Tesi_Enotria Tellus. Nuova cantina Antinori per la tenuta Monteloro - Firenze

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ENOTRIA TELLUS Nuova cantina Antinori per la tenuta Monteloro Firenze



Fiamma Leoncini



Enotria Tellus Nuova cantina Antinori nella Tenuta Monteloro Firenze


Relatore Prof. Fabrizio F.V. Arrigoni Correlatori Prof. Ing. Giovanni Cardinale Ph. D. Arch. Antonio Acocella Università deglio studi di Firenze DIDA | Scuola di Architettura Laurea Magistrale a ciclo unico a.a 2021|2022


Abstrac

16-21 22-31 32-37

Le origini

Mitologia Vino Mediterraneo In Toscana

Paesaggio

40-47 48-51 52-59 60-63

Storia del paesaggio agrario Architettura rurale Guardare il paesaggio Paesaggio come Opera d’arte

66-69 67-99 100-103

Enotria Tellus Loco Progetto Struttura e materiali Maquettes Bibliografia



Abstract

“Colline di Toscana, coi loro celebri poderi, le ville, i paesi che sono quasi città, nella più commovente campagna che esista.” Fernand Braudel


Abstract

“Se la campagna toscana ha uno spirito, esso s’incarna nell’inconfondibile, configurazione del paesaggio così come s’è venuto plasmando per mano dell’uomo, nella sobria eleganza delle architetture rurali, nella ricorrenza del medesimo corredo arboreo, nella secolare memoria dei cipressi. Dinnanzi alla multiforme bellezza di un paesaggio da sempre considerato fra i più armonici che siano mai esistiti, viene da chiederci se sia da ricercare proprio in questo contesto la riprova del paradosso che considera la natura il prodotto dell’arte.”1 Il paesaggio Toscano, descritto dallo storico Fernand Braudel come il più bello e commovente del mondo, si configura come un mosaico perfettamente disegnato, in cui la simmetria e la regolarità sono le matrici che hanno contribuito a disegnare quel “Bel Paesaggio” tanto decantato dal Rinascimento italiano fino ai tempi moderni. Filari di cipressi lungo le strade, vigneti che seguono le morbide curve del territorio, campi di ulivi disposti in orizzontale, si uniscono in una visibile struttura armonica divenendo un tratto caratteristico del territorio collinare toscano. La precisione e la cura con cui si disegna quest’ultimo può essere riconducibile allo studio attento e dettagliato del disegno dei giardini privati. “[…] si troveranno di quelli che anche nella prospettiva campestre amino una certa simmetria, come i toscani che sono avvezzi a vedere nella campagna tanti giardini. E così noi per l’assuefazione amiamo la

1. Attilio Brilli 1992 10


Abstract

Fotografia delle Tenuta Monteloro, Pontassieve 11


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regolarità dei vigneti, filari d’alberi, piantagioni solchi” 2 Uno scenario disegnato con geometrica precisione convive, coesiste e diviene lo sfondo dell’architettura rurale, semplice, isolata e discontinua. I caratteri dell’architettura toscana, pur nella frammentarietà delle diverse espressioni locali, si attiene ad un’unitarietà capace di creare una trama che diventa un supplemento costruito di una cornice naturale di straordinaria bellezza, anch’essa regolata dalla mano dell’uomo. Così il territorio, inteso come spazio strutturato e unitario, diventa Paesaggio. Giovanni Michelucci affermò di essere diventato architetto guardando una casa colonica, poiché in essa trovò l’intelligenza progettuale di pensare gli spazi in relazione alla loro funzione e al loro contesto. Infatti, le relazioni con il contesto diventano talvolta lo strumento del progettare architettonico, che legge le condizioni del luogo, lo trasforma e lo valorizza riconoscendo l’importanza del proprio limite entro cui intervenire, il confine del costruito. È qui che si manifesta la perfetta dimostrazione di equilibrio tra architettura e natura, sintetizzato in un reciproco rispetto in cui nessuna delle due realtà sovrasta l’altra. Il rapporto con la natura si stabilisce nel momento in cui l’architettura riesce ad evocare gli spazi, facendo vivere la natura stessa, senza necessità di imitarla o addirittura modellarla. Inserito nell’ ambiente collinare di Monteloro, il progetto cerca di instaurare un legame con il territorio, rendendo necessario un dialogo tra architettura e natura. In un paesaggio che vive grazie ai segni realizzati dall’uomo, il progetto diviene un ulteriore segno nella collina, utile

2. Giacomo Leopardi Zibaldone 20-21 luglio 1820 12


Abstract

a farla vivere nella sua completezza; i due volumi affiancati rappresentano la divisione tra l’ambiente pubblico e quello lavorativo, uniti, in superficie, da un grande spazio verde, in continuità con il paesaggio circostante, e nel piano interrato dal grosso volume della barricaia. All’interno di questi segni si creano nuovi spazi, frutto dell’architettura, nati per far convivere quest’ultima con uno dei più antichi interventi dell’uomo sul paesaggio: il vigneto.

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Le Origini

“ Il vino è uno dei maggiori segni di civiltà nel mondo.” Ernest Hemingway


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La mitologia del vino “Il bronzo è lo specchio del volto, il vino quello della mente.”3 Il patrimonio dei vitigni risale all’alba dei tempi. La famiglia delle vitacee è comparsa sulla Terra circa 140 milioni di anni fa. Le specie del genere vitis, salvate dopo le glaciazioni sono oltre sessanta, di cui alcune ritrovate in America del Nord e altre in Asia; una di queste si rintraccia nell’area tra il Mar Caspio ed il Mar Nero ed è la vitis vinifera, oggi coltivata in tutto il mondo. La prima vitis vinifera fu rinvenuta nella Mesopotamia intorno alla seconda metà del II millennio e si diffuse inizialmente nella parte orientale del bacino del Mediterraneo e in un secondo momento in Grecia, nella Magna Grecia italiana, in Francia e in Spagna. Le origini della coltivazione della vitis vinifera sativa, ai fini della produzione vinicola, risalgono, secondo le mitologie bibliche, all’area situata intorno al monte Ararat nel Caucaso, il monte in cui si arenò l’arca di Noè. “Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. E avendo bevuto vino, si inebriò e giacque scoperto nella sua tenda.”4 In antichità il vino acquistò un’importante valenza in quanto, all’interno della cultura greca, quest’ultimo venne legato al culto di un dio protettore della viticoltura: Dionisio. Secondo la mitologia greca, Dioniso nacque dall’unione

3. Eschilo 4. Genesi 9, 20-21 16


Le Origini

L’ ebrezza di Noe, Michelangelo Buonarroti 1508 Cappella 17


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di Zeus con Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe. Zeus per avvicinare la donna, in quanto mortale, le aveva nasco sto il suo vero aspetto, ma Semele, istigata dalla gelosa Era, gli chiese di poterlo ammirare nella sua forma di dio del cielo, ed essendo Zeus comparso con la folgore, restò incenerita. Zeus allora salvò dal suo corpo il piccolo Dioniso e lo cucì nella propria coscia per portarne a compimento la gestazione; quando il bimbo nacque, lo affidò alle ninfe del monte Nisa affinché lo allevassero. Cresciuto nella solitudine dei boschi, educato da Sileno, Dioniso piantò la vite, inebriandosi “ dell’umòr che da essa cola ”5. “Il giovanotto con la bella capigliatura azzurra ondeggiante e un mantello scuro sopra le forti spalle”6 come descrive Omero nei sui Inni, insegnò agli uomini la viticoltura percorrendo il mondo su un carro trainato da pantere, simbolo d’irrazionalità, con al seguito un corteo di musici, danzatrici, baccanti e divinità minori. Omero narra che nell’Olimpo il banchetto era il passatempo preferito degli dèi: “Per tutto il giorno, fino al tramonto del sole, essi se ne stanno al festino e il loro cuore non deve lamentarsi di un pranzo in cui tutti hanno la propria parte.”7 Anche gli uomini erano accettati e potevano sedere al banchetto degli dei, come racconta Esiodo: “I pasti allora erano comuni e comuni i seggi fra gli immortali e gli uomini mortali.”8 Questo culto greco per Dionisio fu mediato prima dagli Etruschi e più tardi ereditato dai Romani, che trasformarono il nome in Bacco, “colui che strepita”, per via del rumore e delle grida che facevano i suoi seguaci. La corrispondenza del latino Bacco e del greco Dio 5. 6. 7. 8. 18

Inni Omerici Descrizione del dio Dionisio negli Inni Omerici Inni Omerici Esiodo


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Dioniso ed Eros, Musei Archeologico Nazionale di Napoli

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niso era pressoché totale: così come il dio latino era figlio di Giove e Semele, analogamente Dioniso nasceva, secondo la mitologia greca, dall’incontro tra Zeus e Semele, nota anche come “Luna”. Le modalità con cui avvenivano le celebrazioni in onore di Bacco e Dioniso erano praticamente le stesse anche se, in Grecia il culto del dio risale a tempi molto più antichi. Tali feste, dette Baccanali, consistevano in celebrazioni all’insegna della sfrenatezza alle quali partecipavano anche le donne.

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Bacco, Caravaggio 1598, Galleria degli Uffizi 21


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Il vino Mediterraneo “Dai Greci ai Romani e dai Romani a noi si è trasmessa una civiltà che ha fatto del vino uno dei doni più preziosi della terra e che, nel pensiero religioso come nelle arti e nelle lettere, onora la vite.”9 L’origine della viticoltura e della produzione vinicola sono stati fenomeni circoscritti nella regione compresa tra il Mar Nero e il Golfo Persico, o tra la Turchia e il Caucaso. A partire dal monte Ararat, nella zona del Caucaso, la viticoltura si diffuse in Mesopotamia, nel Medio Oriente, nel Mediterraneo e infine nel Nord Europa. Col tempo la coltivazione della vite si riversò secondo tre percorsi; il più antico, collegava il Monte Ararat con la Mesopotamia, l’Egitto e la Grecia attraverso la cultura di vari popoli, il secondo, si sviluppò sotto l’influenza dei Greci e dei Fenici che importarono la coltura della vite nella Magna Grecia, Francia e Spagna; l’ultimo percorso, invece, sotto l’influenza romana, si sviluppò dalla Francia verso il nord Europa attraverso una commercializzazione via fiume, tramite il Rodano, il Reno e il Danubio. Grazie ai Greci il vino, commercializzato in tutto il bacino del Mediterraneo, si trasformò da semplice prodotto alimentare a merce di scambio. Nell’Antica Grecia erano frequenti e diverse le occasioni per organizzare un banchetto; nel corso del convivio il vino non veniva bevuto puro, ma era mescolato con acqua, che ne attenuava il

5. R.Dion 22


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Baccanale degli Andrii Tiziano Vacellio 1523, Museo del Prado 23


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gusto robusto e ne riduceva la gradazione. L’invecchiamento del vino, all’epoca, veniva infatti effettuato all’interno di recipienti in cuoio o creta che gli conferivano tale sapore forte e amaro. La miscela con acqua diveniva quindi, oltre ad un’esigenza derivante dalla necessità di rendere più gradevole e delicato il vino, anche una questione di etica e di buona norma e costume, stante la condivisa credenza che bere vino puro conducesse alla follia. Al consumo del vino, oltre ai banchetti, erano anche legati i momenti di maggiore comunanza all’interno delle polis greche. Le principali famiglie cittadine, infatti, si riunivano all’interno di una sala nel Simposio, letteralmente “bere insieme” (syn insieme, posis bevanda); destinata alla degustazione dei vini ospitava il Simposiarca, il maestro delle cerimonie che regolava l’andamento del banchetto tramite il canto o la recita dei carmi conviviali, utili all’intrattenimento delle persone presenti. Questi simposi non avevano solamente una funzione conviviale, come i banchetti, ma possedevano anche un valore sociale, poichè consentivano a persone appartenenti al medesimo ceto sociale di riunirsi e discutere di temi politici scambiandosi le proprie opinioni sui temi di interesse comune. Nel corso di queste tipologie di incontri diversi poeti e cantori si alternavano nel musicare e decantare la storia comune delle differenti famiglie, rafforzando il senso di appartenenza dei diversi membri della comunità. Queste “bevute comuni”, riservate agli uomini e proi

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«Beviamo. Perché aspettare le lucerne? Breve il tempo. O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte, perché il figlio di Zeus e di Sèmele diede agli uomini il vino per dimenticare i dolori. Versa due parti d’acqua e una di vino; e colma le tazze fino all’orlo: e una segua subito l’altra.»

Alceo fr. 346 Campbell, traduzione di Salvatore Quasimodo 25


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biti alle donne libere, però avevano anche un significato religioso. Nel corso del simposio, infat ti, le persone “inebriate” entravano in contatto con la divinità, sfruttando le qualità liberatrici del vino. In Italia, i Fenici, dopo avere conquistato il predominio del Mediterraneo, esportando con la loro cultura anche quella del “nettare dell’uva”, come veniva chiamato il vino, conquistarono la Sardegna e la Sicilia. Da queste due isole si diffusero le prime coltivazioni dell’uva ma furono i greci i veri iniziatori della cultura enologica italiana. Fu infatti questo grande popolo ad introdurre nella penisola nuove varietà, addomesticandole e realizzando le prime, per quanto rustiche ed arcaiche, sperimentazioni sulle uve. Intorno al VII secolo a.C. l’impronta del popolo ellenico nella storia vinicola italiana fu davvero fondamentale, basti pensare alle diverse tipologie di uve che, ancora oggi, vengono vinificate nelle terre della vecchia Magna Grecia. I primi territori che accolsero questa nuova cultura, sfruttando anche il commercio dell’uva stessa e del vino, furono la Calabria, la Campania e la Sicilia. Ai greci quindi, non si deve soltanto lo sviluppo della viticoltura e dell’arte della vinificazione nel loro paese, ma anche la diffusione di queste in altre aree. Nella penisola italiana, i romani ereditarono questo culto e raccolsero i frutti diffondendo la cultura del vino in tutta Europa, valorizzandolo e creando le premesse che lo avrebbero fatto diventare uno dei pro-

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dotti più significativi e importanti dell’intera zona. Già nel VIII secolo a.C, in ogni caso, la cultura del vino era già diffusa in Etruria e subito dopo tra le popolazioni celtiche dell’Italia settentrionale. Nei luoghi di espansione etrusca, tramite la domesticazione delle viti selvatiche spontanee cresciute nei boschi planiziali, essi iniziarono a coltivavano la Vitis vinifera sylvestris, successivamente ripresa dai Greci e dai Romani approfondendone la coltivazione tramite nuove e numerose varietà. I Romani, quindi, poterono sfruttare le basi poste degli Etruschi, i quali operano più o meno nello stesso periodo. Non si conosce con certezza se abbiano importato la viticoltura o se ne abbiano appreso le tecniche dai successivi contatti con i greci. In ogni caso gli Etruschi non furono grandi viticoltori poiché non svilupparono buone tecniche di potatura e assecondarono la tecnica delle viti maritate agli alberi. Nel periodo in cui ebbero a coesistere la civiltà etrusca con quella greca, tra le due si creò una sorta di frontiera nascosta; quest’ultima isolava e separava le differenti e diverse culture, la scelta dei vigneti e la modalità di coltivazione della vite che, come per il vino, si associavano diversi usi rituali. I popoli dell’intero paese si specializzarono nella coltivazione dell’uva, divenendo degli esperti viticoltori e produttori di vino; quest’ultimo divenne uno dei prodotti più preziosi da commerciare in tutta la penisola e in Europa. Divenendo uno dei prodotti caratteristici dell’Italia, grazie al grande sviluppo causato dal

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clima mediterraneo, la buona esposizione al sole e le favorevoli correnti d’aria montane, quest’ultima iniziò ad essere chiamata “Enotria tellus”, la “terra del vino”. Per un lungo periodo la viticoltura e l’enologia romane sono state più che modeste, soprattutto se paragonate a quelle della Grecia e dell’Oriente, con le quali l’Italia peninsulare non poteva neanche lontanamente competere, eccezione fatta per la Magna Grecia, dove i coloni si erano specializzati nell’arte enologica. Il momento in cui la Grecia divenne una provincia di Roma (146 a.C.), si registrò un periodo di fulgida fioritura economica sociale ed agroalimentare. Mentre la tradizione riteneva migliori i vini dell’Egeo, Plinio notò che, fin dalla prima metà del I Secolo a.C., i vini italiani avevano cominciato a godere di pari fama e che questi rientrassero tra le preferenze della popolazione. Agli albori della pratica enologica, i Romani, non persuasi dell’affidabilità e della qualità del loro vino, puntarano sulla quantità. Ciò permise di estenderne il consumo anche alle classi sociali urbane più umili e persino agli schiavi. Secondo Catone, come si evince dal De agricoltura, nella prima metà del II secolo a.C., la coltivazione del vino era la più sviluppata e importante; il vigneto, così come l’uliveto, non era più concepito come semplice arboreo familiare, ma una vera e propria piantagione che impegnava una mano d’opera servile sempre più crescente. L’opera di trasmissione della viticoltura dal Mediterraneo al resto dell’Europa venne com-

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Illustrazione dai Tacuina sanitatis (XIV sec.) che mostra viti maritate agli alberi 29


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pletata dalle legioni romane, che esportano la vite al nord, dimostrando come l’uva potesse crescere e maturare anche nelle zone settentrionali, dando, ovviamente, alla luce vini diversi (meno alcolici, più acidi, più aromatici etc.). La continua espansione e il continuo studio delle capacità agricole portarono ad un periodo fiorente della coltivazione dell’uva che proseguì fino alla caduta dell’Impero Romano (476 d.C.), nel quale si definirono le tecniche di coltivazione della vite che furono utilizzate praticamente fino al 1700.

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In Toscana “E perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sol che si fa vino, giunto a l’omor che de la vite cola.”10 La storia del vino in Toscana trae origine dagli Etruschi che introdussero nell’Italia centrale la coltivazione della vitis vinifera, facendone una delle principali coltivazioni. Attorno alla coltura della vite, la cultura etrusca si distinse da quella greca per la metodologia di coltura di essa; nel mondo greco prevalse la tecnica della vite a ceppo basso o ad alberello con sostegno morto, mentre la pratica etrusca si caratterizzò per l’adozione di sostegni vivi, denominata come coltivazione della vite maritata ad alberi (pioppi, aceri, olmi.). Estese alberate sulle quali le viti crescevano venivano a connotare il paesaggio agrario etrusco unico rispetto a quello del resto del Mediterraneo. Come dimostrano i ritrovamenti delle anfore vulcenti etrusche, risalenti al VII secolo, la produzione del vino toscano non si limitò al solo consumo locale bensì divenne oggetto di un’intensa commercializzazione lungo tutta la costa occidentale del mediterraneo, passando per la Corsica, la Francia meridionale per arrivare fino in Spagna. Al contempo, in direzione del barbarico nord e dell’Europa continentale, furono ritrovate delle tipologie di brocche dal becco allungato dette Schanabelkanne, la cui esporta

10. Dante Alighieri Purgatorio; Canto XXV; versi 76-78 32


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zione nasceva e si espandeva dall’Etruria meridionale. La produzione del vino attraversò un momento di arresto con la crisi della civiltà etrusca per riprendere, in seguito, quando si affermò l’avvento dell’Impero Romano fino a divenire, nel Medioevo, la seconda coltura per importanza seconda solo a quella cerealicola. Sia perché era l’unica bevanda alternativa, oltre l’acqua, sia per il suo contenuto calorico, il vino non era più ritenuto una bevanda aristocratica ma divenne parte integrante della dieta quotidiana di ogni ceto sociale del tempo. Le conoscenze sulla viticoltura nella Toscana del Medioevo acquistano una certa rilevanza solo a partire dal XIII secolo grazie ad una documentazione sempre più ampia. Nei secoli precedenti, le viti si situavano nei pressi dei centri urbani o all’interno delle mura cittadine; a testimoniare la presenza di queste coltivazioni all’interno di Firenze, ancora oggi esistono due vie all’interno del centro storico, denominate via della “Vigna Vecchia” e via della “Vigna Nuova”. Allontanandoci dalla città, i vigneti sorgevano ai margini dei villaggi, accanto a monasteri o canoniche. Essendo una coltura specializzata, che richiedeva l’apporto continuo di lavoro dell’uomo e che doveva essere sorvegliata e protetta dalle devastazioni e dai furti, il vigneto non poteva sorgere in aperta campagna lontano dai coltivatori. La viticoltura, infatti, iniziò a diffondersi grazie agli ordini monastici, come quello dei Benedettini e dei Vallombrosani. I monaci, impegnati in piccole attività produttive, sfrut-

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tavano la viticoltura per rifornire le scorte dei vescovati, colpiti nel medioevo da un periodo di forte povertà. Per i secoli successi al XII secolo, il Catasto fiorentino del 1427 rappresenta la fonte principale per ricavare informazioni sulla viticoltura in Toscana, soprattutto grazie alla nascita delle arti e delle corporazioni. A Firenze, nel 1266, i vinattieri costituirono un’unica corporazione assieme ad osti, fornai e albergatori ma nel 1282 il calice rosso in campo bianco divenne lo stemma delle arti autonome dei vinattieri con sede in Palazzo Bartolomei-Buschetti. Ne facevano parte i proprietari delle osterie e i mercanti di vino che potevano vendere la loro merce all’ingrosso o anche al dettaglio nelle mescite. Con una precisa struttura organizzativa, vennero decise e varate delle precise e severe norme per l’esercizio delle attività; il prezzo di vendita del vino toscano veniva fissato ogni tre mesi e durante il periodo di vendemmia era di norma più basso, in modo da facilitare la vendita di tutte le rimanenze così da lasciare posto al vino novello. Per molti contadini la produzione di vino rappresentava la maggior fonte di guadagno, il vino in eccedenza poteva essere venduto sui mercati locali o direttamente ai consumatori. I grandi proprietari, come i Peruzzi, Antinori o Frescobaldi non facevano parte dell’arte e vendevano direttamente il vino di propria produzione all’interno dei rispettivi palazzi. Nel Rinascimento il ruolo del vino rimase centrale e il prestigio dei vini toscani continuò a crescere, soprattutto grazie all’esportazione di ingenti

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Carro matto toscano davanti a Palazzo Antinori 35


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quantità di vino in Europa, in particolare in Inghilterra. La vera svolta sulla percezione dell’importanza del vino si ebbe tra il XVII e il XVIII secolo grazie a due personaggi molto rilevanti del periodo. Francesco Redi, tra i padri della biologia moderna, scrisse nel 1685 Bacco in Toscana, ovvero un elogio del vino in generale ma in particolare quello toscano; nato come scherzo linguistico, accrebbe la sua importanza negli anni fino a divenire un lunghissimo polimetro che cambiò la percezione del vino toscano. Altra figura fondamentale fu Cosimo III che fece aumentare il valore e la percezione dell’importanza del vino toscano tramite due eventi molto importanti. Dal 1670, annualmente, decise di regalare ai più importanti sovrani europei del vino come simbolo delle buone relazioni diplomatiche; invece, nel 1716 emanò il bando granducale dove determinò la protezione delle quattro zone vinicole che oggi formano la Denominazione di Origine Controllata: Chianti, Carmignano, Pomino e Valdarno superiore. Dopo la metà del Settecento, la viticoltura e l’agricoltura fecero un salto di qualità grazie alla nascita dell’Accademia dei Georgofili; nata per studiare, grazie ai proprietari terrieri e a studiosi, nuovi orizzonti della ricerca agronoma. Un importante socio di questa organizzazione fu Bettino Ricasoli che fino al ‘800 studiò con quali uvaggi si potesse ottenere un vino più moderno rispetto all’antico “Vermiglio”, troppo corposo e denso. La Toscana, quindi, riuscì a creare un primo vino rosso italiano da pasto con caratteristi-

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che consone all’utilizzo domestico dei consumatori. Poco dopo l’Unità d’Italia, il divario con la Francia era evidente, il Bel Paese era indietro nel commercio mondiale del vino a causa delle difficoltà di trasporto. L’arrivo della fillossera, insetto che si diffuse nei vigneti europei, creò una crisi generale nel mercato francese; l’Italia provò a subentrare ma la mancanza di identità del vino, esempio ne è il Chianti prodotto sia in Toscana che in Campania e Sicilia, non consentì di espanderlo nel mondo. Nel secondo dopoguerra la mezzadria, che caratterizzò il sistema economico organizzativo toscano per sette secoli, cessò il suo ciclo. Una vera rivoluzione, riguardante il sistema di produzione e meccanizzazione, che portò la Toscana ad essere un punto di riferimento in Italia e nel mondo, consolidando le etichette storiche come il Tignanello e il Sassicaia.

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Il paesaggio Italiano

“ La terra vale quanto chi la lavora.” Marco Aurelio


Il paesaggio italiano

Dal paesaggio mezzadrile al paesaggio del vigneto “Il paesaggio è quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale.” 11 Da sempre l’agricoltura ha svolto non soltanto il ruolo centrale del settore primario tramite la principale produzione di beni alimentari, ma è stata ed è una delle attività umane più antiche che da sempre ha modellato il paesaggio, modificandolo e influenzandolo. Essa ha contribuito in maniera determinante alla conformazione del territorio, all’organizzazione della società e alla formazione del paesaggio, divenendo il principale strumento di antropizzazione dell’ambiente naturale e la struttura basilare di ogni paesaggio rurale. L’agricoltura toscana fu caratterizzata, sino dal basso medioevo, da diverse forme di contratto agrario che tendevano ad incrementare la produttività̀ dei vari poderi, consentendo al colono di partecipare direttamente alla ripartizione dei prodotti e degli utili del podere stesso; tali contratti, evolvendosi nel tempo, si svilupparono nei primi anni del XIII secolo in quello che divenne il tipico contratto agrario toscano, la mezzadria. La mezzadria era appunto un contratto stipulato tra un mezzadro, rappresentante della manodopera, e il proprietario, figura del capitale, che concedeva l’utilizzo dei terreni in cambio di divisione a metà

11. Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano. Ed. Laterza 1961 40


Il paesaggio italiano

Pesaggi, Mario Giacomelli 41


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dei prodotti e degli utili. Il podere era l’unità di base della fattoria e contribuì a cambiare l’aspetto del territorio, il quale assunse i lineamenti di un paesaggio agrario a campi chiusi, composto da vigneti, frutteti, orti, seminativi e pascoli. Questa conformazione paesaggistica traeva il suo fondamento da una struttura interpretabile come un insieme di relazioni tra elementi di origine antropica e naturale, raffigurando un complesso di regole che presiedevano all’organizzazione del paesaggio e gli conferivano identità estetica e riconoscibilità. Si tratta dunque di un paesaggio costruito, risultato di un sapiente e antico lavoro agricolo, rigido e resistente nei suoi tratti essenziali, ma anche sensibile al tipo di attività agricola, fortemente legato alla presenza degli agricoltori e delle loro famiglie nella campagna. La morfologia agraria, la trama dei campi, i boschi, la viabilità, i sentieri, le piantagioni e la disposizione delle case colonica, costituivano l’ordine agrario alla base del paesaggio. In particolare, la diffusione delle colture arboree nei diversi sistemi agricoli, da sempre protagoniste in questa incessante formazione e trasformazione del territorio, rappresentavano un elemento principale dell’evoluzione e della fragilità del paesaggio; tra questi, l’olivo e la vite costituivano, fin dall’antichità, un tratto rilevante dei territori e delle culture dell’area mediterranea. In Toscana, tra il basso medioevo e l’età moderna, si affermò un sistema di coltura promiscua, nel quale l’ulivo e la vite coabitavano simultaneamente, disposti in filari, tra i

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campi o ai margini delle prode, ovvero gli appezzamenti di terra dedicati alla seminazione. In antichità, essendosi diffuso il tipo di vigna maritata, in cui la vigna veniva fatta crescere attorno ad alberi, anche gli alberi da frutta rappresentavano componenti complementari dei poderi mezzadrili; all’interno delle stesse vigne potevano essere piantati un pesco o un melograno oppure altri alberi, come aceri, olmi, pioppi, che contribuivano a dare al paesaggio una dimensione verticale sovrapposta a quella orizzontale dei seminativi, anch’essi composti da una straordinaria varietà di cereali, legumi, ortaggi e foraggi. Nel paesaggio agrario del primo Rinascimento la novità principale fu la sistemazione collinare a ciglioni o a terrazzamenti, importante non solo perché attraverso imponenti spostamenti di terreno si spezzava la ripida linea del declivio collinare, ma soprattutto per il suo utilizzo pratico, ai fini della sistemazione delle colture arboree ed erbacce e di quei lenti declivi che il rilievo collinare spontaneamente offriva all’agricoltura. Grazie a queste operazioni di livellamento delle superfici, gli ulivi non venivano piantati più solo ai piedi del colle ma raggiunsero la vetta, aumentandone così la produzione. La sistemazione a ciglionamento, successivamente, si diffuse in tutta l’Italia, divenendo una degli assetti collinari che imprimono, ancora oggi, al paesaggio agrario italiano uno dei suoi tratti più caratteristici. “ Le piagge delle quali montagnette così digradano giù verso’l piano discendevano, come e’teatri lèggiamo dalla loro som-

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mità i gradi dell’infino all’infimo venire successivamente ordinati…Et erano queste piagge, quanto alla plaga del mezzogiorno ne riguardavano, tutte di vigne, di ulivi, di mandorli, di ciliegi, di fichi e d’altre maniere assai d’alberi fruttiferi piene […]”12. Oggigiorno, gli alberi rivestono una posizione centrale del lungo processo di costruzione del territorio avvenuto fin dal medioevo in buona parte della Toscana centrale. Vigne, alberi e case poderali sono dunque elementi strutturali del paesaggio rurale delle regioni che hanno a lungo conosciuto l’agricoltura della mezzadria. “ I colli per vendemmia festanti, e le convalli popolate di case e di oliveti […]”13 scriveva Foscolo ai primi dell’800 per descrivere l’immaginario e la struttura delle colline fiorentine. All’inizio dell’Ottocento si verificò una crisi della mezzadria, determinata da un calo dei prezzi dei principali prodotti dell’agricoltura, come quelli del grano e del vino, causando una notevole trasformazione nella quale si affermò nuovamente la ripresa dell’olivicoltura; l’olivo diventò uno dei principali protagonisti della trasformazione ottocentesca. “ Il poggio è vestito di olivi che non invidiano quelli delle vallate di Buti o di Calci […] nelle oliveti seminano ogni tre o quattro anni, e più comunemente fave e anche trifoglio e vena; vi nascono spontanee dell’erbe che gli agricoltori seccano per averne fieno l’inverno […] nelle coltivazioni nuovamente fatte...è seguito il sistema generale praticato in Toscana, cioè di frammischiare le viti e gli olivi in filari orizzontali nei campi a sementa.” 14

12. Giovanni Boccaccio, Decameron, Sesta giornata 13. Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv.151-212 14. L. de’ Ricci, Giornale agrario toscano 44


Il paesaggio italiano

La nebbia a gl’irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar; ma per le vie del borgo dal ribollir de’ tini va l’aspro odor de i vini l’anime a rallegrar. Gira su’ ceppi accesi lo spiedo scoppiettando: sta il cacciator fischiando sull’uscio a rimirar tra le rossastre nubi stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri, nel vespero migrar.

San Martino, Giosuè Carducci 45


Il paesaggio italiano

Dopo la metà dell’Ottocento, si registra una notevole estensione delle terre a coltura e un progresso delle piantagioni arboree e arbustive, che dopo l’Unità d’Italia vengono improntando di sé il paesaggio agrario toscano, ove si allarga il tipo dell’alberata tosco-umbro-marchigiana. L’avvento delle nuove riforme, l’abbandono dei poderi da parte dei proprietari e la specializzazione della produzione spinta dalla richiesta del mercato sono stati tutti fattori che, a partire dalla metà del Novecento, hanno determinato una semplificazione del paesaggio e l’abbandono della varietà delle specie coltivate. In un primo tempo la fine della coltivazione promiscua ha determinato la scomparsa del fraseggio tra colture erbacee e colture arboree; in una seconda fase anche la piantagione di alberi è entrata in crisi con la quasi assenza di alberi da frutto. Alberi come il pesco, il noce o il melo e altri fruttiferi, caratteristici della zona, non occupavano più le zone di terreno intorno alle case coloniche, sugli argini dei campi o tra i vigneti. Con essi non se ne è andato solo un tratto di paesaggio, cromaticamente sensibile al succedersi delle stagioni, ma anche uno straordinario patrimonio varietale e di biodiversità. Successivamente è toccato alla trasformazione più rilevante in cui gli ulivi hanno ceduto il loro posto alla coltura specializzata della vite che, dalla fine del Novecento, ha assunto un ruolo primario che riveste ancora oggi, portando la trasformazione di un paesaggio per secoli definito mezzadrile nel paesaggio del vigneto.

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Fotografia Tenuta Monteloro 47


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L’ architettura rurale “L’architettura rurale rappresenta una testimonianza dell’evoluzione del paesaggio agrario e delle sue strutture economiche e sociali.” 15 La mezzadria ha rappresentato il fondamento della storia e della cultura delle campagne toscane, contribuendo a modellarne il paesaggio sulla base delle proprie regole, definito da un ordine di piantagioni avente come fine ultimo l’utilitas. La casa colonica rappresentava l’elemento architettonico essenziale del bel paesaggio toscano, costituito da un nucleo centrale attorno al quale sorgevano altri edifici. Si presentava quindi come “un complesso articolato di spazi organizzati, attrezzature e ambienti nel quale la famiglia rurale concentra le proprie funzioni abitative e parte delle attività lavorative.”16 L’interazione di diversi spazi, con funzioni diverse ma specifiche rappresentava la varietà dello spazio abitativo e lavorativo delle case storiche appartenenti al paesaggio mezzadrile. Il podere, quindi, era formato da vari edifici come la casa del lavoratore, la stalla o la capanna per il bestiame, il forno e l’aia. Quello della casa del lavoratore, strettamente legata al podere, era dunque uno dei suoi elementi identitari. Più conosciuta oggi come “casa colonica”, dopo l’estinzione della mezzadria, è rimasta la testimonianza più significativa dell’architettura del paesaggio agrario del quale era par

15. H. Desplanques 1970 Greppi C. Tini S. 1983 16. G. Salvagnini 1980 48


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Fotografia Tenuta Monteloro 49


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te integrante, definendo, come detto precedentemente, “il bel paesaggio toscano”. Erano edifici che si sviluppavano su due livelli, caratterizzati da poche aperture di dimensioni ridotte; i piani erano suddivisi per funzione, al piano terra, erano presenti gli ambienti di lavoro, ovvero la stalla e la tinaia, mentre al piano superiore vi erano gli spazi dedicati al vivere e alla famiglia, come la cucina e le camere per dormire. Erano architetture minime che rispondevano alla semplice requisito dell’utilitas; come compare in un estimo fiorentino del 1269, relativo ai danni subiti dai Guelfi da parte dei Ghibellini dopo la battaglia di Montaperti, tale tipologia abitativa veniva chiamata capanna habitatoria. Il nome, quindi, definiva la funzione dell’architettura, caratterizzata e costruita con materiali poveri, come terra, argilla e paglia; solo a partire dal Trecento, furono introdotti nuovi materiali come l’uso della pietra locale, il mattone, il cotto per le coperture e il legno che conferivano alla struttura una maggiore resistenza e durabilità nel tempo. Nell’età del Rinascimento, con la figura di Cosimo I, la Toscana conobbe un periodo di stabilità politica nonché un fiorente andamento economico grazie ad una ripresa produttiva e commerciale. L’espansione di poderi, grazie anche alle opere di bonifica attuate in alcune zone pianeggianti, permise la costruzione di colonie di maggiore dimensione, con la possibilità di ospitare un numero maggiore di lavoratori e insieme le loro famiglie. Cambiò così l’idea della casa rurale come semplice luo-

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go di lavoro, alla quale si aggiunsero nuovi spazi, non soltanto relativi all’utilitas, ma anche destinati al piacere; nasce così la “casa del signore” che si recava in villa per controllare il mezzadro e godere i piaceri della campagna. Il nuovo assetto abitativo-lavorativo si presentava simile al precedente, con un impianto volumetrico semplice di forma regolare, dettato da un marcata simmetria, caratterizzato da copertura a padiglione, archi, colombaia, portici e corti. Si giunse così a quel modello abitativo in grado di esaltare il “linguaggio di semplicità adatto appunto ad esprimere la ruralità come distinta dall’urbanità.”17

17. Gori Montanelli L. 1994 51


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Il paesaggio come Opera d’arte “La campagna toscana è stata costruita come un’opera d’arte da un popolo raffinato, quello stesso che ordinava nel ‘400 ai suoi pittori dipinti ed affreschi: è questa la caratteristica, il tratto principale calato nel corso dei secoli nel disegno dei campi, nell’architettura delle case toscane. È incredibile come questa gente si sia costruita i suoi paesaggi rurali come se non avesse altra preoccupazione che la bellezza.”18 Nel periodo tardo umanistico si manifesta una sensibilità per il territorio rurale ed il paesaggio, inteso come rappresentazione del paese, tanto da assumere nelle arti figurative un ruolo centrale rispetto alle epoche precedenti; nasce così un’estetica del territorio anche grazie all’evoluzione della villa, la quale affianca all’antico ruolo di res rustica, la cultura dell’otium, vivendo la campagna e il paesaggio stesso. Nella pittura l’evoluzione della concezione e della raffigurazione del territorio si manifesta con la trasformazione del paesaggio inteso come semplice sfondo, quinta scenica, semplice oggetto complementare all’immagine protagonista, a soggetto della rappresentazione. Questa trasformazione è determinata dalla laicizzazione della società comunale e dall’affievolirsi del simbolo sacro come presenza totale dell’immagine, una bellezza, non più interpretata come riflesso della luce divina sulle cose

18. H. Desplanques, I paesaggi umani, Touring Club Italiano, 1977 52


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Dettaglio dell’affresco Gli Effetti del Buon e Cattivo Governo, Ambrogio Lorenzetti 1290 53


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terrene, ma come giusta composizione delle realtà. In pittura, l’importanza degli aspetti metaforici e allegorici si nota a favore di una rappresentazione più affine alla realtà osservata e ad una bellezza a misura umana. Un esempio di questa trasformazione è l’affresco Gli Effetti del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, in cui l’attenzione non è più sul sacro che funge da contesto convenzionale, ma si sposta sulla vita quotidiana nelle città e nelle campagne. L’ estetizzazione del territorio si intensifica ulteriormente tramite un processo di invenzione del paesaggio, interpretato secondo una duplice valenza; sia come individuazione di significati estetici storicamente introdotti nella realtà territoriale come il senso della misura, la regolarità, la simmetria, sia come trasformazione del paesaggio in descrizioni e rappresentazioni dall’alto contenuto fantastico e immaginativo. Fra la seconda metà del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, la pittura italiana testimonia un’immagine del territorio visto come paesaggio, in cui la natura, come motivo estetico e allegorico, si pone in secondo piano favorendo una rappresentazione che mira a rivelarne la sua bellezza intrinseca; si tratta di una natura costruita dall’uomo, senza distinzione tra un paesaggio ideale e uno realistico in quanto i due aspetti si fondono in un unico immaginario. La bellezza risiede in una realtà oggettiva, visibile all’occhio umano. In questa concezione del paesaggio, particolare importanza riveste il panorama toscano, soprattutto il paesaggio collinare fiorentino.

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Firenze, infatti, viene percepita come città in forma di giardino, ornata da colline preziose e monti boschivi, espressione del perfetto equilibrio tra natura e costruito, un’armonia pura. “Certamente paiano i colli ridere et pare da loro uscire et intorno spandersi una alegrezza, la quale chiunque vede et sente, non se ne possi satiare; per tale che tutta questa regione si può meritamente riputare et chiamarsi uno paradiso, a la quale né per bellezza, né per alegrezza in tutto il mondo si trovi pari. Per la qual chosa quelli che venghano a Firenze sono stupefatti, quando dalla lungha et d’alcuno alto monte veghano tanta opera et tanta grandezza di città, tanta larghezza et tanto ornamento et tanta quantità di ville allo intorno.”19 Questa trama fra bellezza reale e ideale si ritrova in alcune delle opere dei più grandi esponenti del periodo. Esempi evidenti di questo immaginario sono La Deposizione della croce del Beato Angelico del 1438, Ritratto dei Duchi di Urbino di Piero della Francesca del 1472 e infine Il viaggio dei Magi di Benozzo Gozzoli, 1459. La campagna coltivata limitrofa alle mura della città, rocche e paesi circondati da campi chiusi, la valle tiberina e i monti circostanti diventano elementi di un paesaggio che, pur continuando a fare da sfondo al protagonista, conferiscono un contesto familiare al santo o ai soggetti religiosi presentati in primo piano. Per giungere a queste finalità i pittori non devono necessariamente dipingere un paesaggio reale, fedele all’originale, ma lo raffigurano, tramite un principio di realismo,

19. Leonardo Bruni, Laudatio florentinae urbis 1403-1404 55


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con un’identità simbolica riconoscibile nel contesto. Alla fine del Quattrocento, nasce il paesaggismo, un tipo di pittura in cui il paesaggio cambia notevolmente il suo ruolo. Non si presenta più come semplice cornice, sfondo di un insieme di figure, bensì diventa il soggetto principale dell’opera. Questa corrente si sviluppa molto nella pittura nordica, nei quadri di Konrad Witz e Albrecht Durer, mentre in Italia la committenza rimane molto più legata ai temi religiosi. Si tratta di paesaggi che, autonomi da ogni contesto reale, possiedono la semplice funzione di attivare immagini fantastiche e arcaiche, in cui trovano larga diffusione l’uso di effetti atmosferici, di forti luci nei cieli, sulle nuvole, sulle foglie e sugli alberi. Si pongono così le basi per il pittorico, che significa “ciò che è proprio della pittura e dei pittori”, teorizzato nella seconda metà del Settecento. Nel panorama artistico della Toscana dell’Ottocento, di particolare importanza è la corrente artistica dei macchiaioli, e successivamente dei loro allievi. La produzione di questi pittori, attivi a partire dalla seconda metà del secolo, costituisce un considerevole corpus di testimonianze sulla percezione del paesaggio, proponendo una sua restituzione aderente il più possibile al vero. “Lasciate le astrazioni di un bello divino l’umanità sentendosi figlia della terra che copriva, palpitò per la natura animale, vegetale e minerale e avuta dalla scienza le intime ragioni della loro esistenza, ritrovò nella materia sé stessa. […] E’ osservato que-

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sto pubblico, non istruito da precetti estetici che nel vedere rappresentato se stesso nella pittura di genere e nel paesaggio, gusta la calma di un cielo paesano e di una campagna che lo diletta, e interessandosi a quest’arte, presente il progresso al quale essa tende.”20 Gli ideali dei macchiaioli trovano terreno ideale in Toscana, una pittura di paesaggio calibrata, razionale, sobria con forme espressive in continuità con la realtà e lontane dai “tocchi arditi” tipici di quell’arte e di quella sensibilità dell’età romantica. La campagna diventa il luogo privilegiato di questa ricerca artistica, espressione della cultura locale e dei valori che essa esprime, così da sperimentare i principi del realismo e dell’adesione al vero, concepita come rifugio alle trasformazioni della città e della società contemporanea. Ne sono esempi la Veduta del colle di Fiesole di Ferdinando Buonamici 1868, sintetizzando le ville che punteggiano le pendici con tanti piccoli volumi bianchi dall’apparenza di semplici case coloniche e soprattutto inserendo nel primo piano, due ben visibili e modeste file di panni stesi, o nei dipinti di Giovanni Fattori come la Campagna toscana, Viottolo tra gli olivi o quelli di Telemaco Signorini ricordato Paesaggio Toscano 1873 o Sulle colline a Settignano 1885. In quest’ultimo un muretto scalcinato affiancato da una siepe, o da un filare di ulivi lungo la strada, che occupa il primo piano dell’opera, conferisce alla composizione un tono quasi domestico e familiare, nonostante la presenza delle ville e dei cipressi sullo

20. T. Signorini, cit.in S. Pinto pag 46 57


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sfondo. Sono opere che ritraggono la campagna in una visione d’insieme, ordinata e strutturata da regole, contribuendo alla caratterizzazione del paesaggio toscano nella sua immagine più classica: i colli disseminati da case e borghi rurali, le colture legnose come l’ulivo e la vite a rivestire i pendii, il suolo tenuto a grano, cipressi e alberi isolati che sorreggono visivamente la composizione si erigono verticalmente a spezzarne l’orizzontalità. In queste raffigurazioni emerge, oltre all’individuazione delle singole componenti del paesaggio, l’illustrazione della loro reciproca combinazione, un complesso di relazioni fondative sul piano dell’immagine e della percezione di quel contesto. Così gli insediamenti sono posti sulle sommità di poggi e crinali, formalmente ben definiti e conclusi a scandire l’alternanza di pieni e vuoti, costituiti da un’edificazione compatta di case che tengono il filo della strada; le ville, le case sparse, le chiesette di campagna sono corredate di un loro specifico paramento arboreo, più o meno fitto e pregiato a seconda della tipologia; i campi sono serviti e separati da sentieri, viottoli, siepi, ciglioni, talvolta da muretti, che compongono una trama diversificata e articolata. Le strade seguono la linea dei crinali come si osserva nei panorami ripresi a una certa distanza nei quali il profilo delle colline è definito da un filare di alberi, quasi sempre cipressi, che corre loro parallelo.

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Sulle colline di Settignano, Telemaco Signorini 1885. 59


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Guardare il paesaggio “Ciò che si vede in un paesaggio è molto di più delle forme, delle ombre e dei disegni. È un’intera civiltà. Senza dubbio vedere è sapere, ma sapere aiuta a vedere.”21 Il paesaggio agrario è il risultato della progettazione e dello sfruttamento di una parte di superficie da parte dei suoi abitanti. Nel territorio coesistono due diversi aspetti, uno morfologico, caratterizzato dalla natura del terreno e dalla configurazione dei luoghi, e uno insediativo, determinato dall’uomo con le sue azioni organizzative. Il paesaggio si fa così un dominio ben distinguibile di spazio fisico, luogo concreto determinato da una totalità di segni e di significati legati al rinnovamento dei materiali ed alla variazione del gusto. Nel paesaggio sono evidenti i segni, i simboli, le ferite, la diversa natura, la cultura e le stratificazioni storiche accumulate nel corso del tempo, tutt’ora visibili. Il paesaggio vive, per chi lo osserva, per mezzo della condizione di essere abbracciato con lo sguardo; ciò preclude oltre che una percezione diretta del paesaggio da parte del soggetto, anche una lettura approfondita che il soggetto fa di esso filtrando ogni sua caratteristica fisica, antropologica, biologica ed etnica. Il paesaggio si valorizza e assume propriamente ogni suo significato quando uno spazio naturale si trasforma in spazio antropizzato; la percezio ne di quest’ultimo nella sua totalità è un processo sog

21- J. R. Pitte11983 60


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Pesaggi, Mario Giacomelli

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gettivo e la sensazione percepita è una forma spirituale che unisce visione e spiritualità creando dentro la nostra mente un’immagine di paesaggio ideale. Esistono due tipologie di percezioni del paesaggio: una è istintiva, quando osserviamo un panorama strettamente naturale, l’altro è di tipo artistico, relazionata al piacere che si prova davanti ad un’opera costruita dall’uomo come un quadro, una scultura o un paesaggio antropizzato. In tal caso per cogliere il piacere estetico dell’oggetto e la sua comprensione è necessario conoscere gli elementi oggettivi dell’osservazione. “Significa cominciare a stabilire alcune fondamentali misure del proprio rapporto con il mondo circostante, significa cominciare a scorgere sensi e proporzioni e rapporti nuovi, forse sinora insospettati, fra le parti (vegetali, geologiche, climatiche, biologiche, architettoniche) che il paesaggio costituiscono. Significa, in breve, imparare a leggere qual grande sistema di segni, di simboli, di linguaggi occulti e anche palesi che l’immagine paesistica sempre ci presente. E significa, infine, rendersi conto di se stessi come entità dinamiche, come osservatori e fruitori la cui vitalità, la cui sete visiva, tattile, olfattiva, motoria, non è mai esausta: entrare nel cerchio ancora vergine di un’infinita potenzialità esperienziale.”22 Studiando il paesaggio si ripercorre un insieme concreto di forme, ed espressioni che richiamano significati e funzioni “[…] segni di origine utilitaria e funzionale che diventano segni perché per il solo fatto che c’è so

22. D. Bertocchi 62


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cietà, ogni uso è convertito in segno di questo uso.” 23 Il paesaggio è dunque una struttura di segni del territorio, e non essendoci segni senza valore, è possibile analizzare il paesaggio nelle sue componenti significative, identificazione e scomposizione dei segni nei loro differenti aspetti di configurazione. È il riflesso del legame culturale della natura e dei suoi elementi, è la misura dell’azione dell’uomo sul territorio, necessaria per comprendere che il paesaggio non esiste senza l’uomo. Lo studio dell’ambiente che ci circonda, non guidata dal senso di conoscenza, rimane nel campo estetico, quando esso è osservato alla ricerca di un’armonia fra le componenti è allora che esso diventa paesaggio.

23. R. Barthes 63



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“Il punto di partenza è la tensione verso la bellezza, verso l’arte, in modo che la sorpresa, lo stupore, l’inatteso siano parte anche dell’opera architettonica.” Oscar Niemeyer


Enotria Tellus

Luogo “ Il luogo è un frammento della terra alla quale l’uomo ha dato un nome roconoscendone una identità simile a quella degli esseri viventi, un qualcosa che lo distingue da tutti gli altri luogi e che è alla base dei sentimenti che produce in noi l’osservarlo, l’interrogarlo, l’ascoltarlo e anche l’abbandonarlo e il ritrovarlo. Il luogo è il prodotto di una realtà naturale alla quale si aggiunge l’intervento dell’uomo, un intervento di cura, di coltivazione, ma anche di trasformazioni pensate in funzione dell’abitare che altro non è che una appropriazione che si concreta nella costruzione di corpi artificiali, di architetture cioè che possono arricchire il luogo esprimendo l’alleanza dell’uomo con la terra che è alla base di ogni civiltà.”24 Allontanandosi dalla caotica e frenetica città di Firenze, salendo sui colli fiesolani, fra il torrente Sieci, che scorre da levante a scirocco, e il torrente Falle, da ponente a libeccio, scorgiamo un piccolo e tranquillo borgo sospeso nella campagna toscana, è il borgo di Mons Laurus, meglio noto come Monteloro. Composto da un modestissimo centro abitato e casali sparsi per le colline, la località di Monteloro è famosa soprattutto per essere stata il luogo di incontro del poeta Dante Alighieri con Beatrice Portinari. Nella biografia “Dante Alighieri” di Richard Warrington Baldwin Lewis, lo scrittore racconta che il Sommo Poeta trascorse la sua gioventù a Pagnolle, piccola località nel

24. Paolo Portoghesi, Ninfa nella campagna romana da città dei ruderi a splendido giardino, Gangemi, Roma 2019 66


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Fotografia Lotto Intervento 67


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comune di Fiesole. Qui vi si ritrova sia Villa dei Portinari che la tenuta della famiglia Alighieri, poco distante dalla Chiesa di San Miniato a Pagnolle. Si narra che all’uscita di una messa la domenica mattina, proprio in questa piccola chiesa sia nata la loro storia d’amore e ammirando il panorama delle colline di Pontassieve, il poeta abbia trovato l’ispirazione per la creazione della Divina Commedia. Infatti, per raggiungere la propria tenuta estiva, dal Casentino, Dante attraversò la Valle dell’Inferno a Santa Brigida, oltre la quale si intravedeva Monteloro, paragonato al Paradiso, in quanto ospitava la dimora dell’amata Beatrice. Un panorama naturale, incontaminato ricco di profumi e di colori, che riveste il suo territorio, nella parte più alta, con boschi di faggeti, castagneti e abeti, mentre nella parte più bassa si estendono prati che si intervallano a olivete e vigneti. Immersa in questa cornice naturalistica si trova la Tenuta Monteloro, appartenente alla famiglia Antinori dal 2008. La Tenuta, posta a circa 500 m s.l.m., estende la propria superficie per 594 ettari, di cui attualmente 95 ettari vitati a uva bianca e 15 ettari ad uliveta. Il clima è fresco e le importanti escursioni termiche tra il giorno e la notte hanno orientato la scelta varietale su vitigni a bacca bianca il cui impianto è iniziato nel 2002. Lo studio delle caratteristiche ambientali e pedologiche dei vari siti di Monteloro ha indirizzato la scelta su varietà come il Riesling renano, il Pinot bianco, il Pinot grigio, il Sauvignon e il Gewürztraminer. I vigneti hanno dimensioni assai ridotte, con

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filari a rittochino generalmente disposti su ciglioni o terrazzamenti sostenuti da muretti a secco. Il vino prodotto dalla tenuta Monteloro è il Mezzo Braccio Toscana I.G.T., prodotto da uve provenienti dai vigneti della stessa tenuta. L’eterogenea conformazione del territorio, il clima contraddistinto da importanti escursioni termiche, la disposizione a varie altitudini dei vigneti, ne fanno un luogo vocato alla produzione di grandi vini bianchi. La Tenuta, quindi, si inserisce in un paesaggio modellato dal lavoro antico degli uomini, in cui le vigne corrono dritte in filari ordinati, regolano il pendio e lo scandiscono, lo misurano, lo ripetono. La vigna fornisce il passo alla terra, il lavoro dei campi è regola e la vigna è ordine. In questo schema geometrico, il progetto cerca una relazione con il paesaggio circostante, con la vigna e col vino.

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Il Progetto Il progetto della nuova cantina Antinori nella Tenuta Monteloro, si pone l’obbiettivo di creare un edificio produttivo, in grado di accogliere tutta la manodopera coinvolta dietro il processo del vino, dall’uva fino alla bottiglia, e allo stesso tempo di far conoscere tale processo esternamente attraverso l’introduzione del pubblico al suo interno. In un panorama caratterizzato da dolci promontori si inserisce il nuovo intervento, posto sulla parte alta del rilievo, adiacente alla strada principale, con il fine ultimo di farsi nuovo punto di osservazione del paesaggio che affaccia su tutta la Valle dell’Arno. Un sentiero di cipressi, sia pedonale che carrabile, sottolinea il nuovo intervento. Lungo il percorso i cipressi lasciano posto agli ulivi e il sentiero “bianco” toscano, caratterizzato da rocce e sassi di piccole dimensioni con tonalità chiare, è sostituito dalla pietra serena che segna l’inizio del progetto; un cammino dritto, immerso nel verde, attraversa longitudinalmente tutto il progetto accompagnando il visitatore fino all’ingresso principale. L’asse rettilineo è interrotto sporadicamente dall’inserimento di pavimentazioni più ampie che individuano l’entrata di ciascun volume; così il percorso si fa piazza e panca, luogo di stare e ingresso ai tre volumi differenti che coesistono armonicamente. Anche il verde costituisce un elemento fondamentale del progettare ponendo una relazione costante tra l’architettura e

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Vigneto Vista Esterna 71


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la natura; un’uliveta, che circonda il volume di accoglienza al visitatore successivamente si prolunga lungo il versante sud-ovest, ovvero verso valle, mentre una vegetazione mista di graminacee di vario tipo come bambagiona, gramiglia e paleo da prati, e arbustiva profumata come salvia, alloro, rosmarino e lavanda affianca il lungo percorso all’interno della tenuta. Rispettando la flora tipica del paesaggio toscano esso non rappresenta semplice decorazione ma elemento fondamentale dello spazio architettonico, che nasce nella cultura del lavoro sui campi e continua negli spazi del progetto, valorizzando il luogo dello stare, ovvero la piazza. Il progetto della cantina è un’architettura all’apparenza semplice, risultato di una ricerca di riduzione all’essenza delle forme in relazione alle funzioni specifiche e tecniche che la compongono. Un sistema distinto alternato tra chiusure e aperture, vuoti e pieni si riassume in una purezza geometrica delle forme in cui tre volumi stereotomici si pongono in tensione tra loro. Un’unità di volumi distinti, posti costantemente a confronto secondo vari registri ma accomunati da una chiarezza progettuale. L’essenza del muro è la continuità e le feritoie che lo incidono o le aperture non ne compromettono la grande massa, il senso di pesantezza, la gravitas. Il sistema elasto-ligneo delle travi che caratterizza le coperture di ogni ambiente, con l’assunzione di forme diverse, è messo in rilevante e drammatico rapporto con quello plastico murario. Tutto il progetto vive di questa tensione tra l’i-

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Ingresso Vista Esterna 73


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Esploso Assonometrico 75


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nerzia massiva delle pareti con la chiarezza delle connessioni lignee. Qui tutto è tettonico, inteso come l’arte del connettere, di definire percorsi e luoghi per stare Il primo, con dimensioni minori, ospita le funzioni amministrative, il secondo, aventi dimensioni maggiori, accoglie tutte gli spazi dedicati alla produzione del vino, dal ricevimento delle uve all’imbottigliamento; Il terzo ed ultimo corpo è quello nel quale sono raccolti gli spazi di rappresentanza, l’accoglienza del cliente e la vendita del prodotto. Il primo volume ospita al suo interno gli uffici relativi alla direzione e alla vendita della produzione vinicola, disposti secondo un principio distributivo a pettine in cui le sale amministrative o di servizi si alternano con piccole corti fredde che portano luce all’interno dei vari ambienti, invece, il corridoio è illuminato dalla gelosia che caratterizza il prospetto ovest con l’apertura verso i monti. L’edificio di rappresentanza è composto da due volumi sfalsati, con differenti altezze e destinazioni d’uso, in cui il vuoto identifica l’ingresso principale. Tale particolarità sviluppa due momenti collegati fra di loro; il primo dedicato all’accoglienza del visitatore, il secondo, invece, ospita le funzioni complementari della cantina come il ristorante, l’esposizione museale e la bottega. Nascono così due spazi completamente contrastanti; il primo si presenta come uno spazio in penombra, profondo, con un’unica corte che fa da sfondo alla prospettiva visiva, accentuandola, illuminato da un’unica apertura laterale che si affaccia sulla vegetazione

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Sopra Prospetto Est, Sotto Pianta Piano Terra 78

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Sopra Prospetto Ovest, Sotto Pianta Secondo Piano Interrato 79


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Sezioni


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esterna. Nell’altro invece le funzioni sono disposte in maniera lineare, tutte rivolte verso il panorama che si apre davanti ad esse; una vetrata continua corre lungo tutto il prospetto, in totale trasparenza, creando una connessione diretta con il paesaggio che fa da sfondo al progetto. Apparentemente distinti, gli ambienti si collegano da una coerenza materica, dove il colore scuro del mattone che riveste il muro e dal nero etrusco del cotto usato per la pavimentazione è risaltato dal chiaro delle travi lignee in rovere, disposte con ritmo serrato e ripetitivo, fornendo un senso di pesantezza accentuato da questa cornice bicromica al volume, il quale si svuota completamente con la totale trasparenza della vetrata che incornicia i colori del paesaggio, diventando una quinta scenica. Il foyer oltre a collegare i due ambienti, ospita la scala che conduce il visitatore nella parte produttiva, segnando l’inizio del percorso. Il percorso ha come scopo di guidare il visitatore attraverso ambienti espositivi che raccontano la storia della famiglia Antinori, i produttori, e gli ambienti principali che sono coinvolti per la produzione del vino. Il primo ambiente attraverso il quale ci conduce la scala iniziale è lo spazio espositivo che si sviluppa su due livelli, qui la scala iniziale in cemento che conduce il visitatore al piano inferiore, si trasforma in una gradonata, creando una continuità con il successivo piano interrato. L’esposizione si presenta come un ambiente in penombra, con luci artificiali deboli per illuminare i quadri; al livello supe-

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Foyer di Ingresso Vista Interna 83


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Spazio Espositivo Vista Interna 85


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riore, ponendosi come l’introduzione della visita stessa, è esposto l’albero genealogico della famiglia Antinori dipinto da un artista anonimo fiorentino tra il XVI e il XVII secolo, mentre al piano inferiore lo spazio è dedicato ad esposizioni temporanee di molteplici artisti, ospitando fotografie dedicate al paesaggio come quelle dei fotografi Gianni Berengo Gardin o Mario Giacomelli. La scala diventa l’elemento protagonista di questo spazio, sia per le sue dimensioni sia per l’uso dei materiali differenti che instaurano un dialogo con il mattone scuro e con il chiaro del rovere, usato sia per le travi nel soffitto che nel parquet, individuando così la parte espositiva. Il cambio di pavimentazione fa emergere la scala, completamente realizzata in cemento grezzo arricchita dal dettaglio del corrimano in ottone. Proseguendo il cammino il visitatore arriva nel primo vero e proprio ambiente di lavoro, la tinaia, un grande spazio a tutta altezza che racchiude al suo interno i tini. Inserita, per una parte, all’interno del colle per sfruttare il dislivello presente utile per utilizzare il metodo di lavorazione per gravità che prevede il passaggio delle uve dalla zona di deraspatura ai tini, attraverso un percorso dall’alto verso il basso. Si tratta di un volume caratterizzato al suo interno da una passerella aerea, distribuita ad anello adiacente ai muri perimetrali, collegando i vari tini fra loro e dalla grande copertura costituita da shed in legno, dalla forma inclinata per spezzare il raggio di sole diretto, permettendo così l’ingresso in maniera diffusa della luce che avvolge tutto l’ambien-

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Tinaia Vista Interna 87


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A_solaio controterra - pavimentazione - massetto (sp. 7 cm) - guaina impermeabile - isolante termico (sp. 12 cm) - vespaio con elementi “igloo” - magrone B_chiusura verticale - mattoni Petersen Kolumba (52,8x10,8x37 cm) - strato di cls armato (sp.30 cm) - isolante termico (sp. 6 cm) - mattoni Petersen Kolumba (52,8x10,8x37 cm) C_solaio esterno - pavimentazione esterna - massetto con pendenza 1,5% (sp. 5 cm) - massetto sottofondo - strato di materiale drenante - terreno compatto D_solaio di copertura - finitura in cemento - massetto (sp. 7 cm) - isolante termico (sp. 12 cm) - guaina impermeabile - tavelle in legno (sp. 3 cm) - travi in legno (sp. 20x14 cm) - controsoffitto in pannnelli di legno E_shed di copertura - finitura in lamiera - guaina impermeabile - isolate termico (sp. 6 cm) - trave in legno

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tivo scala 1:50

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m) bile sp. 12 cm) enti “igloo”

ale

Kolumba (52,8x10,8x37 cm) to (sp.30 cm) sp. 6 cm) Kolumba (52,8x10,8x37 cm)

sterna ndenza 1,5% (sp. 5 cm) ndo e drenante

rtura

o m) sp. 12 cm) bile p. 3 cm) 20x14 cm) annnelli di legno

ura

bile p. 6 cm)

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Sezione Costruttiva Scala 1:50 89

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A_solaio controterra - pavimentazione in cotto - massetto di livellamento - isolante in polistirene espanso (sp.12 cm) - isolante termico (sp. 6 cm) - guaina impermeabile - vespaio con elementi “igloo” - magrone B_chiusura verticale - infisso in alluminio - vetro isolante C_solaio esterno - pavimentazione esterna - massetto con pendenza 1,5% (sp. 5 cm) - massetto sottofondo - strato di materiale drenante - terreno compatto D_solaio interno - pavimentazione - massetto (sp. 7 cm) - isolante termico (sp. 12 cm) - guaina impermeabile - solaio in cls armato (sp. 30 cm)

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E_solaio di copertura - terra con sistema di ancoraggio - strato materiale filtrante - cordolo in cls - strato materiale drenante - strato protettivo all’azione delle radici - strato di tenuta all’acqua - massetto in pendenza - isolante termico (sp. 12 cm) - guaina impermeabile - tavelle in legno (sp. 3 cm) - orditura di travi in legno 30x40 cm F_solaio di copertura - finitura in lamiera - guaina impermeabile - tavelle in legno (sp. 3 cm) - listelli in legno - guaina impermeabile - tavelle in legno (sp. 3 cm) - orditura di travi in legno 30x40 cm


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Sezione Costruttiva Scala 1:50 91

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te, così da non alterarne la temperatura interna. Due doppie file di tini inquadrano un corridoio centrale definendo sia uno spazio di lavoro utile in fase di vinificazione del vino sia un passaggio per il visitatore che viene avvolto dai grandi recipienti posti nell’ambiente. Una finestra a nastro caratterizza il prospetto ovest, affacciandosi sui terrazzamenti a monte, rappresentando l’unica connessione con il paesaggio esterno. Internamente si ritrovano materiali già usati nei precedenti ambienti; il legno chiaro delle travi si relaziona in maniera armonica e netta con il mattone scuro, mentre a terra sono state usate lastre di cemento, per la necessità di avere un materiale poco assorbente e di facile manutenzione. Proseguendo il percorso, sullo stesso piano della tinaia, vi si trova il cuore del progetto: la barricaia. Uno spazio suggestivo, dove il vino matura in barriques in un silenzio quasi sacro, sovrastato dalla grande volta in cemento che ricopre tutto l’ambiente, creando un’atmosfera accogliente, quasi intima. Le lunghe file di barrique individuano diversi e piccoli corridoi che scandiscono la grande superficie. L’accesso alla sala avviene nel punto in cui l’altezza è maggiore e permette la visione del volume nella sua totalità, ponendo lo sguardo verso il punto di maggiore tensione della barricaia, ovvero dove la volta raggiunge la sua minima altezza e ripiega in maniera lineare verso un lucernario. La curvatura della volta, quindi, conduce l’occhio del visitatore allo sfondo dello spazio, dove l’atmosfera buia viene interrotta da

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Vinificazione Vista Interna 93


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Barricaia Vista Interna 95


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una luce indiretta, che entra zenitale e radamente illumina il muro. Oltre le botti, quindi, si definisce una quinta finale fatta di luce che pone maggiore importanza all’intero spazio produttivo. Nella parte della copertura in cui l’altezza è maggiore, un interpiano definisce lo spazio della vinificazione in bottiglia, posto alla stessa quota delle botti così da favorire il passaggio del vino, mentre superiormente ospita la degustazione, che con l’affaccio lasciato aperto verso le barriques sottostanti, crea una connessione diretta con quest’ultime. Le botti sono ordinatamente disposte su una struttura di legno, su due livelli, adagiate su piccoli sassi, che contribuiscono a mantenere l’umidità del 70%. La prospettiva delle barriques, accentuata dalla piegatura della volta, guarda l’unica apertura verso l’esterno, che, quando aperta, crea un dialogo con il paesaggio stesso, inquadrato in una semplice cornice. Simile agli ambienti precedentemente incontrati per materiali usati, il mattone scuro, elemento protagonista del progetto, si relaziona chiaramente con il cotto nero etrusco e il legno chiaro che, questa vola, compone la struttura delle botti e dell’arredo. I muri perimetrali in mattoni racchiudono la grossa volta in cemento chiaro fornendogli maggiore importanza dettata dal cambio di materiale. La barricaia è infine collegata direttamente all’ultimo volume produttivo, ovvero lo stoccaggio delle bottiglie composto da un grande magazzino in diretta connessione con il piazzale esterno per favorire le azioni di carico e scarico. Affiancato all’ultimo spazio descritto si trovano anche i luoghi

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Ingresso Tinaia Vista Esterna 97


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dedicati ai lavoratori, come gli spogliatoi e la mensa. I tre ambienti produttivi sono stati pensati tutti interrati, sia totalmente che parzialmente, all’interno del colle per ottenere un ambiente umido e mantenere una temperatura costante. Disposti tutti sullo stesso piano, per agevolare la successione di spostamenti delle diverse lavorazioni, i tre ambienti sono internamente collegati tra loro creando un percorso caldo; esternamente i tre volumi definiscono uno spazio, una piazza dedicata al lavoro, che mette in collegamento i tre ambienti descritti. I volumi si leggono in tutta la loro chiarezza, tre monoliti puri, introversi rivestiti in mattone scuro poggiano su un basamento in cemento faccia vista pigmentato, creando anche una continuità cromatica tra i due livelli e accentuando anche il senso di gravitas. Il basamento si interrompe sul lato del prospetto della barricaia dove viene posizionata una scala, utile al collegamento e alla risalita verso il percorso dedicato al pubblico immerso nel verde. Poche aperture diversificano i prospetti degli ambienti produttivi, tutte rivolte verso i terrazzamenti, un intervento effettuato sul paesaggio per permettere un inserimento più dolce del progetto all’interno del territorio. La quasi totale chiusura di questi prospetti entra in contrasto con il prospetto della parte pubblica che si apre a valle, definito da una totale apertura sul paesaggio, una connessione continua con esso. Tale duplicità che si viene a creare è un aspetto che caratterizza il progetto. I diversi corpi, pur rimanendo distinti per funzioni e forme, creano un dialogo tra loro dettato da una continuità ma-

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terica e strutturale che conduce ad un’armonia perfetta. Sono tutti materiali semplici, che richiamano il materiale della tradizione mezzadrile reinterpretati in chiave moderna. Il mattone nero scuro usato per rivestire l’esterno è stato portato all’interno di ciascun ambiente così da nobilitare tutti e tre i volumi senza farne prevalere uno; per le coperture il materiale usato è sempre il legno chiaro del rovere che si differenzia per le forme assunte dalle travi dei vari ambienti. Sono invece state usate differenti pavimentazioni, il cotto nero etrusco per gli ambienti di rappresentanza, il parquet in legno di rovere per la parte espositiva e il cemento per la tinaia, così da identificare ogni spazio in base alla sua funzione. Il colore scuro dei volumi si inserisce in un paesaggio che si colora, in base alle stagioni, di colori brillanti e accesi creando un contrasto con il progetto, caratterizzato da una continua tensione tra progetto e paesaggio in cui nessuno prevale sull’altro.

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La Struttura La struttura del progetto è composta da setti in calcestruzzo armati rivestiti dal mattone Kolumba 56, prodotto dall’azienda Petersen Tegl. I solai realizzati sono di tipo lignei misti a calcestruzzo con le travi in legno di rovere disposti ad una sola orditura. Le travi usate nel volume di rappresentanza, uffici e parte espositiva hanno la dimensione 180x420 mm con lunghezza variabile in base alla luce da coprire. Il legno è utilizzato anche per la copertura della parte produttiva, i grandi shed scandiscono lo spazio della tinaia coprendo una luce di circa 18,00 metri, posti ogni 3,00 metri. La copertura della barricaia, invece, assume un linguaggio completamente diverso, dovuto sia alla forma assunta, alla luce da coprire e alla struttura sovrastante che si trova in sfalzo rispetto alla parte interrata. La copertura della barricaia apparentemnete si presenta come una “volta”, richiamandone la forma, ma dal punto di vista strutturale essa non funziona come tale, divenendo una struttura metallica completamnete rivestita, un guscio. Internamente è formata da reticolari in acciaio di due tipologie: la tipologia A, formata da travi primarie con 2 profili UPN 140 saldati tra di loro e montanti realizzati con 2 profili UPN 100, disposte ad una distanza di 1,50 metri hanno tutte altezza costante pari a 1,00 metri e sono collocate nella parte piana della “volta”, allineate con

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Dettaglio costruttivo shed copertura della tinaia 101


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l’interasse dei setti sovrastanti per equilibrare lo scarico delle forze. La tipologia B, formata da travi reticolari primarie con 2 profili UPN 120 e montanti composti da 2 profili UPN 80, sono disposte anch’esse ad una distanza costante di 1,50 metri con altezza variabile per permettere di realizzare la curvatura. Tali strutture sono collegate da travi secondari composte da 2 profili UPN 50 alle quali si attacca la struttura del controsoffitto , una struttura appesa con l’applicazione della guida COBRA, una particolare guida in acciao zincato, flessibile necessaria per la realizzazione di controsoffitti curvi. La struttura è rivestita da lastre di cemento con dimensioni 1200x900mm.

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Dettaglio costruttivo Reticolare Tipologia A e Tipologia B 103



Maquettes


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Maquette Territoriale Scala 1:500 106


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Maquette Territoriale Scala 1:500 107


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Maquette Territoriale Scala 1:500 108


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Maquette Territoriale Scala 1:500 109


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Maquette DEttaglio Barricaia Scala 1:50 110


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Maquette DEttaglio Barricaia Scala 1:50 111


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Maquette Dettaglio Tinaia Scala 1:50 112


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Maquette Dettaglio Tinaia Scala 1:50 113



Bibliografia


Bibliografia

Il paesaggio nella pittura tra Cinque e Seicento a Firenze, T.A.P. Grafiche - Editore, 1980 Daniela Mignani, Le Ville Medicee di Giusto Utens, Arnaud Edizioni, 1980 Gilles Perraudin, Architettura di pietra. Il museo del Vino a Patrimonio, Clean Edizioni, 2019 Franco Purini, Comporre l’archittura, Editori Laterza, 2019 Paolo Baldeschi, Paesaggio e territorio, Le lettere, 2011 Vittorio Prina, Pier Paolo Pasolini. Teorema. I luoghi: paesaggio e architettura, Maggioli Edizioni, 2010 Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza Edizioni, 2020 Zeffiro Ciuffoletti, Storia del vino in Toscana. Degli Etruschi ai nostri giorni, Polistampa Edizioni, 2000 Marco Bini, Il paesaggio costruito della campagna toscana, Alinea Edizioni, 2011 Luca Molinari, Anja Visini, Cantine nel mondo, architetture d’eccellenza nel paesaggio internazionale, Forma Edizioni, 2020 Casabella 927, Gruppo Mondadori Edizioni, 2021 Giacomo Tachis, Sapere di vino, Gruppo Mondadori Edizioni, 2010

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Bibliografia

Denis Duhme, Katrin Friederichs, Wine and Architecture, Detail Edizioni, 2012 Ferdinando Morozzi, Delle case de contadini, Libreria editrice Fiorentina, 2001 Francesca Chiorino, Cantine secolo XXI. Architetture e paesaggi del vino, Mondadori Electa Edizioni, 2011 Ida Præstegaard, Annette Petersen Brick inside, Petersen Tegl Edizioni, 2019 Arturo Lanzani, I paesaggi italiani, Maltemi Edizioni, 2003 Christian Norberg-Schulz, Genius Loci. Paesaggi Ambiente Architettura, Mondadori Electa Edizioni, 2011 Paolo Nanni, Storia regionale della vite e del vino in Italia. Toscana , Polistampa Edizioni, 2008. Marcello Balzani, Roberto di Giulio, Architettura e sostenibilità Innovazione e sperimentazione tra ambiente costruito e paesaggio, Skira Edizioni, 2021 Enzo Carli, Giacomelli, Charta Edizioni, 1995 Giovanni Fanelli, Giovanni Michelucci Fotografo, Mandragora Edizioni, 2001

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Al Professore Fabrizio F.V. Arrigoni Per aver arricchito la mia passione per l’architettura grazie ai suoi continui insegnamenti, per il suo sostegno lungo questo percorso di tesi. Al Professore Giovanni Cardinale, per la sua disponibilità nell’avermi guidato verso un progetto strutturalmente credibile. Ad Antonio Acocella, alla sua gentilezza per avermi sempre aiutata e supportata a perfezionare il lavoro ogni volta. A tutti coloro che ci sono sempre stati in questo lungo percorso, agli amici storici e quelli arrivati dopo, alla mia famiglia, per avermi supportata sempre e ad aver contribuito a rendere questo percorso universitario speciale. Grazie



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