo Nazionale dell’epoca: a causa della lentezza e dell’inefficienza dell’operazione vi furono numerosi e ripetuti furti. Con la direzione di Salinas la situazione cambiò radicalmente: il nuovo direttore si impegnò ad accelerare il trasferimento dei manufatti per renderli fruibili nella nuova sede del msueo, curò il censimento di tutto il materiale islamico risalente al periodo musulmano e alla successiva fase della dominazione normanna, pubblicò, con il contributo di Amari, un corpus di tutte le iscrizioni in arabo presenti in Italia e infine si dedicò all’allestimento della già citata sala araba. Al giorno d’oggi, nonostante la dispersione della collezione, le informazioni essenziali relative ai reperti islamici che apprtennero al Regio Museo Nazionale sono state raccolte da De Luca in un saggio pubblicato dal Notiziario Archeologico della Soprintendenza di Palermo, che ci consente di stimare la consistenza e le caratteristiche della collezione di arte islamica. 16 Antonino Salinas, Breve guida del museo nazionale di Palermo, Palermo, Tipografia del Giornale di Sicilia, 1875 84
Tavola sinottica dei manufatti islamici appartenuti al Museo Nazionale, Maria Amalia De Luca, 2016
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In basso e a destra: tavole sinottiche dei manufatti islamici appartenuti al Museo Nazionale, Maria Amalia De Luca, 2016
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Tavola sinottica dei manufatti islamici appartenuti al Museo Nazionale, Maria Amalia De Luca, 2016
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Tavola sinottica di alcuni gettoni vitrei appartenenti al medagliere del Museo Nazionale, Maria Amalia De Luca, 2016
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La Kalsa
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Piazza Marina (sullo sfondo) fotografata da via Lungarini
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La Kalsa figura, insieme all’Albergheria, al Seralcadio e alla Loggia, tra i quattro mandamenti del centro storico di Palermo. L’area racchiusa all’interno delle mura rinascimentali è divisa in quattro dal Cassaro, l’antica via della città che conduce al mare, e da via Maqueda, l’asse longitudinale realizzato durante il governo spagnolo. Il quartiere, chiamato anche mandamento Tribunali poichè ospitò a palazzo Chiaramonte-Steri il tribunale dell’Inquisizione, è dunque delimitato dal tratto orientale di via Vittorio Emanuele, dalla porzione merdionale di via Maqueda, dal tracciato delle mura a sud e infine dal mare ad est. La denominazione del quartiere fa chiaramente rifeimento al toponimo al-Khalisa, il “titolo” della cttadella realizzata dai Fatimidi nel corso del X secolo. La toponomastica è l’unica traccia di questo complesso arrivata sino a giorni nostri: nonostante la storiografia abbia elaborato diverse ipotesi circa la localizzazione di questo nucleo fortificato, ad oggi non vi è alcuna evidenza archeologica della sua esistenza. Nella successiva fase del governo normanno, le mura della cittadella vennero abbattute e l’area fu così inglobata nel resto del tessuto urbano. I nuovi signori di Palermo si dedicarono inoltre a regolarizzare e rafforzare la cinta muraria esterna, che i mulsulmani avevano eretto per proteggere gli insediamenti che si erano sviluppati fuori dalla città vecchia. In seguito, nella prima metà del cinquecento furono i vicerè spagnoli ad ammodernare il sistema difensivo della città per adeguarlo alle nuove armi da fuoco: il tracciato di quelle mura avrebbe fissato il perimetro del centro storico nella sua attuale configurazione e le porte e i frammenti di quella cinta sono ancora visibili in numerosi punti della città. 93
Piazza della Magione, ortofoto, 2012
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Risale al sedicesimo secolo anche la realizzazione di via Maqueda, la direttrice verticale, pressocchè ortogonale al Cassaro, che suddivide il nucleo della città in quattro quadranti. Un’operazione simile fu eseguita alla fine dell’ottocento, durante le operazioni di sanificazione previste dal primo piano urbanistico della città, il piano Giarrusso. Un nuovo asse verticale fu imposto al tessuto urbano col taglio di via Roma, la parallella di via Maqueda che incontra il corso Vittorio Emanuele II nella celebre piazza ottagonale dei Quattro Canti. Successivamente il quartiere fu interessato dai bombardamenti degli alleati durante la seconda guerra mondiale e dalle demolizioni effettuate tra gli anni quaranta e sessanta in vista del nuovo piano regolatore, che prevedeva un collegamento viario diretto tra il porto e la stazione ferroviaria: risale a questo periodo ad esempio il grande vuoto urbano di piazza della Magione. Negli ultimi tempi la zona è stata oggetto di numerosi interventi di restauro e di recupero, che ne stanno gradualmente ridisegnando l’aspetto.
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La loggia dell’oratorio dei BIanchi vista dall’area di intervento
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Il sito Il sito di intervento si trova nella porzione sudorientale del quartiere, tra piazza della Kalsa e piazza della Magione. Si tratta di due isolati posti tra la piazzetta dei Bianchi e via dello Spadaro e della porzione settentrionele dell’isolato che affaccia su via di Santa Teresa, delimitato a sud dalle mura cinquecentesche. Le aree sono in prevalenza sgombre o occupate da fabbriche allo stato di ruderi, come conseguenza dei bombardementi del 1943 e di successive demolizioni. Il piano regolatore del comune prevede la demolizione dei ruderi e degli edifici esistenti e consente la riedificazione. Per quanto riguarda la corte dell’isolato a meridione, è prevista la demolizione dell’edificio che vi sorge al centro e la restituzione dell’area a verde pubblico.
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L’area di intervento vista da via dello Spasimo
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Immagine aerea del sito. In rosso i lotti interessati dall’intervento.
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Palazzo Abatellis
Piazza della Kalsa
Chiesa di Santa Teresa Chiesa di Santa Maria della Vittoria e oratorio dei Bianchi
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Il progetto
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Planivolumetrico
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Il progetto nasce dall’intenzione di ricucire il tessuto della città. Le due frabbriche, che insistono sulle impronte delle costruzioni preesistenti, ridefiniscono tre spazi urbani: la strada, la piazza e la corte. Il volume compatto del museo e quello allungato del centro documentale si fronteggiano lungo via di Santa Teresa, la strada. Lungo il suo percorso si alternano i punti di accesso agli edifici e agli spazi pubblici. A partire da piazza della Kalsa, a meridione lo scarto della stecca consente l’accesso alla biblioteca; proseguendo, a nord il fronte del museo, che arretra a vantaggio della loggia dell’oratorio, si apre per consentire l’ingresso nella hall; ancora a sud, lungo il prospetto cieco del centro documentale, una foratura attraversa la fabbrica e conduce al giardino, la corte. All’estremità opposta, dove il tracciato si piega e la strada prosegue in via dello Spasimo, a settentrione si accede alla piazza, dove l’oratorio dei Bianchi e il museo si affrontano, circondati dalle residenze; infine a sud, dove il tessuto urbano diventa più rarefatto, un portale consente l’accesso all’auditorium.
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Veduta esterna da via dello Spasimo
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Esploso assonometrico: quota +11.00
museo esposizione permanente sala multimediale
quota +5.50 | +4.50
museo esposizione centro documentale foyer sala conferenze servizi sala lettura uffici
quota 0.00
museo hall esposizione temporanea bookshop servizi centro documentale foyer locali tecnici caffetteria servizi hall sala lettura
quota -4.00
museo magazzini locali tecnici centro documentale archivi sala consultazione
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Veduta esterna dalla piazzetta dei Bianchi
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Il museo di arte islamica Predisporre una nuova sede per ospitare la collezione messa a punto da Salinas è il fine verso cui muove l’intera proposta progettuale. Il museo origina da un volume compatto, un parallelepipedo squadrato, che si deforma a contatto con la città: lo spigolo contrapposto alla loggia si ritrae, le facce ruotano e si spezzano, concedendo l’ingresso all’edificio. La fabbrica ricalca le tracce degli isolati compresi tra via Savona e via Santa Teresa e si compone di tre livelli fuori terra, che ospitano il percorso espositivo, e di un piano interrato, riservato ai magazzini e ai locali tecnici. La scansione dei piani è suggerita, all’esterno, dalla variazione della finitura del calcestruzzo a vista: le impronte dei casseri si allungano e diventano più ampie; la pelle grezza e accidentata del basamento lascia il posto all’impronta ordinata delle assi lignee al primo piano, per diventare poi una superficie liscia e lucida all’ultimo livello. La calcarenite gialla, che caratterizza a colpo d’occhio l’immagine di Palermo, emerge quale filo conduttore dell’architettura della città. Essa si scorge nelle architetture immediamente successive al periodo arabo, nella cattedrale e nel palazzo dei Normanni e costituisce la veste lapidea dei palazzi e delle chiese dal Medioevo all’età moderna. Ancora, nell’area di intervento, è possibile scorgerla sui pilastri e le arcate della loggia e sull’intero paramento murario della chiesa di Santa Teresa. Nel progetto essa è evocata dal pigmento sulle tonalità del giallo sabbia, che caratterizza il calcestruzzo in tutto il complesso. 111
Opposto alla loggia, l’ingresso principale dalla piazza dei Bianchi è definito da uno scavo, un taglio stereometrico sulla facciata. Si accede dunque al nucleo dell’edificio, un vuoto a tutta altezza attorno a cui si articolano i tre volumi che ospitano l’esposizione e il sistema di distribuzione verticale. Alla penombra del vestibolo si contrappone il chiarore dell’interno: la copertura a shed intaglia la luce in lame sottili che percorrono le alte pareti in calcestruzzo fino al pavimento, dove accendono in un bagliore il botticino di Sicilia. Sulla sinistra, due aperture consentono l’accesso alla sala dell’esposizione temporanea: uno spazio regolare, adattabile alle diverse modalità di allestimento che differenti opere e collezioni possono esigere. La penombra dell’ambiente, cieco sui quattro lati, si interrompe improvvisamente ad una estremità della sala, dove un canon à lumière, che si innalza per tutta l’altezza dell’edificio, convoglia e proietta i raggi del sole sulla parete di fondo. All’uscita, in posizione opposta all’ingresso, la scala che ricade dal volume sospeso suggerisce la prosecuzione del percorso espositivo. Al piano superiore, la prima sala, completamente cieca, è rischiarata dall’illuminazione delle teche che si articolano in due fasce: la prima, sospesa, ospita i gettoni vitrei del medagliere; nella seconda, un nastro a tutta altezza che si snoda lungo due pareti, trovano posto i pannelli a mashrabiyya della raccolta Iacovelli. Questi elementi architettonici, tipici dell’architettura islamica tradizionale, che li vede impiegati come schermature delle finestre, sono costituiti da piccoli elementi in legno intarsiato, assemblati secondo un disegno geometrico modulare basato perlopiù sulle forme del triangolo, del quadrato e dell’esagono. 112
Prospetto sud occidentale, planimetria del piano terra
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Veduta della hall di ingresso del museo
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Prospetto sud orientale del museo, sezione trasversale su via di Santa teresa, sezione longitudinale del museo
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Veduta della sala dell’esposizione temporanea
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Veduta di una sala dell’esposizione permanenente al primo piano
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La traforatura fine così ottenuta facilita il passaggio delle correnti d’aria e al tempo stesso consente la protezione dai raggi del sole. All’uscita della sala una passerella consente di raggiungere il volume prospisciente: è questo il punto in cui il corpo compatto e denso dell’edificio si assottiglia e si dirada. Verso l’esterno, la parete piena in calcestruzzo cede il posto a un fine tessuto metallico: un sottile nastro d’acciaio, che si avvolge intorno ai correnti fila dopo fila, consente lo sguardo sulla piazza e sull’oratorio. Verso l’interno, le esili ringhiere metalliche proiettano la visuale dell’osservatore nel grande vuoto delll’atrio. All’ingresso della seconda sala, il chiarore cede di nuovo il passo alla penombra e lo spazio risulta compresso al di sotto di un ballatoio, sulla destra una teca illumina debolmente l’ambiente ed esibisce la corrispondenza tra i protagonisti che nel diciannovesimo secolo diedero avvio alla collezione. Volgendo lo sguardo in direzione oppposta, oltre i frammenti di colonne che si stagliano come sospesi al di sopra dei piedistalli, la parete antistante appare articolarsi in una illegibile combinazione tridimensionale di superifici triangolari. Dopo aver raggiunto il centro della sala, alzando lo sguardo, si coglie l’oggetto nella sua integrità: una superficie curvilinea si innalza dal pavimento per due livelli, percorsa per tutta la sua estensione da file parallele di lacunari romboidali; al culmine, mentre questa si ripiega verso la parete opposta, una trave ne arresta lo sviluppo e consente l’ingresso della luce zenitale. La griglia di cassettoni piramidali, concatenati e accavallati uno sull’altro, confina il calcestruzzo in una forma dalla pelle sfaccettata, in una concrezione cristallina che allude alle configurazioni geometriche delle strutture voltate dell’architettura islamica. Si tratta del muqarnas, una soluzione decorativa originata dalla 121
Veduta di una sala dell’esposizione permanenete al piano primo
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Sezione trasversale su via di Santa Teresa, planimetria del piano secondo
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scomposizione di una superficie concava in nicchie regolari con lo scopo di collegare pareti e coperture raccordando forme geometriche differenti. In questo caso l’intreccio elaborato di elementi piani e curvilinei che compongono il motivo tradizionale si traduce in una struttura lineare ad un solo asse, riconducibile alle figure geometriche del cilindro parabolico e della piramide. Sul ballatoio che attraversa longitudinalmente la sala, una struttura in acciaio sorregge i numerosi frammenti di iscrizioni lapidee, in lingua araba, risalenti all’epoca della dominazione islamica. La luce, che giunge dal taglio nel soffito, investe prima la passerella, per poi riflettersi e riversarsi lungo la superficie increspata della copertura parabolica, fino a giungere, ormai rarefatta, al piano di calpestio. Giunti infine al terzo livello, il percorso si conclude con l’esposizione dei metalli e dei manufatti in ceramica. All’accesso, il bagliore proveniente dalla parete di fondo appare frantumato e scomposto in minuscole scaglie. Le tessere che compongono questo mosaico luminoso sono tenute insieme da un’apparecchiatura di blocchi triangolari in calcestruzzo. Ancora una volta la parete solida e continua si dissolve nelle forature geometriche dei blocchi, che giustapposti compongono un reticolo geometrico di esagoni e triangoli, che la luce proietta infine sul pavimento in parquet. Alla sommità dell’infisso che scherma la gelosia, il soffitto ricala e si deforma in una superficie convessa che segue l’andamento di una catenaria. Proseguendo l’asse longitudinale della sala, oltrepassata la stanza delle proiezioni, un andito conduce ad un’apertura: oltre la chiesa di Santa Teresa e la piazza della Kalsa, sullo sfondo si staglia il volume della Porta dei Greci, l’ultimo baluardo della città prima del mare. 125
Veduta di una sala dell’esposizione permanente al piano secondo
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Prospetto sud orientale del centro documentale, planimetria del piano primo
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Il centro documentale Fronteggiando il museo a meridione, il corpo longilineo del centro documentale si sviluppa per quasi tutta l’estenzione di via Santa Teresa. La fabbrica ridefinisce e completa quell’isolato, del quale costituisce il fronte settentrionale, compreso tra via Sopra le Mura, via Nicolò Cervello e il tratto delle mura cinquecentesche. L’edificio si compone di due livelli fuori terra, che ospitano la biblioteca, la sala conferenze e la caffetteria e di un piano interrato, riservato al pozzo librario: è ancora una volta il calcestruzzo, nelle sue diverse finiture, a rivelare all’esterno la successione dei livelli. A settentrione la cortina muraria si interrompe in corrispondenza dell’accesso al museo dalla strada, al livello superiore il tessuto metallico sostituisce il paramento in calcestruzzo, in basso una foratura attraversa completamente l’edificio, consentendo il collegamento con la corte posteriore. Addentrandosi nel varco tra i due volumi, la parete vetrata sulla destra segnala la presenza della caffetteria, sul lato opposto una cavità permette l’ingresso alla biblioteca. L’accesso è diretto all’ampia sala lettura, occupata al centro da un’infilata di tavoli alternati a librerie; sulla sinistra i volumi alloggiano su di un’esile scaffalatura metallica ancorata alla parete; a destra setti profondi scandiscono le aperture verso il giardino. Fiancheggiando la libreria, una scala conduce al secondo livello e prosegue poi nella forma di un ballatoio che si snoda lungo l’intero perimetro della sala, al di sopra le scaffalature in acciaio affollano le pareti; a coronamento un sistema a shed scherma l’irraggiamento, da lì una luce indiretta, diffusa, bagna gli spioventi delle travi di copertura e si riversa infine a terra. Al primo livello, all’estremità orientale il ballatoio si dilata in un’ampia soletta che ospita le postazioni di lettura, dall’altra una 129
Veduta esterna da via di Santa Teresa
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porta conduce agli uffici destinati all’amministrazione del complesso: è questa la porzione della stecca in cui, alll’esterno, la muratura continua lascia il posto ad ampie vetrate, schermate dal tessuto metallico. Ridiscesi è possibile tornare sui propri passi verso il varco, oppure seguire l’asse longitudinale fino in piazza della Kalsa, all’uscita lo scarto della stecca rispetto all’edificato consente una sosta: una lunga seduta in pietra campeggia di fronte a un fondale vegetale. Da ultimo vi è la possibilità di raggiungere il giardino: alte cortine di caseggiati lo cingono ai lati, sul fondo è chiuso da una porzione delle mura del Cinquecento. Il mondo naturale si inserisce nel tessuto urbano: il disegno regolare del selciato lapideo lascia il posto alla terra battuta, popolata da minuti arbusti mediterranei e da slanciate piante sempreverdi. Un loggiato percorre la corte per tutta la sua estenzione, offrendo riparo ai visitatori. Infine sul fronte esterno, l’estremo della fabbrica rivolto verso l’oratorio ospita la sala conferenze. L’accesso a questo spazio, svincolato dal resto dell’organismo architettonico, è dunque indipendente dai periodi di attività dell’esposizione e della biblioteca. Nel punto in cui la mole della loggia compete col corpo massiccio del museo, l’angolo dell’edificio si protrae per inserirsi nella disputa tra volumi; in alzato tuttavia lo spigolo si disgrega in due grandi vetrate avvolte dalla rete metallica. Un portale d’acciaio acidato ritaglia col suo aggetto un rettangolo d’ombra sulla parete di testa, segnalando l’ingresso alla biglietteria; all’interno una rampa conduce al primo livello. Nel corso della salita, l’andamento rettilineo della scala si deforma in un arco semicircolare, nel punto in cui il robusto setto in calcestruzzo si smaterializza in fitte maglie d’acciaio, la penombra del piano terra si dissolve nel bagliore velato che riempie il foyer. 132
Sezioni trasversali su via di Santa Teresa, sezione longitudinale del centro documentale
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Veduta del foyer della sala conferenze
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Veduta della sala lettura
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La Zisa, Palermo, 1165-1175
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La costruzione La scelta dei materiali e delle tecnologie costruttive è legata in modo organico alle scelte di carattere funzionale e compositivo che vanno a delineare la proposta progettuale nel suo complesso. Il problema compositivo si è articolato sin dall’inizio intorno a due rilevanti “condizioni al contorno” dettate dalla localizzazione del sito d’intervento: la prossimità al tessuto della città storica e la presenza di un clima mediterraneano secco, caratterizzato da una consistente e continua esposizione alla radiazione solare. Durante l’elaborazione del progetto si è puntato dunque a plasmare l’organismo architettonico sulle necessità che tali condizioni hanno fatto emergere: instaurare un dialogo e un confronto con l’edilizia storica e limitare l’ingresso della luce all’interno delle fabbriche. L’osservazione e l’analisi della città testimoniavano il massiccio impiego della pietra locale nelle numerose fasi della sua storia, in modo particolare negli edifici più prestigiosi e rappresentativi; contemporaneamente la fabbrica assumeva l’aspetto di un corpo compatto, caratterizzato da una estesa superficie muraria interrotta solo occasionalmente dall’inserimento di aperture: talvolta protette da sistemi di schermatura, talvolta arretrate rispetto al filo esterno dell’edificio, tramite scavi profondi nei volumi. Si abbozzava cioè l’intento di evocare, all’interno del progetto, i tratti e le forme delle più antiche residenze storiche di Palermo: come la Zisa, la Cuba e il palazzo Chiaramonte-Steri. Si è scelto dunque il calstruzzo armato, un materiale e una tecnologia in grado di garantire l’omogeneità esteriore e la continuità strutturale tipiche dei tradizionali materiali lapidei.
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Dettaglio tecnologico: 1 solaio di copertura membrana impermeabilizzante isolamento termico barriera al vapore massetto di pendenza in cls (2%) soletta alleggerita in ca bidirezionale 2 sistema a shed membrana impermeabilizzante isolamento termico barriera al vapore struttura in ca UHPC 3 parete esterna setto in ca UHPC isolamento termico elemento prefabbrifcato in ca UHPC 4 solaio interpiano pavimentazione in parquet allettamento pavimentazione massetto in calcestruzzo membrana fonoassorbente soletta alleggerita in ca bidirezionale sistema di ancoraggio a doppia orditura pannelli in calcestruzzo 5 pavimentazione stradale basole in pietra lavica sabbia getto in calcestruzzo ghiaia 6 solaio controterra pavimentazione in cls lucidato massetto in calcestruzzo isolamento termico barriera al vapore soletta in cls con rete elettrosaldata vespaio magrone membrana impermeabilizzante
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4 mm 150 mm 10 mm 50 mm 500 mm
4 mm 130 mm 10 mm 70 mm 300 mm 70 mm
20 mm 50 mm 30 mm 500 mm 360 mm 30 mm 150 mm 80 mm 100 mm 100 mm 30 mm 50 mm 30 mm 10 mm 100 mm 300 mm 100 mm
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Dettaglio tecnologico: 1 solaio di copertura membrana impermeabilizzante isolamento termico barriera al vapore massetto di pendenza in cls (2%) soletta alleggerita in ca bidirezionale 2 sistema a shed membrana impermeabilizzante isolamento termico barriera al vapore struttura in ca UHPC 3 chiusura verticale muratura armata di blocchi forati in calcestruzzo infisso 4 solaio interpiano pavimentazione in parquet allettamento pavimentazione massetto in calcestruzzo membrana fonoassorbente soletta alleggerita in ca bidirezionale sistema di ancoraggio a doppia orditura pannelli in calcestruzzo
4 mm 150 mm 10 mm 50 mm 500 mm
4 mm 130 mm 10 mm 70 mm 150 m
20 mm 50 mm 30 mm 500 mm 360 mm 30 mm
5 parete esterna setto in ca UHPC isolamento termico getto in clacestruzzo
300 mm 70 mm 80 mm
6 pavimentazione stradale basole in pietra lavica sabbia getto in calcestruzzo ghiaia
150 mm 80 mm 100 mm 100 mm
7 solaio interpiano pavimentazione in botticino di Sicilia allettamento pavimentazione massetto in calcestruzzo membrana fonoassorbente soletta alleggerita in ca bidirezionale isolamento termico finitura a intonaco 8 solaio controterra pavimentazione in cls lucidato massetto in calcestruzzo isolamento termico barriera al vapore soletta in cls con rete elettrosaldata vespaio magrone membrana impermeabilizzante
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20 mm 50 mm 30 mm 500 mm 80 mm
30 mm 50 mm 30 mm 10 mm 100 mm 300 mm 100 mm
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La costruzione è dunque basata sulla continuità delle pareti in calcestruzzo, gettate in opera: il setto portante di 30 cm, posto sul lato esterno della sezione muraria è seguito da uno strato di isolamento termico di 7 cm e infine da un secondo getto in calcestruzzo, più sottile, dello spessore di 8 cm, che costituisce la finitura degli ambienti interni del museo e del centro documentale. Gli elementi orizzontali, come i solai interpiano e quelli di copertura, sono realizzati tramite un’unica soletta in calcestruzzo dello spessore di 50 cm, armata in entrambe le direzioni tramite due reti in acciaio e alleggerita con sfere in polistirene dal diametro di 30 cm. Per le coperture delle due principali sale espositive e del sistema a shed, impiegato nella hall del museo e nella sala lettura del centro documentale, si è optato invece per la prefabbricazione. Il tradizionale getto in opera, a causa delle geometrie articolate e delle ampie dimensioni degli elementi da costruire, comporterebbe una esecuzione poco agevole delle casserature e la realizzazione di oggetti estremamente pesanti. Al fine di ottenere un maggiore grado di definizione delle forme e di limitare l’aggravio di carico sulle strutture portanti si è dunque preferita la progettazione di elementi modulari in calcestruzzo, innervati da profili in acciaio, che ne consentono l’ancoraggio alla struttura dell’edificio, e caratterizzati da uno spessore esiguo (dai 7 ai 12 cm). Gli spessori contenuti degli oggetti in cemento armato, tanto nel caso dei setti portanti, quanto in quello degli elementi prefabbricati, sono possibili grazie all’impiego di un calcestruzzo UHPC (Ultra High Perfomance Concrete). Si tratta di un materiale a base cementizia rinforzato da fibre d’acciaio, caratterizzato da una maggiore resistenza meccanica alla compressione e da un’elevata duttilità. 144
Elementi prefabbricati della volta parabolica a lacunari, esploso assonometrico
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Elementi prefabbricati del sistema a shed, esploso assonometrico
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Elementi prefabbricati della volta parabolica semplice, esploso assonometrico
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Infine, per proteggere le aperture più esposte all’irraggiamento, sono stati elaborati due differenti sistemi di schermatura, concepiti come una rielaborazione della mashrabiyya, il pannello ligneo traforato tipico dell’architettura tradizionale islamica. Nella sala espositiva al secondo livello la parete continua è sostituita da una muratura, armata orizzontalmente, di blocchi forati in calcestruzzo. Ogni elemento è costituito da un prisma, profondo 15 cm, che ha per base un triangolo equilatero di lato 57 cm; gli elementi di rinforzo, che vanno a definire un motivo a esagoni e esagoni stellati, hanno uno spessore di 2 cm. Nelle altre occasioni in cui è necessaria la protezione dai raggi solari è stato impiegato un tessuto metallico, composto da un sottilissimo nastro di acciaio che si avvolge, come una spirale, su correnti del diametro di 1 cm, posti a 10 cm di distanza l’uno dall’altro, realizzato dall’azienda tedesca GKD. I correnti alle estremità della mesh metallica sono retti da ganci, a loro volta ancorati a staffe in acciaio, solidali con la struttura in calcestruzzo armato.
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In alto: muratura armata in blocchi di calcestruzzo forati, assonometria. In basso: la rete metallica e il relativo sistema di ancoraggio
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Modelli
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Bibliografia
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Ringraziamenti
Al professor Arrigoni, per il sostegno e l’attenzione che mi ha dedicato durante questo percorso, per la generosità e il pregio dei suoi insegnamenti. Al professor Cardinale, per i preziosi consigli che mi ha fornito. A Marina e Damiano, per essere riusciti a trasformare un appartamento vecchio e logoro nella casa più bella del mondo. A Enrico e Lorenzo, amici, fratelli, consiglieri fidati nello sviluppo di questo progetto, per il continuo supporto, per tutte le discussioni e per tutti i momenti di leggerezza. Ai membri vecchi e nuovi di questa famiglia: Sofia, Beatrice, Giulia, Nicole e Francesco. Alle persone con cui questo viaggio è iniziato, complici di ogni istante, riferimento granitico di questi anni: Ludovica, Caterina, Giulia, Teresa, Flavia, Stefania, Eva e Gigi. A chi ho incontrato a metà strada e ben presto si è rivelato fondamentale: Giulia ed Eleonora. Insieme a voi sono cresciuto, condividendo successi e fallimenti, ho iniziato a conoscere questa stravagante e meravigliosa disciplina e mi sono affacciato alla complessità dell’età adulta: c’è qualcosa di ognuno di voi in questo lavoro. Ai compagni con cui ho percorso le tappe di questo cammino, per tutti i momenti trascorsi insieme: Clementina, Alessandra, Pietro, Alberto, Nicoletta, Eleonora, Sveva e Giovanni. A Camilla e Maria, per i traguardi raggiunti e per quelli che ci attendono, per un legame che ha saputo trasformarsi e andare oltre il tempo e la distanza. Ai miei zii Umberto e Caterina e a mio cugino Flavio, per la spensieratezza delle estati trascorse assieme, durante le quali ho maturato la scelta di concludere a Palermo questo percorso. 162
A mia zia Gabriella e ai miei cugini Alessandra e Francesco, alla loro presenza essenziale e costante, per la capacità di essere in forme e maniere opposte un punto di riferimento insostituibile. Ai miei nonni, artefici pazienti e infaticabili delle magie dell’infanzia, per avermi accompagnato, attraverso il gioco, verso quell’intrico di estetica e tecnica che sarebbe diventato l’oggetto del mio percorso di studi. Ai miei genitori, per la fiducia che mi hanno accordato, per l’amorevolezza con cui hanno saputo trovare forze nuove per far fronte a vecchie debolezze: dedico a loro il frutto degli sforzi di questi anni. A mio fratello, per la sua affettuosa franchezza, su cui posso sempre fare affidamento, per il suo sguardo acuto che sa vedere oltre le pieghe della realtà. A Firenze, scenografia incantevole di questi anni, alla sua affascinante natura duplice, quella di una città viscerale e ascetica, rude e aggraziata, austera e sfarzosa: grezza come un concio di pietraforte e raffinata come la tessera minuscola di un mosaico dorato.
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