Tesi_All'ombra dei faggi. Museo per la 36° Brigata Garibaldi Bianconcini a Casetta di Tiara-Firenze

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All’ombra dei faggi

Museo-memoriale per la 36ª Brigata Garibaldi Bianconcini a Casetta di Tiara, FI



Francesco Martella



All’ombra dei faggi Museo-memoriale per la 36ª Brigata Garibaldi Bianconcini a Casetta di Tiara, FI


Relatore Prof. Fabrizio F.V. Arrigoni Correlatore Prof. Giovanni Cardinale Arch. Ph. D. Antonio Acocella Università degli Studi di Firenze DIDA | Scuola di Architettura Laurea Magistrale a ciclo unico in Architettura anno accademico 2020/2021


Indice

Abstract

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Un oceano di montagne Le ombrose vette Grüne Linie Quelli che non si arresero L’Italia minore

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La valle del Rovigo Casetta di Tiara L’Otro Cà di Vestro

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Temi di progetto La memoria Il museo come eterotopia

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All’ombra dei faggi

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Maquettes

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Bibliografia

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Abstract “Gli Appennini sono l’anima, lo stomaco, la colonna vertebrale del paese.”1 Protagonista di tanta parte di storia, letteratura e arte, l’Appennino è divenuta una terra dimenticata, isolata dove le pianure e le grandi città lasciano spazio a una storia fatta di tornanti, di strade perdute, di incontri e di paesi arroccati e isolati dove il tempo sembra essersi fermato. Le sue vette fiorite e rocciose, su cui crescono faggi, querce, castagni e abeti sono rimaste incontaminate; le sue pendici si snodano silenziose lungo l’intera Italia e custodiscono tacitamente le storie di uomini, contadini e partigiani che ne hanno vissuto ogni sentiero e crinale. La memoria dell’Appennino è anche custode di storie dolorose e cruenti dove l’uomo e il luogo si sono uniti come elementi di difesa; la zona dell’appenino tosco-romagnolo rappresenta il centro degli scontri della Linea Gotica (dai tedeschi chiamata “Grüne Linie”, Linea Verde) ovvero la linea difensiva e fortificata che nel 1944 tagliava la penisola italiana per 320 km. Scontri, lotte e guerriglie appaiono una traccia quasi costante nella storia dell’Appennino, che tra le asperità dei rilievi e dei percorsi, la complessità della natura e la pervasività dei boschi hanno offerto un rifugio sicuro per i suoi uomini e per l’organizzazione di azioni per la resistenza all’occupazione nazista. Una linea che collegava boschi, paesi o dimore isolate, intrinseca di storie di coraggio e di timore, di rivalsa e di resistenza. Quelle storie hanno lasciato segni indelebili nel paesaggio e nella memoria dei pochi testimoni rimasti. “Non ascolteremo più le avventure della Trentaseiesima dalla voce dei protagonisti […] D’ora in avanti l’unico essere vivente che potrà raccontarci quelle storie sarà il paesaggio. I luoghi che ne sono intessuti.”2 1. P. Rumiz, La leggenda dei Monti Naviganti, Giacomo Feltrinelli Editore, 2010, p. 188 2. Wu Ming II, dal racconto “Basta chiederlo ai Faggi”, p. 52


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foto di Francesco Martella


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“Credi di camminare il sentiero e invece è il sentiero che ti cammina. Sono quelli che l’hanno seguito prima di te, che gli hanno dato forma con i piedi e le suole. E i tuoi piedi rispondono alle loro impronte, come la voce risponde a un’altra voce. Il corpo, mentre cammina, dialoga con chi ha plasmato l’ambiente. Piante, animali, esseri umani. Tocca gli avanzi del loro passaggio, le incisioni della loro vita, il loro andirivieni sulla terra.”3 Nel luglio del 1944 la 36ª Brigata Partigiana Garibaldi Bianconcini, composta da circa 400 combattenti, si sposta nella valle del fiume Rovigo, nell’Appennino tosco-romagnolo, insediandosi nelle case coloniche sparse tra le montagne. La sua natura e la sua morfologia divenne un alleato della resistenza, fornendo riparo e proteggendo i giovani gruppi partigiani. La fortezza di foglie e dirupi, che oggi appare così dolce, vide combattere i partigiani e si rivelò un sicuro luogo di difesa; il bosco nasce dal punto più alto dei crinali per cadere all’interno di ogni gola, dove i fianchi si sfiorano, nascondendo il fiume Rovigo, che silenzioso e invisibile modella la valle. Tra i crinali e questa fitta macchia boschiva si dirama una rete di case, oramai parte stessa del paesaggio; dove un tempo le famiglie contadine vivevano e ospitavano i partigiani, oggi la natura risiede indisturbata restituendo questi ruderi al luogo stesso. L’architettura povera di un tempo diviene contenitore di storie legate al ricordo di spazi e tempi lontani. Il museo, posto alle spalle del nucleo originario di Casetta di Tiara diviene l’inizio di un percorso che percorre tutta la valle del Rovigo. Il basamento, posizionato all’interno del terreno e ospitando una nuova piazza sulla quale si affacciano i tre volumi pubblici del progetto, si pone come il nuovo centro del paese. Tramite reperti del tempo e grazie al lavoro fotografico di Giancarlo Barzagli, ai piani interrati del progetto si racconta la storia della 36ª Brigata, rivivendo la 3. Wu Ming II, dal racconto “Basta chiederlo ai Faggi”, p.65


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Una pattuglia della compagnia di Sergio nella valle di Sintria fondo Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna


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memoria di quest’ultima e del luogo che l’ha ospitata. Gli altri due interventi, il memoriale e la cappella, si legano al luogo e alle case partigiane, ormai distrutte, custodendo le rovine dense di storia. L’architettura diventerà un mezzo per poter custodire queste storie e raccontarle insieme al paesaggio che diviene custode di memoria. Una memoria legata agli uomini, oramai scomparsi, e ai luoghi materiali utili a rivivere il ricordo. Togliendo il luogo e dimenticandolo il legame con la memoria sparisce, invece, vivendolo permettiamo al ricordo e alla Trentaseiesima brigata di vivere nel tempo.


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Rovighello foto di Giancarlo Barzagli particolare


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La valle del Rovigo foto di Giancarlo Barzagli particolare

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Le ombrose vette Anche se la sua origine esatta sia ancora discussa, il nome Appennino risalirebbe all’antichità e verrebbe dal preindoeuropeo Pen, che significa montagna. Il termine era utilizzato nei testi latini per nominare la montagna e l’entroterra di una costa o di una città, nel nord, nel centro o nel sud dell’Italia romana. Si utilizzava anche il nome Appennino in maniera più astratta e generica, per designare quella lunga linea montuosa che percorreva tutto il paese e permetteva di organizzarlo nella sua diversità. Sin dall’antichità gli Appennini sono stati decantati dai più grandi scrittori, come Ovidio, Plinio, Orazio, Lucano fino ad arrivare a Dante e Boccaccio; le ombrose vette che si estendono verso il cielo e contenute tra i due mari dividevano l’Italia in due versanti. L’immaginario fondato su leggende che definì la montagna come un luogo ostile, simbolo di divisione proseguì per secoli. Abitato da popolazioni ritenute pericolose e selvagge, la montagna dell’Appennino appare come il luogo non umano per eccellenza, dove si estende una natura ostile e pieni di rischi, abitata da potenze malefiche. Le descrizioni del tempo non assecondavano l’uomo alla scoperta di questi luoghi, come ad esempio quella di Virgilio, nell’Eneide, dove si affiancava una visione mitologica alla montagna nella quale risiedeva un paesaggio tormentato, ricco di valori negativi. Tuttavia, a partire dalla fine del medioevo la curiosità dotta spinse l’uomo a esplorare questi luoghi. Incuriositi da ogni tipo di fenomeno naturale di cui si voleva conoscere la causa e verificare le ipotesi, a volte antiche, si osò infine affrontare l’ascensione della montagna. Nel sedicesimo secolo, ancora una volta, il ruolo degli Appennini non era ben chiaro e venivano percepiti in un duplice modo, come un Giardino dell’Eden oppure come un Inferno. Ma in questo periodo, tramite l’intervento dell’uomo, la sua arte e la sua tecnica, i territori appennini vennero modellati divenendo luoghi ammirati. Gli Appennini non


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figuravano nei luoghi da visitare durante il Viaggio in Italia, non solo perché i luoghi prestigiosi dell’arte e della storia antica erano concentrati nelle principali città del paese come Venezia, Firenze o Roma, ma anche perché le curiosità naturali e paesaggistiche d’Italia, cercate a quell’epoca, erano dei luoghi isolati che si visitano rapidamente o che si ammiravano da lontano. Nonostante queste motivazioni e a causa del clima, fattore rilevante per attraversare la catena montuosa, alcuni viaggiatori viaggeranno lungo l’Appennino, scoprendolo e ammirandolo come nel caso di Stendhal: “l’altro ieri, scendendo l’Appennino per arrivare a Firenze, il mio cuore batteva forte. Che puerilità. Finalmente, ad una svolta della strada, il mio occhio si è tuffato nella pianura, e ho scorto da lontano, come una massa oscura, Santa Maria del Fiore e la sua famosa cupola (...). I ricordi si affollavano nel mio cuore, non mi sentivo in condizione di ragionare e mi abbandonavo alla mia follia come al fianco di una donna che si ama.”4 Notiamo che l’immagine di questa parte degli Appennini è intimamente legata al paesaggio fiorentino, questo sfondo montuoso è stato di grande importanza nella visione pittoresca della città. “[Dal Giardino di Boboli] si gode la vista di Firenze, dei monti che l’incoronano, e dell’Arno che serpeggia.”5 Visti da lontano, come elemento dello scenario di una bella città d’arte e di cultura, gli Appennini cessarono di rappresentare un ambiente minaccioso. Il vero cambiamento nella percezione e nelle rappresentazioni degli Appennini è connesso a un rilevante evento storico: l’unificazione del paese nel 1861. La nascita della nazione italiana crea una nuova coscienza della fisionomia del paese per intero, dando un’importanza 4.Stendhal, Roma, Naples e Firenze, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 226-228 5. L. de Moratín, Viaje de Italia, 1793, cit. in: M.-M. Martinet, Le voyage d’Italie dans les littératures européennes


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simbolica ed evidente al suo asse montuoso che unisce l’Italia da Nord a Sud, portando alla luce luoghi mai visitati prima. Nel corso dei secoli, numerose guerre e battaglie si sono susseguite negli Appennini, fino all’ultima guerra mondiale che trasformò la catena in un teatro del conflitto. Gli scontri sulla Linea Gotica segnarono la storia e il luogo stesso facendo diventare gli Appennini scenario di lotte armate; decine di cimiteri militari marcano ancora oggi il paesaggio degli Appennini fornendogli una connotazione tragica.


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Jean-Baptiste Corot Firenze, veduta dai Giardini di Boboli 1835


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Grüne Linie Nell’autunno del 1943, con lo sbarco anglo-americano in Sicilia, lo Stato Maggiore germanico valuta l’adozione di due possibili strategie difensive. La prima, sostenuta dal generale Erwin Rommel, consisteva nell’immediata ritirata delle truppe concentrandole nell’Appennino tosco-emiliano, la seconda, invece, proposta dal generale Albert Kesselring, prevedeva lo schieramento delle truppe anche nella zona centro meridionale, così da ritardare l’avanzata alleata e costruire una linea difensiva poderosa. Hitler appoggiò la seconda opzione e mentre nei primi mesi del 1944 la Wehrmacht (Forze Armate tedesche) contendeva il sud con gli Alleati, sugli Appennini cominciarono i lavori di fortificazione. “Linea Gotica” è la denominazione data al sistema difensivo che dal Tirreno (valle del Magra) all’Adriatico (valle del Foglia) proseguiva per oltre 300 chilometri. Questa denominazione, per i tedeschi, durò solamente fino al giugno dello stesso anno quando Hitler decise di chiamarla “Grüne Linie” (Linea Verde), al contrario degli alleati che continuarono a chiamarla con l’appellativo originario. La Linea Gotica comprendeva un sistema di fasce fortificate che da Marina di Massa salivano sulle Alpi Apuane, per poi attraversare l’area del medio Serchio fino a Borgo a Mozzano e salire poi di nuovo verso l’Appennino pistoiese, al Passo della Collina. Da qui in avanti – raggiunto Vernio e il Passo della Futa – le fortificazioni correvano sul crinale principale dell’Appennino, concentrandosi sui passi. Piegava quindi verso l’alta valle del Savio e risalivano nuovamente alle Balze e a Badia Tedalda. Infine, da Piandimeleto in avanti si collocavano sulla sponda sinistra del Foglia, fino a Pesaro. La Linea Gotica, per mancanza di tempo e mezzi, non fu paragonabile alle linee fortificate della Maginot o del Vallo Atlantico, e quindi per realizzare una linea difensiva si decise di sfruttare il terreno montuoso e gli ostacoli naturali (dirupi,


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Mappa della linea gotica 25 agosto 1944


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fiumi, torrenti, scarsa viabilità). Le strutture in cemento armato e in acciaio erano poche e collocate non in maniera omogenea, così si predilessero le barriere costruite con terra, legno e pietre. Quindi, la morfologia e i materiali poveri del luogo aiutarono a costruire e modellare questa nuova linea difensiva. Alla fine di agosto, quando gli Alleati si accingevano a sferrare l’attacco, la Linea Gotica non poteva dirsi completata, ma lo stato dei lavori venne giudicato dallo stesso Kesselring soddisfacente. Per la sua costruzione furono impiegati 17.000 genieri tedeschi e 50.000 lavoratori italiani. In un rapporto della 10ª Armata Tedesca si contavano, nel solo settore adriatico, 2.375 postazioni per mitragliatrice, 479 postazioni per armi controcarro e mortai, 27 grotte per i posti comando, 16.000 postazioni per fucilieri, circa 97.000 mine, 117.000 metri di filo spinato e 9.000 metri di fossati anticarro. L’assalto degli Alleati alla Linea Gotica denominato “Operazione Olive”, iniziò il 26 agosto 1944.


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Uomini del 370th Infantry Regiment (Buffalo) in cammino verso le alture di Montignoso (Massa Carrara) 9 aprile 1945


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Quelli che non si arresero La Resistenza nell’Appennino iniziò a prendere posizione opponendosi ai piani criminosi hitleriani e fascisti che, tramite la linea gotica, volevano mantenere divisa e occupata l’Italia il più a lungo possibile portandola alla distruzione fisica e politica. Nel freddo inverno 1943 una cinquantina di giovani patrioti imolesi e faentini, guidati da Giovanni Nardi “Caio”, Andrea Gualandi “Bruno” e Luigi Tinti “Bob”, si sistemarono in un casolare, chiamato l’Albergo, in località Cortecchio (Palazzuolo sul Senio) sul versante est del monte La Faggiola, e iniziarono la guerriglia lungo le strade che dall’Emilia portano in Toscana. In un territorio difficile morfologicamente e con condizioni climatiche avverse iniziarono i primi scontri armati tra i partigiani e le forze armate tedesche; il numero di persone che si unirono alla resistenza iniziò a salire, i contatti con i centri della direzioni antifascista della pianura iniziarono a farsi regolari e i contadini, i veri abitanti delle montagne, iniziarono in un primo momento ad assecondare la resistenza per poi unirsi attivamente ad essa, poiché interpreti degli ideali che erano alla base della guerra partigiana. Il 28 aprile 1944 i diversi gruppi guidati da Cajo e Bob si ritrovarono presso le Spiagge; appena arrivati si scatenò una bufera di neve che portò i giovani partigiani a discutere dell’organizzazione dei gruppi e della loro unione. Fu proprio quella sera, alle Spiagge, che prese vita la 36ª Brigata d’assalto Garibaldi, a cui successivamente si darà il nome di Alessandro Bianconcini, eroe della guerra di Spagna, fucilato a Bologna dai fascisti il 27 gennaio 1944. Si passò velocemente dalla fase di tentata difesa a quella dell’attacco, ordinato e organizzato, alle basi nemiche dell’Appennino, sia nelle città di Firenzuola e dintorni, come Casetta di Tiara, sia a quelle in quota immerse nel paesaggio montano. Il vero cambiamento riguardante la percezione e l’azione della Brigata si ebbe in occasione del 25 maggio; in questo


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Partigiani della 36a nella zona di Cà di Malanca fondo Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna


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giorno scadeva l’ultimatum ai cosiddetti “ribelli”. Le forze tedesche assicuravano il perdono a chi fosse tornato alle proprie case e la persecuzione nei confronti di coloro che restavano nella macchia boschiva compiendo azioni di attacco. La risposta che seguì fu la condanna al fascismo e, ignorando l’annuncio, nessun partigiano abbandonò il gruppo. Il popolo aveva scelto, aveva scelto la Resistenza. I partigiani avevano come alleato il luogo stesso; i nemici non ebbero mai intenzione di accettare lo scontro all’interno della macchia, così la Brigata utilizzò quest’ultima come elemento di difesa chiedendo al bosco una protezione momentanea in momenti di difficoltà. Vivendo la quotidianità con gli abitanti della zona e gli sfollati dei paesi del fondovalle, la trentaseiesima, nel tempo, ebbe modo di organizzarsi e strutturarsi passando da un numero iniziale di 400 uomini a più di 1200. Il gruppo si strutturò, si divise in compagnie, vennero nominati i commissari politici, che nonostante l’età più anziana furono molto presenti nella vita di brigata e nelle decisioni militari e amministrative di quest’ultima. Fu redatta la rivista chiamata “La Volontà Partigiana” nella quale apparve la notizia della creazione di una piccola biblioteca con i testi simbolici alla base del movimento partigiano; a Cà di Vestro, importante sede del comando, si creò anche un’infermeria per assistere in modo più organizzato i feriti di guerra. La Brigata stava crescendo e si stava strutturando tramite modalità precise e ordinate. La Trentaseiesima dovette affrontare molti scontri armati con il nemico, riportando feriti e morti all’interno delle proprie linee, ma l’organizzazione militare e la conoscenza dei luoghi porteranno molti successi al gruppo partigiano. Le forze della Brigata sostennero l’urto massacrante delle grandi e gloriose battaglie d’autunno che culmineranno con la vittoria e la conquista della libertà. Tra queste possono essere ricordate quella a Cà di Guzzo, sul monte Battaglia, a


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Luciano Bergonzini “Stampa” fondo Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna


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Cà di Malanca e al monte Calamello; in queste situazioni la brigata si trovò per giorni a combattere in situazioni estreme, al freddo, in mancanza di viveri e munizioni, in prossimità della linea difensiva nemica in modo da potersi congiungere con gli alleati, compiendo atti eroici riconosciuti anche dagli alleati stessi. La collaborazione con quest’ultimi ebbe diversi problemi iniziali, e una volta compiuta la liberazione della parte appenninica iniziò un tentativo di disgregazione del gruppo screditando il lavoro svolto fino a quel momento. Però il 31 gennaio 1945 venne annunciato l’ingresso ufficiale della Brigata nell’Esercito nazione; il 14 aprile 1945, tutti uniti, i partigiani della 36ª Brigata partirono come soldati volontari insieme alla Divisione “Cremona” per il fronte, per predisporre l’attacco definitivo alle linee tedesche nell’Appennino, con l’obbiettivo della liberazione di Bologna e dell’intero paese. Furono tra i primi a entrare nel capoluogo emiliano e la mattina del 21 aprile 1945 liberarono Ferrara; il 25 aprile i componenti della bBrigata furono accolti a Venezia come liberatori. “Tutto ciò che è stato, da quel lontano inverno trascorso all’ Albergo alla liberazione dell’Italia, rappresenta la storia invincibile della 36ª Brigata Garibaldi Bianconcini; di una brigata invincibile e non tanto per motivi di ordine militare ma perché seppe trasformare migliaia di operai, di contadini poveri, di intellettuali, di donne, di giovani isolati e senza ideali o principi definiti, in partigiani, cittadini responsabili e coscienti, portabandiera di un ideale che nei primi giorni all’Albergo era patrimonio di pochi e che, prima ancora dello scadere dello stesso anno, aveva già conquistato il cuore e la coscienza di tanta parte dell’umanità.”6

6. Luciano Bergonzini , Quelli che non si arresero, Editori Riuniti, 1971, p. 303


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Luigi Tinti “Bob” Comandante della 36a Brigata Garibaldi Binaconcini fondo Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna


30 | Un oceano di montagne Partigiani in un momento di sostasta (sono riconoscibili: Lupo, Pasquale, Ricci, Tolmino e Diolaiuti) fondo Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna


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Partigiani disarmati e avviati nelle retrovie alleate, dopo il passaggio del Fronte fondo Luigi Arbizzani, Istituto Storico Parri Emilia-Romagna


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L’italia minore “Ero partito per fuggire dal mondo, e invece ho finito per trovare un mondo: a sorpresa, il viaggio è diventato epifania di un’Italia vitale e segreta. Ne ho scritto con rabbia e meraviglia. Meraviglia per la fiabesca bellezza del paesaggio umano e naturale; rabbia per il potere che lo ignora (…). Come ogni vascello nel mare grosso, la montagna può essere un insopportabile incubatoio di faide, invidie e chiusure. Ma può essere anche il perfetto luogo-rifugio di uomini straordinari, gente capace di opporsi all’insensata monocultura del mondo contemporaneo.”7 Le numerose cime degli Appennini si presentano come un oceano di montagne che si susseguono in onde successive; forse è per questo motivo che Paolo Rumitz, nel suo libro “La leggenda dei monti naviganti”, decide di imbarcarsi nonostante la sua avventura sia un viaggio di terra. “Imbarcarsi” è un verbo perfetto per chi ha deciso di navigare in un paese che ha dimenticato sé stesso. L’Appennino diviene un luogo da riscoprire, allontanandosi dalla frenesia odierna delle grandi città per privilegiare un mondo di silenzio in opposizione al frastuono circostante. Vivere l’Appennino significa esattamente questo, vivere in uno stato di sospensione in cui i protagonisti sono uomini di memoria e utopia, immersi in un silenzio guardiano del mistero che permette la percezione del silenzio stesso come celebrazione del tempo e della memoria. L’Appennino è il luogo degli orizzonti perduti e nascosti, dove il tempo si è dimenticato di essere stato tempo ed è fuggito via, lasciando la dimensione dell’assenza. Si parla di un Appennino lento nei movimenti, nei suoi incontri e nei suoi contatti che permette la contemplazione del paesaggio, delle sue cime montuose, dei suoi torrenti e della sua natura così da poter empatizzare con il luogo stesso. È un viaggio che si sviluppa 7. Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, Milano, Feltrinelli, 2007


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Passo del Faiallo foto di Paolo Rumiz


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per percorsi minori, morbidi, un labirinto di strade che segue il paesaggio e conduce in paesi unici, rovine del tempo, custodi di storie di altri tempi. Ma nelle rovine del nostro tempo, contrariamente al grande splendore delle rovine classiche, ogni aspetto culturale o storico è abolito. Spesso, le rovine ritrovate da Rumiz nel suo viaggio risalgono a pochi decenni prima, e i luoghi descritti sono molto comuni, quasi banali. Accanto ai paesaggi più noti e conosciuti ce ne sono altri, più comuni ma non meno validi, che costellano i nostri percorsi quotidiani. In un Italia sempre più divisa e frammentata affiora l’idea di un’Italia che dimentica, occulta una parte fondamentale del suo territorio per concentrarsi esclusivamente su alcuni luoghi principali. Attorno a questo arcipelago dell’Italia “maggiore” esiste un paese di cui non si parla, se non per episodi tragici, dove la qualità della vita si deteriora, un territorio che “la velocità non ha né avvicinato né innervato (...) ma al contrario allontanato e svuotato.”8 La catena montuosa rappresenta il simbolo eloquente dell’Italia minore, una “periferia” nella geografia politica del paese, non come caso isolato ma sicuramente come il più evidente. A partire dal dopoguerra, appare come una spina dorsale spopolata e “spolpata”, privata delle sue voci, dei suoi animali e persone, migrate in cerca di nuove opportunità nell’arcipelago considerato e amato dai più. Una realtà, lontana dai grandi centri affollati e frenetici, che tacitamente esiste, o meglio resiste. Nasce quindi l’idea che, avvicinarsi ai crinali significhi allontanarsi dalla società, ritirarsi in un guscio fatto di boschi e solitudine. Ormai, l’abbandono è il segno caratteristico degli Appennini e diviene allo stesso tempo disgrazia e fortuna. La sensazione del tempo immobile esalta oppure opprime, a seconda di quello che si cerca. Il primo sguardo racconta spesso un luogo ombroso, teso alla cupezza dove difficilmente ci si imbatte nei paesaggi 8. Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, cit., p. 303


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Passo del Giogo foto di Francesco Martella


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luminosi dei colli toscani, o della Langa. Allo stesso modo, nonostante questa accezione ombrosa e oscura della catena montuosa, essa non racchiude le cime più alte o affascinanti del paese ma probabilmente raccoglie quelle più vivibili e umane. Infatti, esse sono l’anima della nazione, al contrario delle Alpi che si presentano come la cornice del paese, una sorta di prigione o di confine che impedisce di andare oltre. Invece gli Appennini si estendono lungo l’Italia, succedendosi in un crinale dopo l’altro, assente di punti di riferimenti dove l’uomo si perde per ritrovare sé stesso al contrario delle Alpi dove le cime diventano grandi pilastri, fari luminosi in un mare in tempesta. Ma chi è nato nell’Appennino e chi lo vive sa di poggiare i propri piedi su un luogo dove la memoria penetra lentamente nel terreno, si adatta alle difficoltà, alle frane, alla perdita di identità di luoghi un tempo vissuti. È sconcertante pensare che, in un luogo attraversato nel corso della storia da molteplici popoli, cartaginesi, romani, lanzichenecchi, leghe lombarde, partigiani italiani e di moltissimi altri paesi e tedeschi appartenenti alla Wehrmacht, oggigiorno è luogo di abbandono dal quale ci si distacca. Nascere nelle zone dell’Italia minore, dell’Italia interna, quella dimenticata, a metà strada tra il mar Adriatico e il Tirreno, significa convivere con quell’inquietudine che Ignazio Silone denominò “mal di Appennino”9; ovvero un disturbo che si insinua sotto la pelle di chi lascia i paesi dove ha avuto origine il suo sangue che però, nel momento in cui li abbandona o si allontana da essi, sente l’urgenza di ritornare sui suoi passi per riavvicinarsi nuovamente a quei luoghi. “I montanari sono come i marinai: girano il mondo, ma poi, quando viene il momento, tornano 9. Silone parlava di questo “mal d’Appennino” in Uscita di sicurezza, pensando certo ai comportamenti degli emigranti abruzzesi, i suoi corregionali, perennemente al bivio tra urgenza di fuga e nostalgie del passato, fra ambizioni di miglioramento e desiderio di ricucire la tela dei rapporti interrotti.


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a casa.”10 Ancora una volta si accostano riferimenti marini alla montagna che riaccoglie le persone che ha perso nel tempo; quelle persone che hanno semplicemente scelto di conoscere il mondo o se stessi tramite esperienze in luoghi lontani o nuovi e tornano dove si sentono a casa. Perché tornare non rappresenta solo un movimento all’indietro, bensì suggerisce un lavoro preliminare di conoscenza per rivolgere ai luoghi uno sguardo nuovo per farli rivivere.

10. Francesco Guccini, Wu Ming 2, La ballata dell’Appennino, La Domenica di Repubblica, 19.06.2011


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La valle del Rovigo foto di Giancarlo Barzagli particolare

Quella Valle del Rovigo


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La Valle del Rovigo La Valle del Rovigo, nel Duecento, rappresentava il lembo estremo del dominio di Maghinardo Pagani da Susinana, il quale aveva l’intento di creare, sulle tracce di Guido da Montefeltro, una signoria estesa alla Romagna e autonoma rispetto alla Stato della Chiesa e ai bolognesi, nonostante fosse circondata da ogni lato da avversari e nemici, come ad esempio gli Ubaldini del Mugello o dai Fiorentini. La stessa valle venne scelta da Lorenzini, comandante della Brigata, e compagni per la difesa e la lotta contro i tedeschi. I primi gruppi partigiani si stanziarono sulla Faggiola, una montagna che si rivelò scarsa di risorse idriche ed economiche, con un piccolo numero di case attorno alla cima. Bob allora propose di trasferirsi nell’alta valle del Rovigo, dove era rimasto il suo gruppo. Superato il Poggio Roncaccio, il sentiero scende sui grandi massi di selce cavernosa coperti da cespugli, che arrivano a bagnarsi nel fiume che nelle mappe geografiche appare senza nome ma che dagli abitanti del luogo è chiamato rio Secco. Il torrente che d’estate conserva solamente un filo d’acqua, scava e modella una gola profonda e verso la sua fine, dove si unisce al Rovigo, tocca una casa chiamata Le Fontanelle. Nella parte terminale di questa gola, dove un castagneto monumentale ricopre tutto il lato occidentale della Bastia, si trova un agglomerato di circa venti case di sassi arroccate intorno alla chiesa, risalente al XVIII secolo. Partendo dal paese e spingendosi nuovamente sui crinali si trova un percorso, arido, affacciato sulla valle che tocca quattro case, simbolo della montagna: Cà Mengacci, Campo Ripaldi, l’Otro e la Faina. Il castagneto accoglie, nel lato opposto rispetto al paese, una borgata di sei case chiamata Pian dell’Aiara; scendendo ancora lungo il castagneto, nell’incontro del Rio Secco con il Rovigo si trova il Mulino della Lastra, così chiamato perché affiancato da un enorme lastra di pietra. Il fondo della valle è unico nell’Appennino; il torrente scorre su un letto di sassi e massi, affondati nel


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La valle del Rovigo foto di Giancarlo Barzagli particolare


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verde, che disegna e modella il terreno circostante formando conche, laghetti e cascate. Però questa zona bassa della valle venne toccata raramente dai partigiani della 36ª Brigata che preferirono, per motivi organizzativi, vivere la parte medio alta della valle. Un punto di riferimento fu proprio Pian dell’Aiara, dalla quale, risalendo lo sperone, giungevano alla piccola e arroccata Cà di Ciccio; invece gettandosi lungo la conca, fitta di vegetazioni, raggiungevano Cà di Vestro, centro della valle. Da qui i percorsi si estendono e le varie direzioni portano verso il Carzolano dove erano presenti alcune case, luogo di scontri e presidi partigiani.


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Campo Ripaldi foto di Francesco Martella


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Casetta di Tiara “Parto domani per Casette, lì c’è il silenzio.” 11 Casetta di Tiara, è un remoto borgo dell’Alto Mugello abitato da undici persone. Otto sono pensionati. Dopo diversi tornanti, sfiorando le cave e sorpassando il fitto bosco di castagni si arriva a Casetta, un paese in cui il silenzio regna. È un piccolo borgo, ai piedi del monte Bastia, che domina a picco la valle del Rovigo, da dove è possibile osservare un paesaggio la cui anima è di boschi e rocce, con le profonde gole che terminano nei torrenti che ne disegnano l’andamento. Le case sono principalmente in pietra, come la chiesa, più volte distrutta e ricostruita, e si racchiudono intorno ad essa dove risiede una piccola piazza, snodo principale del borgo. Come un paese così piccolo, abitato da poche persone può essere stato fulcro della resistenza nell’Appennino? È stato luogo di riparo per la 36ª Brigata Garibaldi Bianconcini, luogo di scontri armati e, inoltre, ospite dei defunti partigiani morti nelle vicinanze. Il 17 luglio fu teatro di uno scontro armato tra i fascisti, intenti a rompere le linee partigiane e a disperdere la Brigata, e la compagnia del Negus, da lui comandata. Lo scontro terminò con la ritirata delle truppe nemiche che però riuscirono a bruciare la chiesa e a rubare in canonica i beni che i parrocchiani e gli sfollati avevano affidato alla custodia del prete. Figura fondamentale del paese che ebbe un ruolo rilevante nella resistenza fu quella del prete, don Rodolfo Cinelli, costretto anche ad abbandonare, per un periodo, il borgo perché ricercato delle autorità tedesche. Oggigiorno lo spopolamento dell’Appennino ha portato anche questo piccolo paese ad essere deserto, silenzioso, isolato e non valorizzato, quasi dimenticato dai più, senza la possibilità che il ricordo e la memoria del luogo e della piccola comunità continui a vivere nel tempo.

11. Dino Campagna


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Casetta di Tiara foto di Francesco Martella


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L’Otro “Vista a distanza, da Pian dell’Aiara, come la vidi la prima volta, la casa sembrava proprio aggrappata alle rocce della Bastia. […] Attorno non c’erano terreni coltivati, nemmeno castagni, solo sassi di selce cavernosa.” 12 Originariamente la struttura si presentava come un grosso complesso abitativo, su più piani, totalmente costruito in pietra come tutte le altre case della zona. Incagliata nella roccia, seguiva l’andamento del terreno scosceso, proiettandosi verso la valle sottostante. Ad oggi rimangono solo dei ruderi della casa principale e la struttura annessa ad essa, anticamente utilizzata per gli animali. Luogo molto vissuto durante la Resistenza, ricordiamo un importante evento accaduto l’8 maggio proprio all’interno della casa. Giovanni Nardi, detto “Caio”, ventuno anni, studente dell’istituto magistrale, per combattere i fascisti era stato in Istria, nel settembre 1943 dove perse tutti i suoi compagni. Uno dei primi ad intraprendere il viaggio verso la Resistenza negli Appennini, possedeva un ruolo fondamentale all’interno della Brigata, sia a livello militare sia a livello personale, poiché ammirato da tutti i suoi compagni. Il gruppo di Caio non si presentò all’incontro dell’8 maggio presso il Cimone della Bastia; i fascisti avevano assalito il gruppo che mancava all’appello, avevano ucciso sette uomini e ferito altri due. Uno era Caio. Lo avevano finito a pugnalate, contro il muro dell’Otro, poi avevano dato fuoco alla casa, con l’altro ferito dentro. I sassi neri di fumo sono ancora oggi presenti nel cumulo delle rovine rimaste. Sul luogo, arrivò anche Don Rodolfo, prete di Casetta di Tiara, che provò a salvare i prigionieri; il tentativo fallì ma riuscì a portare in salvo, prima in una casa contadina vicina e poi all’ospedale di Marradi, un partigiano ferito gravemente che, purtroppo, nonostante l’operazione non riuscì a sopravvivere. 12. Nazario Galassi, Partigiani nella linea Gotica, University Press Bologna, 1998


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L’Otro foto di Giancarlo Barzagli particolare


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Cà di Vestro


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Cà di Vestro Quando la 36ª Brigata si insediò totalmente nella Valle del Rovigo, il Comando, gestito e amministrato dalla compagnia di Beppe, fu posto a Cà di Vestro. Due edifici antichi allineati con annesso oratorio rappresentavano il vero centro della lotta della Brigata. Cà di Vestro si trova al centro della valle, sulla riva dell’omonimo fiume, affluente del Rovigo dove l’acqua scorre tutto l’anno. A Cà di Vestro si gestiva l’attività militare e decisionale dell’attività alla resistenza. Da qui il comandante Bob e il commissario Moro gestivano l’impegno militare delle 16 compagnie che componevano la Brigata organizzando azioni di attacco e l’amministrazione del territorio circostante a Palazzuolo e Firenzuola. Era dunque anche il centro amministrativo di una grande area nella quale la vita doveva garantire sicurezza, organizzazione e soprattutto rispetto della popolazione la cui collaborazione era assolutamente necessaria alla Brigata. L’oratorio di Sant’Anna, annesso alla casa, fu fondato dalla famiglia Barzagli e nel 1847 divenne proprietà dell’ Arcivescovato di Firenze; con il tempo la conformazione della struttura subì delle modifiche riportando anche degli ampliamenti volumetrici. In antichità, in assenza della chiesa nel paese di Casetta di Tiara, gli abitanti si recavano in questa chiesa per la messa domenicale. Mentre Cà di Vestro rappresentava il comando delle Brigata, la chiesa ospitò anche un convegno dei parroci della zona per discutere i problemi comuni, come la trebbiatura, le requisizioni, gli sfollati mostrando supporto e fiduci nella Brigata e dando così anche un contributo alla Resistenza. Oggi di Cà di Vestro restano cumuli di macerie e rovine di muri distrutti dal tempo, della natura circostante e dai cercatori di antiche vestigia che hanno scavato attorno all’oratorio devastando una struttura che aveva retto alla sfida di molti secoli.


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Cà di Vestro foto di Francesco Martella


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Christian Boltanski Réserve : Les Suisses morts 1991

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La memoria “La memoria non può essere aggiunta all’architettura come un’etichetta, come pensano molti architetti postmoderni. Non si può semplicemente imprimere la memoria in un edificio come un logo. Questo non ha nulla a che vedere con il compito della memoria ma la banalizza.” 13 Il ricordo è ciò che rende vivo il presente, la memoria ci permette di conoscere e “conoscere è importante”14. Primo Levi, tramite i suoi libri, ricorda al lettore la necessità di non dimenticare. La sua scrittura è la conseguenza della sua esistenza, del suo passato, di ciò che ha vissuto e delle ferite, non solo fisiche, che ha riportato sulla sua pelle. Scrivendo ha tentato di ricomporre sé stesso come persona e di fare qualcosa di utile per l’umanità: ricordare per far conoscere. Non bisogna nascondersi per non guardare la realtà ma bisogna trovare la forza per pensare ed essere consapevoli di ciò che è stato. La memoria non può essere considerata uno scudo per proteggersi dal male ma deve rappresentare una necessità, quasi un dovere nei confronti di chi non c’è più; ha la funzione di risvegliare dei sentimenti inesprimibili. Ma se esiste una grande memoria che risiede nei libri, che racconta la grande storia, i grandi eventi ai più conosciuti, utile alla crescita e al sapere dell’uomo, esiste anche una piccola memoria, quella composta dai ricordi minimi, ricordi di persone comuni oramai scomparse che tessono una storia sconosciuta, ricca di riferimenti personali ed emozioni vissute. Chi ha provato a raccogliere tutte queste piccole, ma emozionanti, storie è stato Christian Boltanski, artista francese, che sognava, anche se in un modo utopico, di collezionare tutti i libri di memorie sconosciute appartenenti 13. Libeskind in D- Libeskind, L. Wieseltier, S. Nuland, Monument and Memory (The Columbia Seminar on Art in Society, 27 settembre 2002), Columbia University, Department of Art History and Archeology, New York, 2003, p.11 14. Primo Levi


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a persone qualunque. Ognuno di noi è unico, ricco di dettagli che muoiono insieme alla persona stessa, ed essendo fragili siamo destinati a scomparire senza lasciarli a nessuno. L’assenza è un tema ricorrente nel lavoro dell’artista che, tramite foto e video, provava a ricordare per far rivivere gli assenti. Infatti, la fotografia può sostituire la memoria per ricordare qualcuno che, dopo la sua morte, non può più essere visualizzato nitidamente. L’esperienza che vuole trasmettere l’artista non era necessariamente conoscere o capire, ma l’intento era far sentire che qualcosa era successo. Quindi, tramite la memoria, Boltanski progettava una quantità di monumenti effimeri, totalmente a-monumentali per celebrare i volti, le storie e anche il mistero di chi è stato e di chi, probabilmente, non sapremo mai niente. Diviene un lavoro attivo per ricordare e commemorare il passato, al contrario dei freddi monumenti sparsi per il mondo. “Una volta che assegniamo una forma monumentale alla memoria, spogliamo in un certo grado noi stessi dall’obbligo di ricordare.”15 La storia da una stabilità al ricordo, lo monumentalizza e distanzia i sentimenti, li normalizza trasformando i musei o i monumenti ai caduti in forme di memorie collettive sottratte alla coscienza individuale. Il monumento, quindi, rischia di divenire un semplice esilio di emozioni dell’uomo dove il dolore viene custodito all’interno di una banale pietra. Il monumento-memoriale, deve rappresentare delle esigenze differenti per poter coinvolgere l’uomo nell’atto attivo del ricordare. Come nell’esempio del Fosse Ardeatine, il memoriale non rappresenta più un oggetto isolato da contemplare, ma un percorso da agire nello spazio e nel tempo, attraverso gli episodi di una storia e il luogo fisico dove essi sono avvenuti. Il luogo e la storia diventano i soggetti per poter vivere la memoria di un evento 15. James Young, The Texture of Memory, Holocaust Memorials and Meaning, 1944, p.5


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che ha segnato la storia. “Mi sta bene il paesaggio come testimone vivo, che può ancora raccontare, quando i testimoni umani sono tutti morti. D’accordo. E mi sta bene il paesaggio come fonte storica e pure il paesaggio come scenario nel quale rivivere gli atti del passato per capirci meglio.”16 Il luogo diviene parte integrante del museo, del monumento, del memoriale per raccontare una storia; non si deve cristallizzare in un preciso momento storico ma deve essere vivo, e carico di memorie stratificate, collettive o individuali, deve rappresentare l’identità storica o emotiva del ricordo. Si parla di “luogo di memoria”, secondo la definizione dello storico francese Pierre Nora, quando ci si relazione con “un’unità di naturale materiale o ideale che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo ha trasformato in elemento simbolico di una comunità e punto di cristallizzazione della memoria collettiva”. Il tempo agisce su questi luoghi, trasformandoli, e la storia che trasmettono può essere condivisa ma anche contestata. In questa duplice visione della storia si inserisce la Linea Gotica, che rappresenta un’idea piuttosto vasta di “luogo di memoria”. Per questi motivi, fino ai giorni odierni, i resti e i luoghi della Linea Gotica non hanno ricevuto una giusta attenzione, almeno dal punto di vista del recupero e della loro valorizzazione, intesa come patrimonio storico e vero e proprio luogo di memoria.

16. Wu Ming II, dal racconto “Basta chiederlo ai Faggi”, p.59


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La valle del Rovigo foto di Giancarlo Barzagli particolare


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Il museo come eterotopia e come spazio altro Michel Foucault, definiva eterotopia come “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano.”17 Le eterotopie, a differenza delle utopie che non appartengono a nessuno spazio, rappresentano delle utopie che hanno un preciso luogo, uno spazio reale in cui risiedono. Si tratta di contro-spazi, dei luoghi reali fuori da tutti i luoghi, che possono essere rappresentati da alcuni esempi chiari come i giardini, i cimiteri, i manicomi, le prigioni, i villaggi turistici, il teatro e molti altri. Questi spazi altri appartengono al tempo e variano in base alle epoche, divenendo o scomparendo in quanto eterotopie stesse. Queste eterotopie sono connesse molto spesso alla suddivisione del tempo; sono delle “eterotopie del tempo” e vengono chiamate “eterocronie” e prendono vita nel momento in cui l’uomo si trova in uno stato di rottura netta con il concetto di tempo tradizionale e quotidiano. Esempio eclatante ed evidente è il cimitero, un luogo in cui il tempo non scorre più e dove si manifesta la perdita della vita per l’uomo, la quale si tramuta in eternità. Nella società moderna si possono trovare delle eterotopie del tempo in cui quest’ultimo si accumula all’infinito. È questo il caso delle biblioteche e dei musei, che a differenza del XVII e XVIII secolo in cui erano espressione del gusto di un singolo individuo, oggi puntano a fermare il tempo, a farlo depositare all’infinito in un preciso spazio. “L’idea di costruire l’archivio generale di una cultura, la volontà di rinchiudere in un luogo ogni tempo, ogni epoca, ogni forma e ogni gusto, l’idea di costruire uno spazio per ogni tempo come se questo spazio potesse essere definitivamente fuori dal tempo.”18 17. Michel Foucault, Dits et écrits 18. Michel Foucault, Utopie Eterotopie, Cronopio, 2004, p.18


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In un luogo quasi utopico, fermo nel tempo, isolato nel silenzio e in uno stato quasi di sospensione si afferma il museo come eterotopia, come spazio altro in cui la memoria si pietrifica negli oggetti di diverse epoche; l’architettura, oltre a diventare custode della storia, la racconta in prima persona, con l’interazione dei differenti spazi. Il museo non serve più solo per raccontare una storia o mostrare una collezione ma diviene uno spazio per rivivere ciò che è stato.


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La valle del Rovigo foto di Giancarlo Barzagli particolare

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All’ombra dei faggi Oltrepassato il paese di Firenzuola, salendo lungo i morbidi tornanti immersi all’interno del fitto e denso castagneto si arriva nel piccolo paese di Casetta di Tiara. Qui il tempo si è fermato. Tutto è rimasto come era, con la sua semplicità, la sua sobria bellezza, tipica dei paesi di montagna, identifica un luogo lontano e unico. I paesi come Casetta sono solo l’ultimo canto di un mondo privo di voce, in cui il silenzio assume un’importanza quasi monumentale, come la parola, che in un mondo di troppo rumore, perde il suo senso e la sua funzione. Le strade, frutto dei vuoti abitativi che intercorrono tra le case sono strette, a misura d’uomo, ripide e si snodano intorno ad una piccola piazza accostata alla chiesta, centro dell’originale nucleo abitativo. Una volta in cui le montagne si scrollano le nubi di dosso è possibile osservare la vastità della Valle del Rovigo, nella quale il paese è nascosto e dimenticato. Il progetto del museo-memoriale per la 36ª Brigata Garibaldi Bianconcini si pone come fine principale quello di creare un nuovo centro del paese, volto a riqualificarlo così da far rivivere nuovamente quel luogo che, durante la resistenza antifascista, ha avuto un ruolo fondamentale, ponendosi come un contenitore e un divulgatore della memoria, propria del luogo. Il nuovo intervento, in continuità con la preesistenza, si posiziona all’interno della collina scoscesa, divenendo anche un nuovo punto di osservazione del paesaggio circostante. L’area di progetto sorge alle spalle del nucleo originale del paese, dove le case arroccate si sfiorano, accostato alla strada che dal paese fuoriesce per connettersi con le più recenti abitazioni e con il percorso che porta al crinale. Un volume monolitico, apparentemente scavato nelle aperture, si connette con il terreno preesistente tramite diversi ingressi. Il principale avviene dalla quota più alta dove risiede la piazza; invece, quelli secondari avvengono tramite connessione verticali, naturali o edificate,


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Il museo, vista esterna


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dalla quota inferiore più vicina al paese. L’accesso principale consiste in un passaggio affiancato da un castagneto monumentale, frammento della Valle del Rovigo inserito nel progetto. Questo passaggio porta il visitatore a scoprire una piazza sulla quale si innestano tre volumi, ospitanti le funzioni più pubbliche, che generano uno spazio timido, recintato ma in connessione con il paesaggio tramite i vuoti tra di essi. La piazza, quindi, diviene quasi una eterotopia interamente esterna, uno spazio isolato dagli altri, ma allo stesso tempo connesso ad essi, destinato ai visitatori per osservare ciò che li circonda. Essa rappresenta si un luogo dello stare, ma anche l’ingresso ai tre volumi differenti che coesistono armonicamente; in quello di dimensioni maggiori si racchiude l’ingresso del museo con la biblioteca, in quello di dimensioni minori, il bar, e nel terzo l’auditorium con le sale didattiche. I volumi e il basamento sul quale risiedono presentano una continuità strutturale e materica, con i prospetti realizzati in cemento battuto pigmentato così da creare una continuità cromatica con la preesistenza in pietra ma distaccandosi da essa identificandone un nuovo intervento. All’interno del museo si accede tramite due ingressi, il principale sulla piazza, quello secondario affiancato dal castagneto. La biblioteca si posiziona sul lato più privilegiato verso la valle, creandone una forte connessione tramite il prospetto parzialmente vetrato. Il foyer identifica l’ingresso del museo sviluppandosi in due momenti; un primo dedicato all’accoglienza del visitatore, alla quota della piazza, e un secondo, al piano inferiore, nel doppio volume, il quale diviene l’inizio del percorso espositivo. I due spazi, collegati tramite la scala in cemento affiancata al muro, sono in stretta connessione tra di loro; il primo si affaccia sul secondo, realizzando così un doppio sguardo verso il quadro di Anselm Kiefer, “Cette obscure clarté qui tombe des étoiles, 2011” artista tedesco, che tramite il suo lavoro pittorico


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La piazza, vista esterna


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Il foyer, sala Kiefer


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scultoreo ha trattato in numerosi casi il tema della memoria e del dolore. L’intento del percorso museale e dell’architettura che lo ospita non è quello di presentare la 36ª Brigata Garibaldi Bianconcini secondo un cronologico susseguirsi di eventi o di presentarsi come una mera commemorazione al passato ma è quello di mostrare una guerra fatto di luoghi minori e di persone comuni, di raccontare la memoria della Brigata e del luogo che l’ha ospitata. L’architettura non diviene un semplice contenitore della storia ma la racconta in prima persona tramite i suoi spazi. È un museo introverso, quasi nascosto che instaura un forte legame con il contesto in cui è custodito; il museo nasce prima sul territorio, è cioè il patrimonio a farsi museo e mediatore prima di essere parte del museo. Tramite la forza degli oggetti cristallizzati di memoria, reperti fotografici del tempo e al recente lavoro fotografico di Giancarlo Barzagli, Grüne Linie, si invita il visitatore a conosce attivamente la storia, il luogo e le persone, mettendosi sulle “tracce della sottostoria come del sottobosco”. 19 Dal foyer a doppia altezza, in cui la luce diffusa e filtrata definisce uno spazio di partenza, ampio e luminoso il visitatore inizia il percorso tramite uno stretto passaggio. La prima sala museale è dedicata ad un racconto più storico della Brigata, dei protagonisti e dei principali eventi che hanno segnato i luoghi e gli stessi abitanti. Un involucro in legno nero diviene custode di reperti o frammenti della storia; i diversi momenti del percorso espositivo sono scansionati dal susseguirsi di setti in cemento a vista, posti come una tela espositiva. La scelta del cemento a vista segnato dalle venature delle casseforme in legno, crea una continuità con il rivestimento 19. Giancarlo Barzagli, Irene Cecchini, “Vedute parallele: la Storia e il paesaggio in Grüne Linie. Irene Cecchini dialoga con Giancarlo Barzagli”, iterature.green, marzo 2020,https://www.literature.green/ vedute-parallele-la-storia-e-il-paesaggio-in-grune-linie


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Sala museale, “Basta chiederlo ai faggi”


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principale delle sale, diventando anche un’esperienza stessa della memoria, ponendosi come un materiale grezzo e freddo senza decorazioni o dettagli superflui. La continuità di un carattere buio e cupo che richiama i temi presentati della memoria, del ricordo e della morte diviene un tema costante nella progettazione delle sale museali. La seconda parte del percorso presenta le stesse caratteristiche materiche e percettive della prima ponendo però, a differenza del percorso iniziale, come punto finale del cammino uno spazio luminoso, vivo, che porta il visitatore a scoprirlo pian piano avvicinandosi ad un luogo unico rispetto a quanto visto. Il secondo momento museale è dedicato al luogo e racchiude foto e plastici dei crinali, del fiume, delle case partigiane custodite nella valle. Si racconta l’insieme di quegli elementi che definiscono il sistema del paesaggio, la vegetazione presente, le architetture ormai prive di funzione ma dense di memorie. Giancarlo Barzagli e Wu Ming 2 intrecciano una connessione tra il passato e il presente, con l’obiettivo di custodire e rinnovare questo legamene; la storia e il paesaggio diventano due temi che si susseguono in parallelo nei loro lavori, riproponendoli anche come filo conduttore all’interno del museo. Le fotografie possiedono la capacità di figurare semplicemente un luogo, percepirlo e comprendere le sue atmosfere. Per completare questa percezione si inseriscono anche le parole del racconto di Wu Ming 2 che arricchiscono l’esperienza e la narrazione. L’utilizzo delle mappe, sempre presente nel lavoro Grüne Linie, viene valorizzato tramite l’aggiunta di plastici che figurano, in maniera ancora più chiara la morfologia del luogo. L’atmosfera buia viene interrotta dal giardino d’inverno, spazio simbolo del museo; simile al foyer, per materiali e volumetria, diventa un’eccezione lungo il percorso. Si trova uno spazio luminoso, vivo tramite il frammento di paesaggio proposto nella parte centrale della sala; una vasca in cemento


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racchiude un tassello della natura delle montagne circostanti, inserendo un terreno roccioso arricchito dalla presenza di piante tipiche della zona, come le felci, e di un paio di esili alberi. Nonostante il percorso estremamente introverso, in questa sala si apre l’unica fessura che crea una connessione con il paesaggio. Una piccola finestra, nello spazio dedicato al luogo e al paesaggio, pone l’attenzione verso il paesaggio stesso, inquadrandolo in una semplice cornice. La narrazione espositiva continua nell’ultima sala, simile alle prime due per materiali e linguaggio; un corridoio stretto, quasi angusto, ripercorre i protagonisti della storia, quelle persone che hanno vissuto la guerra, vivendo i crinali, i boschi, le case. L’ultimo sguardo della visita, quindi, dopo aver osservato le vicende storiche e il luogo, è rivolto alle persone, in ricordo di una memoria che non deve svanire. L’uscita della visita coincide nuovamente nel foyer, o sala Kiefer, dove il visitatore è indirizzato verso il blocco scale per proseguire la visita al piano inferiore. Se al primo piano interrato si vuole raccontare la storia, il luogo e le persone che hanno segnato la 36ª Brigata partigiana, al piano inferiore si trova uno spazio dedicato al tema della memoria e del ricordo. Dopo una piccola sala introduttiva si entra nel cuore del museo, una grossa stanza a doppia altezza che riprende le geometrie, non regolari, dettate dal percorso museale del piano superiore. La sala è dedicata interamente all’artista Christian Boltanski, artista francese, che ha dedicato la sua vita al tema del ricordo, della morte e della memoria. Sui due lati della sala, avvolti da un rivestimento in legno nero, in continuità con le restanti sale museali, sono racchiusi i Billboards, opera realizzata nel per la città di Bologna. Rappresentano dei dettagli di occhi che ci guardano, attraverso di loro abbiamo la possibilità di vedere noi stessi, probabilmente la loro funzione è quella di essere a guardia di una memoria. In questa opera l’immagine è tagliata sugli


76 | All’ombra dei faggi Sezione strutturale A_solaio controterra - pavimentazione in tasselli di vetro - massetto (sp. 10 cm) - guaina impermeabile - isolante termico (sp. 10 cm) - vespaio con elementi “igloo” - magrone (sp. 15 cm) B_chiusura verticale - setto in ca (sp. 15 cm) - ancoraggi metallici - guaina impermeabilizzata - isolante termico (sp. 8 cm) -setto portante in ca (sp. 30 cm) -rivestimento in legno (sp. 2.5 cm C_solaio di copertura - vetro (sp. 3 cm) - infisso in alluminio - barrisol - ancoraggio barrisol BMS 340/01 C

B

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Il giardino d’inverno


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occhi, non c’è un’identità precisa, anche se rappresentano volti di partigiani, possono rappresentare persone comuni come noi. Il lato opposto, che riporta il visitatore alla risalita verso i piani superiori, è interamente occupato da un’installazione che aveva già proposta in onore dei morti in Svizzera nel 1996, Reserve de Suisses mors. “Non c’è niente di più normale di una persona svizzera... quindi tutte queste persone morte sono solo tanto più terrificanti. Sono noi.” 20 Secondo lo stesso principio, l’opera di compone si numerose scatole in latta, simili a vecchi contenitori di archiviazione, sovrastati da delle timide lampade da ufficio; Boltanski ha spesso creato strutture di elementi ripetuti, quasi identici, per suggerire un archivio quasi infinito di morti. Ogni scatola presenta una foto di un uomo o di una donna e la scultura vuole evocare le banali burocrazie della mortalità, il contrasto tra istituzionale e personale, tra memoria e oblio. Un muro di scatole in latta sovrapposte, dal quale ci si sente quasi sottomessi, rimanda ai morti della resistenza così da mostrare le vittime, persone comuni morte nella lotta conto il nazifascismo. Il centro della sala è occupato da un imponente plastico in cemento dell’intera valle del Rovigo; diviene un elemento per connettere l’opera dell’artista francese con il luogo e il paesaggio in cui essa è inserita. La struttura portante del progetto è realizzata tramite setti portanti di 30 cm in calcestruzzo armato pressato nella parte interna della stratigrafia, collegati tramite degli ancoraggi metallici al getto esterno di 15 cm sempre in calcestruzzo. Tra i due setti in cemento viene posizionato uno strato di isolante termico con uno spessore di 6 cm. La struttura del progetto si presenta semplice e in continuità su tutti e tre i piani, creando una coerenza strutturale e architettonica lungo tutto il percorso museale. 20. Christian Boltanski


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Sala museale, Christian Boltanski


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Il museo si pone come punto iniziale di un percorso ben più ampio, che raccoglie il paesaggio circostante, le sue diversità e i ruderi di architettura celate dalla sua natura. Una volta conclusa la visita e ritornati sulla strada esterna alla piazza il visitatore si incammina lungo il crinale per intraprendere, attivamente, un nuovo percorso conoscitivo ed esplorativo del luogo. Durante questo percorso è possibile osservare i luoghi battuti e vissuti dai partigiani durante la resistenza, i boschi e le case che li hanno ospitati. Si scopre un paesaggio variegato, spoglio nei momenti iniziali lungo i crinali fino ad arrivare a densi e ombrosi boschi di faggi e castagneti. Si toccano le cime delle montagne, si attraversano le gole ricche di vegetazione fino ad arrivare al fiume; un percorso ad anello, vario nella sua morfologia, nei suoi dislivelli e nelle sue vedute. Diversi ruderi di case isolate o aggregate in piccoli complessi scandiscono il cammino, ponendo agli occhi del visitatore architetture abbandonate ricche di memorie, diverse, differenti e passate. Quindi, i luoghi che orbitano intorno e al di fuori del museo ne costituiscono parte integrante, evitando di farli diventare spazi di un altro tempo sconosciuto. Non sono cristallizzati in un preciso momento storico ma devono essere considerati vivi, carichi di memorie stratificate, memorie plurali utili a far vivere ancora il ricordo e il luogo stesso. Si cerca la percezione del luogo nella sua totalità e il rapporto instaurato con essa mentre si cammina; diviene un percorso da rivivere fisicamente ed emotivamente effettuando nuovamente lo stesso tragitto eseguito dalle vittime ricordate. Non bisogna esigere una contemplazione del passato, della memoria ma puntare ad una fruizione dinamica del percorso per riviverla. I due progetti relativi ai ruderi delle vecchie case partigiane si pongono come fine ultimo quello di preservare un’architettura ormai vissuta dalla forza del tempo, custodirla e realizzare degli spazi per l’osservatore così da poter rivivere la memoria


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Il memoriale, vista esterna


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Il memoriale, vista interna


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e il ricordo all’interno degli stessi luoghi in cui il ricordo vive. Il nuovo progetto, consapevole di una preesistenza non di un alto valore qualitativo ma con un immenso significato, si pone esterna alle già presenti rovine, senza mai toccarle così da non intaccare la forma e la struttura che oggigiorno presentano a causa del tempo trascorso. La nuova architettura tende a creare una simbiosi con la conformazione e la storia del luogo, cercando un significativo rapporto di tensione con la preesistenza. Presso l’Otro, luogo nel quale il 10 maggio 1944 l’imboscata fascista ai danni del gruppo di “Caio” portò la morte di Giovanni Nardi e di sette dei suoi compagni, sorge un memoriale in ricordo delle vittime. Una nuova pavimentazione in cemento industriale si pone come elemento di connessione tra i resti della casa principale e il secondo volume, anticamente dedicato agli animali. Una piccola “piazza” funge da ingresso ai due volumi e asseconda il dislivello del terreno. Una nuova volumetria incide solamente lungo le rovine della casa principale, custodendone le murature ormai ridotte a piccoli muretti. Una struttura puntiforme in legno nascosta e rivestita da assi anch’essi di legno nero celano dall’esterno il contenuto, visibile solo una volta attraversati i portali in lamiera metallica anch’essa nera; all’apparenza chiuso e inaccessibile, esso rappresenta un luogo di passaggio sempre aperto nel quale ci si imbatte quasi casualmente, passeggiando, senza saperlo. Il memoriale diviene un monumento all’assenza per gli assenti, un luogo non da contemplare staticamente ma da vivere nella successione degli spazi, sia nei resti di quelli vecchi sia in quelli realizzati tramite il nuovo intervento. Il percorso è accompagnato dall’inserimento di sette elementi simbolici in ricordo dei partigiani uccisi presso la casa; sette massi di colore bianco raffigurano i compagni della brigata invece, un albero di faggio, all’interno di una vasca di ciottoli, simboleggia il comandante “Caio”.


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Una volta abbandonato il percorso sui crinali si entra all’interno di un fitto bosco di faggi; il sentiero devi per arrivare ad un luogo fondamentale nella storia della resistenza, Cà di Vestro. Antico comando della brigata, presenta un volume abitativo, anticamente suddiviso su due livelli e, affiancato ad esso, i resti di una chiesa; il progetto decide di preservare il primo volume tramite opere di consolidamento e l’inserimento di due nuove pavimentazioni così da renderlo visitabile, e di intervenire nuovamente, con una struttura esterna ai ruderi, dove sorgeva la chiesa, così da ricreare un piccolo spazio sacro. La nuova cappella, posta al di sopra di una nuova pavimentazione con la funzione di accogliere i visitatori, ospita i resti della parte absidale dell’antica chiesa. Un involucro in legno nero, pieno nella parte inferiore e aperto tramite l’inserimento di due livelli di listelli diviene uno spazio per il visitatore, per pregare o semplicemente osservare e contemplare il luogo in cui si trova. Si pone quasi come uno spazio spirituale piuttosto che uno spazio sacro in cui una seduta pone il visitatore davanti ad un altare semplice con alle spalle una croce lignea. La possibilità di aprire la porta di ingresso permette di estendere il piccolo spazio contemplativo verso lo spazio antistante ad esso, dove le presenze delle panchine rivolte verso il preesistente abside conferisce un vero e proprio assetto ecclesiastico. Nella casa affiancata al primo volume descritto vengono eseguiti alcuni interventi di consolidamento tramite l’iniezione di cemento all’interno delle murature così da definire una maggiore stabilità alla struttura, rafforzata anche dei tiranti in acciaio posti nella parte superiore. L’inserimento di due nuovi solai permette al visitatore di scendere, tramite una scala, al piano anticamente dedicato agli animali nel quale sono ancora visibili le travi lignee di un tempo. In questo spazio, intervallato da un caratteristico arco, si posiziona


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Cà di Vestro esploso assonometrico


88 | All’ombra dei faggi La cappella, vista esterna


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La cappella, vista interna


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l’ultimo elemento espositivo dell’esteso percorso museale. Un’installazione di Christian Boltanski diviene l’oggetto caratterizzante di questo spazio, con l’intenzione di farlo rivivere e far rivivere il ricordo delle persone che un tempo vivano questi luoghi. A ogni stello è appesa una piccola campanella da cui pende una striscia di plastica trasparente che si agita al vento. “Si crea così una musica che sembra venire dal cielo, qualcosa di celestiale. […] È una sorta di cimitero delle anime.” 21 Animitas, “piccole anime”, si intitola questa costellazione di campanelle che suonano all’interno del fitto bosco. Una musica inaspettata in un luogo come questo porta il ricordo di chi non c’è più attraverso di essa; come il museo si conclude con l’opera dell’artista francese, anche gli interventi nelle antiche case partigiane si concludono con una sua opera, in cui, ancora una volta, si riporta alla luce il tema del ricordo e della memoria. A_solaio controterra - pavimentazione in cemento industriale (sp.8 cm) - massetto (sp. 5 cm) - guaina impermeabile - vespaio con elementi “igloo” - magrone (sp. 15 cm) - guaina impermeabile - nuova fondazione in ca B_chiusura verticale - rivestimento in legno (sp. 2 cm) - listelli di supporto in legno - pilastro in legno (sp. 45 cm) - listelli di supporto in legno - rivestimento in legno (sp. 2 cm) C_solaio di copertura - laminato metallico doppia aggraffatura - The Skin Air tridimensionale a filamenti anticondensa - pannelli in legno (sp. 2 cm) - listelli di supporto in legno - guaina impermeabilizzata bullonata - travetti in legno (sp. 5 cm) - trave in legno (sp. 24 cm) - supporti in legno - controsoffitto in pannelli di legno (sp. 2 cm)

21. Christian Boltanski, Biennale Arte 2015


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Sezione costruttiva

C

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92 | All’ombra dei faggi Cà di Vestro Animitas, Chirstian Boltanski


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Bibliografia Giancarlo Barzagli, Grüne Linie, Grafiche dell’Artiere, 2019 Luciano Bergonzini, Quelli che non si arresero, Editori Riuniti, 1971 Nazario Galassi, Partigiani nella linea Gotica, University Press Bologna, 1998 Graziani Zappi “Mirco”, La rossa primavera. Esperienze di lotta partigiana sulla Faggiola, sul Falterona e nella Bassa Imolese, Edoardo Braschi, Lavoravo alla Todt: la costruzione della Linea Gotica nel Mugello, Protagon, 2010 Paulo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, Feltrinelli, 2009 Adachiara Zevi, Monumenti per difetto, dalle Fosse Ardiatine alle pietre d’inciampo, Donzelli Editore, 2014 Michel Foucault, Utopie Eterotopie, Cronopio, 2018 Paesaggi della memoria, Itinierari della Linea Gotica in Toscana, Touring Editore, 2005 Walter Bonatti, Montagne di una vita, Baldini Castoldi Dalai, 2009 Guido Piovene, Viaggio in Italia, Bompiani, 2017 Mauro Agnoletti, La storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Editori Laterza, 2018 Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel Paese della “Commedia”, La nave di Teseo, 2019 Danilo Eccher, Boltanski. Anime, di luogo in luogo, Silvana Editore, 2017 Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 2014 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 2016 James Young, The Texture of Memory, Holocaust Memorials and Meaning, 1944


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Stendhal, Roma, Naples e Firenze, Roma-Bari, Laterza,1974 Mattia Darò, Milena Farina, Flavio Graviglia, Nuove architetture urbane, Quodibet, 2019 Peter Zumthor. Atmosfere. Ambienti architettonici. Le cose che ci circondano, Electa, 2007 Peter Zumthor, Pensare l’architettura, Electa, 2003 Sitografia https://www.literature.green/vedute-parallele-la-storia-e-il-paesaggio-in-grune-linie https://www.wumingfoundation.com/giap/2011/06/ti-propi-un-muntaner-wu-ming-2-incontra-guccini-macchiavelli/ http://www502.regione.toscana.it/geoscopio/cartoteca.html Filmografia La regina di Casetta, 2018



Al Professore Fabrizio F.V. Arrigoni, per la quantità e la qualità dei suoi insegnamenti, per avermi fatto amare più che mai l’architettura. Professore Giovanni Cardinale, per la disponibilità nell’avermi aiutato a definire una credibilità strutturale del progetto. Ad Antonio Acocella, per la sua gentilezza e i preziosi consigli. A tutti coloro che sanno di esserci stati e di avermi accompagnato in questo percorso.



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